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Respingere i tagli. Assistenza educativa scolastica

Da quattro mesi in alcune della città della Toscana è in corso una lotta contro i tagli all’assistenza educativa per gli studenti disabili. Unicobas ha seguito da vicino la situazione di Livorno, una delle più gravi, in cui la riduzione delle risorse si è fatta sentire con maggiore drammaticità.

L’assistenza educativa è un servizio che affianca gli insegnanti di sostegno e di materia curricolare nei casi di studenti con particolari gravità, che necessitano di supporto nella sfera dell’autonomia personale e della comunicazione. L’attività è affidata a educatori professionali, personale fornito da cooperative sociali a cui le scuole appaltano il servizio utilizzando fondi regionali e statali che vengono erogati sul territorio tramite gli enti locali.

Il servizio, previsto dalla legge 104 del 1992 per casi di particolare gravità, ha avuto nel tempo una diffusione notevole, per vari fattori. Innanzitutto, va considerato l’inserimento sempre più massiccio degli studenti disabili nella scuola pubblica, anche nelle superiori. Una delle poche pratiche virtuose di questo paese è infatti quella di avere intrapreso fino dal 1977 un processo serio di integrazione scolastica della disabilità, chiudendo la fase delle scuole differenziali per inserire, prima nella fascia dell’obbligo, poi anche nelle superiori, i ragazzi con qualsiasi tipo di disabilità nelle classi comuni. Non è una cosa da poco, se si considera il panorama europeo. In Italia il 93% degli alunni disabili frequenta la scuola in classi comuni, mentre in Europa il modello “separatista” è largamente diffuso, con in testa Repubblica Ceca, Finlandia, Olanda, Svizzera, Germania, Austria, Ungheria, Regno Unito. Vero che il modello italiano richiede di investire sul personale (insegnanti di sostegno e numero contenuto di alunni per classe), mentre invece, come ben sappiamo, da anni i tagli sono la normale modalità di gestione della scuola, come pure della sanità e di vari settori della spesa sociale. Nel tempo quindi l’organico dei docenti di sostegno ha subito tagli consistenti. Attualmente, a livello nazionale, il 50% dei docenti di sostegno è formato da personale precario; i posti in deroga sono circa 120.000, il che vuol dire che 120.000 posti corrispondenti a reali necessità fanno parte di un organico oscillante, di un “fuori sacco” che da un anno all’altro può sparire per esigenze di riduzione di spesa, e trattandosi di organico non stabilizzato non c’è nemmeno da far la fatica di licenziare. In questa situazione, nel corso degli anni, per tagliare gli insegnanti di sostegno, personale statale, si è fatto un impiego sempre più largo degli educatori, personale esternalizzato il cui costo è notevolmente più basso.

Ora si taglia anche sull’assistenza educativa. Nella provincia di Livorno, rispetto alle necessità ufficialmente certificate, manca all’appello 1 milione e 200mila euro. Il servizio ha subito una riduzione drastica in termini di ore settimanali e dal mese di marzo le risorse saranno esaurite. Lo scenario che si è aperto è quello di un’emergenza di ordine sociale ed occupazionale.

Si colpiscono gli studenti disabili, privati di supporti indispensabili, con conseguenze non solo sulla qualità dell’inserimento scolastico, ma anche sulla stessa possibilità di frequenza. Si colpiscono educatori ed educatrici, che si vedono tagliare gli stipendi per la decurtazione di ore, che sono sottoposti a condizioni di lavoro di sfruttamento, spesso fuori dalla regolamentazione del contratto nazionale, che lavorano in condizione di estrema precarietà giornaliera, che non hanno una prospettiva di prosecuzione di lavoro, ma lo spettro sempre più concreto del licenziamento.

Per questo motivo, dalla fine di ottobre si sono susseguite azioni di protesta che hanno visto in piazza, insieme ai sindacati di base, educatori, docenti, studenti disabili, familiari, associazioni, collettivi studenteschi. Le risposte istituzionali locali di Regione, Provincia e Dirigenze scolastiche sono state ridicole, perse nel palleggiamento delle competenze e nei tanti tecnicismi burocratici che non fanno che evidenziare mancanza di volontà politica e inadeguatezza ad affrontare e governare il piano dei bisogni collettivi. Perché istruzione e retribuzione del lavoro sono bisogni collettivi.

Nel mirino della protesta ovviamente anche il governo centrale, responsabile di aver tagliato del 55% le risorse stanziate lo scorso anno, non adeguandole all’incremento del numero di studenti che necessitano di assistenza educativa. Una dimostrazione di quanto la tutela delle persone più fragili non stia minimamente a cuore a chi governa, più interessato a finanziare guerre, grandi opere, grandi imprese e grandi capitali. La scuola e il sociale sono tra i settori più penalizzati, insieme alla sanità, dalle scelte scellerate di chi parla di inclusione per poi procedere sistematicamente all’esclusione. Questo è stato messo bene a fuoco nelle proteste e nelle rivendicazioni di piazza portate avanti dagli educatori delle cooperative.

Il settore delle cooperative sociali è uno dei più esposti a precarietà, bassa retribuzione, condizioni di lavoro prive di effettive tutele. Le amministrazioni pubbliche (e non solo) utilizzano questo settore per gestire al ribasso quei servizi che sono tenute a erogare, secondo il sistema delle esternalizzazioni che significa pagare meno chi lavora, tenendo i lavoratori ad un livello dequalificato anche nei casi in cui le competenze professionali individuali sono molto elevate, come nel caso degli educatori professionali. Con tutta probabilità il costo della gestione delle gare di appalto, dei bandi, delle rendicontazioni e delle relative istruttorie, affidato a personale amministrativo e funzionari, è più elevato di quanto non si ricavi dai tagli, ma l’importante è mantenere il sistema esternalizzato, i lavoratori sottopagati e precari, mantenere insomma la gerarchia e lo sfruttamento. Ed è invece contro questo sistema di gerarchia e di sfruttamento che queste lavoratrici e lavoratori hanno alzato la testa e levato la voce, coinvolgendo la cittadinanza e facendo della questione dei tagli all’assistenza educativa una vertenza cittadina che ha oltrepassato i limiti locali, obbligando a un confronto lo stesso ministero delle disabilità. E indipendentemente dall’esito di questa lotta, ancora in corso, il meccanismo del ricatto, secondo il quale chi è più debole, precario e sfruttato non deve alzare la testa, quel meccanismo si è inceppato

E.U.

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Dal cuore del Rojava. Difendere la rivoluzione

In una critica al sistema patriarcale militarista la sociologa Dilar Dirik ha affermato che la resistenza delle donne curde opera senza gerarchia né dominazione ed è parte della più ampia trasformazione e liberazione della società. Secondo Dirik le potenti istituzioni del mondo operano attraverso la struttura-Stato, che ha il monopolio finale sul processo decisionale, sull’economia, sull’uso della forza. Gli onnipresenti apparati di sicurezza dello Stato portano avanti apertamente economie di commercio di armi e traggono benefici dal contrapporre le comunità l’una contro l’altra. La studiosa ha inoltre suggerito che per resistere, senza essere militarista, la società dovrebbe astenersi dall’imitare i concetti statali di forza e, invece, tutelare i valori della comunità, traendo la sua forza dal basso. La società, e in particolare le donne, dovrebbe prima di tutto “xwebûn” (termine curdo che può essere tradotto come: essere se stessa) vale a dire che solo con la realizzazione della propria esistenza e del suo significato, potrà rivendicare il diritto di vivere e difendere se stesse/i e la comunità, basandosi su una società politicizzata, consapevole di sé, cosciente e attiva, che interiorizzi l’etica dell’amore per la comunità, compresi i valori fondamentali quali l’impegno per la liberazione delle donne, piuttosto che fare affidamento sulle leggi applicate dallo Stato capitalista e dal suo apparato di polizia. È spiegata anche la Teoria della rosa con il concetto di legittima autodifesa compresa la creazione di meccanismi di base sociali e politici per proteggere la società al di là della mera difesa fisica. Sottolinea che in natura gli organismi viventi, come le rose con le spine, sviluppano i loro sistemi di autodifesa non per attaccare, ma per proteggere la vita. Le donne curde hanno elaborato anche le espressioni pratiche e teoretiche per una trasformazione politica e sociale in direzione del superamento del modello dello Stato-Nazione e della sua legittimazione attraverso l’egemonia ideologica[i].

Nel 2015 il mondo è stato testimone della Resistenza della città di Kobanê[ii] allo Stato Islamico e l’articolo di Dirik, pubblicato pochi mesi dopo la liberazione di quella città, si chiudeva con l’invito a sfidare la storiografia fascista che sminuisce la società e a cercare nella pratica le soluzioni ai problemi sociali attraverso una “sociologia della libertà” basata sulle voci, sulle esperienze degli/delle oppressi/e. Soprattutto concludeva che, per avere successo, è fondamentale sapere per cosa si lotta. Le sue parole risuonano alla vigilia dei festeggiamenti del Newroz il prossimo 21 marzo, il fuoco del capodanno curdo, simbolo dell’inizio della primavera ma anche della fine della tirannia e della guerra perpetrata dagli Stati nazionali locali e dagli interessi internazionali per controllare questa vasta area geografica a maggioranza curda[iii] e abitata anche da altre minoranze tra cui assiri, arabi, armeni, siriaci, turkmeni e circassi.

Fin dagli anni Ottanta qui la popolazione si è autorganizzata costruendo una struttura sociale ed economica denominata Confederalismo democratico ispirata al pensiero e fondata sugli studi di Abdullah Öcalan[iv] dal 1999 imprigionato nell’isola di Imrali in Turchia. Oltre al Rojava (NES Nord East Syria) troviamo oggi altre aree in autonomia che si gestiscono secondo questo paradigma, sono coordinate sotto l’acronimo di DAANES e comprendono oltre 50 organizzazioni politiche. Di pari passo alla guerra si è andata moltiplicando la necessità di esistenza di un’umanità che non si è rassegnata e non è un caso che il motto più conosciuto a livello globale sia Donna Vita Libertà (Jin Jiyan Azadî in curdo) poiché l’autorganizzazione e l’autodifesa delle donne è tra le prerogative fondamentali.

La società si basa principalmente sul sistema delle comuni, che sono state create a centinaia. Sono numerose le municipalità che hanno tra le priorità l’istruzione, l’ambiente e la cultura. Dalla rivoluzione del 19 luglio del 2012 in poi sono cresciute diverse generazioni fuori dall’egemonia statale, con un’alternativa di vita concreta all’orrore dei bombardamenti, della persecuzione e della distruzione perseguita anche utilizzando armi chimiche.

13 anni di autogestione senza Stato nonostante l’embargo e gli attacchi in uno scenario bellico permanente tra le spartizioni, le alleanze variabili delle nazioni, gli spostamenti demografici obbligatori. Tra gli accordi degli ultimi anni stipulati dagli Stati nazione di certo ha un ruolo di rilievo la Abraham Accord Declaration del 2020 un Trattato di pace noto come gli Accordi di Abramo[v].

