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antifascismo

Balcani. Chi era Svetlana Broz e cosa ci ha insegnato sul coraggio civile

Il 22 marzo scorso è venuta a mancare Svetlana Broz. Cardiologa, scrittrice e attivista per i diritti umani, durante e dopo le guerre jugoslave si è battuta per promuovere un sentimento di solidarietà interetnica e di coraggio civile nella regione.

Chi era Svetlana Broz?

Nata a Belgrado il 7 luglio 1955, Svetlana Broz era la figlia minore di Žarko Leon Broz e Zlata Jelinek, originaria di Tuzla, in Bosnia Erzegovina. Un cognome, il suo, che porta con sé tutto il peso della storia jugoslava: Svetlana era infatti la nipote di Josip Broz, il maresciallo Tito, leader della lotta partigiana contro il nazi-fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale e presidente della Jugoslavia fino alla sua morte nel 1980. Durante un intervento nella trasmissione televisiva Face To Face del 6 aprile 2024, quando le è stato chiesto cosa Tito avesse lasciato in eredità alla sua famiglia, ha risposto così: “Di materiale, nulla. Ci ha lasciato qualcosa di non materiale: l’antifascismo. Fino a che respireremo, ci batteremo contro i fascisti”.

Per quanto riguarda la sua carriera, tra il 1970 e il 1975 Svetlana Broz ha lavorato come giornalista indipendente, per poi laurearsi in medicina nel 1980, specializzandosi in cardiologia. L’anno seguente è entrata a far parte dell’Accademia medica militare, dove ha lavorato fino al 1999 e, dopo l’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina nel 1992, ha prestato assistenza medica alle popolazioni colpite dal conflitto, durato fino al 1995.

Contro ogni divisione

Proprio durante il periodo in Bosnia Erzegovina, Svetlana Broz ha avuto modo di entrare in contatto con pazienti di ogni etnia – serbi, croati, bosgnacchi (bosniaci musulmani) – e di conoscere le loro storie. Ispirata dalle loro esperienze di solidarietà interetnica, in cui le persone hanno trovato il coraggio di superare le divisioni, Svetlana Broz ha iniziato a raccogliere le loro testimonianze.

Da questo lavoro durato anni è nato il suo primo libro, Dobri ljudi u vremenu zla (“I giusti al tempo del male”), pubblicato nel 1999. Una raccolta di 90 testimonianze – 30 per ogni gruppo etnico – di persone comuni che, nonostante differenze culturali o religiose, si sono trovate accumunate dalla brutalità della guerra. Lungi dall’essere solo una cruda narrazione, questo libro è soprattutto un messaggio di speranza, che dimostra come il male non sia mai assoluto.

Nel 2000 si è trasferita a Sarajevo, dove ha fondato Gariwosa la sezione bosniaca dell’organizzazione non governativa Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide), per promuovere l’educazione al coraggio civile. “Le persone in questa regione [i Balcani, ndr] mancano di coraggio civile, definito come la capacità di resistere, opporsi e disobbedire a tutti coloro che abusano del proprio potere per i propri scopi e violano le leggi e i diritti umani altrui”, ha affermato in un’intervista. Da allora, Svetlana Broz non ha mai smesso di combattere contro l’odio etnico e di portare la sua battaglia in giro per il mondo: ha infatti insegnato in 52 università negli Stati Uniti e 80 in Europa.

In seguito all’assassinio di Duško Kondor, docente aderente a Gariwosa, ucciso nel 2007 prima di poter testimoniare a un processo per crimini contro l’umanità, Svetlana Broz ha istituito il Premio Kondor per il coraggio civile. Per il suo impegno nel dimostrare che il coraggio civile è la base su cui costruire un futuro stabile per le nuove generazioni, e per la sua lotta contro i nazionalismi, le sono stati conferiti numerosi premi internazionali, oltre alla cittadinanza onoraria della città di Tuzla.

Un’eredità da preservare

L’attivismo di Svetlana Broz è stato una risposta concreta alle divisioni etniche e ai nazionalismi che hanno segnato e continuano a segnare la regione. Oggi, i Balcani stanno attraversando uno dei periodi più turbolenti degli ultimi anni.

Da una parte la Bosnia Erzegovina sta vivendo una situazione sempre più fragile, in cui Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del paese, continua ad alimentare la retorica della divisione e dell’odio interetnico, mettendo seriamente a rischio l’unità del paese e la stabilità dell’intera regione.

Dall’altra, in Serbia continuano le proteste contro il regime del presidente Vučić. L’ampio coinvolgimento della società civile nei movimenti di protesta fa sperare in un risveglio del coraggio civile e della capacità di resistere dei “giusti” a chi abusa del proprio potere.

In un momento storico che vede i Balcani nuovamente scossi su più fronti le battaglie di Svetlana Broz non solo restano attuali, ma rappresentano un’eredità da difendere con quel coraggio che lei stessa ha sempre cercato di ispirare nelle persone.

Martina Marazzini,East Journal,24 Marzo 2025

East Journal

GLI SCIOPERI CONTRO LA GUERRA DEL MARZO 1943: Prove generali per l’insurrezione antifascista di classe

Nel ciclo lungo del sindacalismo di Stato

Gli scioperi del marzo 1943, evento mito della narrazione antifascista, si collocano all’interno di un lungo ciclo storico che insieme registrava rotture traumatiche e continuità. La forma-sindacato storica, basata su autonomia e conflitto, era mutata da tempo; continuità sorprendenti invece, nei modi dell’azione rivendicativa dal basso, riemergevano dai gorghi delle guerre civili. Tournant novecenteschi dirompenti avevano insomma stravolto i connotati del vecchio mondo. La guerra europea era stata atto fondativo dello Stato amministrativo moderno, con la regolazione dall’alto dei conflitti sociali attraverso lo strumento normativo della Mobilitazione industriale, per la gestione primaria dell’interesse della Nazione. Da quel momento il sindacato entrava nello Stato e lo Stato entrava nel sindacato, in un connubio indissolubile, abbraccio mortale ed eterno. A seguire, con la sanguinosa sconfitta del sindacalismo “rosso” in Italia, si erano sviluppati processi di accentuata de-sindacalizzazione. La promulgazione della “Carta del lavoro” nel 1927, disegnava intanto lo Stato corporativo. Lo “sbloccamento” del 1928 comportava la delimitazione della rappresentanza all’ambito federale e il conseguente deperimento della sua dimensione politica generale e di sintesi sul territorio. Neppure l’idea corporativa, ispirata alla collaborazione di classe, era un quid novi dell’era fascista. E aveva fra l’altro salde radici nel movimento cattolico, nell’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII e nel “Fermo proposito” di Pio X.

Benché le relazioni si svolgessero in un quadro di accentuato autoritarismo, il modello che si affermava non era quindi nuovo, ma precedeva e seguiva l’arco temporale di vigenza della dittatura mussoliniana. In esso si ritrovavano: rottura del rapporto rappresentanza-tutela; fine della rappresentanza confederale e sindacale di fabbrica; scambio conflitto / contratto collettivo. La dottrina corporativa fra l’altro, terza via teorica fra capitalismo e collettivismo, rivelando la sua fragile dimensione utopica, restava sovrastata da una politica economica protezionistica, da paese industrializzato, succube dei grandi ceti imprenditoriali. E le suggestioni bolscevizzanti lanciate da Ugo Spirito nel 1932, sulla “Corporazione proprietaria” (ossia a favore delle nazionalizzazioni e contro la libera proprietà), sulla risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale, rimanevano lettera morta. Si esauriva quindi sul nascere ogni velleità di declinare “a sinistra” la dottrina corporativa. Dopo il 1945 lo Stato avrebbe restaurato la propria autorità “democratica” attraverso le istituzioni di massa, cui cedeva poteri delegati in materia sociale ed economica. In cambio il nuovo sindacato confederale avrebbe rinunciato a porsi come forza potenzialmente antisistema. Ricostruzione, ideologia produttivista e ripresa industriale sarebbero stati poi i punti cardine su cui veniva indirizzato il movimento operaio, ormai fattosi garante del supremo interesse della Nazione. Lo scenario sociale e politico, tra primo e secondo dopoguerra, radicalmente cambiato era irriconoscibile. Il sindacato, persa la sua indipendenza e autonomia, lasciava il primato al partito, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, ai tre partiti che, incardinatisi all’uopo nei primi anni Quaranta, avrebbero condizionato la gestione stessa dei sindacati per un lungo mezzo secolo, fino cioè al collasso del sistema politico con tangentopoli.

Gli scioperi del marzo 1943 erano dunque la rottura gagliarda e rabbiosa di questo stato perdurante di cose, contro la guerra fascista prima di tutto, per il pane, per il lavoro e la libertà. Ma erano anche, nel modo, un’indicazione di prospettiva per l’imminente liberazione, “stato nascente” di un futuro promesso radioso, poi rivelatosi amaro in alcuni suoi risvolti e per le evidenti continuità.

Uno sciopero ribelle e antifascista

Gli accordi di Palazzo Vidoni del 1925 tra Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni avevano sancito sul piano normativo una situazione che ormai era già stata conseguita di fatto, manu militari, con l’azione squadristica, ossia la fine formale dei sindacati liberi (USI, CGdL e CIL, ma anche le combattive federazioni SFI ferrovieri e FILM lavoratori del mare). Inoltre si sanciva l’assoluto divieto di sciopero, l’abolizione delle commissioni interne di fabbrica, l’avocazione allo Stato corporativo della rappresentanza unica del lavoro. L’abolizione ope legis della conflittualità nei rapporti di lavoro era stata infine confermata con l’entrata in vigore, nel 1931, del nuovo Codice Rocco che, espressamente (articoli 330-333, 502-508) vietava sanzionandolo lo sciopero. Questa fuga in avanti della norma giuridica, nell’era del consenso dispiegato, mera riaffermazione propagandistica della forza dello Stato fascista, di un regime prono alle esigenze della grande industria, si sarebbe in realtà dimostrata, un’autentica debolezza, specie nel contesto bellico.

