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Africa

Il ritorno delle opere d’arte africane rubate

Il film Dahomey di Mati Diop racconta il rimpatrio di 26 manufatti del Benin, simboli di un passato coloniale mai elaborato. Tra arte e identità, il documentario esplora il trauma delle sottrazioni culturali e il dibattito sulla proprietà delle opere d’arte africane. Una riflessione su memoria, cultura e giustizia postcoloniale.

Alla fine del 2024 è arrivato nelle sale cinematografiche Dahomey, il film-documentario diretto da Mati Diop che affronta la complessa e annosa questione delle “restituzioni” culturali. L’opera racconta, con una narrazione magistrale e sperimentale, il rimpatrio in Benin, avvenuto nel 2021, di 26 manufatti sottratti durante l’epoca coloniale al Regno di Dahomey, oggi Benin. Questi oggetti, per decenni esposti nei musei francesi, rappresentano solo una minima parte delle oltre 7.000 opere trafugate durante l’invasione francese del 1892. «Mi sono subito sentita identificata con le statue», dichiara Diop, che segue con sensibilità e partecipazione il viaggio di questi manufatti verso casa. «Lo stigma della colonizzazione è qualcosa che, a modo mio, ho sperimentato e sto ancora sperimentando». Il film, premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, si sviluppa come un saggio poetico e visivamente potente, esplorando la disconnessione tra cultura e identità generata dal colonialismo e dalle sue conseguenze. Un elemento particolarmente evocativo è la narrazione in prima persona di una delle statue restituite, nota come “26” – un numero che rimanda al catalogo assegnato ai manufatti dai musei francesi. La statua, che raffigura il re Ghézo, figura centrale nella storia del Dahomey (regnante dal 1818 al 1859), racconta la sua storia attraverso una voce inquietante e multiforme. Parlando in lingua fon, la statua narra il trauma della cattura, dell’esilio e del ritorno, evocando immagini di anime smarrite e perpetuamente incompiute.

Quando i manufatti finalmente tornano in patria, vengono esposti nel museo di Abomey. Tuttavia, anche questa soluzione solleva interrogativi. Diop esplora il modo in cui i cittadini e, in particolare, i giovani del Benin affrontano i fantasmi del colonialismo e il significato del ritorno. Una lunga sequenza nel film mostra un dibattito studentesco all’Università di Abomey-Calavi. Qui emergono posizioni diverse: alcuni studenti esprimono emozione e sopraffazione emotiva alla vista delle statue; altri, invece, manifestano frustrazione per l’esiguo numero di manufatti restituiti – 26 su oltre 7.000 –, percepito come un insulto. Un giovane critica il fatto che i manufatti siano nuovamente chiusi in una teca, sottolineando come questi oggetti rituali debbano “vivere” e agire nel loro contesto originario. In un’intervista, la regista si chiede quanto la restituzione interessi davvero ai giovani africani di oggi. È un tema che, secondo lei, rischia di ridursi a una questione tra governi, come quello francese e quello beninese, mentre le nuove generazioni sembrano più concentrate su problemi concreti come povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità. Il tema della restituzione resta controverso anche al di fuori del Benin. Sebbene in Francia il rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy abbia spinto a favorire le richieste di restituzione, molti governi africani non avanzano richieste formali. Le motivazioni sono molteplici: priorità a problemi economici e di sicurezza, mancanza di strutture adeguate per conservare gli oggetti antichi e difficoltà nel definire legittimi proprietari.

Simon Njami, direttore di Revue Noire, sottolinea come i confini dell’Africa precoloniale fossero principalmente etnici, non statali, rendendo difficile attribuire la proprietà di molte opere a specifici Paesi. Alcuni musei europei hanno proposto soluzioni intermedie, come “restituzioni temporanee” o prestiti.

Questa modalità è tuttavia ritenuta inaccettabile da molti esponenti africani, poiché perpetuerebbe l’idea di una proprietà illecita mantenuta inalterata. Il dibattito ha però avuto il merito di riportare all’attenzione un fatto cruciale: l’80-90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente, spesso in seguito a furti o appropriazioni indebite. La questione va oltre il mondo dell’arte: il tema della restituzione obbliga a confrontarsi con un passato coloniale che non è mai stato pienamente elaborato. Riconoscere la complessità di questo dibattito significa anche affrontare il legame profondo tra cultura, memoria e identità. Come afferma lo stesso Sarr, riferendosi al gesto simbolico della restituzione al Benin: «Dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all’altezza della posta in gioco». In un panorama ancora dominato dalle conseguenze del colonialismo, Dahomey offre una riflessione potente e necessaria, dando voce non solo agli oggetti rubati, ma anche alle questioni irrisolte di un intero continente.

Africa Rivista

Sudan, Khartoum: ancora nella capitale dopo la ripresa da parte dell’esercito

Nell’area dove si trova l’ospedale dell’ONG non ci sono ancora vie d’accesso e uscita autorizzate. Prosegue la difficoltà di far entrare rifornimenti, mancanza di corrente elettrica, escalation degli attacchi.

È di ieri la notizia ufficiale della presa di Khartoum da parte delle forze governative, Sudanese Armed Forces (SAF), a quasi due anni dall’inizio del conflitto in Sudan tra esercito governativo e forze paramilitari Rapid Support Forces (RSF).

