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La svolta del 2024 e 2025 per l’Ucraina: la diserzione è diventata la tendenza dominante a livello nazionale

Il testo che segue è la traduzione di un reportage uscito a firma del Gruppo Assembly – Kharkiv, assembly.org.ua 

Il rapido collasso dell’esercito di Bashar al-Assad in Siria, che si è sgretolato tra il 27 novembre e l’8 dicembre, ha attirato molta attenzione in Ucraina. Per moltə nel Paese, è diventato l’evento principale della fine del 2024. Si è creata una situazione paradossale: la propaganda ufficiale ucraina elogia i successi delle forze filo-NATO e filo-turche contro Assad come una brillante vittoria sulla Russia, mentre allo stesso tempo lo stesso dittatore ucraino sostenuto dalla NATO rischia sempre più di seguire il destino di Assad.

Negli ultimi giorni di novembre, i media mondiali in lingua inglese hanno confermato ciò che Assembly aveva denunciato durante tutto l’autunno. ABC News, citando “un legislatore esperto di questioni militari”, ha scritto che in Ucraina potrebbero esserci addirittura 200.000 disertori e che “si tratta di un numero sconcertante da qualsiasi punto di vista, visto che si stima che ci fossero 300.000 soldati ucraini impegnati in combattimento prima dell’inizio della mobilitazione“. Ha anche riconosciuto che la diserzione è stata una delle ragioni principali della caduta di Ugledar [Vuhledar]. Il Financial Times ha aggiunto che alcuni di coloro che hanno abbandonato la 123ª Brigata di Difesa Territoriale a causa della loro riluttanza a difendere Ugledar sono già tornati al fronte, mentre altri si nascondono e altri ancora sono stati arrestati. Lo stesso articolo riporta anche, citando un esponente del servizio di sicurezza polacco che vuole restare anonimo, che ogni mese una media di 12 soldati ucraini disertano dai campi di addestramento in Polonia. Cosa di cui avevamo relazionato già da tempo.

Secondo l’Ufficio del Procuratore generale dell’Ucraina, nel mese di novembre del 2024 sono stati registrati 18.984 nuovi procedimenti penali ai sensi degli articoli 407 e 408 del Codice penale ucraino (abbandono non autorizzato di un’unità e diserzione). Si tratta di un numero quasi doppio rispetto a ottobre 2024, quando sono stati registrati 9.487 casi in base a questi stessi articoli. Nel dicembre 2024 sono stati registrati 17.593. Nel gennaio sempre dello scorso anno, i procedimenti erano solo 3.448. In totale, dal febbraio 2022 al 1° dicembre di quest’anno, sono già stati registrati 114.280 procedimenti penali per casi di diserzione e assenza dal servizio. Il giornalista pro-Trump di stanza a Kiev Volodymyr Boiko, anch’egli combattente nella 241ª Brigata di Difesa Territoriale, ha pubblicato un post al riguardo il 7 dicembre:

L’esercito ucraino può essere già considerato defunto. Inoltre, anche se sono state registrate nel mese di novembre 2024 19.000 segnalazioni [di fughe], ciò non significa affatto che questo sia il numero reale di militari che hanno disertato. 19.000 è, infatti, il numero più alto possibile che può essere registrato in questa categoria di reati. Perché in ogni caso, il comandante dell’unità militare deve prima istruire un’indagine ufficiale, esaminare e approvare i risultati dell’indagine ufficiale, inviare un rapporto sul reato commesso all’Ufficio investigativo dello Stato o a un ufficio dedicato della procura, e lì il rapporto deve essere esaminato e infine registrato. Le unità militari non dispongono di un numero di specialisti tale da poter condurre indagini ufficiali di tale entità, né l’ufficio del procuratore e l’ufficio investigativo dello Stato hanno dipendenti sufficienti per inserire nel registro decine di migliaia di rapporti sulla diserzione”.

In questo contesto, il 21 novembre è stata approvata la legge 4087-IX ed è entrata in vigore il 29. Secondo questa nuova legge, coloro che si rendono colpevoli di abbandono non autorizzato della propria unità (SZCh in ucraino, SOCh in russo) o di diserzione non solo possono tornare volontariamente a prestare servizio senza essere puniti penalmente, ma anche possono continuare il servizio militare obbligatorio o a contratto. L’unico obbligo era quello di rientrare in forza entro il 1° gennaio 2025. Poi il Parlamento ha prorogato il termine per il ritorno senza responsabilità penale fino al 1° marzo 2025 – a quanto pare, non sono in molti a volerlo fare.

Il mese scorso, una conduttrice del canale YouTube delle donne militari ucraine ha raccontato che nei pressi di Kupyansk, nella regione di Kharkov, quasi tutta la seconda compagnia del 152° Battaglione della 117° Brigata di Difesa Territoriale ha disertato a causa del loro “comandante macellaio”. Il corrispondente di guerra ucraino Yury Butusov ha raccontato lo scandalo della 155ª Brigata meccanizzata “Anna di Kiev”, addestrata in Francia e inviata a Pokrovsk. Sono state reclutate diverse migliaia di persone che erano state costrette a salire sugli autobus per la leva, e più di mille di loro “sono tornati a casa immediatamente dopo l’arrivo”. Nel post del 31 dicembre, spiega che ancor prima che la brigata avesse sparato il primo colpo, 1.700 militari se ne sono andati senza permesso. In seguito, l’Ufficio di Stato per le indagini ha iniziato ad esaminare quanto accaduto. Secondo Butusov, la 155ª Brigata si è addestrata in Francia a ottobre. Già allora 935 uomini aveva abbandonato l’unità senza permesso. In seguito, più di 50 soldati si sono dileguati. Per questa scandalosa formazione sono stati spesi più di 900 milioni di euro. Meno noto è che l’8 gennaio l’Ufficio di Stato per le indagini ha arrestato un tenente superiore di questa brigata, per aver abbandonato l’unità e ha incitato i suoi sottoposti a fare altrettanto. È stato portato dalla regione di Rivne a Kiev e messo in custodia senza cauzione.  “Si è presentato un suo collega di lavoro, è stato costretto a salire su un autobus. [È stato] mobilitato in primavera, ed è scappato dal fronte di Zaporozhye. Ha detto che, quando hanno cominciato a essere fatti a pezzi con tutto quello che avevano, hanno deciso di tornare a casa. L’intera compagnia è entrata in SZCh insieme al loro comandante. Che senso ha se vengono catturati? Non importa. Ora è a casa. Vivo”, ha scritto qualcuno il 18 dicembre nella chat locale di Saltovka [Saltivka è una vasta area residenziale situata nella regione nord-orientale di Kharkiv].

Il 25 novembre, alcuni dei meccanismi utilizzati per combattere la fuga delle reclute sono stati descritti nel gruppo pubblico UFM di Telegram, nato per l’aiuto reciproco per attraversare il confine evitando i posti di blocco.

Il problema principale dei campi di addestramento è che lì tutti si controllano l’un l’altro, perché nelle formazioni ti dicono subito che lo SZCh è riprovevole e che per uno SZCh non riuscito ti picchieranno duramente. E parlano subito di responsabilità collettiva: se qualcuno lascia la tua tenda, allora ricorreranno brutalmente tutti quelli che sono nella tenda.
Il plotone vicino è stato inseguito tutta la notte quando uno di loro è scappato. Sono stati inseguiti nelle trincee per tutta la notte, come un grido d’allarme, svegliati con granate da addestramento, flessioni con l’intera compagnia in tenuta completa, in breve, scherniranno tutti fino in fondo, in modo che tutti sappiano che, se il tuo compagno d’armi scappa, per te ci sarà l’inferno. […].

Tuttavia, un disertore della regione di Kiev, che ha voluto rimanere anonimo, ha un’esperienza leggermente diversa:

“Certo, c’è un fondo di verità in tutto questo. Ma non tutto è così nero. Ora i campi di addestramento sono composti quasi al 100% da persone che sono state mobilitate con la forza. Le compagnie di addestramento sono leggermente diluite con idioti ideologici e zelanti ed anche con donne. Il restante 99% è costituito da potenziali SZCh. E questo lo sanno tutti molto bene. E questa è già una base di solidarietà. Nella mia compagnia al campo di addestramento di Yavoriv, quando un altro soldato scompariva, molti gli auguravano buona fortuna ad alta voce. E questo accadeva quasi ogni giorno. Naturalmente, venivamo tormentati quando dovevamo correre nelle trincee, quando ci portavano via le razioni e tutto il resto. Ma dato che ogni giorno qualcuno fuggiva, non so proprio cosa sarebbe successo se nessuno fosse fuggito.
Sono stato preso il 17 giugno. Sono fuggito il 30 giugno. Sono partito per la Romania il 25 settembre. […]”.

Coloro che vengono arrestati a Kharkov vengono solitamente inviati per l’addestramento non nella parte occidentale del Paese, ma nella regione di Dnepropetrovsk, a est. Questa testimonianza del 29 novembre racconta cosa li aspetta:

L’altro ieri un compagno è stato impacchettato [dalla strada], ieri era già in addestramento, a Dnipro, a 120 km dal fronte. Il convoglio è stato notevolmente rinforzato, è impossibile fuggire, come in un campo di concentramento. Il giovane pastore è stato picchiato, perché si era rifiutato di arruolarsi… La mobilitazione dei sacerdoti, come vediamo, è più importante della mobilitazione della polizia.
È quello che sta succedendo ora… E coloro che si rifiutano di agire vengono mandati a zero [all’avanguardia in prima linea]. Una compagnia di avatar [soldati che bevono]. Sono scomparsi senza lasciare traccia… Senza documenti, senza carta di circolazione. Sono stati semplicemente rapiti e fatti a pezzi. Brutalmente. Ti tolgono i telefoni, i documenti, non gliene frega niente di dove vuoi andare. Se non sei un vice, non gliene frega niente. C’era un tizio, un pastore, l’hanno buttato a terra, picchiato… L’hanno portato a zero da qualche parte… È pieno di sorveglianza, e posti di blocco in città, e sparsi ovunque. [Si poteva andare in bagno solo con un anziano. Si può andare in negozio – con uno scontrino e solo con un anziano, al massimo di 5 persone alla volta
…”.

Se tutto questo è vero, significa che il metodo di “portare a distanza zero” è utilizzato nelle truppe ucraine per sbarazzarsi degli indesiderabili, come avviene nelle unità russe sul fronte orientale. […]

Anche le ribellioni individuali contro lo Stato e la guerra sono diventate più frequenti dopo il calo iniziale dell’autunno. A novembre abbiamo registrato almeno quattro casi nella sola Kharkiv. In particolare, un uomo di 39 anni, dopo essere fuggito dall’esercito un anno e mezzo fa, ha affrontato con le armi i poliziotti giunti nel suo appartamento in risposta alla sua minaccia di uccidere un poliziotto di pattuglia. Aveva un fucile automatico, una pistola e delle granate. Tuttavia, è stato preso in custodia senza sparare un colpo. Il 27 novembre, nel villaggio di Trostyanets, nella regione di Vinnytsia, un uomo di 57 anni si è presentato al centro di arruolamento in risposta a una convocazione e ha accoltellato alla clavicola destra un sergente di 53 anni della struttura, mandandolo in terapia intensiva con ferite alle arterie. “Perché voleva mandarmi in guerra”, ha spiegato l’uomo. La notte del 28 dicembre, tre veicoli della guardia di frontiera sono stati incendiati nella città di Chop al confine della Transcarpazia: Mazda, Peugeot e KIA. Un residente locale di 22 anni, dopo essere stato fermato dalla polizia, ha spiegato il suo gesto durante l’interrogatorio indicando le sue “rapporti ostili” con i proprietari dei mezzi.