Il carovita aggravato dal difficile approvvigionamento dei generi alimentari e dalla borsa nera, l’opposizione popolare alla politica guerrafondaia fascista, il malcontento generale e la rabbia per i lutti e le condizioni economiche patite dai familiari dei combattenti, i licenziamenti e la dura repressione antioperaia nel triangolo industriale del nord Italia, creavano una miscela sociale esplosiva. I pesanti bombardamenti alleati sulle città industriali italiane, divenute obiettivo militare, seminavano morte e distruzione, e, insieme alle stragi nazifasciste avrebbero costituito l’immane prezzo da pagare per una guerra ai civili devastante.

Tra il 1942 e il 1944, ivi compreso il passaggio “repubblichino”, una lunga serie di scioperi auto-organizzati e di proteste e interruzioni del lavoro nei settori industriali portanti, metallurgico, chimico ed estrattivo, si disseminava nel paese (minatori di Carbonia e del Valdarno, operai dell’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, ecc.). L’input organizzativo veniva principalmente o dalle persistenti tradizioni libertarie, socialiste e anarcosindacaliste, come nei casi milanese e del comparto minerario, o dall’attivismo clandestino di giovani militanti comunisti presenti all’interno delle stesse strutture sindacali fasciste. Protagoniste le donne. Ed era questo, si può dire, l’atto di nascita della Resistenza, ai prodromi dell’azione armata di massa.

Lo sciopero che iniziò il 5 marzo 1943 fu però il più grandioso e significativo. Incominciato alla FIAT si propagò, nell’arco di durata di dieci giorni, da Torino all’intero triangolo industriale coinvolgendo ben centomila operai. Nel capoluogo piemontese aveva riguardato man mano tutto l’assetto produttivo cittadino e del circondario, dalle Concerie alle Ferriere Piemontesi, dalle fabbriche tessili, alla Snia Viscosa e al Biscottificio Wamar…

Le richieste erano semplici: calmiere sui generi di prima necessità soprattutto alimentari, cessazione immediata della guerra, basta con la repressione nelle aziende sottoposte a una disciplina produttiva militarizzata.

La prima fabbrica a scioperare nell’area milanese era stata la Falck Concordia, reparto bulloneria, dove le forze fasciste, il giorno 22, intervenute per riportare l’ordine erano state respinte. Nell’ultima settimana di marzo le agitazioni si erano estese alle piccole fabbriche e alle grandi industrie spesso legate alla produzione bellica; a Milano: Pirelli, Alfa Romeo, Breda, Isotta Fraschini, Marelli, Caproni, Borletti, TIBB (Brown Boveri), OLAP…

La natura classista degli scioperi costituiva di per sé un vulnus notevole per il regime, perché marcava l’evidente naufragio del sistema corporativo su cui si pretendeva di fondare la struttura sociale del paese.

Vani erano stati gli interventi diretti in loco dei gerarchi per ricondurre alla ragione, con le buone o con le cattive, gli operai e le operaie ribelli. Tullio Cianetti, sottosegretario prossimo alla nomina di ministro delle Corporazioni, in visita al Cotonificio di Legnano, e Edoardo Malusardi, deputato della Camera dei fasci, ex-corridoniano e sindacalista fascista (nel dopoguerra dirigente della CISNAL), in visita alla Borletti, venivano violentemente contestati dalle operaie.

Ha raccontato Cianetti nelle sue memorie: “affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente”. Ma i ‘fascisti’ di cui parlava non erano altro che gli iscritti al sindacato di regime.

Il bilancio degli scioperi di marzo fu pesante, con arresti di massa e incarcerazioni, con cinquanta processati dai Tribunali militari territoriali, con la cattura e la deportazione in Germania di alcuni organizzatori e organizzatrici nel frattempo fattisi partigiani e partigiane.

In seguito all’evento vi era stata una riunione tempestosa del direttorio PNF a Palazzo Venezia, nella quale il Duce, imputando la responsabilità degli scioperi illegali all’incapacità degli organi e delle strutture del regime di avvertirne i sintomi premonitori, decideva di rimuovere dalle loro cariche con decorso immediato il segretario del partito Aldo Vidussoni (sostituito da Carlo Scorza), il capo della polizia Carmine Senise (cui subentrava Lorenzo Chierici), il ministro delle Corporazioni Carlo Tiengo, cui succedeva Cianetti.

“Sabotiamo la mobilitazione hitleriana e imponiamo la pace immediata”: così era intitolato il manifestino clandestino firmato Comitato per la Pace e la Libertà, datato Marzo 1943. “Il popolo – così scriveva – non deve attendere che a liberarci vengano gli anglo-americani o i russi. Sarebbe un’umiliazione: spetta a noi italiani scuotere il giogo che ci opprime da vent’anni. Spetta a noi cacciare via il fascismo dal governo del nostro paese, cacciar via i tedeschi che calpestano il nostro suolo”. E proseguiva invitando a sabotare e boicottare la macchina da guerra fascista, a non consegnare agli ammassi i prodotti agricoli e a non pagare tasse e imposte, a disertare e a rifiutarsi di combattere una guerra altrui, a ostacolare con ogni mezzo il trasporto di truppe e di materiale bellico.

La controparte, intimorita dagli scioperi, faceva un ultimo tentativo di ammansire le maestranze in agitazione concedendo “limitatamente alla durata della guerra” sia alle categorie interessate dall’azione nemica, sia quelle non interessate, delle particolari e graduate indennità giornaliere legate alla presenza. Ormai però era troppo tardi.

Giorgio Sacchetti

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Balcani. Chi era Svetlana Broz e cosa ci ha insegnato sul coraggio civile

Il 22 marzo scorso è venuta a mancare Svetlana Broz. Cardiologa, scrittrice e attivista per i diritti umani, durante e dopo le guerre jugoslave si è battuta per promuovere un sentimento di solidarietà interetnica e di coraggio civile nella regione.

Chi era Svetlana Broz?

Nata a Belgrado il 7 luglio 1955, Svetlana Broz era la figlia minore di Žarko Leon Broz e Zlata Jelinek, originaria di Tuzla, in Bosnia Erzegovina. Un cognome, il suo, che porta con sé tutto il peso della storia jugoslava: Svetlana era infatti la nipote di Josip Broz, il maresciallo Tito, leader della lotta partigiana contro il nazi-fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale e presidente della Jugoslavia fino alla sua morte nel 1980. Durante un intervento nella trasmissione televisiva Face To Face del 6 aprile 2024, quando le è stato chiesto cosa Tito avesse lasciato in eredità alla sua famiglia, ha risposto così: “Di materiale, nulla. Ci ha lasciato qualcosa di non materiale: l’antifascismo. Fino a che respireremo, ci batteremo contro i fascisti”.

Per quanto riguarda la sua carriera, tra il 1970 e il 1975 Svetlana Broz ha lavorato come giornalista indipendente, per poi laurearsi in medicina nel 1980, specializzandosi in cardiologia. L’anno seguente è entrata a far parte dell’Accademia medica militare, dove ha lavorato fino al 1999 e, dopo l’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina nel 1992, ha prestato assistenza medica alle popolazioni colpite dal conflitto, durato fino al 1995.

Contro ogni divisione

Proprio durante il periodo in Bosnia Erzegovina, Svetlana Broz ha avuto modo di entrare in contatto con pazienti di ogni etnia – serbi, croati, bosgnacchi (bosniaci musulmani) – e di conoscere le loro storie. Ispirata dalle loro esperienze di solidarietà interetnica, in cui le persone hanno trovato il coraggio di superare le divisioni, Svetlana Broz ha iniziato a raccogliere le loro testimonianze.

Da questo lavoro durato anni è nato il suo primo libro, Dobri ljudi u vremenu zla (“I giusti al tempo del male”), pubblicato nel 1999. Una raccolta di 90 testimonianze – 30 per ogni gruppo etnico – di persone comuni che, nonostante differenze culturali o religiose, si sono trovate accumunate dalla brutalità della guerra. Lungi dall’essere solo una cruda narrazione, questo libro è soprattutto un messaggio di speranza, che dimostra come il male non sia mai assoluto.

Nel 2000 si è trasferita a Sarajevo, dove ha fondato Gariwosa la sezione bosniaca dell’organizzazione non governativa Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide), per promuovere l’educazione al coraggio civile. “Le persone in questa regione [i Balcani, ndr] mancano di coraggio civile, definito come la capacità di resistere, opporsi e disobbedire a tutti coloro che abusano del proprio potere per i propri scopi e violano le leggi e i diritti umani altrui”, ha affermato in un’intervista. Da allora, Svetlana Broz non ha mai smesso di combattere contro l’odio etnico e di portare la sua battaglia in giro per il mondo: ha infatti insegnato in 52 università negli Stati Uniti e 80 in Europa.

In seguito all’assassinio di Duško Kondor, docente aderente a Gariwosa, ucciso nel 2007 prima di poter testimoniare a un processo per crimini contro l’umanità, Svetlana Broz ha istituito il Premio Kondor per il coraggio civile. Per il suo impegno nel dimostrare che il coraggio civile è la base su cui costruire un futuro stabile per le nuove generazioni, e per la sua lotta contro i nazionalismi, le sono stati conferiti numerosi premi internazionali, oltre alla cittadinanza onoraria della città di Tuzla.