L’intensificarsi dei combattimenti nella capitale delle ultime settimane aveva avuto ripercussioni anche sull’attività di EMERGENCY che, fin dai primi giorni di guerra, non ha mai lasciato né Khartoum né le altre città in cui è presente nel Paese. Nell’area in cui si trova il Centro Salam di cardiochirurgia di EMERGENCY non sono ancora state riaperte e autorizzate vie di entrata e uscita, così i rifornimenti sono bloccati e gli spostamenti dello staff per lasciare o raggiungere l’ospedale sono impossibili.

Questi ultimi giorni sono stati particolarmente difficili a causa di violenti combattimenti anche a pochi chilometri di distanza dal nostro ospedale – sottolinea Matteo D’Alonzo, direttore del Centro di EMERGENCY a Khartoum –. Abbiamo avuto notizie di un aumento della criminalità e della violenza, razzie e arresti improvvisi. A causa dell’assedio alla città, da tre mesi aspettiamo l’entrata di sei camion carichi di beni essenziali, dal cibo ai prodotti per l’igiene, ai farmaci che sono fondamentali per le nostre attività. Alcuni membri del nostro staff sono bloccati qui da quasi un anno. Da gennaio non c’è più corrente elettrica e andiamo avanti solo con i generatori. Aspettiamo l’autorizzazione ufficiale a percorrere una delle strade in entrata e uscita dalla nostra area che permetterebbe a personale e rifornimenti di spostarsi.

EMERGENCY è operativa a Khartoum dal 2007 con il Centro Salam di cardiochirurgia che è sempre rimasto aperto dal 15 aprile 2023, data di inizio della guerra in Sudan anche se ha dovuto interrompere le attività cardiochirurgiche per mancanza di materiali e dell’elettricità. I 400 membri dello staff sudanese e internazionale hanno comunque continuato a offrire un servizio di medicina d’urgenza e cure pediatriche che rischiano di dover essere sospese se i rifornimenti resteranno bloccati.

“A questo punto contiamo di riuscire a riavviare la rotazione del nostro staff in uscita ed entrata dalla città per dare il cambio al personale internazionale e di ricevere finalmente il materiale necessario per poter proseguire con le attività ma soprattutto per ricominciare a operare i nostri pazienti cardiaci: la lista d’attesa della sala operatoria è già lunga. Il Centro Salam è l’unico punto di riferimento per i pazienti cardiaci che non sono andati via. Tante persone stanno tornando a casa, qui nella capitale, nonostante molti di loro una casa non ce l’abbiano più. conclude D’Alonzo.

Continua a essere al centro dei combattimenti Nyala, nel sud Darfur, dove quotidianamente si verificano attacchi aerei. Qui EMERGENCY ha da poco riavviato l’attività ospedaliera del suo Centro pediatrico, interrotta negli scorsi mesi a seguito del saccheggio subito nell’ottobre 2023.

EMERGENCY è presente a Khartoum con il Centro Salam di cardiochirurgia e con un ambulatorio pediatrico; con un centro pediatrico a Port Sudan, nello stato del Mar Rosso dove in questi due anni sono arrivati migliaia di profughi. A Nyala, in Sud Darfur con un centro pediatrico, ad Atbara nel nord-est del Paese, a Kassala, vicino al confine con l’Eritrea, e a Gedaref, a sud-est con degli ambulatori cardiologici.

 

 

 

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Il ritorno delle opere d’arte africane rubate

Il film Dahomey di Mati Diop racconta il rimpatrio di 26 manufatti del Benin, simboli di un passato coloniale mai elaborato. Tra arte e identità, il documentario esplora il trauma delle sottrazioni culturali e il dibattito sulla proprietà delle opere d’arte africane. Una riflessione su memoria, cultura e giustizia postcoloniale.

Alla fine del 2024 è arrivato nelle sale cinematografiche Dahomey, il film-documentario diretto da Mati Diop che affronta la complessa e annosa questione delle “restituzioni” culturali. L’opera racconta, con una narrazione magistrale e sperimentale, il rimpatrio in Benin, avvenuto nel 2021, di 26 manufatti sottratti durante l’epoca coloniale al Regno di Dahomey, oggi Benin. Questi oggetti, per decenni esposti nei musei francesi, rappresentano solo una minima parte delle oltre 7.000 opere trafugate durante l’invasione francese del 1892. «Mi sono subito sentita identificata con le statue», dichiara Diop, che segue con sensibilità e partecipazione il viaggio di questi manufatti verso casa. «Lo stigma della colonizzazione è qualcosa che, a modo mio, ho sperimentato e sto ancora sperimentando». Il film, premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, si sviluppa come un saggio poetico e visivamente potente, esplorando la disconnessione tra cultura e identità generata dal colonialismo e dalle sue conseguenze. Un elemento particolarmente evocativo è la narrazione in prima persona di una delle statue restituite, nota come “26” – un numero che rimanda al catalogo assegnato ai manufatti dai musei francesi. La statua, che raffigura il re Ghézo, figura centrale nella storia del Dahomey (regnante dal 1818 al 1859), racconta la sua storia attraverso una voce inquietante e multiforme. Parlando in lingua fon, la statua narra il trauma della cattura, dell’esilio e del ritorno, evocando immagini di anime smarrite e perpetuamente incompiute.