Per la cronaca, nel centenario della fondazione della Repubblica di Turchia, il governo di R. T. Erdoğan ha annunciato un “processo di normalizzazione”, per garantire a Öcalan “il diritto alla speranza” per una eventuale libertà. Tenendo conto che è un uomo ancora imprigionato, il messaggio di Öcalan del 28 dicembre 2024 è stato inoltrato al TBMM (parlamento turco). Un messaggio di speranza carico di scetticismo dovuto al fallimento del processo di pace del 2013-2015 quando il governo di Erdoğan ha messo a tacere il dissenso con arresti, vessazioni, incarcerazioni, e attivato una campagna per smantellare le strutture politiche curde destituendo i sindaci curdi mettendo al loro posto dei suoi fiduciari. La stessa cosa sta accadendo ancora oggi a Van, dove la popolazione si sta ribellando. L’ultimo decennio è tra le epoche più dure e oppressive della violenza di stato perpetrata contro le rivolte curde.

Termini come “sarı torba” (sacco giallo della morte) e “terroristan” (paese del terrore) sono emersi come cupi simboli tra gli esempi delle politiche utilizzate nell’ultimo decennio[vi].

Lo sforzo di normalizzazione con gli Accordi di Abramo ha posto la Turchia di fronte all’evidenza del crescente isolamento di Erdoğan e a questi aggiungiamo la sua esclusione da progetti come il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC) e lo slancio, guadagnato a livello interno, dai movimenti di base che sostengono la libertà delle donne, la protezione delle minoranze e che sfidano ulteriormente il governo autoritario.

La pace, a mio avviso, non è un processo facilmente raggiungibile poiché dovrebbe tener conto della ricchezza delle lotte in modo continuo e senza interruzioni e inoltre il processo di lotta attuale si sta mostrando più denso e consapevole del vecchio.

Per rimanere in tema il 15 febbraio scorso è stato il 26esimo anniversario della cospirazione internazionale che ha portato all’arresto di Öcalan e come ogni anno ci sono manifestazioni in diverse parti del mondo. In Europa decine di migliaia di solidali, la comunità curda esule e rifugiata si mobilitano per rivendicare la fine dell’isolamento e la sua liberazione insieme a quelle di altri prigionieri e prigioniere politiche. Tra le iniziative organizzate intorno a quella giornata di lotta, si ricorda l’arrivo della marcia internazionale, un percorso a piedi partito dalla Svizzera il 10 febbraio, il suo passaggio è stato annunciato in una conferenza stampa a Strasburgo (Francia) ed è finito a Colonia (Germania) il 17 febbraio. In Italia il percorso verso questa giornata è stato costellato da una serie di conferenze stampa, presidi e assemblee pubbliche che hanno portato alle manifestazioni di Roma e di Milano.

Ad ogni modo il percorso di pace, riattivato nel mese di ottobre 2024, ha permesso le visite di parenti ed avvocati nel carcere di Imrali ma contemporaneamente l’esercito turco ha intensificato i bombardamenti mentre HTS Hayat Tahrir al-Sham, con SNA (esercito nazionale siriano), si insediavano con il loro governo a Damasco in seguito alla fuga di Bashar Al Assad dalla Siria.

Turchia e SNA per nascondere i crimini commessi nelle regioni occupate hanno preso di mira gli operatori dei media, con attacchi di droni e altri mezzi con l’obbiettivo di soffocare o eliminare il giornalismo, modalità comune ai regimi autoritari, a livello globale, il cui scopo è il controllo dei media oltre all’eliminazione del dissenso ad ogni costo e con ogni mezzo a propria disposizione.

Dal 2019 si contano 14 giornalisti uccisi dallo Stato turco in questa regione, tra cui Egîd Roj ucciso in un attacco di droni turchi nel nord della Siria. Aveva svolto un importante lavoro di informazione sulle ostilità alla diga di Tishreen nella provincia di Aleppo in Siria, che è attualmente al centro di un’offensiva turco-jihadista. La diga è una struttura fondamentale sul fiume Eufrate, sia per l’irrigazione che per la produzione di energia. La sua costruzione fa parte di un processo storico che si intreccia con la complessa situazione politica e geografica della regione e dall’8 dicembre 2024 è stata oggetto di attacchi aerei e terrestri da parte della Turchia e dei suoi gruppi paramilitari.

La costruzione era cominciata negli anni ’80 ed era stata completata e messa in funzione nel 1999. Tra il 2013 e il 2015 era caduta nelle mani dell’Isis e l’infrastruttura era stata gravemente danneggiata, i sistemi di irrigazione erano stati interrotti insieme alla produzione di elettricità. Nel 2015, le YPG e le forze YPJ delle Forze democratiche siriane (FDS) hanno riconquistato la diga che era stata riparata e riattivata ma il livello dell’acqua era sceso di nuovo quando la Turchia aveva ridotto il flusso dal fiume Eufrate, influenzando negativamente la produzione di elettricità. La diga immagazzina e regola l’acqua necessaria per l’agricoltura, l’acqua potabile, l’industria e inoltre la sua posizione aumenta l’efficienza dei sistemi di irrigazione. Tuttavia, l’importanza della diga non si limita alla sua dimensione economica poiché svolge un ruolo anche strategico in un momento di guerra civile per gli equilibri di potere. Con lo scoppio della guerra in Siria, infatti, la diga di Tişrîn, come altri punti strategici, è passata sotto il controllo di diversi gruppi armati. Per questo l’8 gennaio 2025, migliaia di persone provenienti dal nord e dall’est della Siria sono partite verso la diga, in seguito all’appello dell’Amministrazione autonoma e hanno cominciato una veglia, per proteggerla insieme alle Forze democratiche siriane (SDF) e alle Unità di difesa delle donne (YPJ) che stanno affrontando gli attacchi dell’esercito turco e dei mercenari alleati dell’SNA. Nel contesto del regime-change in corso in Siria dopo l’8 dicembre, l’area intorno a Tişrîn, così come intorno agli altri ponti e dighe sull’Eufrate, è divenuta di vitale importanza perché, dalla sua integrità e dal fatto che il controllo rimanga all’Amministrazione Autonoma, dipende l’esistenza dell’esperienza rivoluzionaria nel Rojava. Caduta la diga, le bande jihadiste sostenute e dirette dalla Turchia avrebbero la strada aperta verso il cuore della rivoluzione. Nonostante tutti gli attacchi e i massacri, la gente non si è tirata indietro. Il cordone popolare che si è creato intorno alla diga di Tişrîn ha molto chiaro che difendere quel luogo, che si affaccia su Kobanê, significa in realtà difendere la rivoluzione. A Tişrîn, il cuore dell’Eufrate, stanno continuando la loro lotta con lo slogan “Tişrîn ava ax û jiyana me ye” (Tişrîn, l’acqua della nostra terra e della nostra vita).

Norma Santi

 

Immagine: Dalla parte del Rojava- poster di Militanza Grafica, particolare

[i]      Articolo di Dilar Dirik, sociologa curda, pubblicato dalla redazione IAPH Italia (Associazione Internazionale delle Filosofe), 8 giugno 2017 sul sito web http://www.iaphitalia.org/lautodifesa-radicale-delle-donne-curde-armata…

[ii]     Kobane è una città nel Rojava. Il Rojava è regione nel nord est della Siria al confine con la Turchia che comprende tre cantoni :Cizre, Kobane e Afrin. Ha dichiarato l’autonomia dallo Stato siriano nel 2014 ed ha un proprio Contratto Sociale aggiornato nel 2024. Lo Stato islamico (Daesh in arabo) è stato istituito istituito tra il 2013 e il 2014 con il Califfato di Al Baghdadi ed ha avuto come roccaforte le città di Mosul e Raqqa in Siria. L’ultimo avamposto dello IS al Baghouz è stato sconfitto il 19 marzo del 2019. Il 18 Marzo cadeva Lorenzo Orsetti (Orso)

[iii]    Si contano circa 35 milioni di curdi divisi tra gli stati di Turchia, Siria, Iran, Iraq e altri esuli e rifugiati in Europa ed altre parti del mondo.

[iv]    Ocalan è stato tra i fondatori del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Oltre lo Stato, il potere e la violenza,Scritti dal carcere, A.Ocalan,Milano,Punto Rosso,2016

[v]     Il 15 settembre 2020 la Casa Bianca ha ospitato la firma degli Abraham Accords Peace Agreements: Treaty of peace, diplomatic relations and full normalization between the United Arab Emirates and the State of Israel e degli Abraham Accords: Declaration of Peace, Cooperation and Constructive Diplomatic and Friendly Relations announced by the State of Israel and the Kingdom of Bahrain, con la partecipazione del Primo ministro israeliano B. Netanyahu e i Ministri degli esteri di Emirati Arabi Uniti (EAU) e Regno del Bahrein, e del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

[vi]    Termini dispregiativi utilizzati da Erdogan e i suoi alleati: Sarı torba (sacco giallo della morte) che si riferisce ai sacchi per cadaveri usati per trasportare i resti dei guerriglieri e degli attivisti curdi; Terroristan per descrivere le regioni curde nel nord dell’Iraq e della Siria, definite come paradisi per il terrorismo per giustificare l’aggressione militare.

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Manifestazione antirazzista ad Alessandria

Oggi 16 Febbraio  siamo andati alla manifestazione per ricordare la tragica vicenda di   Ange Jordan Tchombia arrivato dal Camerun in Italia nell’aprile dello scorso anno era ospite del centro di accoglienza di Isola Sant’Antonio. Aveva visto morire il fratello in Libia. Lui era riuscito a fuggire dalle torture, dagli abusi, dagli stenti.

Il ragazzo, che frequentava il CPIA di Tortona, dove aveva conseguito l’attestato di A2, stava partecipando ad un progetto psico-educativo. Voleva trovare un lavoro, farsi una vita qui. 

Mentre passava vicino alla stazione di Tortona, di ritorno dalla consegna di alcuni curriculum lavorativi, Ange è stato aggredito da chi cercava di rubargli il monopattino. Una coltellata fatale l’ha colpito al petto.  

La destra locale locale non ha perso l’occasione anche su questo fatto, dove l’aggressore non è italiano,  ma neanche la vittima, per inscenare una campagna razzista.   La manifestazione denunciava questo scempio!    

Ci spiace, fratello, eri riuscito a scappare dagli orrori della Libia, quella Libia salita all’onore delle cronache in questi giorni con la vicenda del generale torturatore Almasri, liberato e accompagnato a casa sua con un volo di Stato, ne avevi passate tante per la tua giovane età, cercavi di rifarti una vita dignitosa e sei finito così sul selciato di una città fredda, inospitale, egoista e senza umanità 

Sabato 15 proprio nel luogo dove sei morto,  i fasci di Casa Pound hanno fatto un presidio per il rimpatrio di tutti gli immigrati. Loro erano 4 gatti noi eravamo centinaia!!!         