Un’eredità da preservare

L’attivismo di Svetlana Broz è stato una risposta concreta alle divisioni etniche e ai nazionalismi che hanno segnato e continuano a segnare la regione. Oggi, i Balcani stanno attraversando uno dei periodi più turbolenti degli ultimi anni.

Da una parte la Bosnia Erzegovina sta vivendo una situazione sempre più fragile, in cui Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del paese, continua ad alimentare la retorica della divisione e dell’odio interetnico, mettendo seriamente a rischio l’unità del paese e la stabilità dell’intera regione.

Dall’altra, in Serbia continuano le proteste contro il regime del presidente Vučić. L’ampio coinvolgimento della società civile nei movimenti di protesta fa sperare in un risveglio del coraggio civile e della capacità di resistere dei “giusti” a chi abusa del proprio potere.

In un momento storico che vede i Balcani nuovamente scossi su più fronti le battaglie di Svetlana Broz non solo restano attuali, ma rappresentano un’eredità da difendere con quel coraggio che lei stessa ha sempre cercato di ispirare nelle persone.

Martina Marazzini,East Journal,24 Marzo 2025

East Journal

GLI SCIOPERI CONTRO LA GUERRA DEL MARZO 1943: Prove generali per l’insurrezione antifascista di classe

Nel ciclo lungo del sindacalismo di Stato

Gli scioperi del marzo 1943, evento mito della narrazione antifascista, si collocano all’interno di un lungo ciclo storico che insieme registrava rotture traumatiche e continuità. La forma-sindacato storica, basata su autonomia e conflitto, era mutata da tempo; continuità sorprendenti invece, nei modi dell’azione rivendicativa dal basso, riemergevano dai gorghi delle guerre civili. Tournant novecenteschi dirompenti avevano insomma stravolto i connotati del vecchio mondo. La guerra europea era stata atto fondativo dello Stato amministrativo moderno, con la regolazione dall’alto dei conflitti sociali attraverso lo strumento normativo della Mobilitazione industriale, per la gestione primaria dell’interesse della Nazione. Da quel momento il sindacato entrava nello Stato e lo Stato entrava nel sindacato, in un connubio indissolubile, abbraccio mortale ed eterno. A seguire, con la sanguinosa sconfitta del sindacalismo “rosso” in Italia, si erano sviluppati processi di accentuata de-sindacalizzazione. La promulgazione della “Carta del lavoro” nel 1927, disegnava intanto lo Stato corporativo. Lo “sbloccamento” del 1928 comportava la delimitazione della rappresentanza all’ambito federale e il conseguente deperimento della sua dimensione politica generale e di sintesi sul territorio. Neppure l’idea corporativa, ispirata alla collaborazione di classe, era un quid novi dell’era fascista. E aveva fra l’altro salde radici nel movimento cattolico, nell’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII e nel “Fermo proposito” di Pio X.

Benché le relazioni si svolgessero in un quadro di accentuato autoritarismo, il modello che si affermava non era quindi nuovo, ma precedeva e seguiva l’arco temporale di vigenza della dittatura mussoliniana. In esso si ritrovavano: rottura del rapporto rappresentanza-tutela; fine della rappresentanza confederale e sindacale di fabbrica; scambio conflitto / contratto collettivo. La dottrina corporativa fra l’altro, terza via teorica fra capitalismo e collettivismo, rivelando la sua fragile dimensione utopica, restava sovrastata da una politica economica protezionistica, da paese industrializzato, succube dei grandi ceti imprenditoriali. E le suggestioni bolscevizzanti lanciate da Ugo Spirito nel 1932, sulla “Corporazione proprietaria” (ossia a favore delle nazionalizzazioni e contro la libera proprietà), sulla risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale, rimanevano lettera morta. Si esauriva quindi sul nascere ogni velleità di declinare “a sinistra” la dottrina corporativa. Dopo il 1945 lo Stato avrebbe restaurato la propria autorità “democratica” attraverso le istituzioni di massa, cui cedeva poteri delegati in materia sociale ed economica. In cambio il nuovo sindacato confederale avrebbe rinunciato a porsi come forza potenzialmente antisistema. Ricostruzione, ideologia produttivista e ripresa industriale sarebbero stati poi i punti cardine su cui veniva indirizzato il movimento operaio, ormai fattosi garante del supremo interesse della Nazione. Lo scenario sociale e politico, tra primo e secondo dopoguerra, radicalmente cambiato era irriconoscibile. Il sindacato, persa la sua indipendenza e autonomia, lasciava il primato al partito, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, ai tre partiti che, incardinatisi all’uopo nei primi anni Quaranta, avrebbero condizionato la gestione stessa dei sindacati per un lungo mezzo secolo, fino cioè al collasso del sistema politico con tangentopoli.

Gli scioperi del marzo 1943 erano dunque la rottura gagliarda e rabbiosa di questo stato perdurante di cose, contro la guerra fascista prima di tutto, per il pane, per il lavoro e la libertà. Ma erano anche, nel modo, un’indicazione di prospettiva per l’imminente liberazione, “stato nascente” di un futuro promesso radioso, poi rivelatosi amaro in alcuni suoi risvolti e per le evidenti continuità.

Uno sciopero ribelle e antifascista

Gli accordi di Palazzo Vidoni del 1925 tra Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni avevano sancito sul piano normativo una situazione che ormai era già stata conseguita di fatto, manu militari, con l’azione squadristica, ossia la fine formale dei sindacati liberi (USI, CGdL e CIL, ma anche le combattive federazioni SFI ferrovieri e FILM lavoratori del mare). Inoltre si sanciva l’assoluto divieto di sciopero, l’abolizione delle commissioni interne di fabbrica, l’avocazione allo Stato corporativo della rappresentanza unica del lavoro. L’abolizione ope legis della conflittualità nei rapporti di lavoro era stata infine confermata con l’entrata in vigore, nel 1931, del nuovo Codice Rocco che, espressamente (articoli 330-333, 502-508) vietava sanzionandolo lo sciopero. Questa fuga in avanti della norma giuridica, nell’era del consenso dispiegato, mera riaffermazione propagandistica della forza dello Stato fascista, di un regime prono alle esigenze della grande industria, si sarebbe in realtà dimostrata, un’autentica debolezza, specie nel contesto bellico.

Il carovita aggravato dal difficile approvvigionamento dei generi alimentari e dalla borsa nera, l’opposizione popolare alla politica guerrafondaia fascista, il malcontento generale e la rabbia per i lutti e le condizioni economiche patite dai familiari dei combattenti, i licenziamenti e la dura repressione antioperaia nel triangolo industriale del nord Italia, creavano una miscela sociale esplosiva. I pesanti bombardamenti alleati sulle città industriali italiane, divenute obiettivo militare, seminavano morte e distruzione, e, insieme alle stragi nazifasciste avrebbero costituito l’immane prezzo da pagare per una guerra ai civili devastante.

Tra il 1942 e il 1944, ivi compreso il passaggio “repubblichino”, una lunga serie di scioperi auto-organizzati e di proteste e interruzioni del lavoro nei settori industriali portanti, metallurgico, chimico ed estrattivo, si disseminava nel paese (minatori di Carbonia e del Valdarno, operai dell’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, ecc.). L’input organizzativo veniva principalmente o dalle persistenti tradizioni libertarie, socialiste e anarcosindacaliste, come nei casi milanese e del comparto minerario, o dall’attivismo clandestino di giovani militanti comunisti presenti all’interno delle stesse strutture sindacali fasciste. Protagoniste le donne. Ed era questo, si può dire, l’atto di nascita della Resistenza, ai prodromi dell’azione armata di massa.

Lo sciopero che iniziò il 5 marzo 1943 fu però il più grandioso e significativo. Incominciato alla FIAT si propagò, nell’arco di durata di dieci giorni, da Torino all’intero triangolo industriale coinvolgendo ben centomila operai. Nel capoluogo piemontese aveva riguardato man mano tutto l’assetto produttivo cittadino e del circondario, dalle Concerie alle Ferriere Piemontesi, dalle fabbriche tessili, alla Snia Viscosa e al Biscottificio Wamar…

Le richieste erano semplici: calmiere sui generi di prima necessità soprattutto alimentari, cessazione immediata della guerra, basta con la repressione nelle aziende sottoposte a una disciplina produttiva militarizzata.

La prima fabbrica a scioperare nell’area milanese era stata la Falck Concordia, reparto bulloneria, dove le forze fasciste, il giorno 22, intervenute per riportare l’ordine erano state respinte. Nell’ultima settimana di marzo le agitazioni si erano estese alle piccole fabbriche e alle grandi industrie spesso legate alla produzione bellica; a Milano: Pirelli, Alfa Romeo, Breda, Isotta Fraschini, Marelli, Caproni, Borletti, TIBB (Brown Boveri), OLAP…

La natura classista degli scioperi costituiva di per sé un vulnus notevole per il regime, perché marcava l’evidente naufragio del sistema corporativo su cui si pretendeva di fondare la struttura sociale del paese.

Vani erano stati gli interventi diretti in loco dei gerarchi per ricondurre alla ragione, con le buone o con le cattive, gli operai e le operaie ribelli. Tullio Cianetti, sottosegretario prossimo alla nomina di ministro delle Corporazioni, in visita al Cotonificio di Legnano, e Edoardo Malusardi, deputato della Camera dei fasci, ex-corridoniano e sindacalista fascista (nel dopoguerra dirigente della CISNAL), in visita alla Borletti, venivano violentemente contestati dalle operaie.

Ha raccontato Cianetti nelle sue memorie: “affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente”. Ma i ‘fascisti’ di cui parlava non erano altro che gli iscritti al sindacato di regime.

Il bilancio degli scioperi di marzo fu pesante, con arresti di massa e incarcerazioni, con cinquanta processati dai Tribunali militari territoriali, con la cattura e la deportazione in Germania di alcuni organizzatori e organizzatrici nel frattempo fattisi partigiani e partigiane.