Alle 20 circa del 13 gennaio, in una delle strade principali di Kharkiv, le persone hanno bloccato la strada a un “autobus dell’invincibilità” del centro di arruolamento distrettuale. Due uomini e una donna sono scesi da auto civili, uno di loro aveva una pistola da starter (quella delle competizioni). Dopo aver rotto il finestrino del furgone con la pistola, hanno ingaggiato una lotta con i pixel [I soldati ucraini, carichi di equipaggiamento all’avanguardia, sono soprannominati «cyborg», le loro divise «pixel» per la texture]. I poliziotti hanno arrestato il proprietario della pistola e sequestrato la sua auto. Si tratterebbe di un imprenditore di 49 anni, venuto a salvare il nipote. […].

Il 25 novembre, una guardia di frontiera della regione di Khmelnytsky è stata condannata a 12 anni di carcere per l’omicidio premeditato del suo diretto superiore (il capo del gruppo di comunicazione). Il sergente junior di 36 anni, che prestava servizio come tecnico-autista ed era stato mobilitato per il Servizio di frontiera dello Stato nell’agosto 2023, si è recato in servizio con un’arma il 6 febbraio dello scorso anno e durante il servizio ha incontrato il comandante, con il quale aveva un rapporto non amichevole. Dopo di che, è andato con lui verso la mensa e gli ha sparato allo stomaco con un AK-74. Il colonnello è morto sul posto […].

Naturalmente, ci sono diverse notizie simili dall’altro lato del fronte. Infatti, il 29 ottobre, alcuni criminali reclutati per il fronte da un centro di detenzione preventiva e fuggiti dalle loro unità hanno quasi ucciso un rappresentante delle autorità della regione di Leningrado. Come ha scritto il sito locale 47news, il giorno dopo, si trattava del trentenne Aleksandr Igumenov, del trentenne Mark Frolov e del trentasettenne Vladimir Nikin. “Il comandante del gruppo investigativo del Ministero della Difesa ha già delineato le circostanze in un rapporto: si sono mossi verso la casa nel villaggio di Yanino, nel distretto di Vsevolozhsk. Gli ufficiali hanno controllato attentamente il pianerottolo e hanno iniziato ad aspettarlo vicino alla casa. Quando è apparso, l’ufficiale e i suoi subordinati sono saltati in piedi, ma si è scoperto che Igumenov non era solo. C’erano altre due persone con lui. Igumenov ha preso una pistola, ha praticamente puntato la canna sulla fronte dell’ufficiale e ha delineato in modo specifico le prospettive possibili: o se ne vanno e li lasciano andare, o il Ministero della Difesa perderà diversi graduati e un ufficiale. Come si legge nei documenti, “per evitare perdite tra i civili” il gruppo accettò la richiesta e si ritirò. O meglio, ha fatto finta di ritirarsi, chiamando i rinforzi. Gli stessi dipendenti del Ministero della Difesa si sono appostati intorno alla casa nel caso in cui il trio fosse saltato fuori, ad esempio, dalle finestre. L’irruzione delle forze speciali è stata di routine. Hanno sfondato la porta, picchiandoli violentemente. Tutti e tre erano sotto l’effetto di droghe. Oggi sono iniziati gli interrogatori nel Comitato Investigativo Militare esclusivamente nell’ambito dell’articolo 338 del Codice penale – “Diserzione”.” Ognuno di loro ha diverse condanne, soprattutto per furto”.

Il 25 ottobre, nei pressi del villaggio di Kremyanoye nella regione di Kursk, Dmitry Slepnyov, vicecomandante del 2° battaglione motorizzato di fucilieri della 810ª brigata di marina (unità militare 13140 di Sebastopoli), sarebbe stato ucciso da un suo soldato. Durante una riunione di servizio in un posto di osservazione, il capitano ha avuto un conflitto verbale con il soldato Alexander Ryabov. Quest’ultimo ha sparato all’ufficiale tre colpi alla testa con un AK-74. La notizia è stata pubblicata da fonti ucraine, senza alcuna conferma da parte russa.

La sera del 12 novembre, dieci contractors sono fuggiti senza armi dall’unità militare 57849 di stanza nell’insediamento lavorativo di Kochenyovo, vicino a Novosibirsk. Secondo il sito web locale NGS, “vi erano state assegnate circa 30 persone provenienti da tutto il Distretto militare centrale, che in precedenza avevano lasciato arbitrariamente e senza permesso le loro unità militari”. La maggior parte proveniva dal Territorio di Krasnodar. I soldati hanno distrutto la sede dell’unità con la scritta “Guardate, qui c’è una rivolta” e l’hanno filmata, hanno lasciato il villaggio in taxi e sono stati poi tutti arrestati. Prima di questo fatto, alcuni dei fuggiaschi avrebbero chiesto assistenza medica, e il motivo della rivolta era che non volevano essere rimandati al fronte. Secondo le informazioni dei canali Telegram, al 15 novembre più di un centinaio di titolari dello status di SOCh di questa unità sono stati comunque trasportati a Rostov-sul-Don.

La notte del 20 dicembre, cinque militari sono morti e sette sono stati ricoverati in ospedale per inalazione di fumo a causa di un incendio nel centro di detenzione di Vilyuisk Lane a Yakutsk. In questa struttura, i soldati detenuti perché si erano assentati senza permesso (AWOL) erano imprigionati e torturati. Secondo i servizi di emergenza e le autorità russe, i prigionieri hanno appiccato il fuoco all’edificio mentre cercavano di fuggire. In totale, c’erano diverse decine di detenuti. Nella primavera del 2024 ci sono state lamentele sulle condizioni di detenzione. Durante l’ispezione della Procura militare della Guarnigione di Yakutsk, sono state rilevate numerose violazioni della legislazione federale e sono stati emessi degli ordini di servizio per eliminare tali violazioni […].

In un modo o nell’altro, nel novembre 2024 le truppe russe hanno conquistato un territorio 4,7 volte superiore a quello dell’intero 2023. Nei primi quattro giorni del 2025, hanno già conquistato otto villaggi a sud di Pokrovsk e mancano solo alcuni chilometri al confine con la regione di Dnepropetrovsk, dove non ci sono ancora state ostilità e le fortificazioni sono minime. Nonostante la situazione sia così critica, la popolazione ucraina non ha manifestato alcuna impennata patriottica. Troppi lavoratori non vedono più alcuna particolare differenza su chi li deruberà.

17 gennaio 2025

Da libcom: https://libcom.org/article/turn-2024-and-2025-ukraine-desertion-has-become-nationwide-mainstream

 

Trad. per conto di CRINT-FAI

 

Immagine: Un momento delle manifestazioni congiunte di tutti gli oppositori alla guerra ucraini, russi e locali tenutesi il 21 dicembre a Berlino, Colonia e Parigi. Da: https://nowar.solidarite.online/blog/de-paris-%C3%A0-cologne-en-passant-par-berlin-d%C3%A9serteurs-de-tous-les-pays-unissez-vous

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La maniera forte. La “pace” di Trump somiglia alla guerra di Biden

Alla fine di gennaio Scott Ritter ha pubblicato un articolo assai interessante sul prezzo del petrolio russo.

Scott Ritter è un ex membro del servizio segreto del corpo dei marines USA ed ex ispettore dell’ONU; ha preso spesso posizioni critiche verso la politica estera USA. In questo articolo se la prende con il post di Trump in cui il neopresidente annunciava il suo piano di pace per l’Ucraina. Secondo Ritter questo piano non ha alcuna speranza di essere accolto e al presidente USA non resterebbe che applicare la maniera forte, già minacciata nel post.

In cosa consisterebbe questa “maniera forte”?

Secondo Scott Bessent, nuovo segretario al Tesoro di Donald Trump, la risposta sta nell’inasprimento delle sanzioni contro l’industria petrolifera russa. Ma Bessent dovrà fare i conti con una narrazione con cui gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno venduto in modo eccessivo le sanzioni come strumento per distruggere l’economia russa. Inoltre, dato lo status della Russia come principale produttore di petrolio, qualsiasi applicazione di sanzioni potrebbe avere un impatto economico negativo sugli Stati Uniti.

Questo aspetto sembra essere sfuggito all’attenzione di Keith Kellogg, il guru degli “accordi di pace” di Trump. Osservando che, sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno imposto un tetto di 60 dollari al barile al petrolio russo (il prezzo di mercato del petrolio si aggira intorno ai 78 dollari al barile), Kellogg ha osservato che, nonostante ciò, “la Russia guadagna miliardi di dollari dalle vendite di petrolio”.

“E se”, ha aggiunto Kellogg durante un’intervista a Fox News, ‘si abbassasse il prezzo a 45 dollari al barile, che è essenzialmente il punto di pareggio?’.

La domanda è: “punto di pareggio” per chi?

Il concetto di “punto di pareggio”, quando si parla di Russia, ha un aspetto duplice. Il primo aspetto è rappresentato dal prezzo del petrolio che la Russia, che dipende fortemente dalla vendita di petrolio per la sua economia nazionale, deve raggiungere per pareggiare il bilancio nazionale. Questo prezzo è stimato intorno ai 77 dollari al barile per il 2025. Non ci sono dubbi: se il prezzo del petrolio scendesse a 45 dollari al barile, la Russia si troverebbe ad affrontare una crisi di bilancio. Ma non una crisi di produzione petrolifera.

Il secondo aspetto del “punto di pareggio” per la Russia è il costo di produzione di un barile di petrolio, che attualmente è fissato a 41 dollari al barile. La Russia sarebbe in grado di produrre petrolio senza interruzioni se Kellogg riuscisse a raggiungere il suo obiettivo di ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile.

Per raggiungere l’obiettivo, Trump dovrebbe far salire i sauditi sul carro della manipolazione del prezzo del petrolio. Il problema è che i sauditi hanno il loro “punto di pareggio”. Per pareggiare il bilancio, l’Arabia Saudita ha bisogno che il petrolio sia venduto a circa 85 dollari al barile. Ma il costo di produzione del petrolio in Arabia Saudita è molto basso, intorno ai 10 dollari al barile. Se volesse, l’Arabia Saudita potrebbe semplicemente inondare il mercato di petrolio a basso costo. Anche la Russia potrebbe farlo.

E gli Stati Uniti? Il bacino di Permian, nel Texas occidentale, rappresenta la totalità della crescita della produzione petrolifera statunitense dal 2020. Nel 2024, per rendere redditizi i nuovi pozzi nel Bacino Permiano, il punto di pareggio era di circa 62 dollari al barile. Per i pozzi esistenti, la cifra era di circa 38 dollari al barile. Se le trivellazioni venissero interrotte nel Bacino permiano, la produzione di petrolio degli Stati Uniti diminuirebbe del 30% nell’arco di due anni.

In breve, se Keith Kellogg riuscisse ad attuare il suo “piano” per ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile, distruggerebbe di fatto l’economia petrolifera statunitense. E, conclude Ritter, se si distrugge l’economia petrolifera statunitense, si distrugge l’economia degli Stati Uniti.

Questa uscita di Ritter a proposito delle sanzioni si capisce meglio se si ricorda che il 10 gennaio il presidente uscente Biden ha inasprito le sanzioni contro la Russia, che hanno sconvolto temporaneamente il mercato del petrolio.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha riferito questa settimana la sua ultima previsione per l’offerta e la domanda di petrolio, osservando che le ultime sanzioni si riveleranno solo un ostacolo temporaneo per le esportazioni di petrolio russo. Non solo questo, ma l’AIE ha anche stimato, per gennaio, la produzione petrolifera della Russia in rialzo di 100.000 bpd per un totale di 9,2 milioni di barili al giorno. L’AIE ha dovuto rivedere le sue stime di produzione petrolifera russa in numerose occasioni.

L’idea che l’industria dei combustibili fossili sia l’industria principale degli Stati Uniti, e che ogni danno ad essa sia un danno per l’economia statunitense nel suo complesso sembra essere un’idea sorpassata.

