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bakunin

Da Berna al Matese: Difetti e pregi della propaganda col fatto

Fu la Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori a chiarire pubblicamente, per la prima volta, la strategia della propaganda col fatto. Dopo la conclusione del congresso di Berna, sul Bollettino della Federazione del Giura apparve uno scritto di Errico Malatesta e Carlo Cafiero, dove si legge che la Federazione Italiana riteneva l’atto insurrezionale, destinato ad affermare i principi socialisti con l’azione, il mezzo di propaganda più efficace e il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, potesse penetrare negli strati sociali più profondi e attirare le forze vive dell’umanità nella lotta sostenuta dall’Internazionale.

L’Internazionale che si riunì a Berna dal 26 al 29 ottobre 1876 era profondamente diversa da quella del Congresso di Saint-Imier (1872) e da quella del Congresso di Ginevra (1873). Le tendenze antiautoritarie, tenute insieme solo dalla loro comune opposizione alle mire centralizzatrici di Marx ed Engels, erano divise da profonde contrapposizioni sia sul piano teorico che su quello strategico. Di queste contrapposizioni troviamo un’eco nelle memorie di James Guillaume, allora esponente della Federazione del Giura, e di Errico Malatesta, che ancora nel 1926 così si esprimeva riguardo al dibattito nel movimento socialista: “il sentimento socialista fece respingere il Proudhonismo che, specie per i proudhoniani dopo la morte di Proudhon (gennaio 1865), era diventato un sistema anodino di mutuo scambio” e più sotto “questa idea collettivista rivoluzionaria fu sola dinanzi agli operai di molti paesi dove i pochi Proudhoniani. Blanquisti e Marxisti, Fourieristi ed altri contavano ben poco”. Nel 1876 si poté verificare che questi dibattiti avevano provocato un accentuarsi delle spinte centrifughe, cosicché all’interno dell’Internazionale Antiautoritaria delle tendenze socialiste non marxiste era rimasta in pratica solo quella anarchica.

La Federazione Italiana rappresentava la tendenza più intransigente dell’Internazionale e i suoi delegati fecero del Congresso di Berna una tribuna pubblica per esporre i principi condivisi dalla medesima organizzazione; fra gli altri temi trattati, Errico Malatesta, relativamente all’organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e alle tattiche del movimento operaio, riporta la stretta ortodossia della Federazione italiana, che rifiutava di limitare l’adesione all’Internazionale ai solo operai. “L’obiettivo della rivoluzione sociale”, dichiarò, “non è solo l’emancipazione della classe operaia, ma l’emancipazione dell’intera umanità; e l’Internazionale, che è l’esercito della rivoluzione, deve raggruppare sotto la sua bandiera tutti i rivoluzionari, senza distinzione di classe”. Malatesta inoltre, definendo il sindacalismo di modello britannico “istituzione reazionaria”, respinge l’idea che esso possa ottenere risultati positivi in Italia: “le condizioni economiche dell’Italia e il temperamento dei lavoratori italiani vi si oppongono”.

Nel 1877 il movimento anarchico era più che mai impegnato nella propaganda col fatto attraverso la guerriglia, con strategie già articolate e praticate da una lunga serie di rivoluzionari durante il Risorgimento. Sia l’insegnamento di Mikhail Bakunin sia la tradizione rivoluzionaria autoctona confluivano ad orientare le scelte dell’Internazionale, anche se la sua ispirazione immediata era senza dubbio il Testamento politico di Pisacane.

La decisione di intraprendere una nuova insurrezione armata era stata presa da un ristretto cerchio di militanti; gli anarchici erano coscienti che poche decine di insorti male equipaggiati non avrebbero potuto prevalere contro reggimenti di fanteria e cavalleria armati con armi moderne. La loro campagna aveva lo scopo di provocare la rivoluzione, facendo un atto di propaganda.

La strategia prevedeva che la banda vagasse per le campagne il più a lungo possibile, predicando la guerra di classe, incitando al brigantaggio sociale, occupando le piccole città e lasciandole dopo aver compiuto qualche atto rivoluzionario, per dirigersi verso quella zona dove la nostra presenza sarebbe stata più utile. Questa azione passerà alla storia come la Banda del Matese.

La Banda del Matese non provocò una rivolta contadina. Tuttavia, catturando l’attenzione naziominale per diverse settimane, attirò una notevole curiosità verso l’Internazionale e il suo programma socialista. Nel corso dell’anno e mezzo successivo, inoltre, la Federazione italiana acquisì molti nuovi aderenti. Sebbene questa espansione non possa essere attribuita con certezza al valore propagandistico dell’insurrezione, le imprese della Banda del Matese – contrariamente a quanto si pensa – non diminuirono l’attrattiva del socialismo anarchico per gli operai italiani, e senza dubbio la rafforzarono agli occhi di alcuni. E per gli stessi anarchici, ad eccezione di alcuni dissidenti come Costa, l’insurrezionalismo sarebbe rimasto la pietra angolare della loro strategia rivoluzionaria nonostante il suo apparente fallimento.

L’impegno costante degli anarchici italiani nei confronti dell’insurrezionalismo potrebbe apparire sconsiderato a posteriori, ma era comunque coerente con gli insegnamenti bakuninisti. Oltre a ciò, c’era l’esempio dei mazziniani che li avevano preceduti, che avevano perseverato di fronte alle ripetute sconfitte e al martirio. Come eredi di questa eroica tradizione rivoluzionaria, gli anarchici non avrebbero abbandonato l’insurrezionalismo dopo due sole sconfitte. Inoltre, la loro determinazione a persistere era ulteriormente rafforzata dalla convinzione che la missione fosse fallita a causa di problemi pratici, dovuti soprattutto alla necessità di iniziare l’azione prematuramente. Ma forse nulla confermò la fiducia degli anarchici nell’insurrezionalismo più della reazione del governo italiano. Se le autorità ritenevano impossibile che gli anarchici potessero scatenare una rivolta contadina nell’Italia meridionale, perché avrebbero schierato dodicimila uomini in tutto il Matese? Sicuramente questo piccolo esercito era destinato a intimidire – o se necessario a reprimere – i contadini locali, piuttosto che a scovare ventisei anarchici.

Più tardi, naturalmente, anche i più convinti insurrezionisti anarchici si resero conto che la loro fiducia negli istinti rivoluzionari e libertari delle masse era mal riposta. Tuttavia, in ultima analisi, il fallimento delle tattiche insurrezionali non può sminuire l’incredibile audacia e lo spirito esibito dalla Banda del Matese.

La crescita numerica e organizzativa della Federazione italiana fino alla prima metà del 1878 – avvenuta in un’atmosfera di crescente persecuzione – smentisce l’opinione comunemente diffusa che i fallimenti insurrezionali del 1874 e del 1877 avessero completamente screditato l’anarchismo e contribuito a ridurre l’Internazionale a poco più di “una piccola setta di cospiratori, perseguitati dalla polizia”, come ebbe a definirla lo storico marxista Gustavo Malacorda. Sebbene il numero degli iscritti potesse essere diminuito rispetto al 1874, la tendenza evidenzia un’espansione organizzativa, non una contrazione. Solo la repressione governativa travolgerà il movimento nei mesi successivi. Le tattiche insurrezionali potevano essere screditate agli occhi degli intellettuali borghesi legalitari, ma gli operai e gli artigiani continuavano a sognare una soluzione rivoluzionaria alla questione sociale. L’anarchismo, nonostante le sue carenze e i suoi travagli, era ancora la scuola dominante del socialismo italiano nell’estate del 1878.

Gli storici del socialismo italiano hanno considerato la spinta insurrezionale come un sintomo del declino del movimento, ma al contrario essa fu sostenuta dalla crescita e dalla riorganizzazione della Federazione Italiana.

La maggior parte di essi, inoltre, parte dal presupposto aprioristico che l’Internazionale italiana fosse destinata al fallimento perché i suoi principi guida e le sue tattiche erano anarchici piuttosto che marxisti. Tra gli storici marxisti, in particolare, le carenze e i fallimenti dell’Internazionale italiana sono stati sottolineati quasi escludendo qualsiasi considerazione sui suoi risultati, come se una valutazione positiva di tutto ciò che gli anarchici fecero costituisse un tradimento ideologico. Questo approccio è ingiusto e sbagliato.

Il movimento anarchico forse pose un’enfasi eccessiva sull’azione diretta immediata, una strategia destinata a fallire, data la realtà degli anni Settanta del XIX secolo. Questo atteggiamento si può comprendere se si pensa al malcontento popolare e alle agitazioni che avevano scosso il giovane regno d’Italia nei primi decenni dopo l’unità: le campagne meridionali erano scosse dallo scontro fra i contadini senza terra e i proprietari fondiari in merito alle terre e agli usi civici usurpati da questi ultimi, una problematica che si era trascinata senza soluzione dal regime borbonico a quello sabaudo. In realtà, contrariamente alle speranze degli anarchici e di Bakunin, l’agitazione nelle campagne si stava placando, e si dovette aspettare venti anni per una nuova agitazione generale, quella dei Fasci Siciliani degli anni 1893-94, questa volta però a guida socialdemocratica e concentrata soprattutto nella sola Sicilia. È bene ricordare inoltre che la Federazione Italiana si era costituita grazie alla disillusione creata dall’indifferenza dei partiti estremi, e in particolare dei mazziniani, verso i moti del 1868-69, aggravata dall’atteggiamento critico nei confronti della Comune di Parigi. In certo qual modo, l’anarchismo si presentava come continuatore dei moti risorgimentali, allargandone gli obiettivi al miglioramento delle condizioni delle masse attraverso l’abolizione della proprietà privata. È in questo incrocio che si inserisce l’insegnamento di Mikhail Bakunin, con il rifiuto della tattica elettorale e la fiducia nelle capacità rivoluzionarie del popolo. Nello stesso tempo, il movimento anarchico ignorò il potenziale del sindacalismo rivoluzionario, sebbene anche in questo caso vi fossero fattori oggettivi che – ai loro occhi – compromettevano la fattibilità di questa alternativa, in particolare la profonda debolezza del movimento operaio.

Resta il fatto che, a prescindere dai suoi numerosi fallimenti e inadeguatezze, il movimento anarchico diede un contributo significativo al futuro del socialismo e del movimento operaio italiano, e lo fece in circostanze incredibilmente avverse, fissando i principi che avrebbero caratterizzato l’anarchismo nei decenni a seguire: la coerenza tra mezzi e fini e l’emancipazione delle classi sfruttate come movimento autonomo delle stesse. Sono gli stessi principi che informano la propaganda col fatto fin dal suo apparire.

Alcuni storici hanno sostenuto che l’Internazionale – pur con la sua struttura decentrata, la sua segreteria ufficialmente priva di potere e la sua filosofia antipolitica – costituì il primo partito socialista italiano, forse il primo partito politico di qualsiasi tipo, perché possedeva caratteristiche più moderne di quelle delle contemporanee consorterie e organizzazioni dei democratici-repubblicani e dei liberal-conservatori. Come partito, l’Internazionale diffuse il socialismo anarchico in tutta la penisola, acquisendo, al suo apice, un numero di iscritti prevalentemente operaio, forse tra i venticinque e i trentamila, e un seguito ausiliario di simpatizzanti assai superiore. Pur non essendo un partito di massa secondo la concezione tipica del ventesimo secolo, l’Internazionale era sufficientemente imponente per militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano a distruggerla.

Data l’enfasi posta dagli anarchici sull’azione politica contro lo Stato piuttosto che sull’azione economica contro il capitalismo, il loro approccio anticlassista all’organizzazione rivoluzionaria e il loro antagonismo verso il sindacalismo convenzionale, l’Internazionale ebbe meno successo come organizzazione sindacale che come partito. Ciononostante, l’Internazionale fu la prima federazione di organizzazioni operaie in Italia ad abbracciare il concetto di emancipazione proletaria attraverso la lotta rivoluzionaria e la prima a tentare di organizzare i lavoratori per aumentare la loro efficacia negli scioperi contro i datori di lavoro. In quanto tale, l’Internazionale fu il legittimo antenato della Lega dei Figli del Lavoro, il braccio economico del Partito Operaio Italiano fondato nel 1882, e della Confederazione Generale del Lavoro fondata nel 1906. L’esperienza dell’Internazionale in Italia ha forgiato legami tra socialismo e movimento operaio che sono rimasti inalterati fino ai giorni nostri.

 

Tiziano Antonelli

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Gli insegnamenti della Comune di Parigi. Solidarietà e organizzazione

Nella primavera del 1871, durante il suo soggiorno nella valle di Saint-Imier, Michail Bakunin tenne, davanti a un pubblico di operai, tre conferenze nelle quali, dopo aver ritracciata la storia della borghesia francese e della sua funzione rivoluzionaria nel 18º secolo, esponeva la missione storica del proletariato del diciannovesimo secolo. Pubblichiamo la parte finale dell’ultima conferenza, in occasione dell’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871).

Il clero e la nobiltà sono stati smascherati e battuti nel 1793. La rivoluzione del 1848 ha smascherato la borghesia e ne ha mostrato l’incapacità e la malvagità. Durante le giornate di giugno, nel 1848, la classe borghese ha altamente rinunciato alla religione dei suoi padri; quella religione rivoluzionaria che aveva avuto la libertà, l’uguaglianza e la fraternità per principio e per base. Appena il popolo ebbe presa sul serio l’uguaglianza e la libertà, la borghesia, che non esiste che per lo sfruttamento, vale a dire per l’ineguaglianza economica e per la schiavitù sociale del popolo, si è gettata nella reazione.