In seguito all’evento vi era stata una riunione tempestosa del direttorio PNF a Palazzo Venezia, nella quale il Duce, imputando la responsabilità degli scioperi illegali all’incapacità degli organi e delle strutture del regime di avvertirne i sintomi premonitori, decideva di rimuovere dalle loro cariche con decorso immediato il segretario del partito Aldo Vidussoni (sostituito da Carlo Scorza), il capo della polizia Carmine Senise (cui subentrava Lorenzo Chierici), il ministro delle Corporazioni Carlo Tiengo, cui succedeva Cianetti.

“Sabotiamo la mobilitazione hitleriana e imponiamo la pace immediata”: così era intitolato il manifestino clandestino firmato Comitato per la Pace e la Libertà, datato Marzo 1943. “Il popolo – così scriveva – non deve attendere che a liberarci vengano gli anglo-americani o i russi. Sarebbe un’umiliazione: spetta a noi italiani scuotere il giogo che ci opprime da vent’anni. Spetta a noi cacciare via il fascismo dal governo del nostro paese, cacciar via i tedeschi che calpestano il nostro suolo”. E proseguiva invitando a sabotare e boicottare la macchina da guerra fascista, a non consegnare agli ammassi i prodotti agricoli e a non pagare tasse e imposte, a disertare e a rifiutarsi di combattere una guerra altrui, a ostacolare con ogni mezzo il trasporto di truppe e di materiale bellico.

La controparte, intimorita dagli scioperi, faceva un ultimo tentativo di ammansire le maestranze in agitazione concedendo “limitatamente alla durata della guerra” sia alle categorie interessate dall’azione nemica, sia quelle non interessate, delle particolari e graduate indennità giornaliere legate alla presenza. Ormai però era troppo tardi.

Giorgio Sacchetti

L'articolo GLI SCIOPERI CONTRO LA GUERRA DEL MARZO 1943: Prove generali per l’insurrezione antifascista di classe proviene da .

Balcani. Chi era Svetlana Broz e cosa ci ha insegnato sul coraggio civile

Il 22 marzo scorso è venuta a mancare Svetlana Broz. Cardiologa, scrittrice e attivista per i diritti umani, durante e dopo le guerre jugoslave si è battuta per promuovere un sentimento di solidarietà interetnica e di coraggio civile nella regione.

Chi era Svetlana Broz?

Nata a Belgrado il 7 luglio 1955, Svetlana Broz era la figlia minore di Žarko Leon Broz e Zlata Jelinek, originaria di Tuzla, in Bosnia Erzegovina. Un cognome, il suo, che porta con sé tutto il peso della storia jugoslava: Svetlana era infatti la nipote di Josip Broz, il maresciallo Tito, leader della lotta partigiana contro il nazi-fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale e presidente della Jugoslavia fino alla sua morte nel 1980. Durante un intervento nella trasmissione televisiva Face To Face del 6 aprile 2024, quando le è stato chiesto cosa Tito avesse lasciato in eredità alla sua famiglia, ha risposto così: “Di materiale, nulla. Ci ha lasciato qualcosa di non materiale: l’antifascismo. Fino a che respireremo, ci batteremo contro i fascisti”.

Per quanto riguarda la sua carriera, tra il 1970 e il 1975 Svetlana Broz ha lavorato come giornalista indipendente, per poi laurearsi in medicina nel 1980, specializzandosi in cardiologia. L’anno seguente è entrata a far parte dell’Accademia medica militare, dove ha lavorato fino al 1999 e, dopo l’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina nel 1992, ha prestato assistenza medica alle popolazioni colpite dal conflitto, durato fino al 1995.

Contro ogni divisione

Proprio durante il periodo in Bosnia Erzegovina, Svetlana Broz ha avuto modo di entrare in contatto con pazienti di ogni etnia – serbi, croati, bosgnacchi (bosniaci musulmani) – e di conoscere le loro storie. Ispirata dalle loro esperienze di solidarietà interetnica, in cui le persone hanno trovato il coraggio di superare le divisioni, Svetlana Broz ha iniziato a raccogliere le loro testimonianze.

Da questo lavoro durato anni è nato il suo primo libro, Dobri ljudi u vremenu zla (“I giusti al tempo del male”), pubblicato nel 1999. Una raccolta di 90 testimonianze – 30 per ogni gruppo etnico – di persone comuni che, nonostante differenze culturali o religiose, si sono trovate accumunate dalla brutalità della guerra. Lungi dall’essere solo una cruda narrazione, questo libro è soprattutto un messaggio di speranza, che dimostra come il male non sia mai assoluto.

Nel 2000 si è trasferita a Sarajevo, dove ha fondato Gariwosa la sezione bosniaca dell’organizzazione non governativa Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide), per promuovere l’educazione al coraggio civile. “Le persone in questa regione [i Balcani, ndr] mancano di coraggio civile, definito come la capacità di resistere, opporsi e disobbedire a tutti coloro che abusano del proprio potere per i propri scopi e violano le leggi e i diritti umani altrui”, ha affermato in un’intervista. Da allora, Svetlana Broz non ha mai smesso di combattere contro l’odio etnico e di portare la sua battaglia in giro per il mondo: ha infatti insegnato in 52 università negli Stati Uniti e 80 in Europa.

In seguito all’assassinio di Duško Kondor, docente aderente a Gariwosa, ucciso nel 2007 prima di poter testimoniare a un processo per crimini contro l’umanità, Svetlana Broz ha istituito il Premio Kondor per il coraggio civile. Per il suo impegno nel dimostrare che il coraggio civile è la base su cui costruire un futuro stabile per le nuove generazioni, e per la sua lotta contro i nazionalismi, le sono stati conferiti numerosi premi internazionali, oltre alla cittadinanza onoraria della città di Tuzla.

Un’eredità da preservare

L’attivismo di Svetlana Broz è stato una risposta concreta alle divisioni etniche e ai nazionalismi che hanno segnato e continuano a segnare la regione. Oggi, i Balcani stanno attraversando uno dei periodi più turbolenti degli ultimi anni.

Da una parte la Bosnia Erzegovina sta vivendo una situazione sempre più fragile, in cui Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del paese, continua ad alimentare la retorica della divisione e dell’odio interetnico, mettendo seriamente a rischio l’unità del paese e la stabilità dell’intera regione.

Dall’altra, in Serbia continuano le proteste contro il regime del presidente Vučić. L’ampio coinvolgimento della società civile nei movimenti di protesta fa sperare in un risveglio del coraggio civile e della capacità di resistere dei “giusti” a chi abusa del proprio potere.

In un momento storico che vede i Balcani nuovamente scossi su più fronti le battaglie di Svetlana Broz non solo restano attuali, ma rappresentano un’eredità da difendere con quel coraggio che lei stessa ha sempre cercato di ispirare nelle persone.

Martina Marazzini,East Journal,24 Marzo 2025

East Journal

GLI SCIOPERI CONTRO LA GUERRA DEL MARZO 1943: Prove generali per l’insurrezione antifascista di classe

Nel ciclo lungo del sindacalismo di Stato

Gli scioperi del marzo 1943, evento mito della narrazione antifascista, si collocano all’interno di un lungo ciclo storico che insieme registrava rotture traumatiche e continuità. La forma-sindacato storica, basata su autonomia e conflitto, era mutata da tempo; continuità sorprendenti invece, nei modi dell’azione rivendicativa dal basso, riemergevano dai gorghi delle guerre civili. Tournant novecenteschi dirompenti avevano insomma stravolto i connotati del vecchio mondo. La guerra europea era stata atto fondativo dello Stato amministrativo moderno, con la regolazione dall’alto dei conflitti sociali attraverso lo strumento normativo della Mobilitazione industriale, per la gestione primaria dell’interesse della Nazione. Da quel momento il sindacato entrava nello Stato e lo Stato entrava nel sindacato, in un connubio indissolubile, abbraccio mortale ed eterno. A seguire, con la sanguinosa sconfitta del sindacalismo “rosso” in Italia, si erano sviluppati processi di accentuata de-sindacalizzazione. La promulgazione della “Carta del lavoro” nel 1927, disegnava intanto lo Stato corporativo. Lo “sbloccamento” del 1928 comportava la delimitazione della rappresentanza all’ambito federale e il conseguente deperimento della sua dimensione politica generale e di sintesi sul territorio. Neppure l’idea corporativa, ispirata alla collaborazione di classe, era un quid novi dell’era fascista. E aveva fra l’altro salde radici nel movimento cattolico, nell’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII e nel “Fermo proposito” di Pio X.

Benché le relazioni si svolgessero in un quadro di accentuato autoritarismo, il modello che si affermava non era quindi nuovo, ma precedeva e seguiva l’arco temporale di vigenza della dittatura mussoliniana. In esso si ritrovavano: rottura del rapporto rappresentanza-tutela; fine della rappresentanza confederale e sindacale di fabbrica; scambio conflitto / contratto collettivo. La dottrina corporativa fra l’altro, terza via teorica fra capitalismo e collettivismo, rivelando la sua fragile dimensione utopica, restava sovrastata da una politica economica protezionistica, da paese industrializzato, succube dei grandi ceti imprenditoriali. E le suggestioni bolscevizzanti lanciate da Ugo Spirito nel 1932, sulla “Corporazione proprietaria” (ossia a favore delle nazionalizzazioni e contro la libera proprietà), sulla risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale, rimanevano lettera morta. Si esauriva quindi sul nascere ogni velleità di declinare “a sinistra” la dottrina corporativa. Dopo il 1945 lo Stato avrebbe restaurato la propria autorità “democratica” attraverso le istituzioni di massa, cui cedeva poteri delegati in materia sociale ed economica. In cambio il nuovo sindacato confederale avrebbe rinunciato a porsi come forza potenzialmente antisistema. Ricostruzione, ideologia produttivista e ripresa industriale sarebbero stati poi i punti cardine su cui veniva indirizzato il movimento operaio, ormai fattosi garante del supremo interesse della Nazione. Lo scenario sociale e politico, tra primo e secondo dopoguerra, radicalmente cambiato era irriconoscibile. Il sindacato, persa la sua indipendenza e autonomia, lasciava il primato al partito, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, ai tre partiti che, incardinatisi all’uopo nei primi anni Quaranta, avrebbero condizionato la gestione stessa dei sindacati per un lungo mezzo secolo, fino cioè al collasso del sistema politico con tangentopoli.