L’elezione di Donald Trump è stata salutata con un aumento del valore di borsa delle corporation dei suoi principali sostenitori. Secondo quanto scrive Davide Magliuolo su “Investireoggi” riportando i dati di Bloomberg Billionaires Index, tra i maggiori beneficiari della vittoria di Trump ci sarebbe ovviamente Elon Musk, che ha visto il proprio patrimonio crescere di ben 26,5 miliardi di dollari, raggiungendo il totale di 290 miliardi di dollari. Dopo di lui Jeff Bezos ha visto aumentare il proprio di oltre 7 miliardi di dollari. Anche Larry Ellison, ex amministratore delegato di Oracle, ha registrato un aumento del suo patrimonio di quasi 10 miliardi, arrivando a un totale di 193 miliardi di dollari. Da segnalare che Mark Zuckerberg ha visto calare il suo patrimonio di più di 80 milioni di dollari, la cosa probabilmente ha influito sulla scelta di Meta di attenuare la politica di moderazione dei contenuti su Facebook.

Questo risultato è il prodotto delle attese politiche a sostegno delle imprese tecnologiche che ormai hanno sostituito il petrolio nelle scelte strategiche dell’amministrazione USA. I grandi oligarchi tecnologici della Silicon Valley temono le aziende cinesi di intelligenza artificiale come “Ricerca Approfondita”. Il miliardario Peter Thiel, sostenitore di Donald Trump, ammette che vogliono i monopoli, sostenendo che “la concorrenza è per i perdenti”. L’amministratore delegato di Anthropic, Dario Amodei, ha affermato che gli Stati Uniti devono mantenere un “mondo unipolare”.

Questa centralità assunta dalla tecnologia nella politica imperiale di Washington spiega come mai per l’amministrazione Trump le terre rare possedute dall’Ucraina (in parte nelle zone occupate dalla Federazione Russa) siano diventate più importanti del petrolio.

Da una parte abbiamo il presidente degli Stati Uniti che si dichiara disposto a continuare l’appoggio militare a Zelensky a condizione che questi garantisca la consegna di 500 miliardi di dollari in terre rare, dall’altra abbiamo Zelensky, il presidente ucraino, che si rifiuta di firmare l’accordo proposto per dare agli Stati Uniti l’accesso ai minerali di terre rare dell’Ucraina perché il documento era troppo incentrato sugli interessi statunitensi. Zelensky ha affermato che qualsiasi sfruttamento minerario da parte degli Stati Uniti dovrà essere legato a garanzie di sicurezza per l’Ucraina che scoraggino future aggressioni russe. Evidentemente la trattativa è in corso ed ognuno dei contendenti punta ad avere dei vantaggi.

L’impressione comunque è che l’attuale presidenza abbia ormai i giorni contati, e sia pronto un cambio di regime in Ucraina. La figura di Zelensky è troppo screditata a livello di massa a causa della politica di guerra e di compressione delle libertà e del tenore di vita dei ceti popolari, è troppo collegata alla narrazione dell’indipendenza ucraina per poter essere usata in una trattativa di scambio fra gli opposti imperialismi. L’uscita di scena di Zelensky permetterebbe a Putin di dichiarare compiuta la denazificazione dell’Ucraina, che potrebbe essere festeggiata il 9 maggio. Se la Russia non accetta le condizioni degli Stati Uniti, non c’è niente che lasci credere che la pace sia l’obiettivo ad ogni costo della politica degli Stati Uniti.

Lo scenario che si sta delineando è il peggiore possibile per le persone che hanno venduto la loro anima per la sconfitta di Putin, propagandando l’arruolamento nell’esercito di Kiev a fianco e agli ordini dei nazisti, raccogliendo soldi per permettere a Zelensky di continuare la guerra e vendere il proprio paese al miglior offerente occidentale. Come ho scritto fin da prima dell’inizio dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, gli Stati Uniti non possono permettersi che Putin perda. Una Russia forte rimane un potenziale alleato nella contesa per la Cina, e l’Ucraina è solo uno dei tanti campi di battaglia sulla scacchiera del mondo, dove muoiono a centinaia di migliaia i pedoni, mentre i re se ne stanno arroccati, in attesa di un accordo sempre possibile con il re avversario.

Così la “pace” di Trump finirebbe per assomigliare alla guerra di Biden.

 

Tiziano Antonelli

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Al sole del cantiere. Strage di via Mariti: Firenze non dimentica

Nella giornata del 16 febbraio, anniversario della strage di via Mariti, si è svolto a Firenze un presidio molto partecipato, che ha visto presenti, oltre ai sindacati di base fiorentini promotori dell’iniziativa, varie realtà, tra cui il comitato “ex panificio”, da anni attivo contro le speculazioni dell’area di via Mariti, speculazioni che avevano dato luogo alla costruzione del supermercato Esselunga e all’installazione del cantiere della strage, ora chiuso. Presente, fra gli altri, anche il Coordinamento regionale Toscano della sanità, Medicina democratica e l’associazione delle familiari vittime della strage ferroviaria di Viareggio. Anche la moglie di Luigi Coclite, uno degli operai rimasti uccisi, ha voluto partecipare all’iniziativa con un breve e toccante intervento. Al termine del presidio il corteo si è mosso percorrendo la zona intorno al cantiere di via Mariti, con l’impegno di proseguire, oltre la terribile ricorrenza, nella lotta contro le speculazioni, contro lo sfruttamento, per una reale sicurezza, perché non ci siano più morti né infortuni sul lavoro

 

Gli infortuni sul lavoro nell’ultimo decennio hanno avuto numeri da guerra, una guerra da lavoro e sul lavoro: 17000 morti, circa un milione infortuni con lesioni gravi: mani, gambe, corpi immolati sull’altare del profitto.

Nei primi 10 mesi del 2024 ci sono stati 890 morti sul lavoro, 2,5 % in più rispetto all’anno precedente.

Il 16 febbraio 2024, un anno fa, la strage nel cantiere Esselunga di via Mariti: 5 morti, non cinque numeri ma cinque nomi che vogliamo ricordare: Mohamed Toukabri (54 anni), Mohamed El Farhane (24 anni), Taoufik Haidar (45 anni), Bouzekri Rahimi (56 anni), Luigi Coclite (60 anni).

Solo in questi giorni, dopo un anno, compaiono i primi indagati, con il sequestro di Rdb ITA, azienda costruttrice della trave che ha ceduto e schiacciato i lavoratori, e avviso di garanzia a tre figure apicali della stessa, oltre che al dirigente dei lavori strutturali, attribuendo alle caratteristiche della trave il fattore determinante la strage. Non pensiamo che ci si possa limitare a questo, ma occorre approfondire le responsabilità dei datori di lavoro delle imprese affidatarie e della committenza dell’opera. Quello che emerge dalle  testimonianze rese pubbliche è anche la pressione della committenza per accelerare i lavori  e consegnare l’edificio in tempi brevissimi: l’urgenza di aprire l’ennesimo e inutile centro commerciale, a brevissima distanza da tanti altri, in un’area – quella dell’ex panificio militare – di demanio pubblico, che già da tempo il quartiere chiedeva fosse destinato ad uso pubblico e che invece è stata svenduta al privato di turno per il profitto di pochi a danno della collettività.

Anche in questa strage emerge la giungla di appalti e subappalti: emerge che in quella mattina almeno tre ditte diverse stavano lavorando sopra e sotto la trave collassata, che addirittura quattro degli operai morti risultavano dipendenti di una ditta, la Maifredi SPA di Brescia, ma “prestati” con distacco alla ditta Go Costruzioni di Villongo Bergamo.

In questa catena di appalti e subappalti può essere garantito il rispetto delle norme di sicurezza? Innanzitutto, chi dovrebbe controllare questo, dal momento che,  ad esempio, gli organi pubblici addetti a tali controlli non hanno il personale sufficiente? Da anni dobbiamo fare i conti con tagli e blocco di assunzioni che hanno interessato tutto il settore sanitario e anche quello della prevenzione sui luoghi di lavoro, che si trova attualmente ad operare con il 50% di personale in meno (da 5000 nel 2008 a 2500 ora), con interventi spesso basati su verifiche esclusivamente documentali che rendono la verifica della sicurezza sul luogo di lavoro un mero atto burocratico.

Ma anche la legislazione introdotta negli anni Novanta, per quanto non completamente soddisfacente, è andata via via modificandosi, perdendo progressivamente efficacia: la capacità dei lavoratori di autotutelarsi, introdotta dalla legge 626/94 con la figura del RLS (Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) è andata nel tempo annullandosi, imbrigliando questa figura sempre più e limitandone le prerogative, legge dopo legge.

Le aziende dovrebbero fare dei corsi di formazione/informazione sui rischi lavorativi individuati nel D.V.R., dovrebbero redigere il DUVRI (documento dei rischi da interferenze) con tutte le ditte che operano per individuare le interferenze tra i vari lavoratori degli appalti e descrivere come vanno gestite. Trattandosi di un documento “dinamico”, tutte le volte che si inserisce una nuova ditta andrebbe aggiornato, ma in realtà spesso questo non succede. Le aziende si limitano a dare informazioni cartaceee che i lavoratori devono firmare, talvolta anche senza comprenderle, dato che spesso non parlano italiano, nonostante ci sia l’obbligo che i lavoratori comprendano quello che c’è scritto. Ma si sa, i corsi alle aziende costano!

Ci si è preoccupati non tanto di far rispettare la legge punendo con multe ed altro le aziende che non la rispettavano, ma è stata scelta la strada di premiare con finanziamenti quelle aziende che invece si comportavano bene, introducendo la patente a crediti rilasciata semplicemente per autocertificazione. Con il decreto 103 del luglio 2024 si è introdotto l’obbligo del preavviso per i controlli relativi alla sicurezza: un’ispezione annunciata per far trovare tutto in regola.

Si è introdotta la responsabilità del lavoratore, eliminando quella del datore di lavoro, portando a credere che tante delle stragi e infortuni sono causate dall’errore umano.

E nella catena di appalti e subappalti la committenza esce sempre pulita e fuori da ogni responsabilità, come nel caso di Esselunga e dei morti sul lavoro di via Mariti.

È necessaria una netta inversione di rotta per diminuire gli infortuni sul lavoro: spezzare la catena degli appalti, diminuire carichi e ritmi di lavoro, lottare per cambiare tutti gli aspetti peggiorativi nella attuale legislazione sulla sicurezza del lavoro, ristabilire l’indipendenza degli RLS, costringere a fare le assunzioni di personale negli organi di vigilanza.

E per la strage del cantiere Esselunga di via Mariti, dopo un anno di estenuante convivenza con l’ecomostro della morte, il quartiere chiede la revisione totale del progetto e la destinazione dell’area a parco pubblico intitolato alle vittime del lavoro, in un quartiere attanagliato da una sempre più asfissiante cementificazione che provoca, fra l’altro, rischi ambientali sempre maggiori, come stiamo vedendo con le ripetute alluvioni.

Basta opere inutili, le nostre vite valgono più dei vostri profitti

 

Paola e Maurizio

 

Nell’immagine: un momento della manifestazione di Firenze

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Manifestazione antirazzista ad Alessandria

Oggi 16 Febbraio  siamo andati alla manifestazione per ricordare la tragica vicenda di   Ange Jordan Tchombia arrivato dal Camerun in Italia nell’aprile dello scorso anno era ospite del centro di accoglienza di Isola Sant’Antonio. Aveva visto morire il fratello in Libia. Lui era riuscito a fuggire dalle torture, dagli abusi, dagli stenti.

Il ragazzo, che frequentava il CPIA di Tortona, dove aveva conseguito l’attestato di A2, stava partecipando ad un progetto psico-educativo. Voleva trovare un lavoro, farsi una vita qui. 