Gli stessi traditori che vogliono perdere ancora una volta la Francia, questi Thiers, Jules Favre, e l’immensa maggioranza dell’Assemblea nazionale del 1848, hanno lavorato per il trionfo della reazione più immonda, come vi lavorano ancora oggi. Hanno cominciato col distruggere il suffragio universale e più tardi hanno portato alla presidenza Luigi Bonaparte. Il timore della rivoluzione sociale, l’orrore dell’uguaglianza, il sentimento dei propri delitti e la paura della giustizia popolare, avevano gettato tutta questa classe, in altri tempi intelligente ed eroica e oggi stupida e vile, nelle braccia della dittatura di Napoleone III. Ed essi ne hanno avuto la dittatura militare, per diciotto anni di seguito, e non bisogna credere che i signori borghesi se ne siano trovati troppo male. Quelli che volevano ribellarsi e giocare al liberalismo in modo troppo rumoroso e incomodo per il regime imperiale, sono stati naturalmente scartati, soffocati. Ma tutti gli altri, quelli che lasciando le fisime politiche al popolo, si sono applicati esclusivamente e seriamente al grande affare della borghesia, allo sfruttamento del popolo, sono stati potentemente protetti e incoraggiati: si sono dati loro perfino, per salvare l’onore, tutte le apparenze della libertà. Infatti, non esisteva sotto l’Impero un’Assemblea legislativa regolarmente eletta a suffragio universale? Tutto andò dunque benissimo secondo i desideri della borghesia. E non ci fu che un solo punto nero, l’ambizione conquistatrice del sovrano, che trascinando la Francia in spese rovinose, ha finito coll’annientare l’antica potenza. Ma questo punto nero non era un accidente, era una necessità del sistema. Un regime dispotico, assoluto, quand’anche con le apparenze della libertà, deve necessariamente appoggiarsi su di un esercito potente, e ogni grande esercito permanente rende necessaria, prima o poi, la guerra all’esterno. La gerarchia militare ha difatti per principale aspirazione l’ambizione, ogni tenente vuole diventare colonnello, e ogni colonnello generale, e quanto ai soldati, essi, sistematicamente demoralizzati nelle caserme, sognano i nobili piaceri della guerra: il massacro, il saccheggio, il furto, lo stupro; prova ne sono le prodezze dell’esercito prussiano in Francia. Ebbene, se tutte queste nobili passioni sapientemente e sistematicamente nutrite nel cuore degli ufficiali e dei soldati, restano a lungo senza soddisfazione, inaspriscono l’esercito e lo spingono al malcontento, e dal malcontento alla rivolta. Perciò è necessario fare la guerra. Tutte le spedizioni e le guerre intraprese da Napoleone III non sono stati capricci personali, come pretendono oggi i signori borghesi: sono stati una necessità del sistema imperiale dispotico che [i borghesi] stessi avevano fondato per timore della rivoluzione sociale. Sono le classi privilegiate, è l’alto e basso clero, è la nobiltà decaduta, è infine – e soprattutto – questa rispettabile, onesta e virtuosa borghesia la quale [come] le altre classi e più dello stesso Napoleone III, è causa di tutte le orribili sventure che hanno ora colpito la Francia.

E voi l’avete visto tutti, compagni, che per difendere questa Francia sfortunata non si è trovato in tutto il paese che una sola massa, la massa degli operai delle città, quella precisamente che è [stata] tradita e abbandonata dalla borghesia all’Impero e sacrificata dall’Impero allo sfruttamento borghese. In tutto il paese non vi sono stati che i generosi lavoratori delle fabbriche e delle città a volere la sollevazione popolare per la salvezza della Francia. I lavoratori delle campagne, i contadini demoralizzati e istupiditi dall’educazione religiosa che fu loro impartita dal primo Napoleone ad oggi, hanno preso il partito dei Prussiani e della reazione contro la Francia. Si potevano guadagnare alla rivoluzione: in un opuscolo che molti di voi hanno letto, intitolato Lettere a un Francese, esposi i mezzi che conveniva usare per trascinarli nella Rivoluzione. Ma per farlo occorreva anzitutto che le città si sollevassero e si organizzassero rivoluzionariamente. Gli operai hanno provato, tentando anche in molte città del sud della Francia: a Lione, Marsiglia, Montpellier, Saint-Etienne, Tolosa. Ma dappertutto sono stati compressi e paralizzati dai borghesi radicali in nome della Repubblica. Sì, è nel nome stesso della Repubblica che i borghesi divenuti repubblicani per timore del popolo, è nel nome della Repubblica che Gambetta, il vecchio peccatore Jules Favre, Thiers, la volpe infame, e tutti i Picard, Ferry, Jules Simon, Pelletan e altri, è in nome della Repubblica che hanno assassinato la Repubblica e la Francia.

La borghesia è colpevole. È la classe più ricca e numerosa di Francia – eccettuato s’intende la massa popolare – avrebbe potuto salvare, se avesse voluto, la Francia. Ma per questo avrebbe dovuto sacrificare il suo denaro, la sua vita e appoggiarsi francamente sul proletariato come avevano fatto i suoi avi del 1793. Ebbene, ha voluto sacrificare il denaro meno della vita, e ha preferito che i Prussiani conquistassero la Francia, piuttosto che salvarla con la rivoluzione popolare.

La questione fra gli operai delle città e la borghesia è stata posta nettamente. Gli operai hanno detto: faremo saltare in aria le case piuttosto che abbandonare le città ai Prussiani. I borghesi hanno risposto: apriremo le porte delle città ai Prussiani piuttosto che permettervi di fare disordine pubblico, e vogliamo conservare le nostre preziose case a ogni costo, anche dovessimo baciare il culo ai S[ignori] Prussiani.

E notate che sono oggi gli stessi borghesi che osano insultare la Comune di Parigi, questa nobile Comune che salva l’onore della Francia e, speriamo nello stesso tempo, la libertà del mondo; sono gli stessi borghesi che l’insultano oggi, e in nome di cosa? – in nome del patriottismo!

Veramente, questi borghesi hanno la faccia di bronzo! Sono giunti a un tal grado d’infamia, da perdere fin l’ultimo sentimento di pudore. Ignorano la vergogna. Prima di essere morti sono già completamente marci.

E non è solo in Francia, compagni, che la borghesia è putrida; moralmente e intellettualmente annientata; lo è allo stesso modo in tutta Europa, e in tutti i paesi d’Europa [soltanto il proletariato] ha conservato il fuoco sacro: esso soltanto porta oggi lo stendardo dell’umanità.

Qual è il suo motto, la sua morale, il suo principio? La solidarietà. Tutti per uno e uno per tutti. È il motto e il principio della nostra grande Associazione internazionale, la quale, superando le frontiere degli Stati, e con ciò stesso, distruggendo gli Stati, tende a unire i lavoratori del mondo intero in una sola famiglia umana, sulla base del lavoro ugualmente obbligatorio per tutti, e in nome della libertà di ciascuno e di tutti. Questa solidarietà si chiama, in economia sociale, lavoro e proprietà collettiva, in politica si chiama distruzione degli Stati e libertà di ognuno per la libertà di tutti.

Sì, cari compagni operai, solidalmente coi vostri fratelli lavoratori del mondo intero, ereditate da soli la grande missione dell’emancipazione dell’umanità. Avete tuttavia un coerede, lavoratore anch’esso, sebbene in altre condizioni. È il contadino. Ma il contadino non ha ancora la coscienza della grande missione popolare. È stato avvelenato, è ancora avvelenato dai preti, e serve, contro se stesso, come strumento di reazione. Dovete istruirlo, dove salvarlo suo malgrado, trascinandolo spiegandogli che cos’è la Rivoluzione sociale.

Nel frattempo, e soprattutto agl’inizi, gli operai dell’industria non devono, non possono contare che su se stessi; ma saranno onnipotenti se lo vorranno. Soltanto devono volerlo seriamente, e per realizzare questa volontà non ci sono che due mezzi. Stabilire dapprima nei gruppi, poi fra tutti i gruppi, una vera solidarietà fraterna, non solo di parole, ma anche d’azione, non solo con le feste, i discorsi, i brindisi, ma anche nella vita quotidiana. Ogni membro dell’Internazionale deve poter sentire, deve essere praticamente convinto, che tutti gli altri membri sono suoi fratelli.

L’altro mezzo è l’organizzazione rivoluzionaria, l’organizzazione per l’azione. Se le sollevazioni popolari di Lione, Marsiglia e di altre città della Francia sono fallite, è per mancanza d’organizzazione, e ve ne posso parlare con cognizione di causa, perché ci sono stato e ne ho sofferto. E se la Comune di Parigi s’impone oggi così saldamente, è perché durante l’assedio gli operai si sono seriamente organizzati. Non è senza ragione che i giornali borghesi accusano l’Internazionale di aver prodotto questa magnifica sollevazione di Parigi. Sì, diciamolo con fierezza, sono i nostri fratelli internazionalisti che col loro lavoro perseverante hanno organizzato il popolo di Parigi e resa possibile la Comune di Parigi.

Siamo dunque buoni fratelli, compagni, e organizziamoci. Non credete di essere alla fine della Rivoluzione, siamo solo all’inizio. La Rivoluzione è ormai all’ordine del giorno per molte decine di anni. Essa verrà a trovarci, presto o tardi, prepariamoci dunque, purifichiamoci, diventiamo più reali, meno chiacchieroni, meno chiassosi, meno parolai, meno bevitori, meno buontemponi. Siamo più austeri e prepariamoci degnamente a questa lotta che deve salvare tutti i popoli ed emancipare finalmente l’umanità.

Viva la Rivoluzione sociale! Viva la Comune di Parigi!

 

Michail Bakunin

 

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Da Berna al Matese: Difetti e pregi della propaganda col fatto

Fu la Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori a chiarire pubblicamente, per la prima volta, la strategia della propaganda col fatto. Dopo la conclusione del congresso di Berna, sul Bollettino della Federazione del Giura apparve uno scritto di Errico Malatesta e Carlo Cafiero, dove si legge che la Federazione Italiana riteneva l’atto insurrezionale, destinato ad affermare i principi socialisti con l’azione, il mezzo di propaganda più efficace e il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, potesse penetrare negli strati sociali più profondi e attirare le forze vive dell’umanità nella lotta sostenuta dall’Internazionale.

L’Internazionale che si riunì a Berna dal 26 al 29 ottobre 1876 era profondamente diversa da quella del Congresso di Saint-Imier (1872) e da quella del Congresso di Ginevra (1873). Le tendenze antiautoritarie, tenute insieme solo dalla loro comune opposizione alle mire centralizzatrici di Marx ed Engels, erano divise da profonde contrapposizioni sia sul piano teorico che su quello strategico. Di queste contrapposizioni troviamo un’eco nelle memorie di James Guillaume, allora esponente della Federazione del Giura, e di Errico Malatesta, che ancora nel 1926 così si esprimeva riguardo al dibattito nel movimento socialista: “il sentimento socialista fece respingere il Proudhonismo che, specie per i proudhoniani dopo la morte di Proudhon (gennaio 1865), era diventato un sistema anodino di mutuo scambio” e più sotto “questa idea collettivista rivoluzionaria fu sola dinanzi agli operai di molti paesi dove i pochi Proudhoniani. Blanquisti e Marxisti, Fourieristi ed altri contavano ben poco”. Nel 1876 si poté verificare che questi dibattiti avevano provocato un accentuarsi delle spinte centrifughe, cosicché all’interno dell’Internazionale Antiautoritaria delle tendenze socialiste non marxiste era rimasta in pratica solo quella anarchica.

La Federazione Italiana rappresentava la tendenza più intransigente dell’Internazionale e i suoi delegati fecero del Congresso di Berna una tribuna pubblica per esporre i principi condivisi dalla medesima organizzazione; fra gli altri temi trattati, Errico Malatesta, relativamente all’organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e alle tattiche del movimento operaio, riporta la stretta ortodossia della Federazione italiana, che rifiutava di limitare l’adesione all’Internazionale ai solo operai. “L’obiettivo della rivoluzione sociale”, dichiarò, “non è solo l’emancipazione della classe operaia, ma l’emancipazione dell’intera umanità; e l’Internazionale, che è l’esercito della rivoluzione, deve raggruppare sotto la sua bandiera tutti i rivoluzionari, senza distinzione di classe”. Malatesta inoltre, definendo il sindacalismo di modello britannico “istituzione reazionaria”, respinge l’idea che esso possa ottenere risultati positivi in Italia: “le condizioni economiche dell’Italia e il temperamento dei lavoratori italiani vi si oppongono”.

Nel 1877 il movimento anarchico era più che mai impegnato nella propaganda col fatto attraverso la guerriglia, con strategie già articolate e praticate da una lunga serie di rivoluzionari durante il Risorgimento. Sia l’insegnamento di Mikhail Bakunin sia la tradizione rivoluzionaria autoctona confluivano ad orientare le scelte dell’Internazionale, anche se la sua ispirazione immediata era senza dubbio il Testamento politico di Pisacane.

La decisione di intraprendere una nuova insurrezione armata era stata presa da un ristretto cerchio di militanti; gli anarchici erano coscienti che poche decine di insorti male equipaggiati non avrebbero potuto prevalere contro reggimenti di fanteria e cavalleria armati con armi moderne. La loro campagna aveva lo scopo di provocare la rivoluzione, facendo un atto di propaganda.

La strategia prevedeva che la banda vagasse per le campagne il più a lungo possibile, predicando la guerra di classe, incitando al brigantaggio sociale, occupando le piccole città e lasciandole dopo aver compiuto qualche atto rivoluzionario, per dirigersi verso quella zona dove la nostra presenza sarebbe stata più utile. Questa azione passerà alla storia come la Banda del Matese.

La Banda del Matese non provocò una rivolta contadina. Tuttavia, catturando l’attenzione naziominale per diverse settimane, attirò una notevole curiosità verso l’Internazionale e il suo programma socialista. Nel corso dell’anno e mezzo successivo, inoltre, la Federazione italiana acquisì molti nuovi aderenti. Sebbene questa espansione non possa essere attribuita con certezza al valore propagandistico dell’insurrezione, le imprese della Banda del Matese – contrariamente a quanto si pensa – non diminuirono l’attrattiva del socialismo anarchico per gli operai italiani, e senza dubbio la rafforzarono agli occhi di alcuni. E per gli stessi anarchici, ad eccezione di alcuni dissidenti come Costa, l’insurrezionalismo sarebbe rimasto la pietra angolare della loro strategia rivoluzionaria nonostante il suo apparente fallimento.

L’impegno costante degli anarchici italiani nei confronti dell’insurrezionalismo potrebbe apparire sconsiderato a posteriori, ma era comunque coerente con gli insegnamenti bakuninisti. Oltre a ciò, c’era l’esempio dei mazziniani che li avevano preceduti, che avevano perseverato di fronte alle ripetute sconfitte e al martirio. Come eredi di questa eroica tradizione rivoluzionaria, gli anarchici non avrebbero abbandonato l’insurrezionalismo dopo due sole sconfitte. Inoltre, la loro determinazione a persistere era ulteriormente rafforzata dalla convinzione che la missione fosse fallita a causa di problemi pratici, dovuti soprattutto alla necessità di iniziare l’azione prematuramente. Ma forse nulla confermò la fiducia degli anarchici nell’insurrezionalismo più della reazione del governo italiano. Se le autorità ritenevano impossibile che gli anarchici potessero scatenare una rivolta contadina nell’Italia meridionale, perché avrebbero schierato dodicimila uomini in tutto il Matese? Sicuramente questo piccolo esercito era destinato a intimidire – o se necessario a reprimere – i contadini locali, piuttosto che a scovare ventisei anarchici.