Gli scioperi del marzo 1943 erano dunque la rottura gagliarda e rabbiosa di questo stato perdurante di cose, contro la guerra fascista prima di tutto, per il pane, per il lavoro e la libertà. Ma erano anche, nel modo, un’indicazione di prospettiva per l’imminente liberazione, “stato nascente” di un futuro promesso radioso, poi rivelatosi amaro in alcuni suoi risvolti e per le evidenti continuità.

Uno sciopero ribelle e antifascista

Gli accordi di Palazzo Vidoni del 1925 tra Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni avevano sancito sul piano normativo una situazione che ormai era già stata conseguita di fatto, manu militari, con l’azione squadristica, ossia la fine formale dei sindacati liberi (USI, CGdL e CIL, ma anche le combattive federazioni SFI ferrovieri e FILM lavoratori del mare). Inoltre si sanciva l’assoluto divieto di sciopero, l’abolizione delle commissioni interne di fabbrica, l’avocazione allo Stato corporativo della rappresentanza unica del lavoro. L’abolizione ope legis della conflittualità nei rapporti di lavoro era stata infine confermata con l’entrata in vigore, nel 1931, del nuovo Codice Rocco che, espressamente (articoli 330-333, 502-508) vietava sanzionandolo lo sciopero. Questa fuga in avanti della norma giuridica, nell’era del consenso dispiegato, mera riaffermazione propagandistica della forza dello Stato fascista, di un regime prono alle esigenze della grande industria, si sarebbe in realtà dimostrata, un’autentica debolezza, specie nel contesto bellico.

Il carovita aggravato dal difficile approvvigionamento dei generi alimentari e dalla borsa nera, l’opposizione popolare alla politica guerrafondaia fascista, il malcontento generale e la rabbia per i lutti e le condizioni economiche patite dai familiari dei combattenti, i licenziamenti e la dura repressione antioperaia nel triangolo industriale del nord Italia, creavano una miscela sociale esplosiva. I pesanti bombardamenti alleati sulle città industriali italiane, divenute obiettivo militare, seminavano morte e distruzione, e, insieme alle stragi nazifasciste avrebbero costituito l’immane prezzo da pagare per una guerra ai civili devastante.

Tra il 1942 e il 1944, ivi compreso il passaggio “repubblichino”, una lunga serie di scioperi auto-organizzati e di proteste e interruzioni del lavoro nei settori industriali portanti, metallurgico, chimico ed estrattivo, si disseminava nel paese (minatori di Carbonia e del Valdarno, operai dell’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, ecc.). L’input organizzativo veniva principalmente o dalle persistenti tradizioni libertarie, socialiste e anarcosindacaliste, come nei casi milanese e del comparto minerario, o dall’attivismo clandestino di giovani militanti comunisti presenti all’interno delle stesse strutture sindacali fasciste. Protagoniste le donne. Ed era questo, si può dire, l’atto di nascita della Resistenza, ai prodromi dell’azione armata di massa.

Lo sciopero che iniziò il 5 marzo 1943 fu però il più grandioso e significativo. Incominciato alla FIAT si propagò, nell’arco di durata di dieci giorni, da Torino all’intero triangolo industriale coinvolgendo ben centomila operai. Nel capoluogo piemontese aveva riguardato man mano tutto l’assetto produttivo cittadino e del circondario, dalle Concerie alle Ferriere Piemontesi, dalle fabbriche tessili, alla Snia Viscosa e al Biscottificio Wamar…

Le richieste erano semplici: calmiere sui generi di prima necessità soprattutto alimentari, cessazione immediata della guerra, basta con la repressione nelle aziende sottoposte a una disciplina produttiva militarizzata.

La prima fabbrica a scioperare nell’area milanese era stata la Falck Concordia, reparto bulloneria, dove le forze fasciste, il giorno 22, intervenute per riportare l’ordine erano state respinte. Nell’ultima settimana di marzo le agitazioni si erano estese alle piccole fabbriche e alle grandi industrie spesso legate alla produzione bellica; a Milano: Pirelli, Alfa Romeo, Breda, Isotta Fraschini, Marelli, Caproni, Borletti, TIBB (Brown Boveri), OLAP…

La natura classista degli scioperi costituiva di per sé un vulnus notevole per il regime, perché marcava l’evidente naufragio del sistema corporativo su cui si pretendeva di fondare la struttura sociale del paese.

Vani erano stati gli interventi diretti in loco dei gerarchi per ricondurre alla ragione, con le buone o con le cattive, gli operai e le operaie ribelli. Tullio Cianetti, sottosegretario prossimo alla nomina di ministro delle Corporazioni, in visita al Cotonificio di Legnano, e Edoardo Malusardi, deputato della Camera dei fasci, ex-corridoniano e sindacalista fascista (nel dopoguerra dirigente della CISNAL), in visita alla Borletti, venivano violentemente contestati dalle operaie.

Ha raccontato Cianetti nelle sue memorie: “affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente”. Ma i ‘fascisti’ di cui parlava non erano altro che gli iscritti al sindacato di regime.

Il bilancio degli scioperi di marzo fu pesante, con arresti di massa e incarcerazioni, con cinquanta processati dai Tribunali militari territoriali, con la cattura e la deportazione in Germania di alcuni organizzatori e organizzatrici nel frattempo fattisi partigiani e partigiane.

In seguito all’evento vi era stata una riunione tempestosa del direttorio PNF a Palazzo Venezia, nella quale il Duce, imputando la responsabilità degli scioperi illegali all’incapacità degli organi e delle strutture del regime di avvertirne i sintomi premonitori, decideva di rimuovere dalle loro cariche con decorso immediato il segretario del partito Aldo Vidussoni (sostituito da Carlo Scorza), il capo della polizia Carmine Senise (cui subentrava Lorenzo Chierici), il ministro delle Corporazioni Carlo Tiengo, cui succedeva Cianetti.

“Sabotiamo la mobilitazione hitleriana e imponiamo la pace immediata”: così era intitolato il manifestino clandestino firmato Comitato per la Pace e la Libertà, datato Marzo 1943. “Il popolo – così scriveva – non deve attendere che a liberarci vengano gli anglo-americani o i russi. Sarebbe un’umiliazione: spetta a noi italiani scuotere il giogo che ci opprime da vent’anni. Spetta a noi cacciare via il fascismo dal governo del nostro paese, cacciar via i tedeschi che calpestano il nostro suolo”. E proseguiva invitando a sabotare e boicottare la macchina da guerra fascista, a non consegnare agli ammassi i prodotti agricoli e a non pagare tasse e imposte, a disertare e a rifiutarsi di combattere una guerra altrui, a ostacolare con ogni mezzo il trasporto di truppe e di materiale bellico.

La controparte, intimorita dagli scioperi, faceva un ultimo tentativo di ammansire le maestranze in agitazione concedendo “limitatamente alla durata della guerra” sia alle categorie interessate dall’azione nemica, sia quelle non interessate, delle particolari e graduate indennità giornaliere legate alla presenza. Ormai però era troppo tardi.

Giorgio Sacchetti

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Balcani. Chi era Svetlana Broz e cosa ci ha insegnato sul coraggio civile

Il 22 marzo scorso è venuta a mancare Svetlana Broz. Cardiologa, scrittrice e attivista per i diritti umani, durante e dopo le guerre jugoslave si è battuta per promuovere un sentimento di solidarietà interetnica e di coraggio civile nella regione.

Chi era Svetlana Broz?

Nata a Belgrado il 7 luglio 1955, Svetlana Broz era la figlia minore di Žarko Leon Broz e Zlata Jelinek, originaria di Tuzla, in Bosnia Erzegovina. Un cognome, il suo, che porta con sé tutto il peso della storia jugoslava: Svetlana era infatti la nipote di Josip Broz, il maresciallo Tito, leader della lotta partigiana contro il nazi-fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale e presidente della Jugoslavia fino alla sua morte nel 1980. Durante un intervento nella trasmissione televisiva Face To Face del 6 aprile 2024, quando le è stato chiesto cosa Tito avesse lasciato in eredità alla sua famiglia, ha risposto così: “Di materiale, nulla. Ci ha lasciato qualcosa di non materiale: l’antifascismo. Fino a che respireremo, ci batteremo contro i fascisti”.

Per quanto riguarda la sua carriera, tra il 1970 e il 1975 Svetlana Broz ha lavorato come giornalista indipendente, per poi laurearsi in medicina nel 1980, specializzandosi in cardiologia. L’anno seguente è entrata a far parte dell’Accademia medica militare, dove ha lavorato fino al 1999 e, dopo l’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina nel 1992, ha prestato assistenza medica alle popolazioni colpite dal conflitto, durato fino al 1995.

Contro ogni divisione

Proprio durante il periodo in Bosnia Erzegovina, Svetlana Broz ha avuto modo di entrare in contatto con pazienti di ogni etnia – serbi, croati, bosgnacchi (bosniaci musulmani) – e di conoscere le loro storie. Ispirata dalle loro esperienze di solidarietà interetnica, in cui le persone hanno trovato il coraggio di superare le divisioni, Svetlana Broz ha iniziato a raccogliere le loro testimonianze.