Mentre passava vicino alla stazione di Tortona, di ritorno dalla consegna di alcuni curriculum lavorativi, Ange è stato aggredito da chi cercava di rubargli il monopattino. Una coltellata fatale l’ha colpito al petto.  

La destra locale locale non ha perso l’occasione anche su questo fatto, dove l’aggressore non è italiano,  ma neanche la vittima, per inscenare una campagna razzista.   La manifestazione denunciava questo scempio!    

Ci spiace, fratello, eri riuscito a scappare dagli orrori della Libia, quella Libia salita all’onore delle cronache in questi giorni con la vicenda del generale torturatore Almasri, liberato e accompagnato a casa sua con un volo di Stato, ne avevi passate tante per la tua giovane età, cercavi di rifarti una vita dignitosa e sei finito così sul selciato di una città fredda, inospitale, egoista e senza umanità 

Sabato 15 proprio nel luogo dove sei morto,  i fasci di Casa Pound hanno fatto un presidio per il rimpatrio di tutti gli immigrati. Loro erano 4 gatti noi eravamo centinaia!!!         

Questo è  il volantino  che ha distribuito il Laboratorio  Anarchico PerlaNera 

“QUANTO VALE UNA VITA UMANA?

DIPENDE!

Dipende da chi muore, da chi lo ha ucciso, perché i giudizi cambiano, nelle chiacchiere da strada.

Cambia, se il morto è Italiano e l’assassino è straniero, in questo caso infatti, certi politici e i mass media subito dichiarano che tutti gli stranieri senza distinzione alcuna, sono feroci assassini da cacciare dal sacro suolo italico! se invece l’assassino è Italiano e il morto è straniero, in questo caso… si minimizza, si dice che è un fatto isolato… e poi le mele marce… ci sono dappertutto, se succede, come in questo caso, che tutte due, l’aggredito e l’aggressore sono entrambi stranieri, IMMIGRATI, al massimo ce la possiamo cavare con un titolo sul giornale, ovviamente senza fare un’analisi sociologica del problema, infondo, nelle chiacchiere da bar, si sono ammazzati tra loro!

Ma loro chi?

Nessuno si chiede da dove vengono, cosa hanno dovuto subire, come e perché sono emigrati.

L’emigrazione è un fenomeno che affonda le sue radici nel colonialismo e nel post colonialismo, nelle guerre, fomentate dai governi occidentali, ma è anche un fenomeno naturale, persino le piante emigrano, figurarsi gli esseri umani che originariamente erano nomadi!

Per fare un esempio tra i tanti, ci sono Italiani presenti in mezzo mondo, emigrati in Europa, nelle Americhe, fino alle terre australi.

Chi mette a repentaglio la propria vita, chi abbandona i propri cari per andare in un paese che non conosce, senza sapere quale sarà il suo futuro, non lo fa a cuor leggero, lo fa perché è costretto dalla miseria in cui vive, oppure fugge da situazioni di persecuzioni politica, o da conflitti bellici, oppure semplicemente è alla ricerca di migliorare le proprie misere condizioni economiche,

Tutti, buoni e onesti lavoratori? Ovviamente no!

Come dappertutto c’è tra loro il buono e il cattivo!

Però, cosa trova qui nel “civile” occidente; il disastrato mondo del lavoro attuale, le speculazioni, e la logica del profitto al di sopra di tutto, che non gli offre altro
se non precarietà e sfruttamento, trova una vita da emarginato, calunniato dalla destra, e indicato come la feccia della feccia, spesso sono disperati, senza scampo, trasformati così nell’anello più debole della catena sociale, sono ricattati e ricattabili, in queste condizioni non stupisce che molte volte finiscono anche nelle mani della malavita organizzata, diretta e dominata ovviamente, da Italiani!

Ci sono poi quei politici ( spesso purtroppo anche a sinistra) che ci parlano di integrazione, che significa omologare tutti agli usi occidentali, oppure si parla di una società multietnica e multirazziale, e poi si difendono leggi imposte, e disumane dove la vita di un individuo è vincolato da un visto, da un permesso e da leggi burocraticamente imposte contrarie alla solidarietà verso chi ha un’unica colpa quella di essere nato dove la sopravvivenza è più difficile.

Eppure, governo dopo governo si assiste ad un inasprimento del controllo sociale, con mezzi tecnologici sempre più sofisticati di controllo degli individui considerati non conformi a certi schemi e alla militarizzazione del territorio.

La tragica morte di Jordan Tchombiap deve far riflettere, perché anche in questo triste caso si parla solo di come è morto, di chi lo ha ucciso, non del perché era qui, della sua vita, delle sue aspirazioni, parlare di questa morte dovrebbe servire per comprendere chi è vivo ed è qui affianco a noi! Eppure sarebbe semplice, come abbiamo detto, è ovvio che i buoni e i cattivi ci sono dappertutto, ma è possibile che non si sa scegliere e capire con chi avere dei rapporti liberandoci da preconcetti parlando con le persone, confrontarsi, non per diventare uguali, per omologarsi, ma per apprendere l’uno dall’altro, con pari dignità e pari diritti.

Non siamo buonisti o cattivisti semplicemente non pensiamo che la Giustizia sia quella della legge, perché siamo circondati da leggi criminali, la Giustizia è un fatto sociale, culturale, un modo di essere! La Giustizia è nelle strade, nei quartieri nei luoghi di lavoro, dove si parla con gli altri, solo così si conoscono le problematiche, le abitudini, anche le credenze, aver uno scambio non può che arricchire gli individui!

Parlare, ascoltare, guardarsi negli occhi, sono cose naturali che stiamo perdendo come abitudine.

Da anni sentiamo dire: “di sera non si può più uscire, perché ci sono solo immigrati” ma il problema sono i troppi emigrati o i pochi rapporti umani? Anni fa, soprattutto d’estate prendevano vita capannelli di gente che si riversava in strada, che parlava e si raccontava, si confrontava e imparava, che solidarizzava con i problemi o le sfighe altrui.

Non ci resta che prendere esempio dai bambini piccoli… per loro Italiano o Africano, Rumeno, sud Americano o Indiano, non importa da dove arrivi, l’importante è giocare insieme!

Noi non siamo per un mondo multietnico e multirazziale, perché gli esseri umani hanno un’unica razza quella umana!

E le etnie devono incontrarsi, anche scontrarsi se è il caso, fondersi e confondersi, per un mondo meticcio, equo e solidale, per un mondo più umano,

SIAMO UMANI!

Laboratorio Anarchico PerlaNera- Alessandria

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Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano

Gianni è stato tante cose diverse. Era del 1938. Sua madre partorì in casa a Mombercelli. Lui era prematuro e gracile: la durezza degli anni della guerra facevano presagire che non avrebbe passato l’infanzia. Invece “Spinacino” ce l’ha fatta. In barba al freddo, alle bombe, alla fame e ai tanti malanni di quei primi anni, arriverà al 5 febbraio 2025, quando se ne è andato nel sonno.
Lasciato il paese, da cui riporterà il ricordo indelebile degli alberi, delle foglie, dell’aria di collina, con i genitori e il fratellino si trasferisce a Torino. Il panorama della città, nel primo dopoguerra è segnato dalle macerie delle case bombardate e dagli alberi dei viali tagliati per fare legna. I soldi sono pochi e la vita, in due stanze con il ballatoio ed il cesso fuori, è grama.
La scuola sarà per lui un mondo speciale, che amerà sin dai primi anni.
Al punto che sceglierà di fare il maestro. La laurea, che all’epoca non serviva per insegnare alle “elementari”, come si chiamavano allora, la prenderà anni dopo, con una tesi di pedagogia libertaria.
A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il giovane maestro viene allontanato dall’insegnamento per cinque lunghi anni, in cui verrà confinato in un ufficio. Le sue idee erano troppo sovversive.
A quell’epoca la scuola elementare era simile ad una piccola caserma. I bambini separati dalle bambine, le divise, lo stare sull’attenti, il recitare la preghiera, l’alzarsi in piedi quando entrava l’autorità, lo stare per ore immobili, “composti” nei banchi.
Gianni si nutre delle idee e delle esperienze di Celestin Freinet, del nativo canadese Wilfred Peltier, della scuola pedagogica statunitense.
Gianni, quando arriva in classe si fa dare del tu ai bambini, non li rinchiude nell’aula, li porta fuori a toccare con mano le cose: il fiume, gli alberi, ma anche la realtà sociale, quella dei profughi istriani delle Vallette, quella dei napoletani emigrati in gran numero a Cirié, all’imbocco delle valli di Lanzo, dove insegnerà a lungo dopo la pausa forzata imposta dal Ministero.
A Cirié, complice una mamma che sapeva riparare le bici, i bambini partono ad esplorare il territorio per capire la cosa più importante: le domande da fare, la curiosità che nasce dall’esperienza, il proprio percorso nella vita. Con le bici Gianni e i suoi bambini arrivano ad invadere la pista dell’aeroporto di Caselle, per vedere come erano fatti gli aerei, con i quali i più fortunati partivano per paesi favolosi, che ai ragazzini della Ciriè operaia erano preclusi. Tante imprese, tanti viaggi, soprattutto viaggi nella realtà sociale, dove si parla di lavoro e di licenziamenti punitivi. Una volta, con i bambini occupa l’ufficio del sindaco perché a scuola fa freddo.
Storie di frontiera in una scuola che oggi non è più fatta di autorità e disciplina anche grazie ai partigiani dei bambini come Gianni Milano.
Lui lo diceva a chiare lettere: “bisogna dar voce ai bambini: sono loro che decidono come apprendere meglio, e cosa fare”.
Gli ultimi anni a scuola, dove lavorerà per 40 anni, li trascorre a Lanzo dove insegna alle future maestre.
Quando i suoi capelli sono diventati tutti bianchi, ha continuato a portali lunghi e scarruffati, come ai tempi in cui si guadagnò il soprannome dispregiativo, ma portato con orgoglio, di “maestro capellone”.
Lui non ne parlava più di tanto, ma se date un’occhiata ai libri, alle riviste, alla storia di quegli anni speciali scoprirete che è stato tra i protagonisti della cultura beat nel nostro paese.
Era un fricchettone colto, scriveva poesie sulla sua lettera 32. Poesie che trovate sparse qua e là, di recente molte sono state raccolte in un volume per le edizioni Fenix.
D’estate, quando le scuole erano chiuse, autostop e via per il mondo. Ma poi tornava sempre a Torino, che non era più la città bigia e dura dei suoi primi anni, ma sempre la città in cui si sentiva a casa, all’ombra delle montagne.
Era amico di Fernanda Pivano e di Allen Ginsberg, è stato uno dei protagonisti della beat generation: pubblica Off Limits (1966), Guru (1967), Prana (1968), King Kong (1973), Uomo Nudo (Tampax, 1975). È tra i fondatori della Pitecantropus Editrice, un tentativo di unire le anime della cultura Beat.
Spirito profondamente libertario, specie negli ultimi anni si lega al movimento anarchico, attraversandone le lotte.
Abitava in fondo a corso Vercelli, a due passi dal Balon, dove lo incontravamo spesso in occasione di presidi e banchetti. Arrivava e parlava con tutti, indossando un fazzoletto rosso e nero, spacciando idee e libri. Vivace come un folletto, mai stanco, nonostante gli anni che passavano ed i nuovi malanni.
Lo ricordiamo in tanti 25 aprile, tanti primi maggio, portare con orgoglio la bandiera rossa e nera. Anche in valle ha intersecato tante volte le strade dei cortei e delle lotte, perché in quella lotta popolare, specie in certi anni, seppe riconoscere il tempo che muta, quando la gente comune, quella che non ci è avvezza, alza la testa.
Lo conoscevano tutt. Con la sua parlantina sciolta e il suo stile da vecchio maestro, lo trovavate nei posti dove la gente sceglie di essere protagonista, di alzarsi in piedi, di costruire da sé il proprio cammino.
Eravamo in tanti a salutarlo nel piazzale del Cimitero Maggiore di Torino, nonostante il freddo e la pioggerellina insistente. Il Cor’Occhio circondato da bandiere anarchiche, sullo sfondo uno striscione No Tav ha intonato i canti anarchici e quelli di chi diserta la guerra. Gianni che l’aveva conosciuta fu un antimilitarista convinto, senza sfumature.
Lo abbiamo ricordato con la musica, le parole, le sue poesie.
In questi tempi grami, con le scuole che rischiano di diventare nuovamente caserme, il ricordo del maestro capellone, che sfrecciava alla testa della sua ciurma di bambini liberati dai banchi per la campagna piemontese, resterà un’ancora che renderà più forte la determinazione a continuare a pedalare per cambiare il mondo intollerabile in cui siamo forzati a vivere.
Nel lungo percorso attraverso le grandi statue del monumentale siamo arrivati in una zona povera. Gianni, nato sulla terra, ha scelto di tornarvi. Sulla bara una bandiera nera e tanti garofani rossi.
Elfo di città, con un cuore contadino, continueremo a vederlo volteggiare a Torino e in Valle, o al Balon, dove si mescolava con gli anarchici e i senzapatria.