Più tardi, naturalmente, anche i più convinti insurrezionisti anarchici si resero conto che la loro fiducia negli istinti rivoluzionari e libertari delle masse era mal riposta. Tuttavia, in ultima analisi, il fallimento delle tattiche insurrezionali non può sminuire l’incredibile audacia e lo spirito esibito dalla Banda del Matese.

La crescita numerica e organizzativa della Federazione italiana fino alla prima metà del 1878 – avvenuta in un’atmosfera di crescente persecuzione – smentisce l’opinione comunemente diffusa che i fallimenti insurrezionali del 1874 e del 1877 avessero completamente screditato l’anarchismo e contribuito a ridurre l’Internazionale a poco più di “una piccola setta di cospiratori, perseguitati dalla polizia”, come ebbe a definirla lo storico marxista Gustavo Malacorda. Sebbene il numero degli iscritti potesse essere diminuito rispetto al 1874, la tendenza evidenzia un’espansione organizzativa, non una contrazione. Solo la repressione governativa travolgerà il movimento nei mesi successivi. Le tattiche insurrezionali potevano essere screditate agli occhi degli intellettuali borghesi legalitari, ma gli operai e gli artigiani continuavano a sognare una soluzione rivoluzionaria alla questione sociale. L’anarchismo, nonostante le sue carenze e i suoi travagli, era ancora la scuola dominante del socialismo italiano nell’estate del 1878.

Gli storici del socialismo italiano hanno considerato la spinta insurrezionale come un sintomo del declino del movimento, ma al contrario essa fu sostenuta dalla crescita e dalla riorganizzazione della Federazione Italiana.

La maggior parte di essi, inoltre, parte dal presupposto aprioristico che l’Internazionale italiana fosse destinata al fallimento perché i suoi principi guida e le sue tattiche erano anarchici piuttosto che marxisti. Tra gli storici marxisti, in particolare, le carenze e i fallimenti dell’Internazionale italiana sono stati sottolineati quasi escludendo qualsiasi considerazione sui suoi risultati, come se una valutazione positiva di tutto ciò che gli anarchici fecero costituisse un tradimento ideologico. Questo approccio è ingiusto e sbagliato.

Il movimento anarchico forse pose un’enfasi eccessiva sull’azione diretta immediata, una strategia destinata a fallire, data la realtà degli anni Settanta del XIX secolo. Questo atteggiamento si può comprendere se si pensa al malcontento popolare e alle agitazioni che avevano scosso il giovane regno d’Italia nei primi decenni dopo l’unità: le campagne meridionali erano scosse dallo scontro fra i contadini senza terra e i proprietari fondiari in merito alle terre e agli usi civici usurpati da questi ultimi, una problematica che si era trascinata senza soluzione dal regime borbonico a quello sabaudo. In realtà, contrariamente alle speranze degli anarchici e di Bakunin, l’agitazione nelle campagne si stava placando, e si dovette aspettare venti anni per una nuova agitazione generale, quella dei Fasci Siciliani degli anni 1893-94, questa volta però a guida socialdemocratica e concentrata soprattutto nella sola Sicilia. È bene ricordare inoltre che la Federazione Italiana si era costituita grazie alla disillusione creata dall’indifferenza dei partiti estremi, e in particolare dei mazziniani, verso i moti del 1868-69, aggravata dall’atteggiamento critico nei confronti della Comune di Parigi. In certo qual modo, l’anarchismo si presentava come continuatore dei moti risorgimentali, allargandone gli obiettivi al miglioramento delle condizioni delle masse attraverso l’abolizione della proprietà privata. È in questo incrocio che si inserisce l’insegnamento di Mikhail Bakunin, con il rifiuto della tattica elettorale e la fiducia nelle capacità rivoluzionarie del popolo. Nello stesso tempo, il movimento anarchico ignorò il potenziale del sindacalismo rivoluzionario, sebbene anche in questo caso vi fossero fattori oggettivi che – ai loro occhi – compromettevano la fattibilità di questa alternativa, in particolare la profonda debolezza del movimento operaio.

Resta il fatto che, a prescindere dai suoi numerosi fallimenti e inadeguatezze, il movimento anarchico diede un contributo significativo al futuro del socialismo e del movimento operaio italiano, e lo fece in circostanze incredibilmente avverse, fissando i principi che avrebbero caratterizzato l’anarchismo nei decenni a seguire: la coerenza tra mezzi e fini e l’emancipazione delle classi sfruttate come movimento autonomo delle stesse. Sono gli stessi principi che informano la propaganda col fatto fin dal suo apparire.

Alcuni storici hanno sostenuto che l’Internazionale – pur con la sua struttura decentrata, la sua segreteria ufficialmente priva di potere e la sua filosofia antipolitica – costituì il primo partito socialista italiano, forse il primo partito politico di qualsiasi tipo, perché possedeva caratteristiche più moderne di quelle delle contemporanee consorterie e organizzazioni dei democratici-repubblicani e dei liberal-conservatori. Come partito, l’Internazionale diffuse il socialismo anarchico in tutta la penisola, acquisendo, al suo apice, un numero di iscritti prevalentemente operaio, forse tra i venticinque e i trentamila, e un seguito ausiliario di simpatizzanti assai superiore. Pur non essendo un partito di massa secondo la concezione tipica del ventesimo secolo, l’Internazionale era sufficientemente imponente per militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano a distruggerla.

Data l’enfasi posta dagli anarchici sull’azione politica contro lo Stato piuttosto che sull’azione economica contro il capitalismo, il loro approccio anticlassista all’organizzazione rivoluzionaria e il loro antagonismo verso il sindacalismo convenzionale, l’Internazionale ebbe meno successo come organizzazione sindacale che come partito. Ciononostante, l’Internazionale fu la prima federazione di organizzazioni operaie in Italia ad abbracciare il concetto di emancipazione proletaria attraverso la lotta rivoluzionaria e la prima a tentare di organizzare i lavoratori per aumentare la loro efficacia negli scioperi contro i datori di lavoro. In quanto tale, l’Internazionale fu il legittimo antenato della Lega dei Figli del Lavoro, il braccio economico del Partito Operaio Italiano fondato nel 1882, e della Confederazione Generale del Lavoro fondata nel 1906. L’esperienza dell’Internazionale in Italia ha forgiato legami tra socialismo e movimento operaio che sono rimasti inalterati fino ai giorni nostri.

 

Tiziano Antonelli

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Gli insegnamenti della Comune di Parigi. Solidarietà e organizzazione

Nella primavera del 1871, durante il suo soggiorno nella valle di Saint-Imier, Michail Bakunin tenne, davanti a un pubblico di operai, tre conferenze nelle quali, dopo aver ritracciata la storia della borghesia francese e della sua funzione rivoluzionaria nel 18º secolo, esponeva la missione storica del proletariato del diciannovesimo secolo. Pubblichiamo la parte finale dell’ultima conferenza, in occasione dell’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871).

Il clero e la nobiltà sono stati smascherati e battuti nel 1793. La rivoluzione del 1848 ha smascherato la borghesia e ne ha mostrato l’incapacità e la malvagità. Durante le giornate di giugno, nel 1848, la classe borghese ha altamente rinunciato alla religione dei suoi padri; quella religione rivoluzionaria che aveva avuto la libertà, l’uguaglianza e la fraternità per principio e per base. Appena il popolo ebbe presa sul serio l’uguaglianza e la libertà, la borghesia, che non esiste che per lo sfruttamento, vale a dire per l’ineguaglianza economica e per la schiavitù sociale del popolo, si è gettata nella reazione.

Gli stessi traditori che vogliono perdere ancora una volta la Francia, questi Thiers, Jules Favre, e l’immensa maggioranza dell’Assemblea nazionale del 1848, hanno lavorato per il trionfo della reazione più immonda, come vi lavorano ancora oggi. Hanno cominciato col distruggere il suffragio universale e più tardi hanno portato alla presidenza Luigi Bonaparte. Il timore della rivoluzione sociale, l’orrore dell’uguaglianza, il sentimento dei propri delitti e la paura della giustizia popolare, avevano gettato tutta questa classe, in altri tempi intelligente ed eroica e oggi stupida e vile, nelle braccia della dittatura di Napoleone III. Ed essi ne hanno avuto la dittatura militare, per diciotto anni di seguito, e non bisogna credere che i signori borghesi se ne siano trovati troppo male. Quelli che volevano ribellarsi e giocare al liberalismo in modo troppo rumoroso e incomodo per il regime imperiale, sono stati naturalmente scartati, soffocati. Ma tutti gli altri, quelli che lasciando le fisime politiche al popolo, si sono applicati esclusivamente e seriamente al grande affare della borghesia, allo sfruttamento del popolo, sono stati potentemente protetti e incoraggiati: si sono dati loro perfino, per salvare l’onore, tutte le apparenze della libertà. Infatti, non esisteva sotto l’Impero un’Assemblea legislativa regolarmente eletta a suffragio universale? Tutto andò dunque benissimo secondo i desideri della borghesia. E non ci fu che un solo punto nero, l’ambizione conquistatrice del sovrano, che trascinando la Francia in spese rovinose, ha finito coll’annientare l’antica potenza. Ma questo punto nero non era un accidente, era una necessità del sistema. Un regime dispotico, assoluto, quand’anche con le apparenze della libertà, deve necessariamente appoggiarsi su di un esercito potente, e ogni grande esercito permanente rende necessaria, prima o poi, la guerra all’esterno. La gerarchia militare ha difatti per principale aspirazione l’ambizione, ogni tenente vuole diventare colonnello, e ogni colonnello generale, e quanto ai soldati, essi, sistematicamente demoralizzati nelle caserme, sognano i nobili piaceri della guerra: il massacro, il saccheggio, il furto, lo stupro; prova ne sono le prodezze dell’esercito prussiano in Francia. Ebbene, se tutte queste nobili passioni sapientemente e sistematicamente nutrite nel cuore degli ufficiali e dei soldati, restano a lungo senza soddisfazione, inaspriscono l’esercito e lo spingono al malcontento, e dal malcontento alla rivolta. Perciò è necessario fare la guerra. Tutte le spedizioni e le guerre intraprese da Napoleone III non sono stati capricci personali, come pretendono oggi i signori borghesi: sono stati una necessità del sistema imperiale dispotico che [i borghesi] stessi avevano fondato per timore della rivoluzione sociale. Sono le classi privilegiate, è l’alto e basso clero, è la nobiltà decaduta, è infine – e soprattutto – questa rispettabile, onesta e virtuosa borghesia la quale [come] le altre classi e più dello stesso Napoleone III, è causa di tutte le orribili sventure che hanno ora colpito la Francia.

E voi l’avete visto tutti, compagni, che per difendere questa Francia sfortunata non si è trovato in tutto il paese che una sola massa, la massa degli operai delle città, quella precisamente che è [stata] tradita e abbandonata dalla borghesia all’Impero e sacrificata dall’Impero allo sfruttamento borghese. In tutto il paese non vi sono stati che i generosi lavoratori delle fabbriche e delle città a volere la sollevazione popolare per la salvezza della Francia. I lavoratori delle campagne, i contadini demoralizzati e istupiditi dall’educazione religiosa che fu loro impartita dal primo Napoleone ad oggi, hanno preso il partito dei Prussiani e della reazione contro la Francia. Si potevano guadagnare alla rivoluzione: in un opuscolo che molti di voi hanno letto, intitolato Lettere a un Francese, esposi i mezzi che conveniva usare per trascinarli nella Rivoluzione. Ma per farlo occorreva anzitutto che le città si sollevassero e si organizzassero rivoluzionariamente. Gli operai hanno provato, tentando anche in molte città del sud della Francia: a Lione, Marsiglia, Montpellier, Saint-Etienne, Tolosa. Ma dappertutto sono stati compressi e paralizzati dai borghesi radicali in nome della Repubblica. Sì, è nel nome stesso della Repubblica che i borghesi divenuti repubblicani per timore del popolo, è nel nome della Repubblica che Gambetta, il vecchio peccatore Jules Favre, Thiers, la volpe infame, e tutti i Picard, Ferry, Jules Simon, Pelletan e altri, è in nome della Repubblica che hanno assassinato la Repubblica e la Francia.

La borghesia è colpevole. È la classe più ricca e numerosa di Francia – eccettuato s’intende la massa popolare – avrebbe potuto salvare, se avesse voluto, la Francia. Ma per questo avrebbe dovuto sacrificare il suo denaro, la sua vita e appoggiarsi francamente sul proletariato come avevano fatto i suoi avi del 1793. Ebbene, ha voluto sacrificare il denaro meno della vita, e ha preferito che i Prussiani conquistassero la Francia, piuttosto che salvarla con la rivoluzione popolare.

La questione fra gli operai delle città e la borghesia è stata posta nettamente. Gli operai hanno detto: faremo saltare in aria le case piuttosto che abbandonare le città ai Prussiani. I borghesi hanno risposto: apriremo le porte delle città ai Prussiani piuttosto che permettervi di fare disordine pubblico, e vogliamo conservare le nostre preziose case a ogni costo, anche dovessimo baciare il culo ai S[ignori] Prussiani.

E notate che sono oggi gli stessi borghesi che osano insultare la Comune di Parigi, questa nobile Comune che salva l’onore della Francia e, speriamo nello stesso tempo, la libertà del mondo; sono gli stessi borghesi che l’insultano oggi, e in nome di cosa? – in nome del patriottismo!

Veramente, questi borghesi hanno la faccia di bronzo! Sono giunti a un tal grado d’infamia, da perdere fin l’ultimo sentimento di pudore. Ignorano la vergogna. Prima di essere morti sono già completamente marci.

E non è solo in Francia, compagni, che la borghesia è putrida; moralmente e intellettualmente annientata; lo è allo stesso modo in tutta Europa, e in tutti i paesi d’Europa [soltanto il proletariato] ha conservato il fuoco sacro: esso soltanto porta oggi lo stendardo dell’umanità.