Quando i manufatti finalmente tornano in patria, vengono esposti nel museo di Abomey. Tuttavia, anche questa soluzione solleva interrogativi. Diop esplora il modo in cui i cittadini e, in particolare, i giovani del Benin affrontano i fantasmi del colonialismo e il significato del ritorno. Una lunga sequenza nel film mostra un dibattito studentesco all’Università di Abomey-Calavi. Qui emergono posizioni diverse: alcuni studenti esprimono emozione e sopraffazione emotiva alla vista delle statue; altri, invece, manifestano frustrazione per l’esiguo numero di manufatti restituiti – 26 su oltre 7.000 –, percepito come un insulto. Un giovane critica il fatto che i manufatti siano nuovamente chiusi in una teca, sottolineando come questi oggetti rituali debbano “vivere” e agire nel loro contesto originario. In un’intervista, la regista si chiede quanto la restituzione interessi davvero ai giovani africani di oggi. È un tema che, secondo lei, rischia di ridursi a una questione tra governi, come quello francese e quello beninese, mentre le nuove generazioni sembrano più concentrate su problemi concreti come povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità. Il tema della restituzione resta controverso anche al di fuori del Benin. Sebbene in Francia il rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy abbia spinto a favorire le richieste di restituzione, molti governi africani non avanzano richieste formali. Le motivazioni sono molteplici: priorità a problemi economici e di sicurezza, mancanza di strutture adeguate per conservare gli oggetti antichi e difficoltà nel definire legittimi proprietari.

Simon Njami, direttore di Revue Noire, sottolinea come i confini dell’Africa precoloniale fossero principalmente etnici, non statali, rendendo difficile attribuire la proprietà di molte opere a specifici Paesi. Alcuni musei europei hanno proposto soluzioni intermedie, come “restituzioni temporanee” o prestiti.

Questa modalità è tuttavia ritenuta inaccettabile da molti esponenti africani, poiché perpetuerebbe l’idea di una proprietà illecita mantenuta inalterata. Il dibattito ha però avuto il merito di riportare all’attenzione un fatto cruciale: l’80-90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente, spesso in seguito a furti o appropriazioni indebite. La questione va oltre il mondo dell’arte: il tema della restituzione obbliga a confrontarsi con un passato coloniale che non è mai stato pienamente elaborato. Riconoscere la complessità di questo dibattito significa anche affrontare il legame profondo tra cultura, memoria e identità. Come afferma lo stesso Sarr, riferendosi al gesto simbolico della restituzione al Benin: «Dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all’altezza della posta in gioco». In un panorama ancora dominato dalle conseguenze del colonialismo, Dahomey offre una riflessione potente e necessaria, dando voce non solo agli oggetti rubati, ma anche alle questioni irrisolte di un intero continente.

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Sudan, Khartoum: ancora nella capitale dopo la ripresa da parte dell’esercito

Nell’area dove si trova l’ospedale dell’ONG non ci sono ancora vie d’accesso e uscita autorizzate. Prosegue la difficoltà di far entrare rifornimenti, mancanza di corrente elettrica, escalation degli attacchi.

È di ieri la notizia ufficiale della presa di Khartoum da parte delle forze governative, Sudanese Armed Forces (SAF), a quasi due anni dall’inizio del conflitto in Sudan tra esercito governativo e forze paramilitari Rapid Support Forces (RSF).

L’intensificarsi dei combattimenti nella capitale delle ultime settimane aveva avuto ripercussioni anche sull’attività di EMERGENCY che, fin dai primi giorni di guerra, non ha mai lasciato né Khartoum né le altre città in cui è presente nel Paese. Nell’area in cui si trova il Centro Salam di cardiochirurgia di EMERGENCY non sono ancora state riaperte e autorizzate vie di entrata e uscita, così i rifornimenti sono bloccati e gli spostamenti dello staff per lasciare o raggiungere l’ospedale sono impossibili.

Questi ultimi giorni sono stati particolarmente difficili a causa di violenti combattimenti anche a pochi chilometri di distanza dal nostro ospedale – sottolinea Matteo D’Alonzo, direttore del Centro di EMERGENCY a Khartoum –. Abbiamo avuto notizie di un aumento della criminalità e della violenza, razzie e arresti improvvisi. A causa dell’assedio alla città, da tre mesi aspettiamo l’entrata di sei camion carichi di beni essenziali, dal cibo ai prodotti per l’igiene, ai farmaci che sono fondamentali per le nostre attività. Alcuni membri del nostro staff sono bloccati qui da quasi un anno. Da gennaio non c’è più corrente elettrica e andiamo avanti solo con i generatori. Aspettiamo l’autorizzazione ufficiale a percorrere una delle strade in entrata e uscita dalla nostra area che permetterebbe a personale e rifornimenti di spostarsi.

EMERGENCY è operativa a Khartoum dal 2007 con il Centro Salam di cardiochirurgia che è sempre rimasto aperto dal 15 aprile 2023, data di inizio della guerra in Sudan anche se ha dovuto interrompere le attività cardiochirurgiche per mancanza di materiali e dell’elettricità. I 400 membri dello staff sudanese e internazionale hanno comunque continuato a offrire un servizio di medicina d’urgenza e cure pediatriche che rischiano di dover essere sospese se i rifornimenti resteranno bloccati.

“A questo punto contiamo di riuscire a riavviare la rotazione del nostro staff in uscita ed entrata dalla città per dare il cambio al personale internazionale e di ricevere finalmente il materiale necessario per poter proseguire con le attività ma soprattutto per ricominciare a operare i nostri pazienti cardiaci: la lista d’attesa della sala operatoria è già lunga. Il Centro Salam è l’unico punto di riferimento per i pazienti cardiaci che non sono andati via. Tante persone stanno tornando a casa, qui nella capitale, nonostante molti di loro una casa non ce l’abbiano più. conclude D’Alonzo.