Questo è  il volantino  che ha distribuito il Laboratorio  Anarchico PerlaNera 

“QUANTO VALE UNA VITA UMANA?

DIPENDE!

Dipende da chi muore, da chi lo ha ucciso, perché i giudizi cambiano, nelle chiacchiere da strada.

Cambia, se il morto è Italiano e l’assassino è straniero, in questo caso infatti, certi politici e i mass media subito dichiarano che tutti gli stranieri senza distinzione alcuna, sono feroci assassini da cacciare dal sacro suolo italico! se invece l’assassino è Italiano e il morto è straniero, in questo caso… si minimizza, si dice che è un fatto isolato… e poi le mele marce… ci sono dappertutto, se succede, come in questo caso, che tutte due, l’aggredito e l’aggressore sono entrambi stranieri, IMMIGRATI, al massimo ce la possiamo cavare con un titolo sul giornale, ovviamente senza fare un’analisi sociologica del problema, infondo, nelle chiacchiere da bar, si sono ammazzati tra loro!

Ma loro chi?

Nessuno si chiede da dove vengono, cosa hanno dovuto subire, come e perché sono emigrati.

L’emigrazione è un fenomeno che affonda le sue radici nel colonialismo e nel post colonialismo, nelle guerre, fomentate dai governi occidentali, ma è anche un fenomeno naturale, persino le piante emigrano, figurarsi gli esseri umani che originariamente erano nomadi!

Per fare un esempio tra i tanti, ci sono Italiani presenti in mezzo mondo, emigrati in Europa, nelle Americhe, fino alle terre australi.

Chi mette a repentaglio la propria vita, chi abbandona i propri cari per andare in un paese che non conosce, senza sapere quale sarà il suo futuro, non lo fa a cuor leggero, lo fa perché è costretto dalla miseria in cui vive, oppure fugge da situazioni di persecuzioni politica, o da conflitti bellici, oppure semplicemente è alla ricerca di migliorare le proprie misere condizioni economiche,

Tutti, buoni e onesti lavoratori? Ovviamente no!

Come dappertutto c’è tra loro il buono e il cattivo!

Però, cosa trova qui nel “civile” occidente; il disastrato mondo del lavoro attuale, le speculazioni, e la logica del profitto al di sopra di tutto, che non gli offre altro
se non precarietà e sfruttamento, trova una vita da emarginato, calunniato dalla destra, e indicato come la feccia della feccia, spesso sono disperati, senza scampo, trasformati così nell’anello più debole della catena sociale, sono ricattati e ricattabili, in queste condizioni non stupisce che molte volte finiscono anche nelle mani della malavita organizzata, diretta e dominata ovviamente, da Italiani!

Ci sono poi quei politici ( spesso purtroppo anche a sinistra) che ci parlano di integrazione, che significa omologare tutti agli usi occidentali, oppure si parla di una società multietnica e multirazziale, e poi si difendono leggi imposte, e disumane dove la vita di un individuo è vincolato da un visto, da un permesso e da leggi burocraticamente imposte contrarie alla solidarietà verso chi ha un’unica colpa quella di essere nato dove la sopravvivenza è più difficile.

Eppure, governo dopo governo si assiste ad un inasprimento del controllo sociale, con mezzi tecnologici sempre più sofisticati di controllo degli individui considerati non conformi a certi schemi e alla militarizzazione del territorio.

La tragica morte di Jordan Tchombiap deve far riflettere, perché anche in questo triste caso si parla solo di come è morto, di chi lo ha ucciso, non del perché era qui, della sua vita, delle sue aspirazioni, parlare di questa morte dovrebbe servire per comprendere chi è vivo ed è qui affianco a noi! Eppure sarebbe semplice, come abbiamo detto, è ovvio che i buoni e i cattivi ci sono dappertutto, ma è possibile che non si sa scegliere e capire con chi avere dei rapporti liberandoci da preconcetti parlando con le persone, confrontarsi, non per diventare uguali, per omologarsi, ma per apprendere l’uno dall’altro, con pari dignità e pari diritti.

Non siamo buonisti o cattivisti semplicemente non pensiamo che la Giustizia sia quella della legge, perché siamo circondati da leggi criminali, la Giustizia è un fatto sociale, culturale, un modo di essere! La Giustizia è nelle strade, nei quartieri nei luoghi di lavoro, dove si parla con gli altri, solo così si conoscono le problematiche, le abitudini, anche le credenze, aver uno scambio non può che arricchire gli individui!

Parlare, ascoltare, guardarsi negli occhi, sono cose naturali che stiamo perdendo come abitudine.

Da anni sentiamo dire: “di sera non si può più uscire, perché ci sono solo immigrati” ma il problema sono i troppi emigrati o i pochi rapporti umani? Anni fa, soprattutto d’estate prendevano vita capannelli di gente che si riversava in strada, che parlava e si raccontava, si confrontava e imparava, che solidarizzava con i problemi o le sfighe altrui.

Non ci resta che prendere esempio dai bambini piccoli… per loro Italiano o Africano, Rumeno, sud Americano o Indiano, non importa da dove arrivi, l’importante è giocare insieme!

Noi non siamo per un mondo multietnico e multirazziale, perché gli esseri umani hanno un’unica razza quella umana!

E le etnie devono incontrarsi, anche scontrarsi se è il caso, fondersi e confondersi, per un mondo meticcio, equo e solidale, per un mondo più umano,

SIAMO UMANI!

Laboratorio Anarchico PerlaNera- Alessandria

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Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano

Gianni è stato tante cose diverse. Era del 1938. Sua madre partorì in casa a Mombercelli. Lui era prematuro e gracile: la durezza degli anni della guerra facevano presagire che non avrebbe passato l’infanzia. Invece “Spinacino” ce l’ha fatta. In barba al freddo, alle bombe, alla fame e ai tanti malanni di quei primi anni, arriverà al 5 febbraio 2025, quando se ne è andato nel sonno.
Lasciato il paese, da cui riporterà il ricordo indelebile degli alberi, delle foglie, dell’aria di collina, con i genitori e il fratellino si trasferisce a Torino. Il panorama della città, nel primo dopoguerra è segnato dalle macerie delle case bombardate e dagli alberi dei viali tagliati per fare legna. I soldi sono pochi e la vita, in due stanze con il ballatoio ed il cesso fuori, è grama.
La scuola sarà per lui un mondo speciale, che amerà sin dai primi anni.
Al punto che sceglierà di fare il maestro. La laurea, che all’epoca non serviva per insegnare alle “elementari”, come si chiamavano allora, la prenderà anni dopo, con una tesi di pedagogia libertaria.
A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il giovane maestro viene allontanato dall’insegnamento per cinque lunghi anni, in cui verrà confinato in un ufficio. Le sue idee erano troppo sovversive.
A quell’epoca la scuola elementare era simile ad una piccola caserma. I bambini separati dalle bambine, le divise, lo stare sull’attenti, il recitare la preghiera, l’alzarsi in piedi quando entrava l’autorità, lo stare per ore immobili, “composti” nei banchi.
Gianni si nutre delle idee e delle esperienze di Celestin Freinet, del nativo canadese Wilfred Peltier, della scuola pedagogica statunitense.
Gianni, quando arriva in classe si fa dare del tu ai bambini, non li rinchiude nell’aula, li porta fuori a toccare con mano le cose: il fiume, gli alberi, ma anche la realtà sociale, quella dei profughi istriani delle Vallette, quella dei napoletani emigrati in gran numero a Cirié, all’imbocco delle valli di Lanzo, dove insegnerà a lungo dopo la pausa forzata imposta dal Ministero.
A Cirié, complice una mamma che sapeva riparare le bici, i bambini partono ad esplorare il territorio per capire la cosa più importante: le domande da fare, la curiosità che nasce dall’esperienza, il proprio percorso nella vita. Con le bici Gianni e i suoi bambini arrivano ad invadere la pista dell’aeroporto di Caselle, per vedere come erano fatti gli aerei, con i quali i più fortunati partivano per paesi favolosi, che ai ragazzini della Ciriè operaia erano preclusi. Tante imprese, tanti viaggi, soprattutto viaggi nella realtà sociale, dove si parla di lavoro e di licenziamenti punitivi. Una volta, con i bambini occupa l’ufficio del sindaco perché a scuola fa freddo.
Storie di frontiera in una scuola che oggi non è più fatta di autorità e disciplina anche grazie ai partigiani dei bambini come Gianni Milano.
Lui lo diceva a chiare lettere: “bisogna dar voce ai bambini: sono loro che decidono come apprendere meglio, e cosa fare”.
Gli ultimi anni a scuola, dove lavorerà per 40 anni, li trascorre a Lanzo dove insegna alle future maestre.
Quando i suoi capelli sono diventati tutti bianchi, ha continuato a portali lunghi e scarruffati, come ai tempi in cui si guadagnò il soprannome dispregiativo, ma portato con orgoglio, di “maestro capellone”.
Lui non ne parlava più di tanto, ma se date un’occhiata ai libri, alle riviste, alla storia di quegli anni speciali scoprirete che è stato tra i protagonisti della cultura beat nel nostro paese.
Era un fricchettone colto, scriveva poesie sulla sua lettera 32. Poesie che trovate sparse qua e là, di recente molte sono state raccolte in un volume per le edizioni Fenix.
D’estate, quando le scuole erano chiuse, autostop e via per il mondo. Ma poi tornava sempre a Torino, che non era più la città bigia e dura dei suoi primi anni, ma sempre la città in cui si sentiva a casa, all’ombra delle montagne.
Era amico di Fernanda Pivano e di Allen Ginsberg, è stato uno dei protagonisti della beat generation: pubblica Off Limits (1966), Guru (1967), Prana (1968), King Kong (1973), Uomo Nudo (Tampax, 1975). È tra i fondatori della Pitecantropus Editrice, un tentativo di unire le anime della cultura Beat.
Spirito profondamente libertario, specie negli ultimi anni si lega al movimento anarchico, attraversandone le lotte.
Abitava in fondo a corso Vercelli, a due passi dal Balon, dove lo incontravamo spesso in occasione di presidi e banchetti. Arrivava e parlava con tutti, indossando un fazzoletto rosso e nero, spacciando idee e libri. Vivace come un folletto, mai stanco, nonostante gli anni che passavano ed i nuovi malanni.
Lo ricordiamo in tanti 25 aprile, tanti primi maggio, portare con orgoglio la bandiera rossa e nera. Anche in valle ha intersecato tante volte le strade dei cortei e delle lotte, perché in quella lotta popolare, specie in certi anni, seppe riconoscere il tempo che muta, quando la gente comune, quella che non ci è avvezza, alza la testa.
Lo conoscevano tutt. Con la sua parlantina sciolta e il suo stile da vecchio maestro, lo trovavate nei posti dove la gente sceglie di essere protagonista, di alzarsi in piedi, di costruire da sé il proprio cammino.
Eravamo in tanti a salutarlo nel piazzale del Cimitero Maggiore di Torino, nonostante il freddo e la pioggerellina insistente. Il Cor’Occhio circondato da bandiere anarchiche, sullo sfondo uno striscione No Tav ha intonato i canti anarchici e quelli di chi diserta la guerra. Gianni che l’aveva conosciuta fu un antimilitarista convinto, senza sfumature.
Lo abbiamo ricordato con la musica, le parole, le sue poesie.
In questi tempi grami, con le scuole che rischiano di diventare nuovamente caserme, il ricordo del maestro capellone, che sfrecciava alla testa della sua ciurma di bambini liberati dai banchi per la campagna piemontese, resterà un’ancora che renderà più forte la determinazione a continuare a pedalare per cambiare il mondo intollerabile in cui siamo forzati a vivere.
Nel lungo percorso attraverso le grandi statue del monumentale siamo arrivati in una zona povera. Gianni, nato sulla terra, ha scelto di tornarvi. Sulla bara una bandiera nera e tanti garofani rossi.
Elfo di città, con un cuore contadino, continueremo a vederlo volteggiare a Torino e in Valle, o al Balon, dove si mescolava con gli anarchici e i senzapatria.