Qual è il suo motto, la sua morale, il suo principio? La solidarietà. Tutti per uno e uno per tutti. È il motto e il principio della nostra grande Associazione internazionale, la quale, superando le frontiere degli Stati, e con ciò stesso, distruggendo gli Stati, tende a unire i lavoratori del mondo intero in una sola famiglia umana, sulla base del lavoro ugualmente obbligatorio per tutti, e in nome della libertà di ciascuno e di tutti. Questa solidarietà si chiama, in economia sociale, lavoro e proprietà collettiva, in politica si chiama distruzione degli Stati e libertà di ognuno per la libertà di tutti.

Sì, cari compagni operai, solidalmente coi vostri fratelli lavoratori del mondo intero, ereditate da soli la grande missione dell’emancipazione dell’umanità. Avete tuttavia un coerede, lavoratore anch’esso, sebbene in altre condizioni. È il contadino. Ma il contadino non ha ancora la coscienza della grande missione popolare. È stato avvelenato, è ancora avvelenato dai preti, e serve, contro se stesso, come strumento di reazione. Dovete istruirlo, dove salvarlo suo malgrado, trascinandolo spiegandogli che cos’è la Rivoluzione sociale.

Nel frattempo, e soprattutto agl’inizi, gli operai dell’industria non devono, non possono contare che su se stessi; ma saranno onnipotenti se lo vorranno. Soltanto devono volerlo seriamente, e per realizzare questa volontà non ci sono che due mezzi. Stabilire dapprima nei gruppi, poi fra tutti i gruppi, una vera solidarietà fraterna, non solo di parole, ma anche d’azione, non solo con le feste, i discorsi, i brindisi, ma anche nella vita quotidiana. Ogni membro dell’Internazionale deve poter sentire, deve essere praticamente convinto, che tutti gli altri membri sono suoi fratelli.

L’altro mezzo è l’organizzazione rivoluzionaria, l’organizzazione per l’azione. Se le sollevazioni popolari di Lione, Marsiglia e di altre città della Francia sono fallite, è per mancanza d’organizzazione, e ve ne posso parlare con cognizione di causa, perché ci sono stato e ne ho sofferto. E se la Comune di Parigi s’impone oggi così saldamente, è perché durante l’assedio gli operai si sono seriamente organizzati. Non è senza ragione che i giornali borghesi accusano l’Internazionale di aver prodotto questa magnifica sollevazione di Parigi. Sì, diciamolo con fierezza, sono i nostri fratelli internazionalisti che col loro lavoro perseverante hanno organizzato il popolo di Parigi e resa possibile la Comune di Parigi.

Siamo dunque buoni fratelli, compagni, e organizziamoci. Non credete di essere alla fine della Rivoluzione, siamo solo all’inizio. La Rivoluzione è ormai all’ordine del giorno per molte decine di anni. Essa verrà a trovarci, presto o tardi, prepariamoci dunque, purifichiamoci, diventiamo più reali, meno chiacchieroni, meno chiassosi, meno parolai, meno bevitori, meno buontemponi. Siamo più austeri e prepariamoci degnamente a questa lotta che deve salvare tutti i popoli ed emancipare finalmente l’umanità.

Viva la Rivoluzione sociale! Viva la Comune di Parigi!

 

Michail Bakunin

 

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Da Berna al Matese: Difetti e pregi della propaganda col fatto

Fu la Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori a chiarire pubblicamente, per la prima volta, la strategia della propaganda col fatto. Dopo la conclusione del congresso di Berna, sul Bollettino della Federazione del Giura apparve uno scritto di Errico Malatesta e Carlo Cafiero, dove si legge che la Federazione Italiana riteneva l’atto insurrezionale, destinato ad affermare i principi socialisti con l’azione, il mezzo di propaganda più efficace e il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, potesse penetrare negli strati sociali più profondi e attirare le forze vive dell’umanità nella lotta sostenuta dall’Internazionale.

L’Internazionale che si riunì a Berna dal 26 al 29 ottobre 1876 era profondamente diversa da quella del Congresso di Saint-Imier (1872) e da quella del Congresso di Ginevra (1873). Le tendenze antiautoritarie, tenute insieme solo dalla loro comune opposizione alle mire centralizzatrici di Marx ed Engels, erano divise da profonde contrapposizioni sia sul piano teorico che su quello strategico. Di queste contrapposizioni troviamo un’eco nelle memorie di James Guillaume, allora esponente della Federazione del Giura, e di Errico Malatesta, che ancora nel 1926 così si esprimeva riguardo al dibattito nel movimento socialista: “il sentimento socialista fece respingere il Proudhonismo che, specie per i proudhoniani dopo la morte di Proudhon (gennaio 1865), era diventato un sistema anodino di mutuo scambio” e più sotto “questa idea collettivista rivoluzionaria fu sola dinanzi agli operai di molti paesi dove i pochi Proudhoniani. Blanquisti e Marxisti, Fourieristi ed altri contavano ben poco”. Nel 1876 si poté verificare che questi dibattiti avevano provocato un accentuarsi delle spinte centrifughe, cosicché all’interno dell’Internazionale Antiautoritaria delle tendenze socialiste non marxiste era rimasta in pratica solo quella anarchica.

La Federazione Italiana rappresentava la tendenza più intransigente dell’Internazionale e i suoi delegati fecero del Congresso di Berna una tribuna pubblica per esporre i principi condivisi dalla medesima organizzazione; fra gli altri temi trattati, Errico Malatesta, relativamente all’organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e alle tattiche del movimento operaio, riporta la stretta ortodossia della Federazione italiana, che rifiutava di limitare l’adesione all’Internazionale ai solo operai. “L’obiettivo della rivoluzione sociale”, dichiarò, “non è solo l’emancipazione della classe operaia, ma l’emancipazione dell’intera umanità; e l’Internazionale, che è l’esercito della rivoluzione, deve raggruppare sotto la sua bandiera tutti i rivoluzionari, senza distinzione di classe”. Malatesta inoltre, definendo il sindacalismo di modello britannico “istituzione reazionaria”, respinge l’idea che esso possa ottenere risultati positivi in Italia: “le condizioni economiche dell’Italia e il temperamento dei lavoratori italiani vi si oppongono”.

Nel 1877 il movimento anarchico era più che mai impegnato nella propaganda col fatto attraverso la guerriglia, con strategie già articolate e praticate da una lunga serie di rivoluzionari durante il Risorgimento. Sia l’insegnamento di Mikhail Bakunin sia la tradizione rivoluzionaria autoctona confluivano ad orientare le scelte dell’Internazionale, anche se la sua ispirazione immediata era senza dubbio il Testamento politico di Pisacane.

La decisione di intraprendere una nuova insurrezione armata era stata presa da un ristretto cerchio di militanti; gli anarchici erano coscienti che poche decine di insorti male equipaggiati non avrebbero potuto prevalere contro reggimenti di fanteria e cavalleria armati con armi moderne. La loro campagna aveva lo scopo di provocare la rivoluzione, facendo un atto di propaganda.

La strategia prevedeva che la banda vagasse per le campagne il più a lungo possibile, predicando la guerra di classe, incitando al brigantaggio sociale, occupando le piccole città e lasciandole dopo aver compiuto qualche atto rivoluzionario, per dirigersi verso quella zona dove la nostra presenza sarebbe stata più utile. Questa azione passerà alla storia come la Banda del Matese.

La Banda del Matese non provocò una rivolta contadina. Tuttavia, catturando l’attenzione naziominale per diverse settimane, attirò una notevole curiosità verso l’Internazionale e il suo programma socialista. Nel corso dell’anno e mezzo successivo, inoltre, la Federazione italiana acquisì molti nuovi aderenti. Sebbene questa espansione non possa essere attribuita con certezza al valore propagandistico dell’insurrezione, le imprese della Banda del Matese – contrariamente a quanto si pensa – non diminuirono l’attrattiva del socialismo anarchico per gli operai italiani, e senza dubbio la rafforzarono agli occhi di alcuni. E per gli stessi anarchici, ad eccezione di alcuni dissidenti come Costa, l’insurrezionalismo sarebbe rimasto la pietra angolare della loro strategia rivoluzionaria nonostante il suo apparente fallimento.

L’impegno costante degli anarchici italiani nei confronti dell’insurrezionalismo potrebbe apparire sconsiderato a posteriori, ma era comunque coerente con gli insegnamenti bakuninisti. Oltre a ciò, c’era l’esempio dei mazziniani che li avevano preceduti, che avevano perseverato di fronte alle ripetute sconfitte e al martirio. Come eredi di questa eroica tradizione rivoluzionaria, gli anarchici non avrebbero abbandonato l’insurrezionalismo dopo due sole sconfitte. Inoltre, la loro determinazione a persistere era ulteriormente rafforzata dalla convinzione che la missione fosse fallita a causa di problemi pratici, dovuti soprattutto alla necessità di iniziare l’azione prematuramente. Ma forse nulla confermò la fiducia degli anarchici nell’insurrezionalismo più della reazione del governo italiano. Se le autorità ritenevano impossibile che gli anarchici potessero scatenare una rivolta contadina nell’Italia meridionale, perché avrebbero schierato dodicimila uomini in tutto il Matese? Sicuramente questo piccolo esercito era destinato a intimidire – o se necessario a reprimere – i contadini locali, piuttosto che a scovare ventisei anarchici.

Più tardi, naturalmente, anche i più convinti insurrezionisti anarchici si resero conto che la loro fiducia negli istinti rivoluzionari e libertari delle masse era mal riposta. Tuttavia, in ultima analisi, il fallimento delle tattiche insurrezionali non può sminuire l’incredibile audacia e lo spirito esibito dalla Banda del Matese.

La crescita numerica e organizzativa della Federazione italiana fino alla prima metà del 1878 – avvenuta in un’atmosfera di crescente persecuzione – smentisce l’opinione comunemente diffusa che i fallimenti insurrezionali del 1874 e del 1877 avessero completamente screditato l’anarchismo e contribuito a ridurre l’Internazionale a poco più di “una piccola setta di cospiratori, perseguitati dalla polizia”, come ebbe a definirla lo storico marxista Gustavo Malacorda. Sebbene il numero degli iscritti potesse essere diminuito rispetto al 1874, la tendenza evidenzia un’espansione organizzativa, non una contrazione. Solo la repressione governativa travolgerà il movimento nei mesi successivi. Le tattiche insurrezionali potevano essere screditate agli occhi degli intellettuali borghesi legalitari, ma gli operai e gli artigiani continuavano a sognare una soluzione rivoluzionaria alla questione sociale. L’anarchismo, nonostante le sue carenze e i suoi travagli, era ancora la scuola dominante del socialismo italiano nell’estate del 1878.

Gli storici del socialismo italiano hanno considerato la spinta insurrezionale come un sintomo del declino del movimento, ma al contrario essa fu sostenuta dalla crescita e dalla riorganizzazione della Federazione Italiana.

La maggior parte di essi, inoltre, parte dal presupposto aprioristico che l’Internazionale italiana fosse destinata al fallimento perché i suoi principi guida e le sue tattiche erano anarchici piuttosto che marxisti. Tra gli storici marxisti, in particolare, le carenze e i fallimenti dell’Internazionale italiana sono stati sottolineati quasi escludendo qualsiasi considerazione sui suoi risultati, come se una valutazione positiva di tutto ciò che gli anarchici fecero costituisse un tradimento ideologico. Questo approccio è ingiusto e sbagliato.

Il movimento anarchico forse pose un’enfasi eccessiva sull’azione diretta immediata, una strategia destinata a fallire, data la realtà degli anni Settanta del XIX secolo. Questo atteggiamento si può comprendere se si pensa al malcontento popolare e alle agitazioni che avevano scosso il giovane regno d’Italia nei primi decenni dopo l’unità: le campagne meridionali erano scosse dallo scontro fra i contadini senza terra e i proprietari fondiari in merito alle terre e agli usi civici usurpati da questi ultimi, una problematica che si era trascinata senza soluzione dal regime borbonico a quello sabaudo. In realtà, contrariamente alle speranze degli anarchici e di Bakunin, l’agitazione nelle campagne si stava placando, e si dovette aspettare venti anni per una nuova agitazione generale, quella dei Fasci Siciliani degli anni 1893-94, questa volta però a guida socialdemocratica e concentrata soprattutto nella sola Sicilia. È bene ricordare inoltre che la Federazione Italiana si era costituita grazie alla disillusione creata dall’indifferenza dei partiti estremi, e in particolare dei mazziniani, verso i moti del 1868-69, aggravata dall’atteggiamento critico nei confronti della Comune di Parigi. In certo qual modo, l’anarchismo si presentava come continuatore dei moti risorgimentali, allargandone gli obiettivi al miglioramento delle condizioni delle masse attraverso l’abolizione della proprietà privata. È in questo incrocio che si inserisce l’insegnamento di Mikhail Bakunin, con il rifiuto della tattica elettorale e la fiducia nelle capacità rivoluzionarie del popolo. Nello stesso tempo, il movimento anarchico ignorò il potenziale del sindacalismo rivoluzionario, sebbene anche in questo caso vi fossero fattori oggettivi che – ai loro occhi – compromettevano la fattibilità di questa alternativa, in particolare la profonda debolezza del movimento operaio.

Resta il fatto che, a prescindere dai suoi numerosi fallimenti e inadeguatezze, il movimento anarchico diede un contributo significativo al futuro del socialismo e del movimento operaio italiano, e lo fece in circostanze incredibilmente avverse, fissando i principi che avrebbero caratterizzato l’anarchismo nei decenni a seguire: la coerenza tra mezzi e fini e l’emancipazione delle classi sfruttate come movimento autonomo delle stesse. Sono gli stessi principi che informano la propaganda col fatto fin dal suo apparire.

Alcuni storici hanno sostenuto che l’Internazionale – pur con la sua struttura decentrata, la sua segreteria ufficialmente priva di potere e la sua filosofia antipolitica – costituì il primo partito socialista italiano, forse il primo partito politico di qualsiasi tipo, perché possedeva caratteristiche più moderne di quelle delle contemporanee consorterie e organizzazioni dei democratici-repubblicani e dei liberal-conservatori. Come partito, l’Internazionale diffuse il socialismo anarchico in tutta la penisola, acquisendo, al suo apice, un numero di iscritti prevalentemente operaio, forse tra i venticinque e i trentamila, e un seguito ausiliario di simpatizzanti assai superiore. Pur non essendo un partito di massa secondo la concezione tipica del ventesimo secolo, l’Internazionale era sufficientemente imponente per militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano a distruggerla.