Da questo lavoro durato anni è nato il suo primo libro, Dobri ljudi u vremenu zla (“I giusti al tempo del male”), pubblicato nel 1999. Una raccolta di 90 testimonianze – 30 per ogni gruppo etnico – di persone comuni che, nonostante differenze culturali o religiose, si sono trovate accumunate dalla brutalità della guerra. Lungi dall’essere solo una cruda narrazione, questo libro è soprattutto un messaggio di speranza, che dimostra come il male non sia mai assoluto.

Nel 2000 si è trasferita a Sarajevo, dove ha fondato Gariwosa la sezione bosniaca dell’organizzazione non governativa Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide), per promuovere l’educazione al coraggio civile. “Le persone in questa regione [i Balcani, ndr] mancano di coraggio civile, definito come la capacità di resistere, opporsi e disobbedire a tutti coloro che abusano del proprio potere per i propri scopi e violano le leggi e i diritti umani altrui”, ha affermato in un’intervista. Da allora, Svetlana Broz non ha mai smesso di combattere contro l’odio etnico e di portare la sua battaglia in giro per il mondo: ha infatti insegnato in 52 università negli Stati Uniti e 80 in Europa.

In seguito all’assassinio di Duško Kondor, docente aderente a Gariwosa, ucciso nel 2007 prima di poter testimoniare a un processo per crimini contro l’umanità, Svetlana Broz ha istituito il Premio Kondor per il coraggio civile. Per il suo impegno nel dimostrare che il coraggio civile è la base su cui costruire un futuro stabile per le nuove generazioni, e per la sua lotta contro i nazionalismi, le sono stati conferiti numerosi premi internazionali, oltre alla cittadinanza onoraria della città di Tuzla.

Un’eredità da preservare

L’attivismo di Svetlana Broz è stato una risposta concreta alle divisioni etniche e ai nazionalismi che hanno segnato e continuano a segnare la regione. Oggi, i Balcani stanno attraversando uno dei periodi più turbolenti degli ultimi anni.

Da una parte la Bosnia Erzegovina sta vivendo una situazione sempre più fragile, in cui Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del paese, continua ad alimentare la retorica della divisione e dell’odio interetnico, mettendo seriamente a rischio l’unità del paese e la stabilità dell’intera regione.

Dall’altra, in Serbia continuano le proteste contro il regime del presidente Vučić. L’ampio coinvolgimento della società civile nei movimenti di protesta fa sperare in un risveglio del coraggio civile e della capacità di resistere dei “giusti” a chi abusa del proprio potere.

In un momento storico che vede i Balcani nuovamente scossi su più fronti le battaglie di Svetlana Broz non solo restano attuali, ma rappresentano un’eredità da difendere con quel coraggio che lei stessa ha sempre cercato di ispirare nelle persone.

Martina Marazzini,East Journal,24 Marzo 2025

East Journal

GLI SCIOPERI CONTRO LA GUERRA DEL MARZO 1943: Prove generali per l’insurrezione antifascista di classe

Nel ciclo lungo del sindacalismo di Stato

Gli scioperi del marzo 1943, evento mito della narrazione antifascista, si collocano all’interno di un lungo ciclo storico che insieme registrava rotture traumatiche e continuità. La forma-sindacato storica, basata su autonomia e conflitto, era mutata da tempo; continuità sorprendenti invece, nei modi dell’azione rivendicativa dal basso, riemergevano dai gorghi delle guerre civili. Tournant novecenteschi dirompenti avevano insomma stravolto i connotati del vecchio mondo. La guerra europea era stata atto fondativo dello Stato amministrativo moderno, con la regolazione dall’alto dei conflitti sociali attraverso lo strumento normativo della Mobilitazione industriale, per la gestione primaria dell’interesse della Nazione. Da quel momento il sindacato entrava nello Stato e lo Stato entrava nel sindacato, in un connubio indissolubile, abbraccio mortale ed eterno. A seguire, con la sanguinosa sconfitta del sindacalismo “rosso” in Italia, si erano sviluppati processi di accentuata de-sindacalizzazione. La promulgazione della “Carta del lavoro” nel 1927, disegnava intanto lo Stato corporativo. Lo “sbloccamento” del 1928 comportava la delimitazione della rappresentanza all’ambito federale e il conseguente deperimento della sua dimensione politica generale e di sintesi sul territorio. Neppure l’idea corporativa, ispirata alla collaborazione di classe, era un quid novi dell’era fascista. E aveva fra l’altro salde radici nel movimento cattolico, nell’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII e nel “Fermo proposito” di Pio X.

Benché le relazioni si svolgessero in un quadro di accentuato autoritarismo, il modello che si affermava non era quindi nuovo, ma precedeva e seguiva l’arco temporale di vigenza della dittatura mussoliniana. In esso si ritrovavano: rottura del rapporto rappresentanza-tutela; fine della rappresentanza confederale e sindacale di fabbrica; scambio conflitto / contratto collettivo. La dottrina corporativa fra l’altro, terza via teorica fra capitalismo e collettivismo, rivelando la sua fragile dimensione utopica, restava sovrastata da una politica economica protezionistica, da paese industrializzato, succube dei grandi ceti imprenditoriali. E le suggestioni bolscevizzanti lanciate da Ugo Spirito nel 1932, sulla “Corporazione proprietaria” (ossia a favore delle nazionalizzazioni e contro la libera proprietà), sulla risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale, rimanevano lettera morta. Si esauriva quindi sul nascere ogni velleità di declinare “a sinistra” la dottrina corporativa. Dopo il 1945 lo Stato avrebbe restaurato la propria autorità “democratica” attraverso le istituzioni di massa, cui cedeva poteri delegati in materia sociale ed economica. In cambio il nuovo sindacato confederale avrebbe rinunciato a porsi come forza potenzialmente antisistema. Ricostruzione, ideologia produttivista e ripresa industriale sarebbero stati poi i punti cardine su cui veniva indirizzato il movimento operaio, ormai fattosi garante del supremo interesse della Nazione. Lo scenario sociale e politico, tra primo e secondo dopoguerra, radicalmente cambiato era irriconoscibile. Il sindacato, persa la sua indipendenza e autonomia, lasciava il primato al partito, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, ai tre partiti che, incardinatisi all’uopo nei primi anni Quaranta, avrebbero condizionato la gestione stessa dei sindacati per un lungo mezzo secolo, fino cioè al collasso del sistema politico con tangentopoli.

Gli scioperi del marzo 1943 erano dunque la rottura gagliarda e rabbiosa di questo stato perdurante di cose, contro la guerra fascista prima di tutto, per il pane, per il lavoro e la libertà. Ma erano anche, nel modo, un’indicazione di prospettiva per l’imminente liberazione, “stato nascente” di un futuro promesso radioso, poi rivelatosi amaro in alcuni suoi risvolti e per le evidenti continuità.

Uno sciopero ribelle e antifascista

Gli accordi di Palazzo Vidoni del 1925 tra Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni avevano sancito sul piano normativo una situazione che ormai era già stata conseguita di fatto, manu militari, con l’azione squadristica, ossia la fine formale dei sindacati liberi (USI, CGdL e CIL, ma anche le combattive federazioni SFI ferrovieri e FILM lavoratori del mare). Inoltre si sanciva l’assoluto divieto di sciopero, l’abolizione delle commissioni interne di fabbrica, l’avocazione allo Stato corporativo della rappresentanza unica del lavoro. L’abolizione ope legis della conflittualità nei rapporti di lavoro era stata infine confermata con l’entrata in vigore, nel 1931, del nuovo Codice Rocco che, espressamente (articoli 330-333, 502-508) vietava sanzionandolo lo sciopero. Questa fuga in avanti della norma giuridica, nell’era del consenso dispiegato, mera riaffermazione propagandistica della forza dello Stato fascista, di un regime prono alle esigenze della grande industria, si sarebbe in realtà dimostrata, un’autentica debolezza, specie nel contesto bellico.

Il carovita aggravato dal difficile approvvigionamento dei generi alimentari e dalla borsa nera, l’opposizione popolare alla politica guerrafondaia fascista, il malcontento generale e la rabbia per i lutti e le condizioni economiche patite dai familiari dei combattenti, i licenziamenti e la dura repressione antioperaia nel triangolo industriale del nord Italia, creavano una miscela sociale esplosiva. I pesanti bombardamenti alleati sulle città industriali italiane, divenute obiettivo militare, seminavano morte e distruzione, e, insieme alle stragi nazifasciste avrebbero costituito l’immane prezzo da pagare per una guerra ai civili devastante.

Tra il 1942 e il 1944, ivi compreso il passaggio “repubblichino”, una lunga serie di scioperi auto-organizzati e di proteste e interruzioni del lavoro nei settori industriali portanti, metallurgico, chimico ed estrattivo, si disseminava nel paese (minatori di Carbonia e del Valdarno, operai dell’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, ecc.). L’input organizzativo veniva principalmente o dalle persistenti tradizioni libertarie, socialiste e anarcosindacaliste, come nei casi milanese e del comparto minerario, o dall’attivismo clandestino di giovani militanti comunisti presenti all’interno delle stesse strutture sindacali fasciste. Protagoniste le donne. Ed era questo, si può dire, l’atto di nascita della Resistenza, ai prodromi dell’azione armata di massa.