Ciao Gianni!

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

 

Militanza Grafica per Gianni Milano

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Non ci può essere anarchismo senza femminismo

Con questo testo vogliamo offrire delle riflessioni sul movimento transfemminista contemporaneo, partendo da dinamiche locali che ci hanno visto partecipi negli ultimi anni, nella speranza di poter offrire una critica costruttiva ed utile anche ad altrə, al di là delle vicende specifiche.

Da un lato ci siamo chiestə cosa intendiamo quando utilizziamo il termine “intersezionalità” di cui tanto si parla nei movimenti (spesso, dal nostro punto di vista, a sproposito). Dall’altro vogliamo proporre una riflessione sui concetti di privilegio e decolonialità. Anche questi due termini attraversano gli spazi e i discorsi femministi, ma a volte, ci sembra, in maniera quasi meccanica, con degli automatismi che possono generare cortocircuiti logico/politici. Questi concetti hanno delle storie “militanti”, così come delle formulazioni teoriche interessanti, e sono a nostro parere strumenti potenzialmente validi. Ma sono appunto strumenti, non dogmi o etichette da appiccicare acriticamente.

Crediamo che negli ultimi anni le questioni poste dai movimenti femministi, transfemministi e queer abbiano finalmente messo il patriarcato al centro della critica politico-sociale e delle lotte dei movimenti. Il patriarcato è uno dei principali strumenti di potere e disciplinamento di una struttura sociale, politica ed economica che ci viene imposta come unica, naturale, giusta e connaturata nella stessa esistenza umana.

Quando diciamo che il patriarcato è strutturale all’organizzazione sociale e all’esercizio del potere delle istituzioni, non ci riferiamo certo al solo aspetto giuridico. Si tratta di una complessiva strutturazione sociale che attribuisce agli uomini in quanto tali maggior potere, controllo, autorità, rappresentazione e voce nello spazio pubblico; tale potere risulterà tanto maggiore, quanto i soggetti incarnati rispondono ai canoni del “virile”. Specularmente, per lo sguardo patriarcale le donne sarebbero “naturalmente portate” al materno, alla cura, all’ascolto e, in generale, alla presa in carico emotiva della specie. Una suddivisione in ruoli “ideali”, rispondenti ad un’idea fissa di cosa sia un uomo e cosa sia una donna – ovviamente non considerando affatto altre opzioni non binarie – che ha fortissime ripercussioni materiali.

All’aspetto giuridico si affianca l’aspetto materiale, che in Italia riguarda ad esempio la disparità salariale o la composizione di genere degli apici di istituzioni e aziende. Sulle donne (o soggettività identificate come tali) si scarica inoltre quasi sempre la maggior parte, se non la totalità, del peso della “conciliazione” fra lavoro produttivo e lavoro di cura e riproduttivo, che ancora spetta alla componente femminile all’interno del nucleo familiare, soprattutto in termini mentali ed emotivi, oltre che materiali.

Vogliamo portare come esempio pratico un dato poco citato ma significativo ed agghiacciante: i femminicidi compiuti all’interno di coppie anziane in cui lei soffre di malattia cronica o demenza ed è assistita dal compagno sono più numerosi rispetto agli omicidi di uomini da parte di caregiver donne. Se questo dato rivela la mancanza di strutture sociali adeguate a far fronte alle esigenze di assistenza, ci dice anche, ancora una volta, quanto la mentalità sia ancorata ad una visione stereotipata dei generi: i mariti anziani disperati fanno fuori le compagne e poi tentano il suicidio, in molti casi certamente con un senso di solitudine ma anche per una disabitudine alla cura e alla gestione della sofferenza, propria e altrui.

Sappiamo benissimo quanto il genere imposto alla nascita e gli stereotipi ad esso associati condizionino in maniera concreta e significativa gli immaginari, i desideri, le posture e gli sguardi sul mondo di tuttə. Ed è piuttosto evidente che nessunə di noi può ritenersi “liberə” da questi condizionamenti solo perché si definisce anarchicə. Quasi un secolo dopo Mujeres Libres,[1] dobbiamo ancora ricordarci che il patriarcato non è una questione marginale e il femminismo non è “un problema delle donne”.

Intersezionalità e politiche identitarie

L’intersezionalità è una teoria critica, la cui origine viene fatta risalire agli scritti di Kimberlé Crenshaw, femminista e giurista statunitense, fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento. In realtà anche in precedenza l’analisi intersezionale – intesa come analisi di come le diverse identità e categorie sociali si intreccino in forme di oppressione particolari e specifiche – era stata praticata da gruppi femministi marginalizzati e razzializzati. In fondo, quando le suffragette negli Usa si chiedevano se la concessione del voto ai neri avrebbe penalizzato le donne e Sojourner Truth faceva la famosa domanda “Ain’t I a Woman?”[2], proponeva di fatto un embrione di teoria intersezionale.

Oggi, l’intersezionalità è uno strumento di analisi del reale e come tale dovrebbe essere usato: un mezzo con cui possiamo capire, leggere, interpretare e giudicare la realtà. Secondo la nostra esperienza, invece, spesso la si utilizza a sproposito, come generico invito a “unire le lotte”, il che nel movimento femminista spesso si traduce in un presunto dovere di parlare di tutto e fare spazio a tuttə, facendo diventare tutto una “questione femminista”. Questa attitudine è ben diversa da quella dichiarata di rileggere il reale attraverso una lente femminista. Si tratta di un errore interpretativo che a nostro parere deriva anche in parte dall’utilizzo acritico di terminologie viste come più moderne o radicali, disperdendone la reale radicalità e riducendole a poco più che moda.

Infine, lo strumento intersezionale sembra a volte piegato alla logica dell’elencazione delle proprie oppressioni, per cui chi ne colleziona di più perde nella vita ma – ironicamente – acquisisce status all’interno del movimento. Invece l’analisi intersezionale non si struttura come la somma pura di oppressioni diverse, ma la loro messa a sistema. Di seguito proponiamo alcuni esempi, non per costruire a nostra volta un “catalogo” ma solo per cercare di spiegarci meglio.

Uomini omosessuali neri: la discriminazione subita da questi soggetti non è la somma algebrica del loro essere gay + il loro essere neri. Nelle società a prevalenza bianca ed etero essi paradossalmente possono essere più tollerati rispetto agli uomini neri etero, che vengono ritenuti portatori di una sessualità animalesca, e quindi una minaccia alle “nostre donne” (più correttamente la minaccia è “ai nostri peni”, ma anche a i “nostri ani”, dove il “noi” sono i maschi bianchi etero che costituiscono la maggioranza normante). In compenso, nelle loro società di partenza o nelle comunità della diaspora, i gay dichiarati, oltre a subire un generico stigma, vengono pure etichettati come aderenti ai valori occidentali e quindi traditori delle proprie radici.

Donne disabili: le donne disabili non hanno semplicemente i problemi delle donne + i problemi delle persone disabili, ma i loro problemi si declinano spesso in maniera diversa. Ad esempio, mentre molte donne subiscono una sessualizzazione costante e non voluta, spesso le attiviste disabili rimarcano come invece loro siano costantemente infantilizzate e la loro sessualità totalmente misconosciuta. Anche in termini di riproduzione e aborto, non hanno certo la pressione a procreare a tutti i costi che hanno le donne non-disabili; al contrario, il loro eventuale desiderio di genitorialità viene spesso ferocemente ostacolato.

Donne e riproduzione sociale: quando negli anni ’60 e ’70 le donne bianche borghesi negli USA lottavano per rivendicare il lavoro fuori casa, il non fare figli, la realizzazione professionale, le donne nere non sentivano propria tale battaglia; per loro occuparsi della propria casa e famiglia era invece un valore e un obiettivo, visto quante di loro passavano il tempo a curare famiglie altrui (in questo, sono illuminanti le pagine che all’argomento dedica bell hooks[3]).

L’uso distorto dell’intersezionalità esaspera la questione identitaria, portando il pensiero verso l’iperidentitarismo. Le politiche identitarie e delle minoranze sono entrambe figlie del liberalismo e dell’individualismo esasperato di matrice anglosassone, dove spesso la questione di classe passa in secondo piano. La cosiddetta identity politics tende a “spezzettare” i movimenti in tanti aggregati portatori di specifici interessi; questi aggregati possono al massimo portare avanti una politica di alleanze, spesso con una scarsa se non nulla prospettiva di classe. Il perno di queste lotte risiede quasi sempre nella richiesta di riconoscimento statale o di forme specifiche di sostegno o tutela per ogni singolo gruppo (la cosiddetta “politica delle minoranze”). Difficile in quest’ottica trovare una prospettiva realmente rivoluzionaria. Il movimento femminista italiano ha invece una forte tradizione materialista, ma ci sembra che in questi ultimi anni la stia perdendo a favore di un’azione politica che attribuisce maggior importanza alla definizione/percezione di sé che al proprio ruolo sociale e di classe.

Crediamo sia necessario recuperare quanto di buono è stato pensato e prodotto dalle diverse correnti del femminismo materialista, per costruire un agire politico non incentrato solo sull’identità e sulla richiesta di tutela e/o riconoscimento, ma che coinvolga i rapporti di potere e le dinamiche materiali che li determinano.

Proviamo ad articolare un esempio concreto, parlando di politiche riproduttive. Sappiamo che non tutte le donne hanno un utero o sono fertili e anche che non tutte le persone potenzialmente gestanti sono donne. Questo è ovvio, ma ricordarlo non è banale o sbagliato. Tuttavia, i meccanismi di riproduzione sociale e i rapporti di forza fra i generi sono pesantemente condizionati, nella loro formazione storica e contemporanea, dal binomio donna-madre. Non possiamo eludere questa realtà, né per timore di essere “escludenti”, né con la speranza che il superamento del binarismo di genere avvenga per mero atto volontaristico o discenda da comportamenti individuali.