Data l’enfasi posta dagli anarchici sull’azione politica contro lo Stato piuttosto che sull’azione economica contro il capitalismo, il loro approccio anticlassista all’organizzazione rivoluzionaria e il loro antagonismo verso il sindacalismo convenzionale, l’Internazionale ebbe meno successo come organizzazione sindacale che come partito. Ciononostante, l’Internazionale fu la prima federazione di organizzazioni operaie in Italia ad abbracciare il concetto di emancipazione proletaria attraverso la lotta rivoluzionaria e la prima a tentare di organizzare i lavoratori per aumentare la loro efficacia negli scioperi contro i datori di lavoro. In quanto tale, l’Internazionale fu il legittimo antenato della Lega dei Figli del Lavoro, il braccio economico del Partito Operaio Italiano fondato nel 1882, e della Confederazione Generale del Lavoro fondata nel 1906. L’esperienza dell’Internazionale in Italia ha forgiato legami tra socialismo e movimento operaio che sono rimasti inalterati fino ai giorni nostri.

 

Tiziano Antonelli

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Gli insegnamenti della Comune di Parigi. Solidarietà e organizzazione

Nella primavera del 1871, durante il suo soggiorno nella valle di Saint-Imier, Michail Bakunin tenne, davanti a un pubblico di operai, tre conferenze nelle quali, dopo aver ritracciata la storia della borghesia francese e della sua funzione rivoluzionaria nel 18º secolo, esponeva la missione storica del proletariato del diciannovesimo secolo. Pubblichiamo la parte finale dell’ultima conferenza, in occasione dell’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871).

Il clero e la nobiltà sono stati smascherati e battuti nel 1793. La rivoluzione del 1848 ha smascherato la borghesia e ne ha mostrato l’incapacità e la malvagità. Durante le giornate di giugno, nel 1848, la classe borghese ha altamente rinunciato alla religione dei suoi padri; quella religione rivoluzionaria che aveva avuto la libertà, l’uguaglianza e la fraternità per principio e per base. Appena il popolo ebbe presa sul serio l’uguaglianza e la libertà, la borghesia, che non esiste che per lo sfruttamento, vale a dire per l’ineguaglianza economica e per la schiavitù sociale del popolo, si è gettata nella reazione.

Gli stessi traditori che vogliono perdere ancora una volta la Francia, questi Thiers, Jules Favre, e l’immensa maggioranza dell’Assemblea nazionale del 1848, hanno lavorato per il trionfo della reazione più immonda, come vi lavorano ancora oggi. Hanno cominciato col distruggere il suffragio universale e più tardi hanno portato alla presidenza Luigi Bonaparte. Il timore della rivoluzione sociale, l’orrore dell’uguaglianza, il sentimento dei propri delitti e la paura della giustizia popolare, avevano gettato tutta questa classe, in altri tempi intelligente ed eroica e oggi stupida e vile, nelle braccia della dittatura di Napoleone III. Ed essi ne hanno avuto la dittatura militare, per diciotto anni di seguito, e non bisogna credere che i signori borghesi se ne siano trovati troppo male. Quelli che volevano ribellarsi e giocare al liberalismo in modo troppo rumoroso e incomodo per il regime imperiale, sono stati naturalmente scartati, soffocati. Ma tutti gli altri, quelli che lasciando le fisime politiche al popolo, si sono applicati esclusivamente e seriamente al grande affare della borghesia, allo sfruttamento del popolo, sono stati potentemente protetti e incoraggiati: si sono dati loro perfino, per salvare l’onore, tutte le apparenze della libertà. Infatti, non esisteva sotto l’Impero un’Assemblea legislativa regolarmente eletta a suffragio universale? Tutto andò dunque benissimo secondo i desideri della borghesia. E non ci fu che un solo punto nero, l’ambizione conquistatrice del sovrano, che trascinando la Francia in spese rovinose, ha finito coll’annientare l’antica potenza. Ma questo punto nero non era un accidente, era una necessità del sistema. Un regime dispotico, assoluto, quand’anche con le apparenze della libertà, deve necessariamente appoggiarsi su di un esercito potente, e ogni grande esercito permanente rende necessaria, prima o poi, la guerra all’esterno. La gerarchia militare ha difatti per principale aspirazione l’ambizione, ogni tenente vuole diventare colonnello, e ogni colonnello generale, e quanto ai soldati, essi, sistematicamente demoralizzati nelle caserme, sognano i nobili piaceri della guerra: il massacro, il saccheggio, il furto, lo stupro; prova ne sono le prodezze dell’esercito prussiano in Francia. Ebbene, se tutte queste nobili passioni sapientemente e sistematicamente nutrite nel cuore degli ufficiali e dei soldati, restano a lungo senza soddisfazione, inaspriscono l’esercito e lo spingono al malcontento, e dal malcontento alla rivolta. Perciò è necessario fare la guerra. Tutte le spedizioni e le guerre intraprese da Napoleone III non sono stati capricci personali, come pretendono oggi i signori borghesi: sono stati una necessità del sistema imperiale dispotico che [i borghesi] stessi avevano fondato per timore della rivoluzione sociale. Sono le classi privilegiate, è l’alto e basso clero, è la nobiltà decaduta, è infine – e soprattutto – questa rispettabile, onesta e virtuosa borghesia la quale [come] le altre classi e più dello stesso Napoleone III, è causa di tutte le orribili sventure che hanno ora colpito la Francia.

E voi l’avete visto tutti, compagni, che per difendere questa Francia sfortunata non si è trovato in tutto il paese che una sola massa, la massa degli operai delle città, quella precisamente che è [stata] tradita e abbandonata dalla borghesia all’Impero e sacrificata dall’Impero allo sfruttamento borghese. In tutto il paese non vi sono stati che i generosi lavoratori delle fabbriche e delle città a volere la sollevazione popolare per la salvezza della Francia. I lavoratori delle campagne, i contadini demoralizzati e istupiditi dall’educazione religiosa che fu loro impartita dal primo Napoleone ad oggi, hanno preso il partito dei Prussiani e della reazione contro la Francia. Si potevano guadagnare alla rivoluzione: in un opuscolo che molti di voi hanno letto, intitolato Lettere a un Francese, esposi i mezzi che conveniva usare per trascinarli nella Rivoluzione. Ma per farlo occorreva anzitutto che le città si sollevassero e si organizzassero rivoluzionariamente. Gli operai hanno provato, tentando anche in molte città del sud della Francia: a Lione, Marsiglia, Montpellier, Saint-Etienne, Tolosa. Ma dappertutto sono stati compressi e paralizzati dai borghesi radicali in nome della Repubblica. Sì, è nel nome stesso della Repubblica che i borghesi divenuti repubblicani per timore del popolo, è nel nome della Repubblica che Gambetta, il vecchio peccatore Jules Favre, Thiers, la volpe infame, e tutti i Picard, Ferry, Jules Simon, Pelletan e altri, è in nome della Repubblica che hanno assassinato la Repubblica e la Francia.

La borghesia è colpevole. È la classe più ricca e numerosa di Francia – eccettuato s’intende la massa popolare – avrebbe potuto salvare, se avesse voluto, la Francia. Ma per questo avrebbe dovuto sacrificare il suo denaro, la sua vita e appoggiarsi francamente sul proletariato come avevano fatto i suoi avi del 1793. Ebbene, ha voluto sacrificare il denaro meno della vita, e ha preferito che i Prussiani conquistassero la Francia, piuttosto che salvarla con la rivoluzione popolare.

La questione fra gli operai delle città e la borghesia è stata posta nettamente. Gli operai hanno detto: faremo saltare in aria le case piuttosto che abbandonare le città ai Prussiani. I borghesi hanno risposto: apriremo le porte delle città ai Prussiani piuttosto che permettervi di fare disordine pubblico, e vogliamo conservare le nostre preziose case a ogni costo, anche dovessimo baciare il culo ai S[ignori] Prussiani.

E notate che sono oggi gli stessi borghesi che osano insultare la Comune di Parigi, questa nobile Comune che salva l’onore della Francia e, speriamo nello stesso tempo, la libertà del mondo; sono gli stessi borghesi che l’insultano oggi, e in nome di cosa? – in nome del patriottismo!

Veramente, questi borghesi hanno la faccia di bronzo! Sono giunti a un tal grado d’infamia, da perdere fin l’ultimo sentimento di pudore. Ignorano la vergogna. Prima di essere morti sono già completamente marci.

E non è solo in Francia, compagni, che la borghesia è putrida; moralmente e intellettualmente annientata; lo è allo stesso modo in tutta Europa, e in tutti i paesi d’Europa [soltanto il proletariato] ha conservato il fuoco sacro: esso soltanto porta oggi lo stendardo dell’umanità.

Qual è il suo motto, la sua morale, il suo principio? La solidarietà. Tutti per uno e uno per tutti. È il motto e il principio della nostra grande Associazione internazionale, la quale, superando le frontiere degli Stati, e con ciò stesso, distruggendo gli Stati, tende a unire i lavoratori del mondo intero in una sola famiglia umana, sulla base del lavoro ugualmente obbligatorio per tutti, e in nome della libertà di ciascuno e di tutti. Questa solidarietà si chiama, in economia sociale, lavoro e proprietà collettiva, in politica si chiama distruzione degli Stati e libertà di ognuno per la libertà di tutti.

Sì, cari compagni operai, solidalmente coi vostri fratelli lavoratori del mondo intero, ereditate da soli la grande missione dell’emancipazione dell’umanità. Avete tuttavia un coerede, lavoratore anch’esso, sebbene in altre condizioni. È il contadino. Ma il contadino non ha ancora la coscienza della grande missione popolare. È stato avvelenato, è ancora avvelenato dai preti, e serve, contro se stesso, come strumento di reazione. Dovete istruirlo, dove salvarlo suo malgrado, trascinandolo spiegandogli che cos’è la Rivoluzione sociale.

Nel frattempo, e soprattutto agl’inizi, gli operai dell’industria non devono, non possono contare che su se stessi; ma saranno onnipotenti se lo vorranno. Soltanto devono volerlo seriamente, e per realizzare questa volontà non ci sono che due mezzi. Stabilire dapprima nei gruppi, poi fra tutti i gruppi, una vera solidarietà fraterna, non solo di parole, ma anche d’azione, non solo con le feste, i discorsi, i brindisi, ma anche nella vita quotidiana. Ogni membro dell’Internazionale deve poter sentire, deve essere praticamente convinto, che tutti gli altri membri sono suoi fratelli.

L’altro mezzo è l’organizzazione rivoluzionaria, l’organizzazione per l’azione. Se le sollevazioni popolari di Lione, Marsiglia e di altre città della Francia sono fallite, è per mancanza d’organizzazione, e ve ne posso parlare con cognizione di causa, perché ci sono stato e ne ho sofferto. E se la Comune di Parigi s’impone oggi così saldamente, è perché durante l’assedio gli operai si sono seriamente organizzati. Non è senza ragione che i giornali borghesi accusano l’Internazionale di aver prodotto questa magnifica sollevazione di Parigi. Sì, diciamolo con fierezza, sono i nostri fratelli internazionalisti che col loro lavoro perseverante hanno organizzato il popolo di Parigi e resa possibile la Comune di Parigi.

Siamo dunque buoni fratelli, compagni, e organizziamoci. Non credete di essere alla fine della Rivoluzione, siamo solo all’inizio. La Rivoluzione è ormai all’ordine del giorno per molte decine di anni. Essa verrà a trovarci, presto o tardi, prepariamoci dunque, purifichiamoci, diventiamo più reali, meno chiacchieroni, meno chiassosi, meno parolai, meno bevitori, meno buontemponi. Siamo più austeri e prepariamoci degnamente a questa lotta che deve salvare tutti i popoli ed emancipare finalmente l’umanità.

Viva la Rivoluzione sociale! Viva la Comune di Parigi!

 

Michail Bakunin

 

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Da Berna al Matese: Difetti e pregi della propaganda col fatto

Fu la Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori a chiarire pubblicamente, per la prima volta, la strategia della propaganda col fatto. Dopo la conclusione del congresso di Berna, sul Bollettino della Federazione del Giura apparve uno scritto di Errico Malatesta e Carlo Cafiero, dove si legge che la Federazione Italiana riteneva l’atto insurrezionale, destinato ad affermare i principi socialisti con l’azione, il mezzo di propaganda più efficace e il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, potesse penetrare negli strati sociali più profondi e attirare le forze vive dell’umanità nella lotta sostenuta dall’Internazionale.

L’Internazionale che si riunì a Berna dal 26 al 29 ottobre 1876 era profondamente diversa da quella del Congresso di Saint-Imier (1872) e da quella del Congresso di Ginevra (1873). Le tendenze antiautoritarie, tenute insieme solo dalla loro comune opposizione alle mire centralizzatrici di Marx ed Engels, erano divise da profonde contrapposizioni sia sul piano teorico che su quello strategico. Di queste contrapposizioni troviamo un’eco nelle memorie di James Guillaume, allora esponente della Federazione del Giura, e di Errico Malatesta, che ancora nel 1926 così si esprimeva riguardo al dibattito nel movimento socialista: “il sentimento socialista fece respingere il Proudhonismo che, specie per i proudhoniani dopo la morte di Proudhon (gennaio 1865), era diventato un sistema anodino di mutuo scambio” e più sotto “questa idea collettivista rivoluzionaria fu sola dinanzi agli operai di molti paesi dove i pochi Proudhoniani. Blanquisti e Marxisti, Fourieristi ed altri contavano ben poco”. Nel 1876 si poté verificare che questi dibattiti avevano provocato un accentuarsi delle spinte centrifughe, cosicché all’interno dell’Internazionale Antiautoritaria delle tendenze socialiste non marxiste era rimasta in pratica solo quella anarchica.

La Federazione Italiana rappresentava la tendenza più intransigente dell’Internazionale e i suoi delegati fecero del Congresso di Berna una tribuna pubblica per esporre i principi condivisi dalla medesima organizzazione; fra gli altri temi trattati, Errico Malatesta, relativamente all’organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e alle tattiche del movimento operaio, riporta la stretta ortodossia della Federazione italiana, che rifiutava di limitare l’adesione all’Internazionale ai solo operai. “L’obiettivo della rivoluzione sociale”, dichiarò, “non è solo l’emancipazione della classe operaia, ma l’emancipazione dell’intera umanità; e l’Internazionale, che è l’esercito della rivoluzione, deve raggruppare sotto la sua bandiera tutti i rivoluzionari, senza distinzione di classe”. Malatesta inoltre, definendo il sindacalismo di modello britannico “istituzione reazionaria”, respinge l’idea che esso possa ottenere risultati positivi in Italia: “le condizioni economiche dell’Italia e il temperamento dei lavoratori italiani vi si oppongono”.