Ciao Gianni!

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

 

Militanza Grafica per Gianni Milano

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Non ci può essere anarchismo senza femminismo

Con questo testo vogliamo offrire delle riflessioni sul movimento transfemminista contemporaneo, partendo da dinamiche locali che ci hanno visto partecipi negli ultimi anni, nella speranza di poter offrire una critica costruttiva ed utile anche ad altrə, al di là delle vicende specifiche.

Da un lato ci siamo chiestə cosa intendiamo quando utilizziamo il termine “intersezionalità” di cui tanto si parla nei movimenti (spesso, dal nostro punto di vista, a sproposito). Dall’altro vogliamo proporre una riflessione sui concetti di privilegio e decolonialità. Anche questi due termini attraversano gli spazi e i discorsi femministi, ma a volte, ci sembra, in maniera quasi meccanica, con degli automatismi che possono generare cortocircuiti logico/politici. Questi concetti hanno delle storie “militanti”, così come delle formulazioni teoriche interessanti, e sono a nostro parere strumenti potenzialmente validi. Ma sono appunto strumenti, non dogmi o etichette da appiccicare acriticamente.

Crediamo che negli ultimi anni le questioni poste dai movimenti femministi, transfemministi e queer abbiano finalmente messo il patriarcato al centro della critica politico-sociale e delle lotte dei movimenti. Il patriarcato è uno dei principali strumenti di potere e disciplinamento di una struttura sociale, politica ed economica che ci viene imposta come unica, naturale, giusta e connaturata nella stessa esistenza umana.

Quando diciamo che il patriarcato è strutturale all’organizzazione sociale e all’esercizio del potere delle istituzioni, non ci riferiamo certo al solo aspetto giuridico. Si tratta di una complessiva strutturazione sociale che attribuisce agli uomini in quanto tali maggior potere, controllo, autorità, rappresentazione e voce nello spazio pubblico; tale potere risulterà tanto maggiore, quanto i soggetti incarnati rispondono ai canoni del “virile”. Specularmente, per lo sguardo patriarcale le donne sarebbero “naturalmente portate” al materno, alla cura, all’ascolto e, in generale, alla presa in carico emotiva della specie. Una suddivisione in ruoli “ideali”, rispondenti ad un’idea fissa di cosa sia un uomo e cosa sia una donna – ovviamente non considerando affatto altre opzioni non binarie – che ha fortissime ripercussioni materiali.

All’aspetto giuridico si affianca l’aspetto materiale, che in Italia riguarda ad esempio la disparità salariale o la composizione di genere degli apici di istituzioni e aziende. Sulle donne (o soggettività identificate come tali) si scarica inoltre quasi sempre la maggior parte, se non la totalità, del peso della “conciliazione” fra lavoro produttivo e lavoro di cura e riproduttivo, che ancora spetta alla componente femminile all’interno del nucleo familiare, soprattutto in termini mentali ed emotivi, oltre che materiali.

Vogliamo portare come esempio pratico un dato poco citato ma significativo ed agghiacciante: i femminicidi compiuti all’interno di coppie anziane in cui lei soffre di malattia cronica o demenza ed è assistita dal compagno sono più numerosi rispetto agli omicidi di uomini da parte di caregiver donne. Se questo dato rivela la mancanza di strutture sociali adeguate a far fronte alle esigenze di assistenza, ci dice anche, ancora una volta, quanto la mentalità sia ancorata ad una visione stereotipata dei generi: i mariti anziani disperati fanno fuori le compagne e poi tentano il suicidio, in molti casi certamente con un senso di solitudine ma anche per una disabitudine alla cura e alla gestione della sofferenza, propria e altrui.

Sappiamo benissimo quanto il genere imposto alla nascita e gli stereotipi ad esso associati condizionino in maniera concreta e significativa gli immaginari, i desideri, le posture e gli sguardi sul mondo di tuttə. Ed è piuttosto evidente che nessunə di noi può ritenersi “liberə” da questi condizionamenti solo perché si definisce anarchicə. Quasi un secolo dopo Mujeres Libres,[1] dobbiamo ancora ricordarci che il patriarcato non è una questione marginale e il femminismo non è “un problema delle donne”.

Intersezionalità e politiche identitarie

L’intersezionalità è una teoria critica, la cui origine viene fatta risalire agli scritti di Kimberlé Crenshaw, femminista e giurista statunitense, fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento. In realtà anche in precedenza l’analisi intersezionale – intesa come analisi di come le diverse identità e categorie sociali si intreccino in forme di oppressione particolari e specifiche – era stata praticata da gruppi femministi marginalizzati e razzializzati. In fondo, quando le suffragette negli Usa si chiedevano se la concessione del voto ai neri avrebbe penalizzato le donne e Sojourner Truth faceva la famosa domanda “Ain’t I a Woman?”[2], proponeva di fatto un embrione di teoria intersezionale.

Oggi, l’intersezionalità è uno strumento di analisi del reale e come tale dovrebbe essere usato: un mezzo con cui possiamo capire, leggere, interpretare e giudicare la realtà. Secondo la nostra esperienza, invece, spesso la si utilizza a sproposito, come generico invito a “unire le lotte”, il che nel movimento femminista spesso si traduce in un presunto dovere di parlare di tutto e fare spazio a tuttə, facendo diventare tutto una “questione femminista”. Questa attitudine è ben diversa da quella dichiarata di rileggere il reale attraverso una lente femminista. Si tratta di un errore interpretativo che a nostro parere deriva anche in parte dall’utilizzo acritico di terminologie viste come più moderne o radicali, disperdendone la reale radicalità e riducendole a poco più che moda.

Infine, lo strumento intersezionale sembra a volte piegato alla logica dell’elencazione delle proprie oppressioni, per cui chi ne colleziona di più perde nella vita ma – ironicamente – acquisisce status all’interno del movimento. Invece l’analisi intersezionale non si struttura come la somma pura di oppressioni diverse, ma la loro messa a sistema. Di seguito proponiamo alcuni esempi, non per costruire a nostra volta un “catalogo” ma solo per cercare di spiegarci meglio.

Uomini omosessuali neri: la discriminazione subita da questi soggetti non è la somma algebrica del loro essere gay + il loro essere neri. Nelle società a prevalenza bianca ed etero essi paradossalmente possono essere più tollerati rispetto agli uomini neri etero, che vengono ritenuti portatori di una sessualità animalesca, e quindi una minaccia alle “nostre donne” (più correttamente la minaccia è “ai nostri peni”, ma anche a i “nostri ani”, dove il “noi” sono i maschi bianchi etero che costituiscono la maggioranza normante). In compenso, nelle loro società di partenza o nelle comunità della diaspora, i gay dichiarati, oltre a subire un generico stigma, vengono pure etichettati come aderenti ai valori occidentali e quindi traditori delle proprie radici.

Donne disabili: le donne disabili non hanno semplicemente i problemi delle donne + i problemi delle persone disabili, ma i loro problemi si declinano spesso in maniera diversa. Ad esempio, mentre molte donne subiscono una sessualizzazione costante e non voluta, spesso le attiviste disabili rimarcano come invece loro siano costantemente infantilizzate e la loro sessualità totalmente misconosciuta. Anche in termini di riproduzione e aborto, non hanno certo la pressione a procreare a tutti i costi che hanno le donne non-disabili; al contrario, il loro eventuale desiderio di genitorialità viene spesso ferocemente ostacolato.

Donne e riproduzione sociale: quando negli anni ’60 e ’70 le donne bianche borghesi negli USA lottavano per rivendicare il lavoro fuori casa, il non fare figli, la realizzazione professionale, le donne nere non sentivano propria tale battaglia; per loro occuparsi della propria casa e famiglia era invece un valore e un obiettivo, visto quante di loro passavano il tempo a curare famiglie altrui (in questo, sono illuminanti le pagine che all’argomento dedica bell hooks[3]).

L’uso distorto dell’intersezionalità esaspera la questione identitaria, portando il pensiero verso l’iperidentitarismo. Le politiche identitarie e delle minoranze sono entrambe figlie del liberalismo e dell’individualismo esasperato di matrice anglosassone, dove spesso la questione di classe passa in secondo piano. La cosiddetta identity politics tende a “spezzettare” i movimenti in tanti aggregati portatori di specifici interessi; questi aggregati possono al massimo portare avanti una politica di alleanze, spesso con una scarsa se non nulla prospettiva di classe. Il perno di queste lotte risiede quasi sempre nella richiesta di riconoscimento statale o di forme specifiche di sostegno o tutela per ogni singolo gruppo (la cosiddetta “politica delle minoranze”). Difficile in quest’ottica trovare una prospettiva realmente rivoluzionaria. Il movimento femminista italiano ha invece una forte tradizione materialista, ma ci sembra che in questi ultimi anni la stia perdendo a favore di un’azione politica che attribuisce maggior importanza alla definizione/percezione di sé che al proprio ruolo sociale e di classe.

Crediamo sia necessario recuperare quanto di buono è stato pensato e prodotto dalle diverse correnti del femminismo materialista, per costruire un agire politico non incentrato solo sull’identità e sulla richiesta di tutela e/o riconoscimento, ma che coinvolga i rapporti di potere e le dinamiche materiali che li determinano.

Proviamo ad articolare un esempio concreto, parlando di politiche riproduttive. Sappiamo che non tutte le donne hanno un utero o sono fertili e anche che non tutte le persone potenzialmente gestanti sono donne. Questo è ovvio, ma ricordarlo non è banale o sbagliato. Tuttavia, i meccanismi di riproduzione sociale e i rapporti di forza fra i generi sono pesantemente condizionati, nella loro formazione storica e contemporanea, dal binomio donna-madre. Non possiamo eludere questa realtà, né per timore di essere “escludenti”, né con la speranza che il superamento del binarismo di genere avvenga per mero atto volontaristico o discenda da comportamenti individuali.

Privilegio e decolonialità

Le nuove ondate femministe/transfemministe/queer degli ultimi anni hanno avuto il merito di contribuire a porre l’attenzione dei movimenti sul colonialismo, in termini tanto storici quanto contemporanei. I movimenti transfemministi hanno quindi fatto da megafono alla diffusione degli studi e dello sguardo decoloniale; evidenziando le (proprie) posizioni di privilegio, tentano di smontare il preteso universalismo del soggetto politico “Donna”. Un “partire da sé” che si definisce su un piano collettivo e sociale. Non a caso da alcuni anni assistiamo anche in Italia ad una crescente presa di parola delle persone e delle collettività razzializzate e ad un confronto stimolante con il movimento antirazzista storico. Un dialogo che ha portato a volte ad un riconoscimento della condivisa esperienza dell’esclusione. Ad esempio, gli immigrati dal Sud della penisola degli anni ’60 e ’70 furono razzializzati nel Nord industriale, per poi essere via via sostituiti dagli ultimi nuovi arrivati, uomini e donne provenienti da geografie ancora più a Sud del mondo: una razzializzazione che non si basava sul colore della pelle, ma che aveva caratteristiche molto simili a quelle che subiscono i migranti di oggi.