Continua a essere al centro dei combattimenti Nyala, nel sud Darfur, dove quotidianamente si verificano attacchi aerei. Qui EMERGENCY ha da poco riavviato l’attività ospedaliera del suo Centro pediatrico, interrotta negli scorsi mesi a seguito del saccheggio subito nell’ottobre 2023.

EMERGENCY è presente a Khartoum con il Centro Salam di cardiochirurgia e con un ambulatorio pediatrico; con un centro pediatrico a Port Sudan, nello stato del Mar Rosso dove in questi due anni sono arrivati migliaia di profughi. A Nyala, in Sud Darfur con un centro pediatrico, ad Atbara nel nord-est del Paese, a Kassala, vicino al confine con l’Eritrea, e a Gedaref, a sud-est con degli ambulatori cardiologici.

 

 

 

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Il ritorno delle opere d’arte africane rubate

Il film Dahomey di Mati Diop racconta il rimpatrio di 26 manufatti del Benin, simboli di un passato coloniale mai elaborato. Tra arte e identità, il documentario esplora il trauma delle sottrazioni culturali e il dibattito sulla proprietà delle opere d’arte africane. Una riflessione su memoria, cultura e giustizia postcoloniale.

Alla fine del 2024 è arrivato nelle sale cinematografiche Dahomey, il film-documentario diretto da Mati Diop che affronta la complessa e annosa questione delle “restituzioni” culturali. L’opera racconta, con una narrazione magistrale e sperimentale, il rimpatrio in Benin, avvenuto nel 2021, di 26 manufatti sottratti durante l’epoca coloniale al Regno di Dahomey, oggi Benin. Questi oggetti, per decenni esposti nei musei francesi, rappresentano solo una minima parte delle oltre 7.000 opere trafugate durante l’invasione francese del 1892. «Mi sono subito sentita identificata con le statue», dichiara Diop, che segue con sensibilità e partecipazione il viaggio di questi manufatti verso casa. «Lo stigma della colonizzazione è qualcosa che, a modo mio, ho sperimentato e sto ancora sperimentando». Il film, premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, si sviluppa come un saggio poetico e visivamente potente, esplorando la disconnessione tra cultura e identità generata dal colonialismo e dalle sue conseguenze. Un elemento particolarmente evocativo è la narrazione in prima persona di una delle statue restituite, nota come “26” – un numero che rimanda al catalogo assegnato ai manufatti dai musei francesi. La statua, che raffigura il re Ghézo, figura centrale nella storia del Dahomey (regnante dal 1818 al 1859), racconta la sua storia attraverso una voce inquietante e multiforme. Parlando in lingua fon, la statua narra il trauma della cattura, dell’esilio e del ritorno, evocando immagini di anime smarrite e perpetuamente incompiute.

Quando i manufatti finalmente tornano in patria, vengono esposti nel museo di Abomey. Tuttavia, anche questa soluzione solleva interrogativi. Diop esplora il modo in cui i cittadini e, in particolare, i giovani del Benin affrontano i fantasmi del colonialismo e il significato del ritorno. Una lunga sequenza nel film mostra un dibattito studentesco all’Università di Abomey-Calavi. Qui emergono posizioni diverse: alcuni studenti esprimono emozione e sopraffazione emotiva alla vista delle statue; altri, invece, manifestano frustrazione per l’esiguo numero di manufatti restituiti – 26 su oltre 7.000 –, percepito come un insulto. Un giovane critica il fatto che i manufatti siano nuovamente chiusi in una teca, sottolineando come questi oggetti rituali debbano “vivere” e agire nel loro contesto originario. In un’intervista, la regista si chiede quanto la restituzione interessi davvero ai giovani africani di oggi. È un tema che, secondo lei, rischia di ridursi a una questione tra governi, come quello francese e quello beninese, mentre le nuove generazioni sembrano più concentrate su problemi concreti come povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità. Il tema della restituzione resta controverso anche al di fuori del Benin. Sebbene in Francia il rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy abbia spinto a favorire le richieste di restituzione, molti governi africani non avanzano richieste formali. Le motivazioni sono molteplici: priorità a problemi economici e di sicurezza, mancanza di strutture adeguate per conservare gli oggetti antichi e difficoltà nel definire legittimi proprietari.

Simon Njami, direttore di Revue Noire, sottolinea come i confini dell’Africa precoloniale fossero principalmente etnici, non statali, rendendo difficile attribuire la proprietà di molte opere a specifici Paesi. Alcuni musei europei hanno proposto soluzioni intermedie, come “restituzioni temporanee” o prestiti.

Questa modalità è tuttavia ritenuta inaccettabile da molti esponenti africani, poiché perpetuerebbe l’idea di una proprietà illecita mantenuta inalterata. Il dibattito ha però avuto il merito di riportare all’attenzione un fatto cruciale: l’80-90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente, spesso in seguito a furti o appropriazioni indebite. La questione va oltre il mondo dell’arte: il tema della restituzione obbliga a confrontarsi con un passato coloniale che non è mai stato pienamente elaborato. Riconoscere la complessità di questo dibattito significa anche affrontare il legame profondo tra cultura, memoria e identità. Come afferma lo stesso Sarr, riferendosi al gesto simbolico della restituzione al Benin: «Dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all’altezza della posta in gioco». In un panorama ancora dominato dalle conseguenze del colonialismo, Dahomey offre una riflessione potente e necessaria, dando voce non solo agli oggetti rubati, ma anche alle questioni irrisolte di un intero continente.