Nel 1877 il movimento anarchico era più che mai impegnato nella propaganda col fatto attraverso la guerriglia, con strategie già articolate e praticate da una lunga serie di rivoluzionari durante il Risorgimento. Sia l’insegnamento di Mikhail Bakunin sia la tradizione rivoluzionaria autoctona confluivano ad orientare le scelte dell’Internazionale, anche se la sua ispirazione immediata era senza dubbio il Testamento politico di Pisacane.

La decisione di intraprendere una nuova insurrezione armata era stata presa da un ristretto cerchio di militanti; gli anarchici erano coscienti che poche decine di insorti male equipaggiati non avrebbero potuto prevalere contro reggimenti di fanteria e cavalleria armati con armi moderne. La loro campagna aveva lo scopo di provocare la rivoluzione, facendo un atto di propaganda.

La strategia prevedeva che la banda vagasse per le campagne il più a lungo possibile, predicando la guerra di classe, incitando al brigantaggio sociale, occupando le piccole città e lasciandole dopo aver compiuto qualche atto rivoluzionario, per dirigersi verso quella zona dove la nostra presenza sarebbe stata più utile. Questa azione passerà alla storia come la Banda del Matese.

La Banda del Matese non provocò una rivolta contadina. Tuttavia, catturando l’attenzione naziominale per diverse settimane, attirò una notevole curiosità verso l’Internazionale e il suo programma socialista. Nel corso dell’anno e mezzo successivo, inoltre, la Federazione italiana acquisì molti nuovi aderenti. Sebbene questa espansione non possa essere attribuita con certezza al valore propagandistico dell’insurrezione, le imprese della Banda del Matese – contrariamente a quanto si pensa – non diminuirono l’attrattiva del socialismo anarchico per gli operai italiani, e senza dubbio la rafforzarono agli occhi di alcuni. E per gli stessi anarchici, ad eccezione di alcuni dissidenti come Costa, l’insurrezionalismo sarebbe rimasto la pietra angolare della loro strategia rivoluzionaria nonostante il suo apparente fallimento.

L’impegno costante degli anarchici italiani nei confronti dell’insurrezionalismo potrebbe apparire sconsiderato a posteriori, ma era comunque coerente con gli insegnamenti bakuninisti. Oltre a ciò, c’era l’esempio dei mazziniani che li avevano preceduti, che avevano perseverato di fronte alle ripetute sconfitte e al martirio. Come eredi di questa eroica tradizione rivoluzionaria, gli anarchici non avrebbero abbandonato l’insurrezionalismo dopo due sole sconfitte. Inoltre, la loro determinazione a persistere era ulteriormente rafforzata dalla convinzione che la missione fosse fallita a causa di problemi pratici, dovuti soprattutto alla necessità di iniziare l’azione prematuramente. Ma forse nulla confermò la fiducia degli anarchici nell’insurrezionalismo più della reazione del governo italiano. Se le autorità ritenevano impossibile che gli anarchici potessero scatenare una rivolta contadina nell’Italia meridionale, perché avrebbero schierato dodicimila uomini in tutto il Matese? Sicuramente questo piccolo esercito era destinato a intimidire – o se necessario a reprimere – i contadini locali, piuttosto che a scovare ventisei anarchici.

Più tardi, naturalmente, anche i più convinti insurrezionisti anarchici si resero conto che la loro fiducia negli istinti rivoluzionari e libertari delle masse era mal riposta. Tuttavia, in ultima analisi, il fallimento delle tattiche insurrezionali non può sminuire l’incredibile audacia e lo spirito esibito dalla Banda del Matese.

La crescita numerica e organizzativa della Federazione italiana fino alla prima metà del 1878 – avvenuta in un’atmosfera di crescente persecuzione – smentisce l’opinione comunemente diffusa che i fallimenti insurrezionali del 1874 e del 1877 avessero completamente screditato l’anarchismo e contribuito a ridurre l’Internazionale a poco più di “una piccola setta di cospiratori, perseguitati dalla polizia”, come ebbe a definirla lo storico marxista Gustavo Malacorda. Sebbene il numero degli iscritti potesse essere diminuito rispetto al 1874, la tendenza evidenzia un’espansione organizzativa, non una contrazione. Solo la repressione governativa travolgerà il movimento nei mesi successivi. Le tattiche insurrezionali potevano essere screditate agli occhi degli intellettuali borghesi legalitari, ma gli operai e gli artigiani continuavano a sognare una soluzione rivoluzionaria alla questione sociale. L’anarchismo, nonostante le sue carenze e i suoi travagli, era ancora la scuola dominante del socialismo italiano nell’estate del 1878.

Gli storici del socialismo italiano hanno considerato la spinta insurrezionale come un sintomo del declino del movimento, ma al contrario essa fu sostenuta dalla crescita e dalla riorganizzazione della Federazione Italiana.

La maggior parte di essi, inoltre, parte dal presupposto aprioristico che l’Internazionale italiana fosse destinata al fallimento perché i suoi principi guida e le sue tattiche erano anarchici piuttosto che marxisti. Tra gli storici marxisti, in particolare, le carenze e i fallimenti dell’Internazionale italiana sono stati sottolineati quasi escludendo qualsiasi considerazione sui suoi risultati, come se una valutazione positiva di tutto ciò che gli anarchici fecero costituisse un tradimento ideologico. Questo approccio è ingiusto e sbagliato.

Il movimento anarchico forse pose un’enfasi eccessiva sull’azione diretta immediata, una strategia destinata a fallire, data la realtà degli anni Settanta del XIX secolo. Questo atteggiamento si può comprendere se si pensa al malcontento popolare e alle agitazioni che avevano scosso il giovane regno d’Italia nei primi decenni dopo l’unità: le campagne meridionali erano scosse dallo scontro fra i contadini senza terra e i proprietari fondiari in merito alle terre e agli usi civici usurpati da questi ultimi, una problematica che si era trascinata senza soluzione dal regime borbonico a quello sabaudo. In realtà, contrariamente alle speranze degli anarchici e di Bakunin, l’agitazione nelle campagne si stava placando, e si dovette aspettare venti anni per una nuova agitazione generale, quella dei Fasci Siciliani degli anni 1893-94, questa volta però a guida socialdemocratica e concentrata soprattutto nella sola Sicilia. È bene ricordare inoltre che la Federazione Italiana si era costituita grazie alla disillusione creata dall’indifferenza dei partiti estremi, e in particolare dei mazziniani, verso i moti del 1868-69, aggravata dall’atteggiamento critico nei confronti della Comune di Parigi. In certo qual modo, l’anarchismo si presentava come continuatore dei moti risorgimentali, allargandone gli obiettivi al miglioramento delle condizioni delle masse attraverso l’abolizione della proprietà privata. È in questo incrocio che si inserisce l’insegnamento di Mikhail Bakunin, con il rifiuto della tattica elettorale e la fiducia nelle capacità rivoluzionarie del popolo. Nello stesso tempo, il movimento anarchico ignorò il potenziale del sindacalismo rivoluzionario, sebbene anche in questo caso vi fossero fattori oggettivi che – ai loro occhi – compromettevano la fattibilità di questa alternativa, in particolare la profonda debolezza del movimento operaio.

Resta il fatto che, a prescindere dai suoi numerosi fallimenti e inadeguatezze, il movimento anarchico diede un contributo significativo al futuro del socialismo e del movimento operaio italiano, e lo fece in circostanze incredibilmente avverse, fissando i principi che avrebbero caratterizzato l’anarchismo nei decenni a seguire: la coerenza tra mezzi e fini e l’emancipazione delle classi sfruttate come movimento autonomo delle stesse. Sono gli stessi principi che informano la propaganda col fatto fin dal suo apparire.

Alcuni storici hanno sostenuto che l’Internazionale – pur con la sua struttura decentrata, la sua segreteria ufficialmente priva di potere e la sua filosofia antipolitica – costituì il primo partito socialista italiano, forse il primo partito politico di qualsiasi tipo, perché possedeva caratteristiche più moderne di quelle delle contemporanee consorterie e organizzazioni dei democratici-repubblicani e dei liberal-conservatori. Come partito, l’Internazionale diffuse il socialismo anarchico in tutta la penisola, acquisendo, al suo apice, un numero di iscritti prevalentemente operaio, forse tra i venticinque e i trentamila, e un seguito ausiliario di simpatizzanti assai superiore. Pur non essendo un partito di massa secondo la concezione tipica del ventesimo secolo, l’Internazionale era sufficientemente imponente per militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano a distruggerla.

Data l’enfasi posta dagli anarchici sull’azione politica contro lo Stato piuttosto che sull’azione economica contro il capitalismo, il loro approccio anticlassista all’organizzazione rivoluzionaria e il loro antagonismo verso il sindacalismo convenzionale, l’Internazionale ebbe meno successo come organizzazione sindacale che come partito. Ciononostante, l’Internazionale fu la prima federazione di organizzazioni operaie in Italia ad abbracciare il concetto di emancipazione proletaria attraverso la lotta rivoluzionaria e la prima a tentare di organizzare i lavoratori per aumentare la loro efficacia negli scioperi contro i datori di lavoro. In quanto tale, l’Internazionale fu il legittimo antenato della Lega dei Figli del Lavoro, il braccio economico del Partito Operaio Italiano fondato nel 1882, e della Confederazione Generale del Lavoro fondata nel 1906. L’esperienza dell’Internazionale in Italia ha forgiato legami tra socialismo e movimento operaio che sono rimasti inalterati fino ai giorni nostri.

 

Tiziano Antonelli

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Gli insegnamenti della Comune di Parigi. Solidarietà e organizzazione

Nella primavera del 1871, durante il suo soggiorno nella valle di Saint-Imier, Michail Bakunin tenne, davanti a un pubblico di operai, tre conferenze nelle quali, dopo aver ritracciata la storia della borghesia francese e della sua funzione rivoluzionaria nel 18º secolo, esponeva la missione storica del proletariato del diciannovesimo secolo. Pubblichiamo la parte finale dell’ultima conferenza, in occasione dell’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871).

Il clero e la nobiltà sono stati smascherati e battuti nel 1793. La rivoluzione del 1848 ha smascherato la borghesia e ne ha mostrato l’incapacità e la malvagità. Durante le giornate di giugno, nel 1848, la classe borghese ha altamente rinunciato alla religione dei suoi padri; quella religione rivoluzionaria che aveva avuto la libertà, l’uguaglianza e la fraternità per principio e per base. Appena il popolo ebbe presa sul serio l’uguaglianza e la libertà, la borghesia, che non esiste che per lo sfruttamento, vale a dire per l’ineguaglianza economica e per la schiavitù sociale del popolo, si è gettata nella reazione.

Gli stessi traditori che vogliono perdere ancora una volta la Francia, questi Thiers, Jules Favre, e l’immensa maggioranza dell’Assemblea nazionale del 1848, hanno lavorato per il trionfo della reazione più immonda, come vi lavorano ancora oggi. Hanno cominciato col distruggere il suffragio universale e più tardi hanno portato alla presidenza Luigi Bonaparte. Il timore della rivoluzione sociale, l’orrore dell’uguaglianza, il sentimento dei propri delitti e la paura della giustizia popolare, avevano gettato tutta questa classe, in altri tempi intelligente ed eroica e oggi stupida e vile, nelle braccia della dittatura di Napoleone III. Ed essi ne hanno avuto la dittatura militare, per diciotto anni di seguito, e non bisogna credere che i signori borghesi se ne siano trovati troppo male. Quelli che volevano ribellarsi e giocare al liberalismo in modo troppo rumoroso e incomodo per il regime imperiale, sono stati naturalmente scartati, soffocati. Ma tutti gli altri, quelli che lasciando le fisime politiche al popolo, si sono applicati esclusivamente e seriamente al grande affare della borghesia, allo sfruttamento del popolo, sono stati potentemente protetti e incoraggiati: si sono dati loro perfino, per salvare l’onore, tutte le apparenze della libertà. Infatti, non esisteva sotto l’Impero un’Assemblea legislativa regolarmente eletta a suffragio universale? Tutto andò dunque benissimo secondo i desideri della borghesia. E non ci fu che un solo punto nero, l’ambizione conquistatrice del sovrano, che trascinando la Francia in spese rovinose, ha finito coll’annientare l’antica potenza. Ma questo punto nero non era un accidente, era una necessità del sistema. Un regime dispotico, assoluto, quand’anche con le apparenze della libertà, deve necessariamente appoggiarsi su di un esercito potente, e ogni grande esercito permanente rende necessaria, prima o poi, la guerra all’esterno. La gerarchia militare ha difatti per principale aspirazione l’ambizione, ogni tenente vuole diventare colonnello, e ogni colonnello generale, e quanto ai soldati, essi, sistematicamente demoralizzati nelle caserme, sognano i nobili piaceri della guerra: il massacro, il saccheggio, il furto, lo stupro; prova ne sono le prodezze dell’esercito prussiano in Francia. Ebbene, se tutte queste nobili passioni sapientemente e sistematicamente nutrite nel cuore degli ufficiali e dei soldati, restano a lungo senza soddisfazione, inaspriscono l’esercito e lo spingono al malcontento, e dal malcontento alla rivolta. Perciò è necessario fare la guerra. Tutte le spedizioni e le guerre intraprese da Napoleone III non sono stati capricci personali, come pretendono oggi i signori borghesi: sono stati una necessità del sistema imperiale dispotico che [i borghesi] stessi avevano fondato per timore della rivoluzione sociale. Sono le classi privilegiate, è l’alto e basso clero, è la nobiltà decaduta, è infine – e soprattutto – questa rispettabile, onesta e virtuosa borghesia la quale [come] le altre classi e più dello stesso Napoleone III, è causa di tutte le orribili sventure che hanno ora colpito la Francia.