Lo sciopero che iniziò il 5 marzo 1943 fu però il più grandioso e significativo. Incominciato alla FIAT si propagò, nell’arco di durata di dieci giorni, da Torino all’intero triangolo industriale coinvolgendo ben centomila operai. Nel capoluogo piemontese aveva riguardato man mano tutto l’assetto produttivo cittadino e del circondario, dalle Concerie alle Ferriere Piemontesi, dalle fabbriche tessili, alla Snia Viscosa e al Biscottificio Wamar…

Le richieste erano semplici: calmiere sui generi di prima necessità soprattutto alimentari, cessazione immediata della guerra, basta con la repressione nelle aziende sottoposte a una disciplina produttiva militarizzata.

La prima fabbrica a scioperare nell’area milanese era stata la Falck Concordia, reparto bulloneria, dove le forze fasciste, il giorno 22, intervenute per riportare l’ordine erano state respinte. Nell’ultima settimana di marzo le agitazioni si erano estese alle piccole fabbriche e alle grandi industrie spesso legate alla produzione bellica; a Milano: Pirelli, Alfa Romeo, Breda, Isotta Fraschini, Marelli, Caproni, Borletti, TIBB (Brown Boveri), OLAP…

La natura classista degli scioperi costituiva di per sé un vulnus notevole per il regime, perché marcava l’evidente naufragio del sistema corporativo su cui si pretendeva di fondare la struttura sociale del paese.

Vani erano stati gli interventi diretti in loco dei gerarchi per ricondurre alla ragione, con le buone o con le cattive, gli operai e le operaie ribelli. Tullio Cianetti, sottosegretario prossimo alla nomina di ministro delle Corporazioni, in visita al Cotonificio di Legnano, e Edoardo Malusardi, deputato della Camera dei fasci, ex-corridoniano e sindacalista fascista (nel dopoguerra dirigente della CISNAL), in visita alla Borletti, venivano violentemente contestati dalle operaie.

Ha raccontato Cianetti nelle sue memorie: “affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente”. Ma i ‘fascisti’ di cui parlava non erano altro che gli iscritti al sindacato di regime.

Il bilancio degli scioperi di marzo fu pesante, con arresti di massa e incarcerazioni, con cinquanta processati dai Tribunali militari territoriali, con la cattura e la deportazione in Germania di alcuni organizzatori e organizzatrici nel frattempo fattisi partigiani e partigiane.

In seguito all’evento vi era stata una riunione tempestosa del direttorio PNF a Palazzo Venezia, nella quale il Duce, imputando la responsabilità degli scioperi illegali all’incapacità degli organi e delle strutture del regime di avvertirne i sintomi premonitori, decideva di rimuovere dalle loro cariche con decorso immediato il segretario del partito Aldo Vidussoni (sostituito da Carlo Scorza), il capo della polizia Carmine Senise (cui subentrava Lorenzo Chierici), il ministro delle Corporazioni Carlo Tiengo, cui succedeva Cianetti.

“Sabotiamo la mobilitazione hitleriana e imponiamo la pace immediata”: così era intitolato il manifestino clandestino firmato Comitato per la Pace e la Libertà, datato Marzo 1943. “Il popolo – così scriveva – non deve attendere che a liberarci vengano gli anglo-americani o i russi. Sarebbe un’umiliazione: spetta a noi italiani scuotere il giogo che ci opprime da vent’anni. Spetta a noi cacciare via il fascismo dal governo del nostro paese, cacciar via i tedeschi che calpestano il nostro suolo”. E proseguiva invitando a sabotare e boicottare la macchina da guerra fascista, a non consegnare agli ammassi i prodotti agricoli e a non pagare tasse e imposte, a disertare e a rifiutarsi di combattere una guerra altrui, a ostacolare con ogni mezzo il trasporto di truppe e di materiale bellico.

La controparte, intimorita dagli scioperi, faceva un ultimo tentativo di ammansire le maestranze in agitazione concedendo “limitatamente alla durata della guerra” sia alle categorie interessate dall’azione nemica, sia quelle non interessate, delle particolari e graduate indennità giornaliere legate alla presenza. Ormai però era troppo tardi.

Giorgio Sacchetti

L'articolo GLI SCIOPERI CONTRO LA GUERRA DEL MARZO 1943: Prove generali per l’insurrezione antifascista di classe proviene da .

Balcani. Chi era Svetlana Broz e cosa ci ha insegnato sul coraggio civile

Il 22 marzo scorso è venuta a mancare Svetlana Broz. Cardiologa, scrittrice e attivista per i diritti umani, durante e dopo le guerre jugoslave si è battuta per promuovere un sentimento di solidarietà interetnica e di coraggio civile nella regione.

Chi era Svetlana Broz?

Nata a Belgrado il 7 luglio 1955, Svetlana Broz era la figlia minore di Žarko Leon Broz e Zlata Jelinek, originaria di Tuzla, in Bosnia Erzegovina. Un cognome, il suo, che porta con sé tutto il peso della storia jugoslava: Svetlana era infatti la nipote di Josip Broz, il maresciallo Tito, leader della lotta partigiana contro il nazi-fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale e presidente della Jugoslavia fino alla sua morte nel 1980. Durante un intervento nella trasmissione televisiva Face To Face del 6 aprile 2024, quando le è stato chiesto cosa Tito avesse lasciato in eredità alla sua famiglia, ha risposto così: “Di materiale, nulla. Ci ha lasciato qualcosa di non materiale: l’antifascismo. Fino a che respireremo, ci batteremo contro i fascisti”.

Per quanto riguarda la sua carriera, tra il 1970 e il 1975 Svetlana Broz ha lavorato come giornalista indipendente, per poi laurearsi in medicina nel 1980, specializzandosi in cardiologia. L’anno seguente è entrata a far parte dell’Accademia medica militare, dove ha lavorato fino al 1999 e, dopo l’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina nel 1992, ha prestato assistenza medica alle popolazioni colpite dal conflitto, durato fino al 1995.

Contro ogni divisione

Proprio durante il periodo in Bosnia Erzegovina, Svetlana Broz ha avuto modo di entrare in contatto con pazienti di ogni etnia – serbi, croati, bosgnacchi (bosniaci musulmani) – e di conoscere le loro storie. Ispirata dalle loro esperienze di solidarietà interetnica, in cui le persone hanno trovato il coraggio di superare le divisioni, Svetlana Broz ha iniziato a raccogliere le loro testimonianze.

Da questo lavoro durato anni è nato il suo primo libro, Dobri ljudi u vremenu zla (“I giusti al tempo del male”), pubblicato nel 1999. Una raccolta di 90 testimonianze – 30 per ogni gruppo etnico – di persone comuni che, nonostante differenze culturali o religiose, si sono trovate accumunate dalla brutalità della guerra. Lungi dall’essere solo una cruda narrazione, questo libro è soprattutto un messaggio di speranza, che dimostra come il male non sia mai assoluto.

Nel 2000 si è trasferita a Sarajevo, dove ha fondato Gariwosa la sezione bosniaca dell’organizzazione non governativa Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide), per promuovere l’educazione al coraggio civile. “Le persone in questa regione [i Balcani, ndr] mancano di coraggio civile, definito come la capacità di resistere, opporsi e disobbedire a tutti coloro che abusano del proprio potere per i propri scopi e violano le leggi e i diritti umani altrui”, ha affermato in un’intervista. Da allora, Svetlana Broz non ha mai smesso di combattere contro l’odio etnico e di portare la sua battaglia in giro per il mondo: ha infatti insegnato in 52 università negli Stati Uniti e 80 in Europa.

In seguito all’assassinio di Duško Kondor, docente aderente a Gariwosa, ucciso nel 2007 prima di poter testimoniare a un processo per crimini contro l’umanità, Svetlana Broz ha istituito il Premio Kondor per il coraggio civile. Per il suo impegno nel dimostrare che il coraggio civile è la base su cui costruire un futuro stabile per le nuove generazioni, e per la sua lotta contro i nazionalismi, le sono stati conferiti numerosi premi internazionali, oltre alla cittadinanza onoraria della città di Tuzla.

Un’eredità da preservare

L’attivismo di Svetlana Broz è stato una risposta concreta alle divisioni etniche e ai nazionalismi che hanno segnato e continuano a segnare la regione. Oggi, i Balcani stanno attraversando uno dei periodi più turbolenti degli ultimi anni.

Da una parte la Bosnia Erzegovina sta vivendo una situazione sempre più fragile, in cui Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del paese, continua ad alimentare la retorica della divisione e dell’odio interetnico, mettendo seriamente a rischio l’unità del paese e la stabilità dell’intera regione.

Dall’altra, in Serbia continuano le proteste contro il regime del presidente Vučić. L’ampio coinvolgimento della società civile nei movimenti di protesta fa sperare in un risveglio del coraggio civile e della capacità di resistere dei “giusti” a chi abusa del proprio potere.

In un momento storico che vede i Balcani nuovamente scossi su più fronti le battaglie di Svetlana Broz non solo restano attuali, ma rappresentano un’eredità da difendere con quel coraggio che lei stessa ha sempre cercato di ispirare nelle persone.

Martina Marazzini,East Journal,24 Marzo 2025

East Journal

GLI SCIOPERI CONTRO LA GUERRA DEL MARZO 1943: Prove generali per l’insurrezione antifascista di classe

Nel ciclo lungo del sindacalismo di Stato

Gli scioperi del marzo 1943, evento mito della narrazione antifascista, si collocano all’interno di un lungo ciclo storico che insieme registrava rotture traumatiche e continuità. La forma-sindacato storica, basata su autonomia e conflitto, era mutata da tempo; continuità sorprendenti invece, nei modi dell’azione rivendicativa dal basso, riemergevano dai gorghi delle guerre civili. Tournant novecenteschi dirompenti avevano insomma stravolto i connotati del vecchio mondo. La guerra europea era stata atto fondativo dello Stato amministrativo moderno, con la regolazione dall’alto dei conflitti sociali attraverso lo strumento normativo della Mobilitazione industriale, per la gestione primaria dell’interesse della Nazione. Da quel momento il sindacato entrava nello Stato e lo Stato entrava nel sindacato, in un connubio indissolubile, abbraccio mortale ed eterno. A seguire, con la sanguinosa sconfitta del sindacalismo “rosso” in Italia, si erano sviluppati processi di accentuata de-sindacalizzazione. La promulgazione della “Carta del lavoro” nel 1927, disegnava intanto lo Stato corporativo. Lo “sbloccamento” del 1928 comportava la delimitazione della rappresentanza all’ambito federale e il conseguente deperimento della sua dimensione politica generale e di sintesi sul territorio. Neppure l’idea corporativa, ispirata alla collaborazione di classe, era un quid novi dell’era fascista. E aveva fra l’altro salde radici nel movimento cattolico, nell’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII e nel “Fermo proposito” di Pio X.