Africa Rivista

Sudan, Khartoum: ancora nella capitale dopo la ripresa da parte dell’esercito

Nell’area dove si trova l’ospedale dell’ONG non ci sono ancora vie d’accesso e uscita autorizzate. Prosegue la difficoltà di far entrare rifornimenti, mancanza di corrente elettrica, escalation degli attacchi.

È di ieri la notizia ufficiale della presa di Khartoum da parte delle forze governative, Sudanese Armed Forces (SAF), a quasi due anni dall’inizio del conflitto in Sudan tra esercito governativo e forze paramilitari Rapid Support Forces (RSF).

L’intensificarsi dei combattimenti nella capitale delle ultime settimane aveva avuto ripercussioni anche sull’attività di EMERGENCY che, fin dai primi giorni di guerra, non ha mai lasciato né Khartoum né le altre città in cui è presente nel Paese. Nell’area in cui si trova il Centro Salam di cardiochirurgia di EMERGENCY non sono ancora state riaperte e autorizzate vie di entrata e uscita, così i rifornimenti sono bloccati e gli spostamenti dello staff per lasciare o raggiungere l’ospedale sono impossibili.

Questi ultimi giorni sono stati particolarmente difficili a causa di violenti combattimenti anche a pochi chilometri di distanza dal nostro ospedale – sottolinea Matteo D’Alonzo, direttore del Centro di EMERGENCY a Khartoum –. Abbiamo avuto notizie di un aumento della criminalità e della violenza, razzie e arresti improvvisi. A causa dell’assedio alla città, da tre mesi aspettiamo l’entrata di sei camion carichi di beni essenziali, dal cibo ai prodotti per l’igiene, ai farmaci che sono fondamentali per le nostre attività. Alcuni membri del nostro staff sono bloccati qui da quasi un anno. Da gennaio non c’è più corrente elettrica e andiamo avanti solo con i generatori. Aspettiamo l’autorizzazione ufficiale a percorrere una delle strade in entrata e uscita dalla nostra area che permetterebbe a personale e rifornimenti di spostarsi.

EMERGENCY è operativa a Khartoum dal 2007 con il Centro Salam di cardiochirurgia che è sempre rimasto aperto dal 15 aprile 2023, data di inizio della guerra in Sudan anche se ha dovuto interrompere le attività cardiochirurgiche per mancanza di materiali e dell’elettricità. I 400 membri dello staff sudanese e internazionale hanno comunque continuato a offrire un servizio di medicina d’urgenza e cure pediatriche che rischiano di dover essere sospese se i rifornimenti resteranno bloccati.

“A questo punto contiamo di riuscire a riavviare la rotazione del nostro staff in uscita ed entrata dalla città per dare il cambio al personale internazionale e di ricevere finalmente il materiale necessario per poter proseguire con le attività ma soprattutto per ricominciare a operare i nostri pazienti cardiaci: la lista d’attesa della sala operatoria è già lunga. Il Centro Salam è l’unico punto di riferimento per i pazienti cardiaci che non sono andati via. Tante persone stanno tornando a casa, qui nella capitale, nonostante molti di loro una casa non ce l’abbiano più. conclude D’Alonzo.

Continua a essere al centro dei combattimenti Nyala, nel sud Darfur, dove quotidianamente si verificano attacchi aerei. Qui EMERGENCY ha da poco riavviato l’attività ospedaliera del suo Centro pediatrico, interrotta negli scorsi mesi a seguito del saccheggio subito nell’ottobre 2023.

EMERGENCY è presente a Khartoum con il Centro Salam di cardiochirurgia e con un ambulatorio pediatrico; con un centro pediatrico a Port Sudan, nello stato del Mar Rosso dove in questi due anni sono arrivati migliaia di profughi. A Nyala, in Sud Darfur con un centro pediatrico, ad Atbara nel nord-est del Paese, a Kassala, vicino al confine con l’Eritrea, e a Gedaref, a sud-est con degli ambulatori cardiologici.

 

 

 

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Il ritorno delle opere d’arte africane rubate

Il film Dahomey di Mati Diop racconta il rimpatrio di 26 manufatti del Benin, simboli di un passato coloniale mai elaborato. Tra arte e identità, il documentario esplora il trauma delle sottrazioni culturali e il dibattito sulla proprietà delle opere d’arte africane. Una riflessione su memoria, cultura e giustizia postcoloniale.