Stiamo assistendo però negli ultimi tempi ad un cortocircuito del concetto di privilegio come strumento di critica sociale. Il riconoscimento della condizione di privilegio del cosiddetto Occidente rispetto ai paesi del cosiddetto Terzo/Quarto Mondo ha portato in molte situazioni di movimento dall’interpretazione dei dati materiali all’interpretazione in chiave essenzialista di quelli che sono i dati materiali. Il connubio assenza di privilegio/superiorità morale è un errore epistemologico che contribuisce a creare una nuova forma di essenzialismo in chiave morale.

In altre parole, ci pare di notare che l’esasperazione e la distorsione di questi strumenti di lettura e conoscenza del reale abbiano contribuito a generare una nuova forma di “terzomondismo”, in cui, oltre ad accettare acriticamente qualsiasi pratica o ideologia provenga dallə “oppressə”, vi è anche una sovradeterminazione delle loro stesse istanze. Assistiamo infatti a movimenti di solidarietà verso popolazioni in lotta in altre parti del mondo, su cui vengono proiettati desideri e prospettive politiche che invece sono tutti “nostrani”. Un esempio chiaro in questo senso sono alcune analisi e prese di posizione riguardanti la resistenza palestinese e i fatti del 7 Ottobre 2023 che circolano in Europa; li si dipinge addirittura come avanguardia della rivoluzione mondiale, quando è ben chiaro dalle prese di posizione e dalle azioni della maggioranza delle organizzazioni politico-militari lì operanti che la lotta in quei territori viene condotta in un’ottica di liberazione nazionale e di resistenza allo stato israeliano senza nessun afflato internazionalista.

Tale esasperata attribuzione ha, secondo noi, il sentore di una nuova forma di colonialismo ideologico, che non solo cancella ogni possibilità di confronto e di eventuale critica all’interno dei movimenti, ma che appiattisce e rimuove la complessità locale, le stratificazioni di classe e le diversità politiche che attraversano ogni luogo.

C’è, però, una differenza fondamentale tra il “vecchio terzomondismo” e il fenomeno che stiamo cercando di analizzare qui. La postura terzomondista/antimperialista (permetteteci una certa approssimazione) è comunque conseguenza di un’adesione ideologica o di un appoggio politico in chiave di opposizione, e discende da una scelta attiva. La postura decoloniale, nella sua volgarizzazione di movimento, sembra invece postulare l’impossibilità di una scelta: “nostro” ruolo può essere solo prendere atto e solidarizzare, fare da tribuna senza critica. È giusto e necessario mettere in discussione il nostro eurocentrismo e le pretese di universalismo e questa consapevolezza deve molto all’apporto delle teoriche e dei gruppi femministi. Riteniamo, però, che in ambito transfemminista e queer questa attitudine abbia talvolta assunto tratti quasi dogmatici e di sudditanza psicologica – a un soggetto peraltro spesso astratto e disincarnato – altamente problematici.

Alcune provvisorie conclusioni

Crediamo che il contributo teorico-pratico dei movimenti transfemministi e queer degli ultimi decenni, sia essenziale per tutti i movimenti che agiscono sul terreno della trasformazione sociale radicale dell’esistente. Crediamo che queste istanze e riflessioni – senza adesioni acritiche, così come senza preclusioni – debbano diventare parte integrante del nostro bagaglio. Ne siamo convintə perché pensiamo che un anarchismo che non sappia dare importanza alle questioni di genere sia un anarchismo monco. Ci sembra importante ribadire che riflessioni e pratiche vanno condivise e allargate, perché non sono una questione “delle compagne” né di alcuni gruppi “specializzati”. Riteniamo che l’anarchismo possa essere all’altezza delle sfide che questi nuovi movimenti ci pongono. Con la sua critica radicale alle strutture materiali della società che contribuiscono alla perpetuazione del patriarcato, l’anarchismo può essere una “casa” dove queste istanze trovano il loro spazio, al di fuori di ogni organizzazione autoritaria e verticistica. Si tratta di intessere relazioni e scambi sviluppando ambiti di lotta e conflitto. Ma prima ancora, si tratta di ricordare che il patriarcato innerva ogni realtà che ci circonda e pertanto ci riguarda tuttə. Di conseguenza, non può esserci una reale rivoluzione che non sovverta le relazioni patriarcali. Non può esserci anarchismo senza femminismo.

Gruppo Anarchico Germinal – Trieste

[1] Organizzazione femminista fondata in Spagna nel 1936 per portare le istanze delle donne nel movimento anarchico e anarcosindacalista

[2]  Sojourner Truth, nata Isabella Baumfree (1797?-1883) pronunciò il discorso “Ain’t I a woman?” (“Non sono forse una donna?”) al Convegno per i diritti delle donne dell’Ohio, nel Maggio 1851

[3] hooks ha scritto per tutta la vita dell’intersezione tra genere, “razza” e classe sociale, a partire dalla sua crescita come donna nera di famiglia povera. Molti suoi testi oggi sono facilmente reperibili in italiano; tra questi, Tamu ha pubblicato “Elogio del margine” e “Non sono una donna, io. Donne nere e femminismo” che affrontano (anche) le questioni da noi menzionate.

GLOSSARIO:

Razzializzate (persone/collettività): cui viene attribuita una razza. Il termine viene utilizzato allo scopo di “tenere assieme” più aspetti. Da un lato, dato che le razze non esistono, si cerca di porre l’accento sul processo che porta alla loro creazione sociale. Dall’altro però si vuole riconoscere che, sebbene le razze non esistano come elemento oggettivo, il fatto che socialmente si agisca come se esistessero, produce effetti reali. Insomma: le razze – come le nazioni o i popoli potremmo dire – non esistono come dato ontologico, ma esistono come dato sociale.

Coloniale: in riferimento al pensiero, tutte quelle formae mentis che tendono a confermare e perpetuare l’idea dell’intrinseca superiorità di una “razza” o di un’epistemologia. Ne sono esempi il “fardello dell’uomo bianco” o l’invasione dell’Afghanistan per “liberare le donne”

Postcoloniale/decoloniale: sempre in riferimento al pensiero, che cerca di interrogarsi e mettere a critica tutte le formae mentis di cui sopra. I due concetti non sono perfettamente sovrapponibili: alcunə, ad esempio, mettono l’accento sull’importanza politico/procedurale del prefisso de-; altrə ne fanno soprattutto una differenza di alveo di nascita (decoloniale viene soprattutto dall’ambito latino, postcoloniale da quelli (ex) francofoni e anglofoni). In ogni caso, entrambi i concetti ci sembra rispondano al medesimo intento di messa in discussione politica. Ad esempio, in antropologia, gli studi post-coloniali sviluppano una critica serrata alla disciplina stessa, ritenuta sia prodotto che strumento del colonialismo

Comunità della diaspora: con questo termine intendiamo quelle collettività che si creano nei paesi di arrivo (o transito) migratorio. Solitamente sono aggregate su base nazionale (es: “la comunità cinese di Prato”) o sovranazionale (es: “l’associazione degli studenti africani della Sapienza), talvolta religiosa (es: i fedeli del tempio shivaita di Brick Lane a Londra)

Immagine: “La penultima zena” di Marco Novak

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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

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La svolta del 2024 e 2025 per l’Ucraina: la diserzione è diventata la tendenza dominante a livello nazionale

Il testo che segue è la traduzione di un reportage uscito a firma del Gruppo Assembly – Kharkiv, assembly.org.ua 

Il rapido collasso dell’esercito di Bashar al-Assad in Siria, che si è sgretolato tra il 27 novembre e l’8 dicembre, ha attirato molta attenzione in Ucraina. Per moltə nel Paese, è diventato l’evento principale della fine del 2024. Si è creata una situazione paradossale: la propaganda ufficiale ucraina elogia i successi delle forze filo-NATO e filo-turche contro Assad come una brillante vittoria sulla Russia, mentre allo stesso tempo lo stesso dittatore ucraino sostenuto dalla NATO rischia sempre più di seguire il destino di Assad.

Negli ultimi giorni di novembre, i media mondiali in lingua inglese hanno confermato ciò che Assembly aveva denunciato durante tutto l’autunno. ABC News, citando “un legislatore esperto di questioni militari”, ha scritto che in Ucraina potrebbero esserci addirittura 200.000 disertori e che “si tratta di un numero sconcertante da qualsiasi punto di vista, visto che si stima che ci fossero 300.000 soldati ucraini impegnati in combattimento prima dell’inizio della mobilitazione“. Ha anche riconosciuto che la diserzione è stata una delle ragioni principali della caduta di Ugledar [Vuhledar]. Il Financial Times ha aggiunto che alcuni di coloro che hanno abbandonato la 123ª Brigata di Difesa Territoriale a causa della loro riluttanza a difendere Ugledar sono già tornati al fronte, mentre altri si nascondono e altri ancora sono stati arrestati. Lo stesso articolo riporta anche, citando un esponente del servizio di sicurezza polacco che vuole restare anonimo, che ogni mese una media di 12 soldati ucraini disertano dai campi di addestramento in Polonia. Cosa di cui avevamo relazionato già da tempo.

Secondo l’Ufficio del Procuratore generale dell’Ucraina, nel mese di novembre del 2024 sono stati registrati 18.984 nuovi procedimenti penali ai sensi degli articoli 407 e 408 del Codice penale ucraino (abbandono non autorizzato di un’unità e diserzione). Si tratta di un numero quasi doppio rispetto a ottobre 2024, quando sono stati registrati 9.487 casi in base a questi stessi articoli. Nel dicembre 2024 sono stati registrati 17.593. Nel gennaio sempre dello scorso anno, i procedimenti erano solo 3.448. In totale, dal febbraio 2022 al 1° dicembre di quest’anno, sono già stati registrati 114.280 procedimenti penali per casi di diserzione e assenza dal servizio. Il giornalista pro-Trump di stanza a Kiev Volodymyr Boiko, anch’egli combattente nella 241ª Brigata di Difesa Territoriale, ha pubblicato un post al riguardo il 7 dicembre:

L’esercito ucraino può essere già considerato defunto. Inoltre, anche se sono state registrate nel mese di novembre 2024 19.000 segnalazioni [di fughe], ciò non significa affatto che questo sia il numero reale di militari che hanno disertato. 19.000 è, infatti, il numero più alto possibile che può essere registrato in questa categoria di reati. Perché in ogni caso, il comandante dell’unità militare deve prima istruire un’indagine ufficiale, esaminare e approvare i risultati dell’indagine ufficiale, inviare un rapporto sul reato commesso all’Ufficio investigativo dello Stato o a un ufficio dedicato della procura, e lì il rapporto deve essere esaminato e infine registrato. Le unità militari non dispongono di un numero di specialisti tale da poter condurre indagini ufficiali di tale entità, né l’ufficio del procuratore e l’ufficio investigativo dello Stato hanno dipendenti sufficienti per inserire nel registro decine di migliaia di rapporti sulla diserzione”.

In questo contesto, il 21 novembre è stata approvata la legge 4087-IX ed è entrata in vigore il 29. Secondo questa nuova legge, coloro che si rendono colpevoli di abbandono non autorizzato della propria unità (SZCh in ucraino, SOCh in russo) o di diserzione non solo possono tornare volontariamente a prestare servizio senza essere puniti penalmente, ma anche possono continuare il servizio militare obbligatorio o a contratto. L’unico obbligo era quello di rientrare in forza entro il 1° gennaio 2025. Poi il Parlamento ha prorogato il termine per il ritorno senza responsabilità penale fino al 1° marzo 2025 – a quanto pare, non sono in molti a volerlo fare.