Privilegio e decolonialità

Le nuove ondate femministe/transfemministe/queer degli ultimi anni hanno avuto il merito di contribuire a porre l’attenzione dei movimenti sul colonialismo, in termini tanto storici quanto contemporanei. I movimenti transfemministi hanno quindi fatto da megafono alla diffusione degli studi e dello sguardo decoloniale; evidenziando le (proprie) posizioni di privilegio, tentano di smontare il preteso universalismo del soggetto politico “Donna”. Un “partire da sé” che si definisce su un piano collettivo e sociale. Non a caso da alcuni anni assistiamo anche in Italia ad una crescente presa di parola delle persone e delle collettività razzializzate e ad un confronto stimolante con il movimento antirazzista storico. Un dialogo che ha portato a volte ad un riconoscimento della condivisa esperienza dell’esclusione. Ad esempio, gli immigrati dal Sud della penisola degli anni ’60 e ’70 furono razzializzati nel Nord industriale, per poi essere via via sostituiti dagli ultimi nuovi arrivati, uomini e donne provenienti da geografie ancora più a Sud del mondo: una razzializzazione che non si basava sul colore della pelle, ma che aveva caratteristiche molto simili a quelle che subiscono i migranti di oggi.

Stiamo assistendo però negli ultimi tempi ad un cortocircuito del concetto di privilegio come strumento di critica sociale. Il riconoscimento della condizione di privilegio del cosiddetto Occidente rispetto ai paesi del cosiddetto Terzo/Quarto Mondo ha portato in molte situazioni di movimento dall’interpretazione dei dati materiali all’interpretazione in chiave essenzialista di quelli che sono i dati materiali. Il connubio assenza di privilegio/superiorità morale è un errore epistemologico che contribuisce a creare una nuova forma di essenzialismo in chiave morale.

In altre parole, ci pare di notare che l’esasperazione e la distorsione di questi strumenti di lettura e conoscenza del reale abbiano contribuito a generare una nuova forma di “terzomondismo”, in cui, oltre ad accettare acriticamente qualsiasi pratica o ideologia provenga dallə “oppressə”, vi è anche una sovradeterminazione delle loro stesse istanze. Assistiamo infatti a movimenti di solidarietà verso popolazioni in lotta in altre parti del mondo, su cui vengono proiettati desideri e prospettive politiche che invece sono tutti “nostrani”. Un esempio chiaro in questo senso sono alcune analisi e prese di posizione riguardanti la resistenza palestinese e i fatti del 7 Ottobre 2023 che circolano in Europa; li si dipinge addirittura come avanguardia della rivoluzione mondiale, quando è ben chiaro dalle prese di posizione e dalle azioni della maggioranza delle organizzazioni politico-militari lì operanti che la lotta in quei territori viene condotta in un’ottica di liberazione nazionale e di resistenza allo stato israeliano senza nessun afflato internazionalista.

Tale esasperata attribuzione ha, secondo noi, il sentore di una nuova forma di colonialismo ideologico, che non solo cancella ogni possibilità di confronto e di eventuale critica all’interno dei movimenti, ma che appiattisce e rimuove la complessità locale, le stratificazioni di classe e le diversità politiche che attraversano ogni luogo.

C’è, però, una differenza fondamentale tra il “vecchio terzomondismo” e il fenomeno che stiamo cercando di analizzare qui. La postura terzomondista/antimperialista (permetteteci una certa approssimazione) è comunque conseguenza di un’adesione ideologica o di un appoggio politico in chiave di opposizione, e discende da una scelta attiva. La postura decoloniale, nella sua volgarizzazione di movimento, sembra invece postulare l’impossibilità di una scelta: “nostro” ruolo può essere solo prendere atto e solidarizzare, fare da tribuna senza critica. È giusto e necessario mettere in discussione il nostro eurocentrismo e le pretese di universalismo e questa consapevolezza deve molto all’apporto delle teoriche e dei gruppi femministi. Riteniamo, però, che in ambito transfemminista e queer questa attitudine abbia talvolta assunto tratti quasi dogmatici e di sudditanza psicologica – a un soggetto peraltro spesso astratto e disincarnato – altamente problematici.

Alcune provvisorie conclusioni

Crediamo che il contributo teorico-pratico dei movimenti transfemministi e queer degli ultimi decenni, sia essenziale per tutti i movimenti che agiscono sul terreno della trasformazione sociale radicale dell’esistente. Crediamo che queste istanze e riflessioni – senza adesioni acritiche, così come senza preclusioni – debbano diventare parte integrante del nostro bagaglio. Ne siamo convintə perché pensiamo che un anarchismo che non sappia dare importanza alle questioni di genere sia un anarchismo monco. Ci sembra importante ribadire che riflessioni e pratiche vanno condivise e allargate, perché non sono una questione “delle compagne” né di alcuni gruppi “specializzati”. Riteniamo che l’anarchismo possa essere all’altezza delle sfide che questi nuovi movimenti ci pongono. Con la sua critica radicale alle strutture materiali della società che contribuiscono alla perpetuazione del patriarcato, l’anarchismo può essere una “casa” dove queste istanze trovano il loro spazio, al di fuori di ogni organizzazione autoritaria e verticistica. Si tratta di intessere relazioni e scambi sviluppando ambiti di lotta e conflitto. Ma prima ancora, si tratta di ricordare che il patriarcato innerva ogni realtà che ci circonda e pertanto ci riguarda tuttə. Di conseguenza, non può esserci una reale rivoluzione che non sovverta le relazioni patriarcali. Non può esserci anarchismo senza femminismo.

Gruppo Anarchico Germinal – Trieste

[1] Organizzazione femminista fondata in Spagna nel 1936 per portare le istanze delle donne nel movimento anarchico e anarcosindacalista

[2]  Sojourner Truth, nata Isabella Baumfree (1797?-1883) pronunciò il discorso “Ain’t I a woman?” (“Non sono forse una donna?”) al Convegno per i diritti delle donne dell’Ohio, nel Maggio 1851

[3] hooks ha scritto per tutta la vita dell’intersezione tra genere, “razza” e classe sociale, a partire dalla sua crescita come donna nera di famiglia povera. Molti suoi testi oggi sono facilmente reperibili in italiano; tra questi, Tamu ha pubblicato “Elogio del margine” e “Non sono una donna, io. Donne nere e femminismo” che affrontano (anche) le questioni da noi menzionate.

GLOSSARIO:

Razzializzate (persone/collettività): cui viene attribuita una razza. Il termine viene utilizzato allo scopo di “tenere assieme” più aspetti. Da un lato, dato che le razze non esistono, si cerca di porre l’accento sul processo che porta alla loro creazione sociale. Dall’altro però si vuole riconoscere che, sebbene le razze non esistano come elemento oggettivo, il fatto che socialmente si agisca come se esistessero, produce effetti reali. Insomma: le razze – come le nazioni o i popoli potremmo dire – non esistono come dato ontologico, ma esistono come dato sociale.

Coloniale: in riferimento al pensiero, tutte quelle formae mentis che tendono a confermare e perpetuare l’idea dell’intrinseca superiorità di una “razza” o di un’epistemologia. Ne sono esempi il “fardello dell’uomo bianco” o l’invasione dell’Afghanistan per “liberare le donne”

Postcoloniale/decoloniale: sempre in riferimento al pensiero, che cerca di interrogarsi e mettere a critica tutte le formae mentis di cui sopra. I due concetti non sono perfettamente sovrapponibili: alcunə, ad esempio, mettono l’accento sull’importanza politico/procedurale del prefisso de-; altrə ne fanno soprattutto una differenza di alveo di nascita (decoloniale viene soprattutto dall’ambito latino, postcoloniale da quelli (ex) francofoni e anglofoni). In ogni caso, entrambi i concetti ci sembra rispondano al medesimo intento di messa in discussione politica. Ad esempio, in antropologia, gli studi post-coloniali sviluppano una critica serrata alla disciplina stessa, ritenuta sia prodotto che strumento del colonialismo

Comunità della diaspora: con questo termine intendiamo quelle collettività che si creano nei paesi di arrivo (o transito) migratorio. Solitamente sono aggregate su base nazionale (es: “la comunità cinese di Prato”) o sovranazionale (es: “l’associazione degli studenti africani della Sapienza), talvolta religiosa (es: i fedeli del tempio shivaita di Brick Lane a Londra)

Immagine: “La penultima zena” di Marco Novak

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Migranti ed economia. Realtà e narrazioni securitarie