Alla fine del 2024 è arrivato nelle sale cinematografiche Dahomey, il film-documentario diretto da Mati Diop che affronta la complessa e annosa questione delle “restituzioni” culturali. L’opera racconta, con una narrazione magistrale e sperimentale, il rimpatrio in Benin, avvenuto nel 2021, di 26 manufatti sottratti durante l’epoca coloniale al Regno di Dahomey, oggi Benin. Questi oggetti, per decenni esposti nei musei francesi, rappresentano solo una minima parte delle oltre 7.000 opere trafugate durante l’invasione francese del 1892. «Mi sono subito sentita identificata con le statue», dichiara Diop, che segue con sensibilità e partecipazione il viaggio di questi manufatti verso casa. «Lo stigma della colonizzazione è qualcosa che, a modo mio, ho sperimentato e sto ancora sperimentando». Il film, premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, si sviluppa come un saggio poetico e visivamente potente, esplorando la disconnessione tra cultura e identità generata dal colonialismo e dalle sue conseguenze. Un elemento particolarmente evocativo è la narrazione in prima persona di una delle statue restituite, nota come “26” – un numero che rimanda al catalogo assegnato ai manufatti dai musei francesi. La statua, che raffigura il re Ghézo, figura centrale nella storia del Dahomey (regnante dal 1818 al 1859), racconta la sua storia attraverso una voce inquietante e multiforme. Parlando in lingua fon, la statua narra il trauma della cattura, dell’esilio e del ritorno, evocando immagini di anime smarrite e perpetuamente incompiute.

Quando i manufatti finalmente tornano in patria, vengono esposti nel museo di Abomey. Tuttavia, anche questa soluzione solleva interrogativi. Diop esplora il modo in cui i cittadini e, in particolare, i giovani del Benin affrontano i fantasmi del colonialismo e il significato del ritorno. Una lunga sequenza nel film mostra un dibattito studentesco all’Università di Abomey-Calavi. Qui emergono posizioni diverse: alcuni studenti esprimono emozione e sopraffazione emotiva alla vista delle statue; altri, invece, manifestano frustrazione per l’esiguo numero di manufatti restituiti – 26 su oltre 7.000 –, percepito come un insulto. Un giovane critica il fatto che i manufatti siano nuovamente chiusi in una teca, sottolineando come questi oggetti rituali debbano “vivere” e agire nel loro contesto originario. In un’intervista, la regista si chiede quanto la restituzione interessi davvero ai giovani africani di oggi. È un tema che, secondo lei, rischia di ridursi a una questione tra governi, come quello francese e quello beninese, mentre le nuove generazioni sembrano più concentrate su problemi concreti come povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità. Il tema della restituzione resta controverso anche al di fuori del Benin. Sebbene in Francia il rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy abbia spinto a favorire le richieste di restituzione, molti governi africani non avanzano richieste formali. Le motivazioni sono molteplici: priorità a problemi economici e di sicurezza, mancanza di strutture adeguate per conservare gli oggetti antichi e difficoltà nel definire legittimi proprietari.

Simon Njami, direttore di Revue Noire, sottolinea come i confini dell’Africa precoloniale fossero principalmente etnici, non statali, rendendo difficile attribuire la proprietà di molte opere a specifici Paesi. Alcuni musei europei hanno proposto soluzioni intermedie, come “restituzioni temporanee” o prestiti.

Questa modalità è tuttavia ritenuta inaccettabile da molti esponenti africani, poiché perpetuerebbe l’idea di una proprietà illecita mantenuta inalterata. Il dibattito ha però avuto il merito di riportare all’attenzione un fatto cruciale: l’80-90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente, spesso in seguito a furti o appropriazioni indebite. La questione va oltre il mondo dell’arte: il tema della restituzione obbliga a confrontarsi con un passato coloniale che non è mai stato pienamente elaborato. Riconoscere la complessità di questo dibattito significa anche affrontare il legame profondo tra cultura, memoria e identità. Come afferma lo stesso Sarr, riferendosi al gesto simbolico della restituzione al Benin: «Dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all’altezza della posta in gioco». In un panorama ancora dominato dalle conseguenze del colonialismo, Dahomey offre una riflessione potente e necessaria, dando voce non solo agli oggetti rubati, ma anche alle questioni irrisolte di un intero continente.

Africa Rivista

Sudan, Khartoum: ancora nella capitale dopo la ripresa da parte dell’esercito

Nell’area dove si trova l’ospedale dell’ONG non ci sono ancora vie d’accesso e uscita autorizzate. Prosegue la difficoltà di far entrare rifornimenti, mancanza di corrente elettrica, escalation degli attacchi.

È di ieri la notizia ufficiale della presa di Khartoum da parte delle forze governative, Sudanese Armed Forces (SAF), a quasi due anni dall’inizio del conflitto in Sudan tra esercito governativo e forze paramilitari Rapid Support Forces (RSF).

L’intensificarsi dei combattimenti nella capitale delle ultime settimane aveva avuto ripercussioni anche sull’attività di EMERGENCY che, fin dai primi giorni di guerra, non ha mai lasciato né Khartoum né le altre città in cui è presente nel Paese. Nell’area in cui si trova il Centro Salam di cardiochirurgia di EMERGENCY non sono ancora state riaperte e autorizzate vie di entrata e uscita, così i rifornimenti sono bloccati e gli spostamenti dello staff per lasciare o raggiungere l’ospedale sono impossibili.

Questi ultimi giorni sono stati particolarmente difficili a causa di violenti combattimenti anche a pochi chilometri di distanza dal nostro ospedale – sottolinea Matteo D’Alonzo, direttore del Centro di EMERGENCY a Khartoum –. Abbiamo avuto notizie di un aumento della criminalità e della violenza, razzie e arresti improvvisi. A causa dell’assedio alla città, da tre mesi aspettiamo l’entrata di sei camion carichi di beni essenziali, dal cibo ai prodotti per l’igiene, ai farmaci che sono fondamentali per le nostre attività. Alcuni membri del nostro staff sono bloccati qui da quasi un anno. Da gennaio non c’è più corrente elettrica e andiamo avanti solo con i generatori. Aspettiamo l’autorizzazione ufficiale a percorrere una delle strade in entrata e uscita dalla nostra area che permetterebbe a personale e rifornimenti di spostarsi.