E voi l’avete visto tutti, compagni, che per difendere questa Francia sfortunata non si è trovato in tutto il paese che una sola massa, la massa degli operai delle città, quella precisamente che è [stata] tradita e abbandonata dalla borghesia all’Impero e sacrificata dall’Impero allo sfruttamento borghese. In tutto il paese non vi sono stati che i generosi lavoratori delle fabbriche e delle città a volere la sollevazione popolare per la salvezza della Francia. I lavoratori delle campagne, i contadini demoralizzati e istupiditi dall’educazione religiosa che fu loro impartita dal primo Napoleone ad oggi, hanno preso il partito dei Prussiani e della reazione contro la Francia. Si potevano guadagnare alla rivoluzione: in un opuscolo che molti di voi hanno letto, intitolato Lettere a un Francese, esposi i mezzi che conveniva usare per trascinarli nella Rivoluzione. Ma per farlo occorreva anzitutto che le città si sollevassero e si organizzassero rivoluzionariamente. Gli operai hanno provato, tentando anche in molte città del sud della Francia: a Lione, Marsiglia, Montpellier, Saint-Etienne, Tolosa. Ma dappertutto sono stati compressi e paralizzati dai borghesi radicali in nome della Repubblica. Sì, è nel nome stesso della Repubblica che i borghesi divenuti repubblicani per timore del popolo, è nel nome della Repubblica che Gambetta, il vecchio peccatore Jules Favre, Thiers, la volpe infame, e tutti i Picard, Ferry, Jules Simon, Pelletan e altri, è in nome della Repubblica che hanno assassinato la Repubblica e la Francia.

La borghesia è colpevole. È la classe più ricca e numerosa di Francia – eccettuato s’intende la massa popolare – avrebbe potuto salvare, se avesse voluto, la Francia. Ma per questo avrebbe dovuto sacrificare il suo denaro, la sua vita e appoggiarsi francamente sul proletariato come avevano fatto i suoi avi del 1793. Ebbene, ha voluto sacrificare il denaro meno della vita, e ha preferito che i Prussiani conquistassero la Francia, piuttosto che salvarla con la rivoluzione popolare.

La questione fra gli operai delle città e la borghesia è stata posta nettamente. Gli operai hanno detto: faremo saltare in aria le case piuttosto che abbandonare le città ai Prussiani. I borghesi hanno risposto: apriremo le porte delle città ai Prussiani piuttosto che permettervi di fare disordine pubblico, e vogliamo conservare le nostre preziose case a ogni costo, anche dovessimo baciare il culo ai S[ignori] Prussiani.

E notate che sono oggi gli stessi borghesi che osano insultare la Comune di Parigi, questa nobile Comune che salva l’onore della Francia e, speriamo nello stesso tempo, la libertà del mondo; sono gli stessi borghesi che l’insultano oggi, e in nome di cosa? – in nome del patriottismo!

Veramente, questi borghesi hanno la faccia di bronzo! Sono giunti a un tal grado d’infamia, da perdere fin l’ultimo sentimento di pudore. Ignorano la vergogna. Prima di essere morti sono già completamente marci.

E non è solo in Francia, compagni, che la borghesia è putrida; moralmente e intellettualmente annientata; lo è allo stesso modo in tutta Europa, e in tutti i paesi d’Europa [soltanto il proletariato] ha conservato il fuoco sacro: esso soltanto porta oggi lo stendardo dell’umanità.

Qual è il suo motto, la sua morale, il suo principio? La solidarietà. Tutti per uno e uno per tutti. È il motto e il principio della nostra grande Associazione internazionale, la quale, superando le frontiere degli Stati, e con ciò stesso, distruggendo gli Stati, tende a unire i lavoratori del mondo intero in una sola famiglia umana, sulla base del lavoro ugualmente obbligatorio per tutti, e in nome della libertà di ciascuno e di tutti. Questa solidarietà si chiama, in economia sociale, lavoro e proprietà collettiva, in politica si chiama distruzione degli Stati e libertà di ognuno per la libertà di tutti.

Sì, cari compagni operai, solidalmente coi vostri fratelli lavoratori del mondo intero, ereditate da soli la grande missione dell’emancipazione dell’umanità. Avete tuttavia un coerede, lavoratore anch’esso, sebbene in altre condizioni. È il contadino. Ma il contadino non ha ancora la coscienza della grande missione popolare. È stato avvelenato, è ancora avvelenato dai preti, e serve, contro se stesso, come strumento di reazione. Dovete istruirlo, dove salvarlo suo malgrado, trascinandolo spiegandogli che cos’è la Rivoluzione sociale.

Nel frattempo, e soprattutto agl’inizi, gli operai dell’industria non devono, non possono contare che su se stessi; ma saranno onnipotenti se lo vorranno. Soltanto devono volerlo seriamente, e per realizzare questa volontà non ci sono che due mezzi. Stabilire dapprima nei gruppi, poi fra tutti i gruppi, una vera solidarietà fraterna, non solo di parole, ma anche d’azione, non solo con le feste, i discorsi, i brindisi, ma anche nella vita quotidiana. Ogni membro dell’Internazionale deve poter sentire, deve essere praticamente convinto, che tutti gli altri membri sono suoi fratelli.

L’altro mezzo è l’organizzazione rivoluzionaria, l’organizzazione per l’azione. Se le sollevazioni popolari di Lione, Marsiglia e di altre città della Francia sono fallite, è per mancanza d’organizzazione, e ve ne posso parlare con cognizione di causa, perché ci sono stato e ne ho sofferto. E se la Comune di Parigi s’impone oggi così saldamente, è perché durante l’assedio gli operai si sono seriamente organizzati. Non è senza ragione che i giornali borghesi accusano l’Internazionale di aver prodotto questa magnifica sollevazione di Parigi. Sì, diciamolo con fierezza, sono i nostri fratelli internazionalisti che col loro lavoro perseverante hanno organizzato il popolo di Parigi e resa possibile la Comune di Parigi.

Siamo dunque buoni fratelli, compagni, e organizziamoci. Non credete di essere alla fine della Rivoluzione, siamo solo all’inizio. La Rivoluzione è ormai all’ordine del giorno per molte decine di anni. Essa verrà a trovarci, presto o tardi, prepariamoci dunque, purifichiamoci, diventiamo più reali, meno chiacchieroni, meno chiassosi, meno parolai, meno bevitori, meno buontemponi. Siamo più austeri e prepariamoci degnamente a questa lotta che deve salvare tutti i popoli ed emancipare finalmente l’umanità.

Viva la Rivoluzione sociale! Viva la Comune di Parigi!

 

Michail Bakunin

 

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Da Berna al Matese: Difetti e pregi della propaganda col fatto

Fu la Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori a chiarire pubblicamente, per la prima volta, la strategia della propaganda col fatto. Dopo la conclusione del congresso di Berna, sul Bollettino della Federazione del Giura apparve uno scritto di Errico Malatesta e Carlo Cafiero, dove si legge che la Federazione Italiana riteneva l’atto insurrezionale, destinato ad affermare i principi socialisti con l’azione, il mezzo di propaganda più efficace e il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, potesse penetrare negli strati sociali più profondi e attirare le forze vive dell’umanità nella lotta sostenuta dall’Internazionale.

L’Internazionale che si riunì a Berna dal 26 al 29 ottobre 1876 era profondamente diversa da quella del Congresso di Saint-Imier (1872) e da quella del Congresso di Ginevra (1873). Le tendenze antiautoritarie, tenute insieme solo dalla loro comune opposizione alle mire centralizzatrici di Marx ed Engels, erano divise da profonde contrapposizioni sia sul piano teorico che su quello strategico. Di queste contrapposizioni troviamo un’eco nelle memorie di James Guillaume, allora esponente della Federazione del Giura, e di Errico Malatesta, che ancora nel 1926 così si esprimeva riguardo al dibattito nel movimento socialista: “il sentimento socialista fece respingere il Proudhonismo che, specie per i proudhoniani dopo la morte di Proudhon (gennaio 1865), era diventato un sistema anodino di mutuo scambio” e più sotto “questa idea collettivista rivoluzionaria fu sola dinanzi agli operai di molti paesi dove i pochi Proudhoniani. Blanquisti e Marxisti, Fourieristi ed altri contavano ben poco”. Nel 1876 si poté verificare che questi dibattiti avevano provocato un accentuarsi delle spinte centrifughe, cosicché all’interno dell’Internazionale Antiautoritaria delle tendenze socialiste non marxiste era rimasta in pratica solo quella anarchica.

La Federazione Italiana rappresentava la tendenza più intransigente dell’Internazionale e i suoi delegati fecero del Congresso di Berna una tribuna pubblica per esporre i principi condivisi dalla medesima organizzazione; fra gli altri temi trattati, Errico Malatesta, relativamente all’organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e alle tattiche del movimento operaio, riporta la stretta ortodossia della Federazione italiana, che rifiutava di limitare l’adesione all’Internazionale ai solo operai. “L’obiettivo della rivoluzione sociale”, dichiarò, “non è solo l’emancipazione della classe operaia, ma l’emancipazione dell’intera umanità; e l’Internazionale, che è l’esercito della rivoluzione, deve raggruppare sotto la sua bandiera tutti i rivoluzionari, senza distinzione di classe”. Malatesta inoltre, definendo il sindacalismo di modello britannico “istituzione reazionaria”, respinge l’idea che esso possa ottenere risultati positivi in Italia: “le condizioni economiche dell’Italia e il temperamento dei lavoratori italiani vi si oppongono”.

Nel 1877 il movimento anarchico era più che mai impegnato nella propaganda col fatto attraverso la guerriglia, con strategie già articolate e praticate da una lunga serie di rivoluzionari durante il Risorgimento. Sia l’insegnamento di Mikhail Bakunin sia la tradizione rivoluzionaria autoctona confluivano ad orientare le scelte dell’Internazionale, anche se la sua ispirazione immediata era senza dubbio il Testamento politico di Pisacane.

La decisione di intraprendere una nuova insurrezione armata era stata presa da un ristretto cerchio di militanti; gli anarchici erano coscienti che poche decine di insorti male equipaggiati non avrebbero potuto prevalere contro reggimenti di fanteria e cavalleria armati con armi moderne. La loro campagna aveva lo scopo di provocare la rivoluzione, facendo un atto di propaganda.

La strategia prevedeva che la banda vagasse per le campagne il più a lungo possibile, predicando la guerra di classe, incitando al brigantaggio sociale, occupando le piccole città e lasciandole dopo aver compiuto qualche atto rivoluzionario, per dirigersi verso quella zona dove la nostra presenza sarebbe stata più utile. Questa azione passerà alla storia come la Banda del Matese.

La Banda del Matese non provocò una rivolta contadina. Tuttavia, catturando l’attenzione naziominale per diverse settimane, attirò una notevole curiosità verso l’Internazionale e il suo programma socialista. Nel corso dell’anno e mezzo successivo, inoltre, la Federazione italiana acquisì molti nuovi aderenti. Sebbene questa espansione non possa essere attribuita con certezza al valore propagandistico dell’insurrezione, le imprese della Banda del Matese – contrariamente a quanto si pensa – non diminuirono l’attrattiva del socialismo anarchico per gli operai italiani, e senza dubbio la rafforzarono agli occhi di alcuni. E per gli stessi anarchici, ad eccezione di alcuni dissidenti come Costa, l’insurrezionalismo sarebbe rimasto la pietra angolare della loro strategia rivoluzionaria nonostante il suo apparente fallimento.

L’impegno costante degli anarchici italiani nei confronti dell’insurrezionalismo potrebbe apparire sconsiderato a posteriori, ma era comunque coerente con gli insegnamenti bakuninisti. Oltre a ciò, c’era l’esempio dei mazziniani che li avevano preceduti, che avevano perseverato di fronte alle ripetute sconfitte e al martirio. Come eredi di questa eroica tradizione rivoluzionaria, gli anarchici non avrebbero abbandonato l’insurrezionalismo dopo due sole sconfitte. Inoltre, la loro determinazione a persistere era ulteriormente rafforzata dalla convinzione che la missione fosse fallita a causa di problemi pratici, dovuti soprattutto alla necessità di iniziare l’azione prematuramente. Ma forse nulla confermò la fiducia degli anarchici nell’insurrezionalismo più della reazione del governo italiano. Se le autorità ritenevano impossibile che gli anarchici potessero scatenare una rivolta contadina nell’Italia meridionale, perché avrebbero schierato dodicimila uomini in tutto il Matese? Sicuramente questo piccolo esercito era destinato a intimidire – o se necessario a reprimere – i contadini locali, piuttosto che a scovare ventisei anarchici.

Più tardi, naturalmente, anche i più convinti insurrezionisti anarchici si resero conto che la loro fiducia negli istinti rivoluzionari e libertari delle masse era mal riposta. Tuttavia, in ultima analisi, il fallimento delle tattiche insurrezionali non può sminuire l’incredibile audacia e lo spirito esibito dalla Banda del Matese.

La crescita numerica e organizzativa della Federazione italiana fino alla prima metà del 1878 – avvenuta in un’atmosfera di crescente persecuzione – smentisce l’opinione comunemente diffusa che i fallimenti insurrezionali del 1874 e del 1877 avessero completamente screditato l’anarchismo e contribuito a ridurre l’Internazionale a poco più di “una piccola setta di cospiratori, perseguitati dalla polizia”, come ebbe a definirla lo storico marxista Gustavo Malacorda. Sebbene il numero degli iscritti potesse essere diminuito rispetto al 1874, la tendenza evidenzia un’espansione organizzativa, non una contrazione. Solo la repressione governativa travolgerà il movimento nei mesi successivi. Le tattiche insurrezionali potevano essere screditate agli occhi degli intellettuali borghesi legalitari, ma gli operai e gli artigiani continuavano a sognare una soluzione rivoluzionaria alla questione sociale. L’anarchismo, nonostante le sue carenze e i suoi travagli, era ancora la scuola dominante del socialismo italiano nell’estate del 1878.

Gli storici del socialismo italiano hanno considerato la spinta insurrezionale come un sintomo del declino del movimento, ma al contrario essa fu sostenuta dalla crescita e dalla riorganizzazione della Federazione Italiana.

La maggior parte di essi, inoltre, parte dal presupposto aprioristico che l’Internazionale italiana fosse destinata al fallimento perché i suoi principi guida e le sue tattiche erano anarchici piuttosto che marxisti. Tra gli storici marxisti, in particolare, le carenze e i fallimenti dell’Internazionale italiana sono stati sottolineati quasi escludendo qualsiasi considerazione sui suoi risultati, come se una valutazione positiva di tutto ciò che gli anarchici fecero costituisse un tradimento ideologico. Questo approccio è ingiusto e sbagliato.