Il mese scorso, una conduttrice del canale YouTube delle donne militari ucraine ha raccontato che nei pressi di Kupyansk, nella regione di Kharkov, quasi tutta la seconda compagnia del 152° Battaglione della 117° Brigata di Difesa Territoriale ha disertato a causa del loro “comandante macellaio”. Il corrispondente di guerra ucraino Yury Butusov ha raccontato lo scandalo della 155ª Brigata meccanizzata “Anna di Kiev”, addestrata in Francia e inviata a Pokrovsk. Sono state reclutate diverse migliaia di persone che erano state costrette a salire sugli autobus per la leva, e più di mille di loro “sono tornati a casa immediatamente dopo l’arrivo”. Nel post del 31 dicembre, spiega che ancor prima che la brigata avesse sparato il primo colpo, 1.700 militari se ne sono andati senza permesso. In seguito, l’Ufficio di Stato per le indagini ha iniziato ad esaminare quanto accaduto. Secondo Butusov, la 155ª Brigata si è addestrata in Francia a ottobre. Già allora 935 uomini aveva abbandonato l’unità senza permesso. In seguito, più di 50 soldati si sono dileguati. Per questa scandalosa formazione sono stati spesi più di 900 milioni di euro. Meno noto è che l’8 gennaio l’Ufficio di Stato per le indagini ha arrestato un tenente superiore di questa brigata, per aver abbandonato l’unità e ha incitato i suoi sottoposti a fare altrettanto. È stato portato dalla regione di Rivne a Kiev e messo in custodia senza cauzione.  “Si è presentato un suo collega di lavoro, è stato costretto a salire su un autobus. [È stato] mobilitato in primavera, ed è scappato dal fronte di Zaporozhye. Ha detto che, quando hanno cominciato a essere fatti a pezzi con tutto quello che avevano, hanno deciso di tornare a casa. L’intera compagnia è entrata in SZCh insieme al loro comandante. Che senso ha se vengono catturati? Non importa. Ora è a casa. Vivo”, ha scritto qualcuno il 18 dicembre nella chat locale di Saltovka [Saltivka è una vasta area residenziale situata nella regione nord-orientale di Kharkiv].

Il 25 novembre, alcuni dei meccanismi utilizzati per combattere la fuga delle reclute sono stati descritti nel gruppo pubblico UFM di Telegram, nato per l’aiuto reciproco per attraversare il confine evitando i posti di blocco.

Il problema principale dei campi di addestramento è che lì tutti si controllano l’un l’altro, perché nelle formazioni ti dicono subito che lo SZCh è riprovevole e che per uno SZCh non riuscito ti picchieranno duramente. E parlano subito di responsabilità collettiva: se qualcuno lascia la tua tenda, allora ricorreranno brutalmente tutti quelli che sono nella tenda.
Il plotone vicino è stato inseguito tutta la notte quando uno di loro è scappato. Sono stati inseguiti nelle trincee per tutta la notte, come un grido d’allarme, svegliati con granate da addestramento, flessioni con l’intera compagnia in tenuta completa, in breve, scherniranno tutti fino in fondo, in modo che tutti sappiano che, se il tuo compagno d’armi scappa, per te ci sarà l’inferno. […].

Tuttavia, un disertore della regione di Kiev, che ha voluto rimanere anonimo, ha un’esperienza leggermente diversa:

“Certo, c’è un fondo di verità in tutto questo. Ma non tutto è così nero. Ora i campi di addestramento sono composti quasi al 100% da persone che sono state mobilitate con la forza. Le compagnie di addestramento sono leggermente diluite con idioti ideologici e zelanti ed anche con donne. Il restante 99% è costituito da potenziali SZCh. E questo lo sanno tutti molto bene. E questa è già una base di solidarietà. Nella mia compagnia al campo di addestramento di Yavoriv, quando un altro soldato scompariva, molti gli auguravano buona fortuna ad alta voce. E questo accadeva quasi ogni giorno. Naturalmente, venivamo tormentati quando dovevamo correre nelle trincee, quando ci portavano via le razioni e tutto il resto. Ma dato che ogni giorno qualcuno fuggiva, non so proprio cosa sarebbe successo se nessuno fosse fuggito.
Sono stato preso il 17 giugno. Sono fuggito il 30 giugno. Sono partito per la Romania il 25 settembre. […]”.

Coloro che vengono arrestati a Kharkov vengono solitamente inviati per l’addestramento non nella parte occidentale del Paese, ma nella regione di Dnepropetrovsk, a est. Questa testimonianza del 29 novembre racconta cosa li aspetta:

L’altro ieri un compagno è stato impacchettato [dalla strada], ieri era già in addestramento, a Dnipro, a 120 km dal fronte. Il convoglio è stato notevolmente rinforzato, è impossibile fuggire, come in un campo di concentramento. Il giovane pastore è stato picchiato, perché si era rifiutato di arruolarsi… La mobilitazione dei sacerdoti, come vediamo, è più importante della mobilitazione della polizia.
È quello che sta succedendo ora… E coloro che si rifiutano di agire vengono mandati a zero [all’avanguardia in prima linea]. Una compagnia di avatar [soldati che bevono]. Sono scomparsi senza lasciare traccia… Senza documenti, senza carta di circolazione. Sono stati semplicemente rapiti e fatti a pezzi. Brutalmente. Ti tolgono i telefoni, i documenti, non gliene frega niente di dove vuoi andare. Se non sei un vice, non gliene frega niente. C’era un tizio, un pastore, l’hanno buttato a terra, picchiato… L’hanno portato a zero da qualche parte… È pieno di sorveglianza, e posti di blocco in città, e sparsi ovunque. [Si poteva andare in bagno solo con un anziano. Si può andare in negozio – con uno scontrino e solo con un anziano, al massimo di 5 persone alla volta
…”.

Se tutto questo è vero, significa che il metodo di “portare a distanza zero” è utilizzato nelle truppe ucraine per sbarazzarsi degli indesiderabili, come avviene nelle unità russe sul fronte orientale. […]

Anche le ribellioni individuali contro lo Stato e la guerra sono diventate più frequenti dopo il calo iniziale dell’autunno. A novembre abbiamo registrato almeno quattro casi nella sola Kharkiv. In particolare, un uomo di 39 anni, dopo essere fuggito dall’esercito un anno e mezzo fa, ha affrontato con le armi i poliziotti giunti nel suo appartamento in risposta alla sua minaccia di uccidere un poliziotto di pattuglia. Aveva un fucile automatico, una pistola e delle granate. Tuttavia, è stato preso in custodia senza sparare un colpo. Il 27 novembre, nel villaggio di Trostyanets, nella regione di Vinnytsia, un uomo di 57 anni si è presentato al centro di arruolamento in risposta a una convocazione e ha accoltellato alla clavicola destra un sergente di 53 anni della struttura, mandandolo in terapia intensiva con ferite alle arterie. “Perché voleva mandarmi in guerra”, ha spiegato l’uomo. La notte del 28 dicembre, tre veicoli della guardia di frontiera sono stati incendiati nella città di Chop al confine della Transcarpazia: Mazda, Peugeot e KIA. Un residente locale di 22 anni, dopo essere stato fermato dalla polizia, ha spiegato il suo gesto durante l’interrogatorio indicando le sue “rapporti ostili” con i proprietari dei mezzi.

Alle 20 circa del 13 gennaio, in una delle strade principali di Kharkiv, le persone hanno bloccato la strada a un “autobus dell’invincibilità” del centro di arruolamento distrettuale. Due uomini e una donna sono scesi da auto civili, uno di loro aveva una pistola da starter (quella delle competizioni). Dopo aver rotto il finestrino del furgone con la pistola, hanno ingaggiato una lotta con i pixel [I soldati ucraini, carichi di equipaggiamento all’avanguardia, sono soprannominati «cyborg», le loro divise «pixel» per la texture]. I poliziotti hanno arrestato il proprietario della pistola e sequestrato la sua auto. Si tratterebbe di un imprenditore di 49 anni, venuto a salvare il nipote. […].

Il 25 novembre, una guardia di frontiera della regione di Khmelnytsky è stata condannata a 12 anni di carcere per l’omicidio premeditato del suo diretto superiore (il capo del gruppo di comunicazione). Il sergente junior di 36 anni, che prestava servizio come tecnico-autista ed era stato mobilitato per il Servizio di frontiera dello Stato nell’agosto 2023, si è recato in servizio con un’arma il 6 febbraio dello scorso anno e durante il servizio ha incontrato il comandante, con il quale aveva un rapporto non amichevole. Dopo di che, è andato con lui verso la mensa e gli ha sparato allo stomaco con un AK-74. Il colonnello è morto sul posto […].

Naturalmente, ci sono diverse notizie simili dall’altro lato del fronte. Infatti, il 29 ottobre, alcuni criminali reclutati per il fronte da un centro di detenzione preventiva e fuggiti dalle loro unità hanno quasi ucciso un rappresentante delle autorità della regione di Leningrado. Come ha scritto il sito locale 47news, il giorno dopo, si trattava del trentenne Aleksandr Igumenov, del trentenne Mark Frolov e del trentasettenne Vladimir Nikin. “Il comandante del gruppo investigativo del Ministero della Difesa ha già delineato le circostanze in un rapporto: si sono mossi verso la casa nel villaggio di Yanino, nel distretto di Vsevolozhsk. Gli ufficiali hanno controllato attentamente il pianerottolo e hanno iniziato ad aspettarlo vicino alla casa. Quando è apparso, l’ufficiale e i suoi subordinati sono saltati in piedi, ma si è scoperto che Igumenov non era solo. C’erano altre due persone con lui. Igumenov ha preso una pistola, ha praticamente puntato la canna sulla fronte dell’ufficiale e ha delineato in modo specifico le prospettive possibili: o se ne vanno e li lasciano andare, o il Ministero della Difesa perderà diversi graduati e un ufficiale. Come si legge nei documenti, “per evitare perdite tra i civili” il gruppo accettò la richiesta e si ritirò. O meglio, ha fatto finta di ritirarsi, chiamando i rinforzi. Gli stessi dipendenti del Ministero della Difesa si sono appostati intorno alla casa nel caso in cui il trio fosse saltato fuori, ad esempio, dalle finestre. L’irruzione delle forze speciali è stata di routine. Hanno sfondato la porta, picchiandoli violentemente. Tutti e tre erano sotto l’effetto di droghe. Oggi sono iniziati gli interrogatori nel Comitato Investigativo Militare esclusivamente nell’ambito dell’articolo 338 del Codice penale – “Diserzione”.” Ognuno di loro ha diverse condanne, soprattutto per furto”.

Il 25 ottobre, nei pressi del villaggio di Kremyanoye nella regione di Kursk, Dmitry Slepnyov, vicecomandante del 2° battaglione motorizzato di fucilieri della 810ª brigata di marina (unità militare 13140 di Sebastopoli), sarebbe stato ucciso da un suo soldato. Durante una riunione di servizio in un posto di osservazione, il capitano ha avuto un conflitto verbale con il soldato Alexander Ryabov. Quest’ultimo ha sparato all’ufficiale tre colpi alla testa con un AK-74. La notizia è stata pubblicata da fonti ucraine, senza alcuna conferma da parte russa.