EMERGENCY è operativa a Khartoum dal 2007 con il Centro Salam di cardiochirurgia che è sempre rimasto aperto dal 15 aprile 2023, data di inizio della guerra in Sudan anche se ha dovuto interrompere le attività cardiochirurgiche per mancanza di materiali e dell’elettricità. I 400 membri dello staff sudanese e internazionale hanno comunque continuato a offrire un servizio di medicina d’urgenza e cure pediatriche che rischiano di dover essere sospese se i rifornimenti resteranno bloccati.

“A questo punto contiamo di riuscire a riavviare la rotazione del nostro staff in uscita ed entrata dalla città per dare il cambio al personale internazionale e di ricevere finalmente il materiale necessario per poter proseguire con le attività ma soprattutto per ricominciare a operare i nostri pazienti cardiaci: la lista d’attesa della sala operatoria è già lunga. Il Centro Salam è l’unico punto di riferimento per i pazienti cardiaci che non sono andati via. Tante persone stanno tornando a casa, qui nella capitale, nonostante molti di loro una casa non ce l’abbiano più. conclude D’Alonzo.

Continua a essere al centro dei combattimenti Nyala, nel sud Darfur, dove quotidianamente si verificano attacchi aerei. Qui EMERGENCY ha da poco riavviato l’attività ospedaliera del suo Centro pediatrico, interrotta negli scorsi mesi a seguito del saccheggio subito nell’ottobre 2023.

EMERGENCY è presente a Khartoum con il Centro Salam di cardiochirurgia e con un ambulatorio pediatrico; con un centro pediatrico a Port Sudan, nello stato del Mar Rosso dove in questi due anni sono arrivati migliaia di profughi. A Nyala, in Sud Darfur con un centro pediatrico, ad Atbara nel nord-est del Paese, a Kassala, vicino al confine con l’Eritrea, e a Gedaref, a sud-est con degli ambulatori cardiologici.

 

 

 

Emergency

Il ritorno delle opere d’arte africane rubate

Il film Dahomey di Mati Diop racconta il rimpatrio di 26 manufatti del Benin, simboli di un passato coloniale mai elaborato. Tra arte e identità, il documentario esplora il trauma delle sottrazioni culturali e il dibattito sulla proprietà delle opere d’arte africane. Una riflessione su memoria, cultura e giustizia postcoloniale.

Alla fine del 2024 è arrivato nelle sale cinematografiche Dahomey, il film-documentario diretto da Mati Diop che affronta la complessa e annosa questione delle “restituzioni” culturali. L’opera racconta, con una narrazione magistrale e sperimentale, il rimpatrio in Benin, avvenuto nel 2021, di 26 manufatti sottratti durante l’epoca coloniale al Regno di Dahomey, oggi Benin. Questi oggetti, per decenni esposti nei musei francesi, rappresentano solo una minima parte delle oltre 7.000 opere trafugate durante l’invasione francese del 1892. «Mi sono subito sentita identificata con le statue», dichiara Diop, che segue con sensibilità e partecipazione il viaggio di questi manufatti verso casa. «Lo stigma della colonizzazione è qualcosa che, a modo mio, ho sperimentato e sto ancora sperimentando». Il film, premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, si sviluppa come un saggio poetico e visivamente potente, esplorando la disconnessione tra cultura e identità generata dal colonialismo e dalle sue conseguenze. Un elemento particolarmente evocativo è la narrazione in prima persona di una delle statue restituite, nota come “26” – un numero che rimanda al catalogo assegnato ai manufatti dai musei francesi. La statua, che raffigura il re Ghézo, figura centrale nella storia del Dahomey (regnante dal 1818 al 1859), racconta la sua storia attraverso una voce inquietante e multiforme. Parlando in lingua fon, la statua narra il trauma della cattura, dell’esilio e del ritorno, evocando immagini di anime smarrite e perpetuamente incompiute.

Quando i manufatti finalmente tornano in patria, vengono esposti nel museo di Abomey. Tuttavia, anche questa soluzione solleva interrogativi. Diop esplora il modo in cui i cittadini e, in particolare, i giovani del Benin affrontano i fantasmi del colonialismo e il significato del ritorno. Una lunga sequenza nel film mostra un dibattito studentesco all’Università di Abomey-Calavi. Qui emergono posizioni diverse: alcuni studenti esprimono emozione e sopraffazione emotiva alla vista delle statue; altri, invece, manifestano frustrazione per l’esiguo numero di manufatti restituiti – 26 su oltre 7.000 –, percepito come un insulto. Un giovane critica il fatto che i manufatti siano nuovamente chiusi in una teca, sottolineando come questi oggetti rituali debbano “vivere” e agire nel loro contesto originario. In un’intervista, la regista si chiede quanto la restituzione interessi davvero ai giovani africani di oggi. È un tema che, secondo lei, rischia di ridursi a una questione tra governi, come quello francese e quello beninese, mentre le nuove generazioni sembrano più concentrate su problemi concreti come povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità. Il tema della restituzione resta controverso anche al di fuori del Benin. Sebbene in Francia il rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy abbia spinto a favorire le richieste di restituzione, molti governi africani non avanzano richieste formali. Le motivazioni sono molteplici: priorità a problemi economici e di sicurezza, mancanza di strutture adeguate per conservare gli oggetti antichi e difficoltà nel definire legittimi proprietari.