Da oltre quarant’anni precise scelte politiche urbanistiche ed economiche hanno modificato l’assetto sociale di molte città. Abbiamo visto la progressiva espulsione dei ceti popolari dai centri storici; gli appartamenti, venduti prima a prezzi irrisori per poi, nell’arco di vent’anni, essere trasformati in immobili di pregio, in aree ambite e a costi inaccessibili, destinati spesso al turismo mordi e fuggi o a sedi di aziende e istituti finanziari.
Lo spostamento dei proletari nei quartieri periferici, l’assenza di manutenzione e l’abbandono in cui vengono lasciati gli alloggi popolari ottiene il duplice obiettivo di marginalizzare i settori più poveri e alimentare la narrazione dei quartieri periferici popolari come luoghi di degrado abbandonati alla piccola criminalità.
L’edilizia popolare è ferma. È di oltre sessant’anni fa l’ultimo piano casa dello stato italiano; le aziende Apes beneficiano di budget per le manutenzioni del tutto insufficiente; per restituire alla locazione un appartamento abbandonato per la morte dell’inquilino possono anche passare due anni o tre. Il lavoro precario e mal pagato spinge tanti proletari a subire ricatti continui e a dividersi anche l’affitto degli appartamenti, condannati a una esistenza senza dignità specie nelle aree metropolitane ove il caro affitti ha subito continue impennate. Ma sbaglieremmo a pensare che il problema riguardi solo i ceti sociali meno abbienti: numerosi insegnanti, ad esempio, hanno denunciato l’impossibilità di mantenersi in tante città del Nord, costretti a lasciare affetti e famiglie nelle città di provenienza con la speranza di acquisire presto i punteggi minimi per il ritorno a casa. Questi elementi di analisi risultano determinanti per capire che i mancati interventi sociali ed urbanistici sono il prodotto di politiche liberiste e speculative.
Se la narrazione si limita all’esistente, ingigantendo strumentalmente alcuni fatti di cronaca (letti peraltro in maniera parziale e a uso e consumo dei dominanti), risulta difficile comprendere che la condizione di vita dei migranti e degli autoctoni viene determinata dalle stesse politiche di cui entrambi sono vittime.
Questa breve ma indispensabile premessa ci permette di analizzare un rapporto recentemente uscito sul lavoro migrante da parte di ILO- International Labour Organization- giusto per ricordare come la presenza di un esercito industriale di riserva sia indispensabile per la gestione capitalistica del mercato del lavoro e della crisi sociale.
I fautori di queste scelte poi hanno buon gioco ad allontanare l’attenzione pubblica dalle cause dei processi in atto, leggendoli solo con la lente dell’ordine pubblico, come è stato, ad esempio, per la recente vicenda di Corvetto.
Il rapporto ILO, pur rielaborando dati raccolti nell’anno 2022, mostra delle analisi e conclusioni assai interessanti e significative anche per comprendere la situazione odierna.
L’economia globale (stime globali dell’ILO sui lavoratori migranti internazionali) si regge sul lavoro migrante, concentratosi nei paesi ad alto reddito verso i quali avviene la stragrande maggioranza dei fenomeni migratori, pari al 68,4% del totale (114,7 milioni di persone), seguiti dal 17,4% (29,2 milioni di persone) nei paesi a reddito medio-alto.
La forza lavoro migrante si concentra in Europa, nel Nord America e anche negli stati arabi, con impiego ad esempio, in questi ultimi luoghi, nella costruzione di strade e infrastrutture. Si tratta di un vasto esercito industriale di riserva, impiegato per lo più nei servizi, con percentuali di disoccupazione e di precarietà maggiori dei lavoratori autoctoni.
Il rapporto ILO sottolinea come dei 167,7 milioni di migranti nella forza lavoro nel 2022, 155,6 milioni erano occupati, mentre 12,1 milioni erano disoccupati. Persistevano significative disparità di genere, poiché le donne migranti avevano un rapporto occupazione/popolazione di solo il 48,1%, rispetto al 72,8% degli uomini migranti. Il tasso di disoccupazione dei migranti è più elevato (7,2%) rispetto ai non migranti (5,2%), con le donne migranti (8,7%) che hanno registrato livelli di disoccupazione più elevati rispetto agli uomini (6,2%). Una disparità a cui contribuiscono fattori quali barriere linguistiche, qualifiche non riconosciute, discriminazione, opzioni limitate di assistenza all’infanzia e aspettative basate sul genere che limitano le opportunità di lavoro, in particolare per le donne.
Le nostre società del presunto benessere negli ultimi quarant’anni hanno devastato qualsiasi parvenza di servizio sociale alla collettività. In Italia mancano residenze per anziani, la rete di cura e di assistenza è stata progressivamente e pesantemente esternalizzata al terzo settore, il ricorso a badanti e baby sitter scarica sulle famiglie il costo della assistenza di cui dovrebbe farsi carico una società attenta alla cura della propria popolazione. Sempre il rapporto ILO segnala che il 28,8% delle donne migranti e il 12,4% degli uomini migranti sono impiegati nell’economia dell’assistenza, rispetto al 19,2 % delle donne non migranti e al 6,2 % degli uomini non migranti. Quel poco di welfare ancora in piedi è ancora modellato per le famiglie monoreddito, mentre il’welfare universale è ancora inconcepibile. Da decenni il “secondo stipendio” in famiglia è una necessità oggettiva del nucleo familiare, eppure, se guardiamo ai servizi locali degli asili nido, comprendiamo che il numero di posti offerti e gli orari di apertura, tanto per prendere in considerazione due parametri base, sono ben poco attinenti alla realtà del lavoro e ancor meno rispondono ai bisogni delle persone. La risposta non può essere quella di ampliare, con lo stesso personale, gli orari di apertura dei nidi, né quella di demandare la soluzione al privato sociale. Il governo Meloni intanto dimezza la percentuale dei posti nido in rapporto alle nascite, allontanandosi persino da quella media europea del 31% che i fondi PNRR avrebbero dovuto assicurare.
E sempre nel rapporto in questione, addirittura il Direttore Generale dell’ILO, Gilbert F. Houngbo precisa che “I lavoratori migranti sono indispensabili per affrontare la carenza di manodopera a livello globale e contribuire alla crescita economica. Garantire i loro diritti e l’accesso a un lavoro dignitoso non è solo un imperativo morale, ma anche una necessità economica”. Anche chi conduce studi ufficiali con un minimo di rigore dunque alla fine dovrà pur riconoscere la realtà.
Bisogna respingere con forza qualsiasi lettura sociologica securitaria che prenda di mira i migranti per salvare i governi di turno dalle loro responsabilità. Da qui diventa indispensabile non solo analizzare la realtà in termini esaustivi ma anche lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, sia i migranti che gli autoctoni. È non solo un auspicio ma una stringente necessità e non solo per gli ultimi, ma per noi tutti\e.

F. Giusti

 

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Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

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8 marzo ancora in piazza!

Ancora un otto marzo. E nonostante la situazione di generale oppressione sociale, nonostante il peso della specifica oppressione sessista che marca le nostre vite, nonostante tutte le ragioni che spingono ad essere nelle piazze in una giornata internazionale che vuole essere un grido di libertà, nonostante tutto questo c’è chi continua a parlare dell’otto marzo come di un appuntamento rituale.

A dire la verità ci piacerebbe che l’otto marzo fosse un appuntamento rituale, una data attesa per essere goduta come una bella festa, come si fa per l’ultimo dell’anno. Ma non è così.

La realtà è un’altra, nonostante i sempre più pervasivi pinkwashing commerciali, aziendali e addirittura militari, nonostante il presunto femminismo legato allo sfondamento dei tetti di cristallo, un modo becero di giustificare il potere, nonostante gli assurdi proclami di chi nega l’esistenza del patriarcato, sia esso il Valditara di turno o qualche intellettuale in costante ricerca di visibilità. La realtà è un’altra e richiede tutta la nostra energia, la nostra presenza nelle piazze, il nostro lavoro quotidiano, per rompere la cappa oppressiva che trasversalmente è segnata da sessismo.

È evidente come le questioni di genere intrecciano e attraversano una quantità di questioni, da quelle economiche, a quelle politiche, a quelle sociali.

Salari bassi, precarietà, disoccupazione, massicci tagli dei servizi e della spesa sociale: una situazione disastrosa, resa drammatica da quella che da qualche anno è a tutti gli effetti un’economia di guerra. E questa situazione porta inevitabilmente con sé anche un rilancio del familismo. Rispetto alla necessità di far fronte alle attività di cura, ai servizi che mancano, così come alla perdita di reddito soggettivo e di autonomia economica, la famiglia rappresenta per il sistema capitalista la soluzione più comoda e meno costosa, consolidata nel corso dei secoli dall’impostazione patriarcale e disciplinata secondo un modello di divisione del lavoro rigidamente impostato su base sessista e assai congeniale alle esigenze capitaliste. Un modello che comunque è sottoposto alle contraddizioni della società moderna e che quindi ha bisogno di essere rinforzato da una martellante propaganda familista che riproponga in modo marcato la morale sessista, i ruoli tradizionali e soprattutto la funzione riproduttiva assegnata alle donne come ineludibile compito sociale. L’imposizione della maternità come unico orizzonte della vita femminile, il contrasto feroce all’autodeterminazione di donne e soggettività con utero che deliberatamente e consapevolmente non vogliono assoggettarsi all’obbligo riproduttivo, l’omofobia rivolta contro tutte le persone non conformi sono elementi che marcano in modo inequivocabile la realtà dell’era meloniana, certamente in continuità con fasi storiche e politiche precedenti, ma con un ulteriore livello d’impatto sociale che ne moltiplica la portata.

Quella struttura patriarcale e sessista di divisione del lavoro e di imposizione di comportamenti riferibili ai ruoli binari che rappresenta una caratteristica costante della società capitalista assume infatti nella fase attuale, con il governo in carica, la dimensione effettiva di atti legislativi precisi. È un passaggio politico molto importante, di cui bisogna essere consapevoli.

Mai come in questo periodo si sono intensificate politiche demografiche indirizzate all’incremento della natalità, al contrasto ad aborto e contraccezione, alla persecuzione di chi si sottrae al compito riproduttivo; mai come in questo periodo si sono avute precise disposizioni di legge e atti governativi apertamente omofobi, rivolti contro persone che rifiutano la concezione binaria sfuggendo alla dimensione familista.

Quello che sta avvenendo con il governo attualmente in carica prende non solo la forma, già vista in altri momenti, di una generale crociata ideologica, ma anche quella di concreti e circostanziati atti legislativi.

E il Governo non agisce in solitudine.

A sostenere queste politiche abbiamo come sempre i settori reazionari, in primis la Chiesa cattolica e l’apparato militare.

Papa Bergoglio, che a qualcuno è sembrato accattivante grazie alle sbiadite esternazioni su guerra e ambientalismo rilasciate mentre curava abilmente affari, interessi e profitti del suo stato, il più stabile del mondo; lo stesso papa, che pure è riuscito a mostrarsi affabile in tante situazioni, non ha tuttavia mai perso occasione per fare guerra aperta e rabbiosa all’autodeterminazione delle donne e delle libere soggettività ribadendo costantemente la morale tradizionale, la necessità e la naturalità dei ruoli assegnati ai sessi, agitando lo spauracchio del gender e la condanna perpetua dell’aborto. Una guerra che il fervore identitario cattolico esaltato dall’occasione dell’anno del Giubileo non può che rendere più aggressiva.

Analogamente va considerato quanto il massiccio incremento del militarismo legato alla fase attuale di guerra esterna e interna rafforzi le politiche sessiste. È noto che nelle operazioni militari vere e proprie lo stupro è stato spesso usato come arma di guerra, facendo del corpo delle donne un campo di battaglia. Altrettanto noto è che sessismo e femonazionalismo sono caratteristiche ricorrenti delle politiche militariste e coloniali, così come la mission della liberazione delle donne da regimi oppressivi è stata spesso sbandierata per giustificare occupazioni militari, politiche di aggressione, sfruttamento di territori e risorse. Ma è altrettanto evidente che proprio il militarismo in quanto tale rappresenta il culto della forza, della violenza, della gerarchia, dei ruoli, della subordinazione, l’esaltazione del maschio vincitore, della virilità e del suprematismo maschile: una matrice patriarcale, sessista e machista che nessun pinkwashing dell’esercito, nessuna apertura dei ranghi militari a donne e addirittura a persone Lgbtqia+ può scalfire e che viene costantemente riproposta nel nostro quotidiano, nelle scuole, nelle strade, in qualsiasi contesto di una vita sociale sempre più militarizzata.