La sera del 12 novembre, dieci contractors sono fuggiti senza armi dall’unità militare 57849 di stanza nell’insediamento lavorativo di Kochenyovo, vicino a Novosibirsk. Secondo il sito web locale NGS, “vi erano state assegnate circa 30 persone provenienti da tutto il Distretto militare centrale, che in precedenza avevano lasciato arbitrariamente e senza permesso le loro unità militari”. La maggior parte proveniva dal Territorio di Krasnodar. I soldati hanno distrutto la sede dell’unità con la scritta “Guardate, qui c’è una rivolta” e l’hanno filmata, hanno lasciato il villaggio in taxi e sono stati poi tutti arrestati. Prima di questo fatto, alcuni dei fuggiaschi avrebbero chiesto assistenza medica, e il motivo della rivolta era che non volevano essere rimandati al fronte. Secondo le informazioni dei canali Telegram, al 15 novembre più di un centinaio di titolari dello status di SOCh di questa unità sono stati comunque trasportati a Rostov-sul-Don.

La notte del 20 dicembre, cinque militari sono morti e sette sono stati ricoverati in ospedale per inalazione di fumo a causa di un incendio nel centro di detenzione di Vilyuisk Lane a Yakutsk. In questa struttura, i soldati detenuti perché si erano assentati senza permesso (AWOL) erano imprigionati e torturati. Secondo i servizi di emergenza e le autorità russe, i prigionieri hanno appiccato il fuoco all’edificio mentre cercavano di fuggire. In totale, c’erano diverse decine di detenuti. Nella primavera del 2024 ci sono state lamentele sulle condizioni di detenzione. Durante l’ispezione della Procura militare della Guarnigione di Yakutsk, sono state rilevate numerose violazioni della legislazione federale e sono stati emessi degli ordini di servizio per eliminare tali violazioni […].

In un modo o nell’altro, nel novembre 2024 le truppe russe hanno conquistato un territorio 4,7 volte superiore a quello dell’intero 2023. Nei primi quattro giorni del 2025, hanno già conquistato otto villaggi a sud di Pokrovsk e mancano solo alcuni chilometri al confine con la regione di Dnepropetrovsk, dove non ci sono ancora state ostilità e le fortificazioni sono minime. Nonostante la situazione sia così critica, la popolazione ucraina non ha manifestato alcuna impennata patriottica. Troppi lavoratori non vedono più alcuna particolare differenza su chi li deruberà.

17 gennaio 2025

Da libcom: https://libcom.org/article/turn-2024-and-2025-ukraine-desertion-has-become-nationwide-mainstream

 

Trad. per conto di CRINT-FAI

 

Immagine: Un momento delle manifestazioni congiunte di tutti gli oppositori alla guerra ucraini, russi e locali tenutesi il 21 dicembre a Berlino, Colonia e Parigi. Da: https://nowar.solidarite.online/blog/de-paris-%C3%A0-cologne-en-passant-par-berlin-d%C3%A9serteurs-de-tous-les-pays-unissez-vous

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La maniera forte. La “pace” di Trump somiglia alla guerra di Biden

Alla fine di gennaio Scott Ritter ha pubblicato un articolo assai interessante sul prezzo del petrolio russo.

Scott Ritter è un ex membro del servizio segreto del corpo dei marines USA ed ex ispettore dell’ONU; ha preso spesso posizioni critiche verso la politica estera USA. In questo articolo se la prende con il post di Trump in cui il neopresidente annunciava il suo piano di pace per l’Ucraina. Secondo Ritter questo piano non ha alcuna speranza di essere accolto e al presidente USA non resterebbe che applicare la maniera forte, già minacciata nel post.

In cosa consisterebbe questa “maniera forte”?

Secondo Scott Bessent, nuovo segretario al Tesoro di Donald Trump, la risposta sta nell’inasprimento delle sanzioni contro l’industria petrolifera russa. Ma Bessent dovrà fare i conti con una narrazione con cui gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno venduto in modo eccessivo le sanzioni come strumento per distruggere l’economia russa. Inoltre, dato lo status della Russia come principale produttore di petrolio, qualsiasi applicazione di sanzioni potrebbe avere un impatto economico negativo sugli Stati Uniti.

Questo aspetto sembra essere sfuggito all’attenzione di Keith Kellogg, il guru degli “accordi di pace” di Trump. Osservando che, sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno imposto un tetto di 60 dollari al barile al petrolio russo (il prezzo di mercato del petrolio si aggira intorno ai 78 dollari al barile), Kellogg ha osservato che, nonostante ciò, “la Russia guadagna miliardi di dollari dalle vendite di petrolio”.

“E se”, ha aggiunto Kellogg durante un’intervista a Fox News, ‘si abbassasse il prezzo a 45 dollari al barile, che è essenzialmente il punto di pareggio?’.

La domanda è: “punto di pareggio” per chi?

Il concetto di “punto di pareggio”, quando si parla di Russia, ha un aspetto duplice. Il primo aspetto è rappresentato dal prezzo del petrolio che la Russia, che dipende fortemente dalla vendita di petrolio per la sua economia nazionale, deve raggiungere per pareggiare il bilancio nazionale. Questo prezzo è stimato intorno ai 77 dollari al barile per il 2025. Non ci sono dubbi: se il prezzo del petrolio scendesse a 45 dollari al barile, la Russia si troverebbe ad affrontare una crisi di bilancio. Ma non una crisi di produzione petrolifera.

Il secondo aspetto del “punto di pareggio” per la Russia è il costo di produzione di un barile di petrolio, che attualmente è fissato a 41 dollari al barile. La Russia sarebbe in grado di produrre petrolio senza interruzioni se Kellogg riuscisse a raggiungere il suo obiettivo di ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile.

Per raggiungere l’obiettivo, Trump dovrebbe far salire i sauditi sul carro della manipolazione del prezzo del petrolio. Il problema è che i sauditi hanno il loro “punto di pareggio”. Per pareggiare il bilancio, l’Arabia Saudita ha bisogno che il petrolio sia venduto a circa 85 dollari al barile. Ma il costo di produzione del petrolio in Arabia Saudita è molto basso, intorno ai 10 dollari al barile. Se volesse, l’Arabia Saudita potrebbe semplicemente inondare il mercato di petrolio a basso costo. Anche la Russia potrebbe farlo.

E gli Stati Uniti? Il bacino di Permian, nel Texas occidentale, rappresenta la totalità della crescita della produzione petrolifera statunitense dal 2020. Nel 2024, per rendere redditizi i nuovi pozzi nel Bacino Permiano, il punto di pareggio era di circa 62 dollari al barile. Per i pozzi esistenti, la cifra era di circa 38 dollari al barile. Se le trivellazioni venissero interrotte nel Bacino permiano, la produzione di petrolio degli Stati Uniti diminuirebbe del 30% nell’arco di due anni.

In breve, se Keith Kellogg riuscisse ad attuare il suo “piano” per ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile, distruggerebbe di fatto l’economia petrolifera statunitense. E, conclude Ritter, se si distrugge l’economia petrolifera statunitense, si distrugge l’economia degli Stati Uniti.

Questa uscita di Ritter a proposito delle sanzioni si capisce meglio se si ricorda che il 10 gennaio il presidente uscente Biden ha inasprito le sanzioni contro la Russia, che hanno sconvolto temporaneamente il mercato del petrolio.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha riferito questa settimana la sua ultima previsione per l’offerta e la domanda di petrolio, osservando che le ultime sanzioni si riveleranno solo un ostacolo temporaneo per le esportazioni di petrolio russo. Non solo questo, ma l’AIE ha anche stimato, per gennaio, la produzione petrolifera della Russia in rialzo di 100.000 bpd per un totale di 9,2 milioni di barili al giorno. L’AIE ha dovuto rivedere le sue stime di produzione petrolifera russa in numerose occasioni.

L’idea che l’industria dei combustibili fossili sia l’industria principale degli Stati Uniti, e che ogni danno ad essa sia un danno per l’economia statunitense nel suo complesso sembra essere un’idea sorpassata.

L’elezione di Donald Trump è stata salutata con un aumento del valore di borsa delle corporation dei suoi principali sostenitori. Secondo quanto scrive Davide Magliuolo su “Investireoggi” riportando i dati di Bloomberg Billionaires Index, tra i maggiori beneficiari della vittoria di Trump ci sarebbe ovviamente Elon Musk, che ha visto il proprio patrimonio crescere di ben 26,5 miliardi di dollari, raggiungendo il totale di 290 miliardi di dollari. Dopo di lui Jeff Bezos ha visto aumentare il proprio di oltre 7 miliardi di dollari. Anche Larry Ellison, ex amministratore delegato di Oracle, ha registrato un aumento del suo patrimonio di quasi 10 miliardi, arrivando a un totale di 193 miliardi di dollari. Da segnalare che Mark Zuckerberg ha visto calare il suo patrimonio di più di 80 milioni di dollari, la cosa probabilmente ha influito sulla scelta di Meta di attenuare la politica di moderazione dei contenuti su Facebook.

Questo risultato è il prodotto delle attese politiche a sostegno delle imprese tecnologiche che ormai hanno sostituito il petrolio nelle scelte strategiche dell’amministrazione USA. I grandi oligarchi tecnologici della Silicon Valley temono le aziende cinesi di intelligenza artificiale come “Ricerca Approfondita”. Il miliardario Peter Thiel, sostenitore di Donald Trump, ammette che vogliono i monopoli, sostenendo che “la concorrenza è per i perdenti”. L’amministratore delegato di Anthropic, Dario Amodei, ha affermato che gli Stati Uniti devono mantenere un “mondo unipolare”.

Questa centralità assunta dalla tecnologia nella politica imperiale di Washington spiega come mai per l’amministrazione Trump le terre rare possedute dall’Ucraina (in parte nelle zone occupate dalla Federazione Russa) siano diventate più importanti del petrolio.

Da una parte abbiamo il presidente degli Stati Uniti che si dichiara disposto a continuare l’appoggio militare a Zelensky a condizione che questi garantisca la consegna di 500 miliardi di dollari in terre rare, dall’altra abbiamo Zelensky, il presidente ucraino, che si rifiuta di firmare l’accordo proposto per dare agli Stati Uniti l’accesso ai minerali di terre rare dell’Ucraina perché il documento era troppo incentrato sugli interessi statunitensi. Zelensky ha affermato che qualsiasi sfruttamento minerario da parte degli Stati Uniti dovrà essere legato a garanzie di sicurezza per l’Ucraina che scoraggino future aggressioni russe. Evidentemente la trattativa è in corso ed ognuno dei contendenti punta ad avere dei vantaggi.

L’impressione comunque è che l’attuale presidenza abbia ormai i giorni contati, e sia pronto un cambio di regime in Ucraina. La figura di Zelensky è troppo screditata a livello di massa a causa della politica di guerra e di compressione delle libertà e del tenore di vita dei ceti popolari, è troppo collegata alla narrazione dell’indipendenza ucraina per poter essere usata in una trattativa di scambio fra gli opposti imperialismi. L’uscita di scena di Zelensky permetterebbe a Putin di dichiarare compiuta la denazificazione dell’Ucraina, che potrebbe essere festeggiata il 9 maggio. Se la Russia non accetta le condizioni degli Stati Uniti, non c’è niente che lasci credere che la pace sia l’obiettivo ad ogni costo della politica degli Stati Uniti.

Lo scenario che si sta delineando è il peggiore possibile per le persone che hanno venduto la loro anima per la sconfitta di Putin, propagandando l’arruolamento nell’esercito di Kiev a fianco e agli ordini dei nazisti, raccogliendo soldi per permettere a Zelensky di continuare la guerra e vendere il proprio paese al miglior offerente occidentale. Come ho scritto fin da prima dell’inizio dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, gli Stati Uniti non possono permettersi che Putin perda. Una Russia forte rimane un potenziale alleato nella contesa per la Cina, e l’Ucraina è solo uno dei tanti campi di battaglia sulla scacchiera del mondo, dove muoiono a centinaia di migliaia i pedoni, mentre i re se ne stanno arroccati, in attesa di un accordo sempre possibile con il re avversario.

Così la “pace” di Trump finirebbe per assomigliare alla guerra di Biden.

 

Tiziano Antonelli

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