Simon Njami, direttore di Revue Noire, sottolinea come i confini dell’Africa precoloniale fossero principalmente etnici, non statali, rendendo difficile attribuire la proprietà di molte opere a specifici Paesi. Alcuni musei europei hanno proposto soluzioni intermedie, come “restituzioni temporanee” o prestiti.

Questa modalità è tuttavia ritenuta inaccettabile da molti esponenti africani, poiché perpetuerebbe l’idea di una proprietà illecita mantenuta inalterata. Il dibattito ha però avuto il merito di riportare all’attenzione un fatto cruciale: l’80-90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente, spesso in seguito a furti o appropriazioni indebite. La questione va oltre il mondo dell’arte: il tema della restituzione obbliga a confrontarsi con un passato coloniale che non è mai stato pienamente elaborato. Riconoscere la complessità di questo dibattito significa anche affrontare il legame profondo tra cultura, memoria e identità. Come afferma lo stesso Sarr, riferendosi al gesto simbolico della restituzione al Benin: «Dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all’altezza della posta in gioco». In un panorama ancora dominato dalle conseguenze del colonialismo, Dahomey offre una riflessione potente e necessaria, dando voce non solo agli oggetti rubati, ma anche alle questioni irrisolte di un intero continente.

Africa Rivista

Sudan, Khartoum: ancora nella capitale dopo la ripresa da parte dell’esercito

Nell’area dove si trova l’ospedale dell’ONG non ci sono ancora vie d’accesso e uscita autorizzate. Prosegue la difficoltà di far entrare rifornimenti, mancanza di corrente elettrica, escalation degli attacchi.

È di ieri la notizia ufficiale della presa di Khartoum da parte delle forze governative, Sudanese Armed Forces (SAF), a quasi due anni dall’inizio del conflitto in Sudan tra esercito governativo e forze paramilitari Rapid Support Forces (RSF).

L’intensificarsi dei combattimenti nella capitale delle ultime settimane aveva avuto ripercussioni anche sull’attività di EMERGENCY che, fin dai primi giorni di guerra, non ha mai lasciato né Khartoum né le altre città in cui è presente nel Paese. Nell’area in cui si trova il Centro Salam di cardiochirurgia di EMERGENCY non sono ancora state riaperte e autorizzate vie di entrata e uscita, così i rifornimenti sono bloccati e gli spostamenti dello staff per lasciare o raggiungere l’ospedale sono impossibili.

Questi ultimi giorni sono stati particolarmente difficili a causa di violenti combattimenti anche a pochi chilometri di distanza dal nostro ospedale – sottolinea Matteo D’Alonzo, direttore del Centro di EMERGENCY a Khartoum –. Abbiamo avuto notizie di un aumento della criminalità e della violenza, razzie e arresti improvvisi. A causa dell’assedio alla città, da tre mesi aspettiamo l’entrata di sei camion carichi di beni essenziali, dal cibo ai prodotti per l’igiene, ai farmaci che sono fondamentali per le nostre attività. Alcuni membri del nostro staff sono bloccati qui da quasi un anno. Da gennaio non c’è più corrente elettrica e andiamo avanti solo con i generatori. Aspettiamo l’autorizzazione ufficiale a percorrere una delle strade in entrata e uscita dalla nostra area che permetterebbe a personale e rifornimenti di spostarsi.

EMERGENCY è operativa a Khartoum dal 2007 con il Centro Salam di cardiochirurgia che è sempre rimasto aperto dal 15 aprile 2023, data di inizio della guerra in Sudan anche se ha dovuto interrompere le attività cardiochirurgiche per mancanza di materiali e dell’elettricità. I 400 membri dello staff sudanese e internazionale hanno comunque continuato a offrire un servizio di medicina d’urgenza e cure pediatriche che rischiano di dover essere sospese se i rifornimenti resteranno bloccati.

“A questo punto contiamo di riuscire a riavviare la rotazione del nostro staff in uscita ed entrata dalla città per dare il cambio al personale internazionale e di ricevere finalmente il materiale necessario per poter proseguire con le attività ma soprattutto per ricominciare a operare i nostri pazienti cardiaci: la lista d’attesa della sala operatoria è già lunga. Il Centro Salam è l’unico punto di riferimento per i pazienti cardiaci che non sono andati via. Tante persone stanno tornando a casa, qui nella capitale, nonostante molti di loro una casa non ce l’abbiano più. conclude D’Alonzo.

Continua a essere al centro dei combattimenti Nyala, nel sud Darfur, dove quotidianamente si verificano attacchi aerei. Qui EMERGENCY ha da poco riavviato l’attività ospedaliera del suo Centro pediatrico, interrotta negli scorsi mesi a seguito del saccheggio subito nell’ottobre 2023.

EMERGENCY è presente a Khartoum con il Centro Salam di cardiochirurgia e con un ambulatorio pediatrico; con un centro pediatrico a Port Sudan, nello stato del Mar Rosso dove in questi due anni sono arrivati migliaia di profughi. A Nyala, in Sud Darfur con un centro pediatrico, ad Atbara nel nord-est del Paese, a Kassala, vicino al confine con l’Eritrea, e a Gedaref, a sud-est con degli ambulatori cardiologici.

 

 

 

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