Rispetto a tutto questo la lotta quotidiana è una necessità, la piazza dell’otto marzo è una necessità.  Le piazze transfemministe sono fatte di corpi concreti che oppongono la materialità della lotta all’oppressione quotidiana. Lo sciopero generale, che anche quest’anno caratterizza la giornata dell’otto marzo, vuole rappresentare in modo reale e non certo simbolico la necessità di rottura e di interruzione dallo sfruttamento perpetuo del lavoro produttivo e riproduttivo. La lotta transfemminista attraversa una quantità di aspetti e di problematiche perché viviamo in una società in cui sessismo e patriarcato sono sistemici. È indispensabile riuscire a cogliere le connessioni tra le varie questioni che determinano gerarchia e sfruttamento, occorre farlo senza istituire una gerarchia delle problematiche e delle soluzioni. Lo sguardo transfemminista è anche il nostro sguardo, lo sguardo di tant3 anarchic3 che quotidianamente lottano per trasformare radicalmente l’esistente in una prospettiva complessiva di rivoluzione sociale, con la loro presenza attiva sui luoghi di lavoro, nei collettivi, nei movimenti. E nelle piazze dell’otto marzo. In ogni città e in tutto il mondo.

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Transfemminismo. Percorsi e prospettive

Premessa
Questo testo, frutto della discussione e del confronto interno al nostro gruppo, riprende ed integra gran parte del testo che come FAI redigemmo per il congresso dell’IFA dello scorso anno.

Universale singolare. Transfemminismo e anarchia
I percorsi di libertà tracciati dalle soggettività tenute ai margini dalla cultura patriarcale hanno scosso dalle fondamenta un ordine che pareva immutabile arrivando a spezzarne la logica binaria ed essenzialista.
La logica binaria è quella che divide le persone in base al sesso attribuito alla nascita cui si pretende corrispondano precise caratteristiche di genere.
Il binarismo implica uno iato tra il più ed il meno, il pieno e il vuoto, il vaso e il seme, lo spazio dei sentimenti e quello della ragione. Questa logica, che si pretende naturale, fonda l’ordine patriarcale.
L’universale umano nasce e resta a lungo saldamente maschile. Un maschile cui vengono iscritte le qualità intrinseche che “giustificano” la gerarchia tra i generi, all’interno della gabbia normativa familiare e nella lunga esclusione delle donne dalla vita pubblica.
L’ordine patriarcale si fonda sulla pretesa che la gerarchia sia biologicamente fondata e su questa costruisce una cultura in cui si danno identità costanti, fisse, socialmente definite.
La servitù femminile non è stata caratteristica di tutte le culture umane, ma è stata ed è prevalente a tutte le latitudini.
La dinamica patriarcale fa si che la gerarchia si riproduca in ogni relazione umana. Spezzare l’ordine patriarcale è necessario ad una trasformazione sociale di segno libertario.

Essenzialismo, decostruzione queer e approccio anarchico
Con essenzialismo intendiamo la scelta di considerare giuste ed immutabili tipizzazioni di genere del tutto culturali.
La critica all’essenzialismo si nutre della decostruzione delle identità di genere. Concepire l’identità, ogni identità, come costruzione sociale, confine mobile tra inclusione ed esclusione, è un approdo teorico che si alimenta della rottura operata dal femminismo e dai movimenti lgbtqia+.
La sfida è su più fronti. Sfida allo Stato (etico), al patriarcato reattivo e al capitalismo. Una sfida che non è mera astrazione o suggestione filosofica, ma si attua nel convergere delle lotte, delle prospettive e degli immaginari capaci di dar vita ad una prospettiva inedita.
Il sommarsi di diverse cesure identitarie, che spesso coincidono con varie forme di esclusione, permette una contestazione permanente del privilegio nei confronti delle gerarchie di potere.
Le “identità sessuali”, anche nel loro farsi storico, non sono un conglomerato concettuale da cui partire, ma semmai la questione stessa. Oltrepassarle per cancellarle è un percorso complesso, perché investe una dimensione del sé che, pur squisitamente culturale, è tanto forte ed introiettata sin dalla nascita da parerci naturale. Al punto che gli stereotipi di genere finiscono con l’essere fatti propri persino da chi rifiuta quello che gli/le è stato assegnato alla nascita.
Il costruzionismo queer attua la strategia di decostruire le identità che passano come naturali considerandole invece come complesse formazioni socio-culturali in cui si intrecciano discorsi diversi.
Un approccio libertario deve e può andare oltre la decostruzione delle narrazioni che costituiscono le identità di genere, perché vi innesta l’elemento di rottura rappresentato dall’agire politico e sociale di soggetti, che si costituiscono a partire dalle proprie molteplici alterità, rivendicate ed esperite sul piano della lotta. Soggetti capaci di una autonoma produzione di senso, di relazioni, di pratiche sovversive rispetto all’ordine patriarcale, alla logica binaria, alla naturalizzazione delle relazioni sociali.
Un percorso importante ma delicato, perché, in modo del tutto paradossale, talora la spinta ad aprire spazi che aspirano al riconoscimento delle cesure discriminanti che segnano le vite di tante persone, finisce con il produrre un cortocircuito identitario.
Proviamo a spiegarci meglio.
Nessuno meglio di chi vive una discriminazione può renderla intelligibile a tutt* e promuovere istanze che consentano un percorso di liberazione.
Il movimento femminista, quello lgbtqia+, prendono le mosse dalla presa di parola autonoma, dalla contestazione del linguaggio che marca la gerarchia, dalla frantumazione della materialità dell’oppressione. Se l’universale è maschile, europeo, ricco, eterosessuale, il resto è margine inessenziale, che va sottomesso, negato, asservito e, spesso anche eliminato. Quindi la parola libera di chi era (ed è) la striscia bianca ai lati del grande libro della storia umana è intrinsecamente sovversiva. Quando questa parola entra nel discorso pubblico lo modifica in modo radicale: ha un ruolo cruciale nel frantumare ogni logica escludente ed oppressiva.
I processi di soggettivazione degli esclusi dall’astratto universale illuminista hanno innescato percorsi trasformativi, in cui le differenze e, quindi, il frantumarsi del soggetto politico borghese, maschio, eterosessuale, ricco, di cultura europea hanno aperto un orizzonte di lotta inedito. Si è trattato di un percorso lungo, non terminato, che purtroppo oggi rischia di perdersi in mille rivoli identitari chiusi in se stessi, incapaci di aspirare collettivamente ad un universale includente.
In certi ambiti di movimento la presa di parola ed iniziativa degl* esclus* si declina nella pretesa che la sola parola legittima sia quella di chi vive una discriminazione. Agl* altr* è concesso solo “mettersi in ascolto”. Da qui al negoziare il proprio diritto all’alterità con il riconoscimento acritico di qualsiasi altro percorso identitario, il percorso è breve. Il rischio, evidente, è l’affermarsi di una nuova, più subdola, forma di essenzialismo, che spesso si interseca con una lettura distorta dei percorsi decoloniali, che finisce con il legittimare nazionalismi, comunitarismi, identitarismi religiosi.
Su questo terreno è necessario un lungo lavoro di elaborazione teorica e, insieme, una capacità di attraversare gli ambiti transfemministi e queer con proposte e orizzonti di lotta di segno libertario.

I femminismi della differenza e transfemminismo
I femminismi della differenza sono lo specchio capovolto del dominio maschile.
Binarismo ed essenzialismo permangono in questi femminismi, che, pur negando il disvalore delle donne, riproducono al femminile le gerarchie tipiche delle culture fondate sul dominio maschile ed eterosessuale.
Il mero afflato paritario sul piano dei diritti si limita a riempire il vuoto, inserire l’eguale, dare corpo al vaso, attenuare la dicotomia tra ragione e sentimento, senza spezzare la logica binaria.
Sono femminismi incapaci di cogliere come il patriarcato sia uno dei tasselli che disegnano il mosaico di società basate sulla competizione, lo sfruttamento, la violenza sistemica nei confronti di chi è posto ai margini.
Questi femminismi sono facilmente riassorbibili nell’ordine statale e capitalista.
Al contrario il transfemminismo all’alba del terzo decennio del secolo esperisce la possibilità di passare dal genere all’individuo, dalla gerarchia sessualizzata alla molteplicità.
È un femminismo che, in ogni angolo del pianeta, si deve confrontare con l’estrema violenza della reazione patriarcale, che si traduce sia in gabbie normative, sia in violenza sistemica nei confronti delle identità mobili, irriducibili ad ogni logica binaria.
Chi vive al di là e contro i generi, i ruoli, le maschere ha una forza dirompente, perché sbriciola il binarismo e l’essenzialismo.

All’interno delle nostre società questi percorsi fanno paura. Per le destre e per le religioni la difesa di identità rigide ed escludenti diviene il centro nevralgico dell’azione politica. Il piedistallo “identitario” è la base che regge la pretesa di disciplinare identità e corpi non conformi.
Sanno bene che l’ordine del padre si incrina di fronte alle donne ribelli, alle identità ibride, transeunti, fluide, in viaggio, mutanti, quando l’io diviene approdo di percorsi irriducibilmente individuali ma esperiti nella forza di lotte collettive.

La reazione patriarcale
Le destre identitarie e sovraniste, sostengono il capitalismo e la divisione in classi, ma li vorrebbero mitigati da un forte stato etico, saldamente fondato sulla famiglia, sulla nazione, sulla religione. Dio, patria, famiglia, un assioma che non disturba gli affari ma rimette in ordine il mondo.
A tutte le latitudini del pianeta si attacca la materialità dei percorsi di liberazione che hanno segnato il secolo scorso. La libertà di decidere sulla maternità, l’uso normalizzante della psichiatria, sino alla negazione dell’accesso all’istruzione, al lavoro, alla stessa possibilità di muoversi in autonomia segnano le vite di tanta parte delle donne e delle persone non conformi che vivono su questo pianeta. Vi è profonda assonanza tra le politiche delle destre dell’Occidente “democratico” e quelle dei paesi dove si sono imposte varie forme di fondamentalismo religioso.
La “famiglia” come nucleo etico rappresenta l’elemento normalizzatore di “anomalie”, che le lotte delle donne, delle persone omosessuali, asessuali, transgender, hanno reso visibili e pericolose per ogni pretesa di socializzazione autoritaria dei bambini, delle bambine, dei bambinu.
Non solo. Oggi il disciplinamento delle donne, specie di quelle povere, è parte del processo di asservimento e messa in scacco delle classi subalterne. Ne è uno dei cardini, perché il lavoro di cura non retribuito è fondamentale per garantire una secca riduzione dei costi della riproduzione sociale.