Il movimento anarchico forse pose un’enfasi eccessiva sull’azione diretta immediata, una strategia destinata a fallire, data la realtà degli anni Settanta del XIX secolo. Questo atteggiamento si può comprendere se si pensa al malcontento popolare e alle agitazioni che avevano scosso il giovane regno d’Italia nei primi decenni dopo l’unità: le campagne meridionali erano scosse dallo scontro fra i contadini senza terra e i proprietari fondiari in merito alle terre e agli usi civici usurpati da questi ultimi, una problematica che si era trascinata senza soluzione dal regime borbonico a quello sabaudo. In realtà, contrariamente alle speranze degli anarchici e di Bakunin, l’agitazione nelle campagne si stava placando, e si dovette aspettare venti anni per una nuova agitazione generale, quella dei Fasci Siciliani degli anni 1893-94, questa volta però a guida socialdemocratica e concentrata soprattutto nella sola Sicilia. È bene ricordare inoltre che la Federazione Italiana si era costituita grazie alla disillusione creata dall’indifferenza dei partiti estremi, e in particolare dei mazziniani, verso i moti del 1868-69, aggravata dall’atteggiamento critico nei confronti della Comune di Parigi. In certo qual modo, l’anarchismo si presentava come continuatore dei moti risorgimentali, allargandone gli obiettivi al miglioramento delle condizioni delle masse attraverso l’abolizione della proprietà privata. È in questo incrocio che si inserisce l’insegnamento di Mikhail Bakunin, con il rifiuto della tattica elettorale e la fiducia nelle capacità rivoluzionarie del popolo. Nello stesso tempo, il movimento anarchico ignorò il potenziale del sindacalismo rivoluzionario, sebbene anche in questo caso vi fossero fattori oggettivi che – ai loro occhi – compromettevano la fattibilità di questa alternativa, in particolare la profonda debolezza del movimento operaio.

Resta il fatto che, a prescindere dai suoi numerosi fallimenti e inadeguatezze, il movimento anarchico diede un contributo significativo al futuro del socialismo e del movimento operaio italiano, e lo fece in circostanze incredibilmente avverse, fissando i principi che avrebbero caratterizzato l’anarchismo nei decenni a seguire: la coerenza tra mezzi e fini e l’emancipazione delle classi sfruttate come movimento autonomo delle stesse. Sono gli stessi principi che informano la propaganda col fatto fin dal suo apparire.

Alcuni storici hanno sostenuto che l’Internazionale – pur con la sua struttura decentrata, la sua segreteria ufficialmente priva di potere e la sua filosofia antipolitica – costituì il primo partito socialista italiano, forse il primo partito politico di qualsiasi tipo, perché possedeva caratteristiche più moderne di quelle delle contemporanee consorterie e organizzazioni dei democratici-repubblicani e dei liberal-conservatori. Come partito, l’Internazionale diffuse il socialismo anarchico in tutta la penisola, acquisendo, al suo apice, un numero di iscritti prevalentemente operaio, forse tra i venticinque e i trentamila, e un seguito ausiliario di simpatizzanti assai superiore. Pur non essendo un partito di massa secondo la concezione tipica del ventesimo secolo, l’Internazionale era sufficientemente imponente per militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano a distruggerla.

Data l’enfasi posta dagli anarchici sull’azione politica contro lo Stato piuttosto che sull’azione economica contro il capitalismo, il loro approccio anticlassista all’organizzazione rivoluzionaria e il loro antagonismo verso il sindacalismo convenzionale, l’Internazionale ebbe meno successo come organizzazione sindacale che come partito. Ciononostante, l’Internazionale fu la prima federazione di organizzazioni operaie in Italia ad abbracciare il concetto di emancipazione proletaria attraverso la lotta rivoluzionaria e la prima a tentare di organizzare i lavoratori per aumentare la loro efficacia negli scioperi contro i datori di lavoro. In quanto tale, l’Internazionale fu il legittimo antenato della Lega dei Figli del Lavoro, il braccio economico del Partito Operaio Italiano fondato nel 1882, e della Confederazione Generale del Lavoro fondata nel 1906. L’esperienza dell’Internazionale in Italia ha forgiato legami tra socialismo e movimento operaio che sono rimasti inalterati fino ai giorni nostri.

 

Tiziano Antonelli

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Gli insegnamenti della Comune di Parigi. Solidarietà e organizzazione

Nella primavera del 1871, durante il suo soggiorno nella valle di Saint-Imier, Michail Bakunin tenne, davanti a un pubblico di operai, tre conferenze nelle quali, dopo aver ritracciata la storia della borghesia francese e della sua funzione rivoluzionaria nel 18º secolo, esponeva la missione storica del proletariato del diciannovesimo secolo. Pubblichiamo la parte finale dell’ultima conferenza, in occasione dell’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871).

Il clero e la nobiltà sono stati smascherati e battuti nel 1793. La rivoluzione del 1848 ha smascherato la borghesia e ne ha mostrato l’incapacità e la malvagità. Durante le giornate di giugno, nel 1848, la classe borghese ha altamente rinunciato alla religione dei suoi padri; quella religione rivoluzionaria che aveva avuto la libertà, l’uguaglianza e la fraternità per principio e per base. Appena il popolo ebbe presa sul serio l’uguaglianza e la libertà, la borghesia, che non esiste che per lo sfruttamento, vale a dire per l’ineguaglianza economica e per la schiavitù sociale del popolo, si è gettata nella reazione.

Gli stessi traditori che vogliono perdere ancora una volta la Francia, questi Thiers, Jules Favre, e l’immensa maggioranza dell’Assemblea nazionale del 1848, hanno lavorato per il trionfo della reazione più immonda, come vi lavorano ancora oggi. Hanno cominciato col distruggere il suffragio universale e più tardi hanno portato alla presidenza Luigi Bonaparte. Il timore della rivoluzione sociale, l’orrore dell’uguaglianza, il sentimento dei propri delitti e la paura della giustizia popolare, avevano gettato tutta questa classe, in altri tempi intelligente ed eroica e oggi stupida e vile, nelle braccia della dittatura di Napoleone III. Ed essi ne hanno avuto la dittatura militare, per diciotto anni di seguito, e non bisogna credere che i signori borghesi se ne siano trovati troppo male. Quelli che volevano ribellarsi e giocare al liberalismo in modo troppo rumoroso e incomodo per il regime imperiale, sono stati naturalmente scartati, soffocati. Ma tutti gli altri, quelli che lasciando le fisime politiche al popolo, si sono applicati esclusivamente e seriamente al grande affare della borghesia, allo sfruttamento del popolo, sono stati potentemente protetti e incoraggiati: si sono dati loro perfino, per salvare l’onore, tutte le apparenze della libertà. Infatti, non esisteva sotto l’Impero un’Assemblea legislativa regolarmente eletta a suffragio universale? Tutto andò dunque benissimo secondo i desideri della borghesia. E non ci fu che un solo punto nero, l’ambizione conquistatrice del sovrano, che trascinando la Francia in spese rovinose, ha finito coll’annientare l’antica potenza. Ma questo punto nero non era un accidente, era una necessità del sistema. Un regime dispotico, assoluto, quand’anche con le apparenze della libertà, deve necessariamente appoggiarsi su di un esercito potente, e ogni grande esercito permanente rende necessaria, prima o poi, la guerra all’esterno. La gerarchia militare ha difatti per principale aspirazione l’ambizione, ogni tenente vuole diventare colonnello, e ogni colonnello generale, e quanto ai soldati, essi, sistematicamente demoralizzati nelle caserme, sognano i nobili piaceri della guerra: il massacro, il saccheggio, il furto, lo stupro; prova ne sono le prodezze dell’esercito prussiano in Francia. Ebbene, se tutte queste nobili passioni sapientemente e sistematicamente nutrite nel cuore degli ufficiali e dei soldati, restano a lungo senza soddisfazione, inaspriscono l’esercito e lo spingono al malcontento, e dal malcontento alla rivolta. Perciò è necessario fare la guerra. Tutte le spedizioni e le guerre intraprese da Napoleone III non sono stati capricci personali, come pretendono oggi i signori borghesi: sono stati una necessità del sistema imperiale dispotico che [i borghesi] stessi avevano fondato per timore della rivoluzione sociale. Sono le classi privilegiate, è l’alto e basso clero, è la nobiltà decaduta, è infine – e soprattutto – questa rispettabile, onesta e virtuosa borghesia la quale [come] le altre classi e più dello stesso Napoleone III, è causa di tutte le orribili sventure che hanno ora colpito la Francia.

E voi l’avete visto tutti, compagni, che per difendere questa Francia sfortunata non si è trovato in tutto il paese che una sola massa, la massa degli operai delle città, quella precisamente che è [stata] tradita e abbandonata dalla borghesia all’Impero e sacrificata dall’Impero allo sfruttamento borghese. In tutto il paese non vi sono stati che i generosi lavoratori delle fabbriche e delle città a volere la sollevazione popolare per la salvezza della Francia. I lavoratori delle campagne, i contadini demoralizzati e istupiditi dall’educazione religiosa che fu loro impartita dal primo Napoleone ad oggi, hanno preso il partito dei Prussiani e della reazione contro la Francia. Si potevano guadagnare alla rivoluzione: in un opuscolo che molti di voi hanno letto, intitolato Lettere a un Francese, esposi i mezzi che conveniva usare per trascinarli nella Rivoluzione. Ma per farlo occorreva anzitutto che le città si sollevassero e si organizzassero rivoluzionariamente. Gli operai hanno provato, tentando anche in molte città del sud della Francia: a Lione, Marsiglia, Montpellier, Saint-Etienne, Tolosa. Ma dappertutto sono stati compressi e paralizzati dai borghesi radicali in nome della Repubblica. Sì, è nel nome stesso della Repubblica che i borghesi divenuti repubblicani per timore del popolo, è nel nome della Repubblica che Gambetta, il vecchio peccatore Jules Favre, Thiers, la volpe infame, e tutti i Picard, Ferry, Jules Simon, Pelletan e altri, è in nome della Repubblica che hanno assassinato la Repubblica e la Francia.

La borghesia è colpevole. È la classe più ricca e numerosa di Francia – eccettuato s’intende la massa popolare – avrebbe potuto salvare, se avesse voluto, la Francia. Ma per questo avrebbe dovuto sacrificare il suo denaro, la sua vita e appoggiarsi francamente sul proletariato come avevano fatto i suoi avi del 1793. Ebbene, ha voluto sacrificare il denaro meno della vita, e ha preferito che i Prussiani conquistassero la Francia, piuttosto che salvarla con la rivoluzione popolare.

La questione fra gli operai delle città e la borghesia è stata posta nettamente. Gli operai hanno detto: faremo saltare in aria le case piuttosto che abbandonare le città ai Prussiani. I borghesi hanno risposto: apriremo le porte delle città ai Prussiani piuttosto che permettervi di fare disordine pubblico, e vogliamo conservare le nostre preziose case a ogni costo, anche dovessimo baciare il culo ai S[ignori] Prussiani.

E notate che sono oggi gli stessi borghesi che osano insultare la Comune di Parigi, questa nobile Comune che salva l’onore della Francia e, speriamo nello stesso tempo, la libertà del mondo; sono gli stessi borghesi che l’insultano oggi, e in nome di cosa? – in nome del patriottismo!

Veramente, questi borghesi hanno la faccia di bronzo! Sono giunti a un tal grado d’infamia, da perdere fin l’ultimo sentimento di pudore. Ignorano la vergogna. Prima di essere morti sono già completamente marci.

E non è solo in Francia, compagni, che la borghesia è putrida; moralmente e intellettualmente annientata; lo è allo stesso modo in tutta Europa, e in tutti i paesi d’Europa [soltanto il proletariato] ha conservato il fuoco sacro: esso soltanto porta oggi lo stendardo dell’umanità.

Qual è il suo motto, la sua morale, il suo principio? La solidarietà. Tutti per uno e uno per tutti. È il motto e il principio della nostra grande Associazione internazionale, la quale, superando le frontiere degli Stati, e con ciò stesso, distruggendo gli Stati, tende a unire i lavoratori del mondo intero in una sola famiglia umana, sulla base del lavoro ugualmente obbligatorio per tutti, e in nome della libertà di ciascuno e di tutti. Questa solidarietà si chiama, in economia sociale, lavoro e proprietà collettiva, in politica si chiama distruzione degli Stati e libertà di ognuno per la libertà di tutti.

Sì, cari compagni operai, solidalmente coi vostri fratelli lavoratori del mondo intero, ereditate da soli la grande missione dell’emancipazione dell’umanità. Avete tuttavia un coerede, lavoratore anch’esso, sebbene in altre condizioni. È il contadino. Ma il contadino non ha ancora la coscienza della grande missione popolare. È stato avvelenato, è ancora avvelenato dai preti, e serve, contro se stesso, come strumento di reazione. Dovete istruirlo, dove salvarlo suo malgrado, trascinandolo spiegandogli che cos’è la Rivoluzione sociale.

Nel frattempo, e soprattutto agl’inizi, gli operai dell’industria non devono, non possono contare che su se stessi; ma saranno onnipotenti se lo vorranno. Soltanto devono volerlo seriamente, e per realizzare questa volontà non ci sono che due mezzi. Stabilire dapprima nei gruppi, poi fra tutti i gruppi, una vera solidarietà fraterna, non solo di parole, ma anche d’azione, non solo con le feste, i discorsi, i brindisi, ma anche nella vita quotidiana. Ogni membro dell’Internazionale deve poter sentire, deve essere praticamente convinto, che tutti gli altri membri sono suoi fratelli.

L’altro mezzo è l’organizzazione rivoluzionaria, l’organizzazione per l’azione. Se le sollevazioni popolari di Lione, Marsiglia e di altre città della Francia sono fallite, è per mancanza d’organizzazione, e ve ne posso parlare con cognizione di causa, perché ci sono stato e ne ho sofferto. E se la Comune di Parigi s’impone oggi così saldamente, è perché durante l’assedio gli operai si sono seriamente organizzati. Non è senza ragione che i giornali borghesi accusano l’Internazionale di aver prodotto questa magnifica sollevazione di Parigi. Sì, diciamolo con fierezza, sono i nostri fratelli internazionalisti che col loro lavoro perseverante hanno organizzato il popolo di Parigi e resa possibile la Comune di Parigi.

Siamo dunque buoni fratelli, compagni, e organizziamoci. Non credete di essere alla fine della Rivoluzione, siamo solo all’inizio. La Rivoluzione è ormai all’ordine del giorno per molte decine di anni. Essa verrà a trovarci, presto o tardi, prepariamoci dunque, purifichiamoci, diventiamo più reali, meno chiacchieroni, meno chiassosi, meno parolai, meno bevitori, meno buontemponi. Siamo più austeri e prepariamoci degnamente a questa lotta che deve salvare tutti i popoli ed emancipare finalmente l’umanità.

Viva la Rivoluzione sociale! Viva la Comune di Parigi!

 

Michail Bakunin

 

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