Benché le relazioni si svolgessero in un quadro di accentuato autoritarismo, il modello che si affermava non era quindi nuovo, ma precedeva e seguiva l’arco temporale di vigenza della dittatura mussoliniana. In esso si ritrovavano: rottura del rapporto rappresentanza-tutela; fine della rappresentanza confederale e sindacale di fabbrica; scambio conflitto / contratto collettivo. La dottrina corporativa fra l’altro, terza via teorica fra capitalismo e collettivismo, rivelando la sua fragile dimensione utopica, restava sovrastata da una politica economica protezionistica, da paese industrializzato, succube dei grandi ceti imprenditoriali. E le suggestioni bolscevizzanti lanciate da Ugo Spirito nel 1932, sulla “Corporazione proprietaria” (ossia a favore delle nazionalizzazioni e contro la libera proprietà), sulla risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale, rimanevano lettera morta. Si esauriva quindi sul nascere ogni velleità di declinare “a sinistra” la dottrina corporativa. Dopo il 1945 lo Stato avrebbe restaurato la propria autorità “democratica” attraverso le istituzioni di massa, cui cedeva poteri delegati in materia sociale ed economica. In cambio il nuovo sindacato confederale avrebbe rinunciato a porsi come forza potenzialmente antisistema. Ricostruzione, ideologia produttivista e ripresa industriale sarebbero stati poi i punti cardine su cui veniva indirizzato il movimento operaio, ormai fattosi garante del supremo interesse della Nazione. Lo scenario sociale e politico, tra primo e secondo dopoguerra, radicalmente cambiato era irriconoscibile. Il sindacato, persa la sua indipendenza e autonomia, lasciava il primato al partito, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, ai tre partiti che, incardinatisi all’uopo nei primi anni Quaranta, avrebbero condizionato la gestione stessa dei sindacati per un lungo mezzo secolo, fino cioè al collasso del sistema politico con tangentopoli.

Gli scioperi del marzo 1943 erano dunque la rottura gagliarda e rabbiosa di questo stato perdurante di cose, contro la guerra fascista prima di tutto, per il pane, per il lavoro e la libertà. Ma erano anche, nel modo, un’indicazione di prospettiva per l’imminente liberazione, “stato nascente” di un futuro promesso radioso, poi rivelatosi amaro in alcuni suoi risvolti e per le evidenti continuità.

Uno sciopero ribelle e antifascista

Gli accordi di Palazzo Vidoni del 1925 tra Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni avevano sancito sul piano normativo una situazione che ormai era già stata conseguita di fatto, manu militari, con l’azione squadristica, ossia la fine formale dei sindacati liberi (USI, CGdL e CIL, ma anche le combattive federazioni SFI ferrovieri e FILM lavoratori del mare). Inoltre si sanciva l’assoluto divieto di sciopero, l’abolizione delle commissioni interne di fabbrica, l’avocazione allo Stato corporativo della rappresentanza unica del lavoro. L’abolizione ope legis della conflittualità nei rapporti di lavoro era stata infine confermata con l’entrata in vigore, nel 1931, del nuovo Codice Rocco che, espressamente (articoli 330-333, 502-508) vietava sanzionandolo lo sciopero. Questa fuga in avanti della norma giuridica, nell’era del consenso dispiegato, mera riaffermazione propagandistica della forza dello Stato fascista, di un regime prono alle esigenze della grande industria, si sarebbe in realtà dimostrata, un’autentica debolezza, specie nel contesto bellico.

Il carovita aggravato dal difficile approvvigionamento dei generi alimentari e dalla borsa nera, l’opposizione popolare alla politica guerrafondaia fascista, il malcontento generale e la rabbia per i lutti e le condizioni economiche patite dai familiari dei combattenti, i licenziamenti e la dura repressione antioperaia nel triangolo industriale del nord Italia, creavano una miscela sociale esplosiva. I pesanti bombardamenti alleati sulle città industriali italiane, divenute obiettivo militare, seminavano morte e distruzione, e, insieme alle stragi nazifasciste avrebbero costituito l’immane prezzo da pagare per una guerra ai civili devastante.

Tra il 1942 e il 1944, ivi compreso il passaggio “repubblichino”, una lunga serie di scioperi auto-organizzati e di proteste e interruzioni del lavoro nei settori industriali portanti, metallurgico, chimico ed estrattivo, si disseminava nel paese (minatori di Carbonia e del Valdarno, operai dell’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, ecc.). L’input organizzativo veniva principalmente o dalle persistenti tradizioni libertarie, socialiste e anarcosindacaliste, come nei casi milanese e del comparto minerario, o dall’attivismo clandestino di giovani militanti comunisti presenti all’interno delle stesse strutture sindacali fasciste. Protagoniste le donne. Ed era questo, si può dire, l’atto di nascita della Resistenza, ai prodromi dell’azione armata di massa.

Lo sciopero che iniziò il 5 marzo 1943 fu però il più grandioso e significativo. Incominciato alla FIAT si propagò, nell’arco di durata di dieci giorni, da Torino all’intero triangolo industriale coinvolgendo ben centomila operai. Nel capoluogo piemontese aveva riguardato man mano tutto l’assetto produttivo cittadino e del circondario, dalle Concerie alle Ferriere Piemontesi, dalle fabbriche tessili, alla Snia Viscosa e al Biscottificio Wamar…

Le richieste erano semplici: calmiere sui generi di prima necessità soprattutto alimentari, cessazione immediata della guerra, basta con la repressione nelle aziende sottoposte a una disciplina produttiva militarizzata.

La prima fabbrica a scioperare nell’area milanese era stata la Falck Concordia, reparto bulloneria, dove le forze fasciste, il giorno 22, intervenute per riportare l’ordine erano state respinte. Nell’ultima settimana di marzo le agitazioni si erano estese alle piccole fabbriche e alle grandi industrie spesso legate alla produzione bellica; a Milano: Pirelli, Alfa Romeo, Breda, Isotta Fraschini, Marelli, Caproni, Borletti, TIBB (Brown Boveri), OLAP…

La natura classista degli scioperi costituiva di per sé un vulnus notevole per il regime, perché marcava l’evidente naufragio del sistema corporativo su cui si pretendeva di fondare la struttura sociale del paese.

Vani erano stati gli interventi diretti in loco dei gerarchi per ricondurre alla ragione, con le buone o con le cattive, gli operai e le operaie ribelli. Tullio Cianetti, sottosegretario prossimo alla nomina di ministro delle Corporazioni, in visita al Cotonificio di Legnano, e Edoardo Malusardi, deputato della Camera dei fasci, ex-corridoniano e sindacalista fascista (nel dopoguerra dirigente della CISNAL), in visita alla Borletti, venivano violentemente contestati dalle operaie.

Ha raccontato Cianetti nelle sue memorie: “affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente”. Ma i ‘fascisti’ di cui parlava non erano altro che gli iscritti al sindacato di regime.

Il bilancio degli scioperi di marzo fu pesante, con arresti di massa e incarcerazioni, con cinquanta processati dai Tribunali militari territoriali, con la cattura e la deportazione in Germania di alcuni organizzatori e organizzatrici nel frattempo fattisi partigiani e partigiane.

In seguito all’evento vi era stata una riunione tempestosa del direttorio PNF a Palazzo Venezia, nella quale il Duce, imputando la responsabilità degli scioperi illegali all’incapacità degli organi e delle strutture del regime di avvertirne i sintomi premonitori, decideva di rimuovere dalle loro cariche con decorso immediato il segretario del partito Aldo Vidussoni (sostituito da Carlo Scorza), il capo della polizia Carmine Senise (cui subentrava Lorenzo Chierici), il ministro delle Corporazioni Carlo Tiengo, cui succedeva Cianetti.

“Sabotiamo la mobilitazione hitleriana e imponiamo la pace immediata”: così era intitolato il manifestino clandestino firmato Comitato per la Pace e la Libertà, datato Marzo 1943. “Il popolo – così scriveva – non deve attendere che a liberarci vengano gli anglo-americani o i russi. Sarebbe un’umiliazione: spetta a noi italiani scuotere il giogo che ci opprime da vent’anni. Spetta a noi cacciare via il fascismo dal governo del nostro paese, cacciar via i tedeschi che calpestano il nostro suolo”. E proseguiva invitando a sabotare e boicottare la macchina da guerra fascista, a non consegnare agli ammassi i prodotti agricoli e a non pagare tasse e imposte, a disertare e a rifiutarsi di combattere una guerra altrui, a ostacolare con ogni mezzo il trasporto di truppe e di materiale bellico.

La controparte, intimorita dagli scioperi, faceva un ultimo tentativo di ammansire le maestranze in agitazione concedendo “limitatamente alla durata della guerra” sia alle categorie interessate dall’azione nemica, sia quelle non interessate, delle particolari e graduate indennità giornaliere legate alla presenza. Ormai però era troppo tardi.

Giorgio Sacchetti

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