Un “sinistro” essenzialismo
Il lutto per le identità forti, smarrite e da ritrovare, attraversa anche certa sinistra, orfana di una narrazione che dia senso al proprio mondo.
La deriva identitaria non è mero patrimonio delle destre sovraniste, localiste, fasciste, misogine, omofobe, razziste, perché sfiora anche ambiti di movimento, che si pretendono distanti dall’approccio essenzialista della destra.
La reazione alla violenza del capitalismo, all’anomia della merce, alla feroce logica del profitto, alla paura dell’onnipotenza della tecnica rischiano di produrre mostri peggiori di quelli da cui si fugge.
L’anarchismo si sta confrontando con un mondo dove ci sono stati cambiamenti epocali. Nel giro di pochi decenni siamo passati dal pallottoliere al web, dalla macchina fotografica alle immagini satellitari, dalle lettere alle chat, dai sorveglianti umani agli occhi elettronici, dal posto fisso alla precarietà strutturale, dal lavoro alla catena alle catene del telelavoro.
Un lungo processo di straniamento.
Il moloch tecnologico, assunto come nemico totale, ha aperto la strada ad un anarchismo che fugge in un passato immaginario, dove germogli un futuro che nega l’umano, così come si è costruito nel processo di civilizzazione, identificato tout court con la nascita e il consolidarsi della gerarchia, del dominio, della violenza dei pochi sui molti. Il futuro diviene “primitivo”, nel senso etimologico del termine, un tempo-spazio dove si torna al primus, ad una dimensione in cui l’umano si (ri)naturalizza, in una concezione essenzialista e non culturale della “natura”.
Una fuga nichilista che riflette l’impotenza di fronte ad una complessità che non si riesce a capire né a controllare: il moloch può essere distrutto solo a prezzo di rinunciare alla libertà, per rifugiarci tra le braccia esigenti e soffocanti della natura-madre.
Il processo di rinaturalizzazione dell’umano operato da queste correnti nega i percorsi costruiti dalle identità fluide, disancorate, in viaggio che si reinventano fuori e contro la logica binaria dei generi.
Fuggire al dominio della merce, al controllo dello stato, alla paura della tecnica che si ritiene impossibile controllare, porta a negare la diversità e pluralità dei percorsi individuali. Manca la gerarchia formale ma non c’è traccia di libertà. L’unica libertà è quella di adeguarsi ad essere quello che “spontaneamente” saremmo, se le incrostazioni della “civiltà” non ci avessero snaturat*.
Da qui a negare l’aborto, le tecniche contraccettive non “naturali”, l’utilizzo di ormoni e tecniche chirurgiche per modificare il proprio corpo, il passo è stato breve.
La negazione dei percorsi di decostruzione del genere conduce ad approdi non troppo distanti da quelli delle religioni e delle destre fasciste.
Le questioni di genere vengono relegate ai margini di un discorso di trasformazione sociale, che, nella migliore delle ipotesi, le considera inessenziali.

Universale plurale

I corpi fuori norma, i corpi fuori luogo, che scientemente si sottraggono alla logica identitaria, per fare i conti con le cesure che il genere, la classe, la razza hanno imposto ai singoli, sono pericolosamente sovversivi.
Le dislocazioni, i transiti e le ricombinazioni che rompono con qualsiasi pretesa di pietrificare le identità, frantumano l’essenzialismo ed aprono una sfida radicale, insuscettibile di riassorbimento in logiche gerarchiche e capitaliste.
Lo scarto degl* esclus* non è iscritto nella natura ma nemmeno nella cultura, è solo una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Nessuna posizione può pretendere di riassumere in sé l’oppressione e i relativi percorsi di liberazione, se non divenendo, a sua volta, escludente.
In questa prospettiva il relativismo dei posizionamenti, viene superato dall’universalismo della spinta ad una radicale trasformazione della società.
L’universale occidentale, costitutivamente escludente e marginalizzante nei confronti di tutt* coloro che non sono considerat* pienamente cittadini (poveri, migranti, donne, soggettività non conformi alla norma etero-cispatriarcale, ecc.), e il relativismo assoluto, sostanzialmente acritico nei confronti di usanze e pratiche spesso pesantemente oppressive, sono due facce della stessa medaglia. Si pongono in posizione equidistante rispetto alla concreta prospettiva di un universale plurale in via di costruzione, che scaturisce dai percorsi di lotta intrapresi dai movimenti. Movimenti in cui hanno un ruolo importante coloro che si soggettivano a partire dalla consapevolezza della propria condizione e sanno, insieme, sperimentare strade in cui ogni gabbia identitaria viene spezzata.
Non è mera astrazione, ma la prospettiva concreta del pluriverso, un mondo nel quale convivono più mondi, nel quale sia possibile valorizzare al massimo la diversità nell’uguaglianza, la libertà di tutt* e di ciascun*.
Il femminismo libertario e anarchico pone al centro una critica radicale dell’istituito, perché ciascun* attraversi la propria vita con la forza di chi si scioglie da vincoli e lacci.
Lo sguardo transfemminista è imprescindibile per un processo rivoluzionario che miri al sovvertimento in senso anarchico dell’ordine sociale e politico in cui siamo forzat* tutt* a vivere.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

I compagni e le compagne della FAT

Torino, 13 dicembre 2024

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Respingere i tagli. Assistenza educativa scolastica

Da quattro mesi in alcune della città della Toscana è in corso una lotta contro i tagli all’assistenza educativa per gli studenti disabili. Unicobas ha seguito da vicino la situazione di Livorno, una delle più gravi, in cui la riduzione delle risorse si è fatta sentire con maggiore drammaticità.

L’assistenza educativa è un servizio che affianca gli insegnanti di sostegno e di materia curricolare nei casi di studenti con particolari gravità, che necessitano di supporto nella sfera dell’autonomia personale e della comunicazione. L’attività è affidata a educatori professionali, personale fornito da cooperative sociali a cui le scuole appaltano il servizio utilizzando fondi regionali e statali che vengono erogati sul territorio tramite gli enti locali.

Il servizio, previsto dalla legge 104 del 1992 per casi di particolare gravità, ha avuto nel tempo una diffusione notevole, per vari fattori. Innanzitutto, va considerato l’inserimento sempre più massiccio degli studenti disabili nella scuola pubblica, anche nelle superiori. Una delle poche pratiche virtuose di questo paese è infatti quella di avere intrapreso fino dal 1977 un processo serio di integrazione scolastica della disabilità, chiudendo la fase delle scuole differenziali per inserire, prima nella fascia dell’obbligo, poi anche nelle superiori, i ragazzi con qualsiasi tipo di disabilità nelle classi comuni. Non è una cosa da poco, se si considera il panorama europeo. In Italia il 93% degli alunni disabili frequenta la scuola in classi comuni, mentre in Europa il modello “separatista” è largamente diffuso, con in testa Repubblica Ceca, Finlandia, Olanda, Svizzera, Germania, Austria, Ungheria, Regno Unito. Vero che il modello italiano richiede di investire sul personale (insegnanti di sostegno e numero contenuto di alunni per classe), mentre invece, come ben sappiamo, da anni i tagli sono la normale modalità di gestione della scuola, come pure della sanità e di vari settori della spesa sociale. Nel tempo quindi l’organico dei docenti di sostegno ha subito tagli consistenti. Attualmente, a livello nazionale, il 50% dei docenti di sostegno è formato da personale precario; i posti in deroga sono circa 120.000, il che vuol dire che 120.000 posti corrispondenti a reali necessità fanno parte di un organico oscillante, di un “fuori sacco” che da un anno all’altro può sparire per esigenze di riduzione di spesa, e trattandosi di organico non stabilizzato non c’è nemmeno da far la fatica di licenziare. In questa situazione, nel corso degli anni, per tagliare gli insegnanti di sostegno, personale statale, si è fatto un impiego sempre più largo degli educatori, personale esternalizzato il cui costo è notevolmente più basso.

Ora si taglia anche sull’assistenza educativa. Nella provincia di Livorno, rispetto alle necessità ufficialmente certificate, manca all’appello 1 milione e 200mila euro. Il servizio ha subito una riduzione drastica in termini di ore settimanali e dal mese di marzo le risorse saranno esaurite. Lo scenario che si è aperto è quello di un’emergenza di ordine sociale ed occupazionale.

Si colpiscono gli studenti disabili, privati di supporti indispensabili, con conseguenze non solo sulla qualità dell’inserimento scolastico, ma anche sulla stessa possibilità di frequenza. Si colpiscono educatori ed educatrici, che si vedono tagliare gli stipendi per la decurtazione di ore, che sono sottoposti a condizioni di lavoro di sfruttamento, spesso fuori dalla regolamentazione del contratto nazionale, che lavorano in condizione di estrema precarietà giornaliera, che non hanno una prospettiva di prosecuzione di lavoro, ma lo spettro sempre più concreto del licenziamento.

Per questo motivo, dalla fine di ottobre si sono susseguite azioni di protesta che hanno visto in piazza, insieme ai sindacati di base, educatori, docenti, studenti disabili, familiari, associazioni, collettivi studenteschi. Le risposte istituzionali locali di Regione, Provincia e Dirigenze scolastiche sono state ridicole, perse nel palleggiamento delle competenze e nei tanti tecnicismi burocratici che non fanno che evidenziare mancanza di volontà politica e inadeguatezza ad affrontare e governare il piano dei bisogni collettivi. Perché istruzione e retribuzione del lavoro sono bisogni collettivi.

Nel mirino della protesta ovviamente anche il governo centrale, responsabile di aver tagliato del 55% le risorse stanziate lo scorso anno, non adeguandole all’incremento del numero di studenti che necessitano di assistenza educativa. Una dimostrazione di quanto la tutela delle persone più fragili non stia minimamente a cuore a chi governa, più interessato a finanziare guerre, grandi opere, grandi imprese e grandi capitali. La scuola e il sociale sono tra i settori più penalizzati, insieme alla sanità, dalle scelte scellerate di chi parla di inclusione per poi procedere sistematicamente all’esclusione. Questo è stato messo bene a fuoco nelle proteste e nelle rivendicazioni di piazza portate avanti dagli educatori delle cooperative.

Il settore delle cooperative sociali è uno dei più esposti a precarietà, bassa retribuzione, condizioni di lavoro prive di effettive tutele. Le amministrazioni pubbliche (e non solo) utilizzano questo settore per gestire al ribasso quei servizi che sono tenute a erogare, secondo il sistema delle esternalizzazioni che significa pagare meno chi lavora, tenendo i lavoratori ad un livello dequalificato anche nei casi in cui le competenze professionali individuali sono molto elevate, come nel caso degli educatori professionali. Con tutta probabilità il costo della gestione delle gare di appalto, dei bandi, delle rendicontazioni e delle relative istruttorie, affidato a personale amministrativo e funzionari, è più elevato di quanto non si ricavi dai tagli, ma l’importante è mantenere il sistema esternalizzato, i lavoratori sottopagati e precari, mantenere insomma la gerarchia e lo sfruttamento. Ed è invece contro questo sistema di gerarchia e di sfruttamento che queste lavoratrici e lavoratori hanno alzato la testa e levato la voce, coinvolgendo la cittadinanza e facendo della questione dei tagli all’assistenza educativa una vertenza cittadina che ha oltrepassato i limiti locali, obbligando a un confronto lo stesso ministero delle disabilità. E indipendentemente dall’esito di questa lotta, ancora in corso, il meccanismo del ricatto, secondo il quale chi è più debole, precario e sfruttato non deve alzare la testa, quel meccanismo si è inceppato

E.U.

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