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M – il figlio del secolo

Adesso che il clamore si è un po’ sopito, ci sembra il momento di spendere due parole sulla serie che nelle scorse settimane ha attirato l’attenzione del pubblico, della critica e, marginalmente, del mondo politico.

Stiamo parlando di M – Il figlio del secolo, prodotta da Sky e tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati.

M – Il figlio del secolo è probabilmente, nel suo genere, l’opera più interessante che sia stata proposta negli ultimi anni in Italia al grande pubblico.

C’erano tutte le condizioni per sbagliare, se così si può dire. Si trattava di raccontare una storia complicata ed evidentemente mai del tutto risolta nel nostro paese: quella di Benito Mussolini e della sua ascesa al potere.

Chiariamo, prima di tutto, un concetto: M – Il figlio del secolo non è e non vuole essere un documentario. È una fiction ispirata a un romanzo. Storico, sì, ma pur sempre un romanzo. Gli spettatori politicizzati o semplicemente più ferrati sull’argomento troveranno senz’altro imprecisioni o lacune ma, in realtà, non si tratta mai di mancanze troppo gravi, perché, fondamentalmente, è stato detto e descritto tutto ciò che era essenziale per la comprensione degli eventi.

Di solito, quando si parla del fascismo, della sua origine e della sua evoluzione, lo si fa con gli strumenti e con le griglie interpretative della storiografia, della politica, della sociologia. In questo caso, invece, i fatti vengono narrati con un approccio drammaturgico e dei linguaggi a dir poco inaspettati.

Quello che davvero colpisce, infatti, è il modo con il quale viene raccontata la storia personale di Mussolini, una storia che si intreccia inevitabilmente con quella del paese, una dimensione privata e politica allo stesso tempo.

Intanto, partiamo dalla regia. Joe Wright, che nella sua carriera ha diretto – tra le altre cose – Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, L’ora più buia e, per quanto riguarda la televisione, Carlo II il potere della passione e un episodio di Black Mirror, ha svecchiato il racconto del fascismo con un montaggio dai ritmi frenetici, una fotografia cupa che a volte richiama atmosfere da fumetto e un’ambientazione sempre claustrofobica. La sceneggiatura, curata da Stefano Bises e Davide Serino, è ricchissima di spunti e descrizioni che servono a delineare i profili psicologici dei tanti personaggi che animano la serie. Per le musiche non ci si è limitati al repertorio d’epoca o a qualcosa che richiamasse le sonorità dei primi del Novecento. Tutt’altro. Per quanto assurdo possa sembrare, in una serie che parla del fascismo, hanno affidato a Tom Rowlands dei Chemical Brothers il compito di accompagnare con la musica elettronica lo sviluppo narrativo nei suoi momenti più surreali e grotteschi con l’eccellente risultato di rendere il tutto incredibilmente fresco e moderno.

Dell’immenso Luca Marinelli si è detto molto. Lui stesso ha confessato, nel dichiararsi orgogliosamente antifascista, di aver provato un enorme disagio nel vestire i panni di Mussolini. Gli crediamo, e di certo non lo sfottiamo come ha fatto qualche giornalista di destra e, soprattutto, a corto di argomenti. Marinelli non lo sfottiamo perché è stato semplicemente bravissimo nel rendere credibile un personaggio così complesso. Una caricatura che non deforma ma che, al contrario, sottolinea i tratti più autentici del duce del fascismo. Tutto il cast, a dire il vero, è stato all’altezza: una menzione particolare la meritano, tra gli altri, Benedetta Cimatti che ha interpretato Rachele Mussolini e Francesco Russo nel ruolo di Cesare Rossi.

Un linguaggio moderno e credibile, dicevamo, a partire dalla scelta di mantenere le cadenze regionali con inserti di vero e proprio dialetto in alcuni dialoghi, così come la frequentissima rottura della quarta parete con la quale Marinelli-Mussolini si rivolge al pubblico per chiarire i suoi pensieri, svelare il suo doppiogiochismo, commentare quello che gli succede. Guardare questa serie è sorprendente e, in più occasioni, disturbante. Mussolini è un istrione, una maschera tragica e comica allo stesso tempo, e quasi ci sentiamo in colpa – di tanto in tanto – quando questa maschera ci strappa addirittura un sorriso. Ed è un senso di colpa legato non tanto alla conoscenza che ciascuno di noi può avere del personaggio o della storia, quanto a quello che ci viene continuamente proposto con brutale efficacia: una violenza feroce e parossistica restituita dalla concretezza di scene ai limiti dello splatter o da immagini oniriche che però non perdono mai il contatto con la realtà.

Uno dei meriti di M – Il figlio del secolo è che il fascismo viene finalmente riportato alla sua essenza: un movimento violento, nato dalla violenza e imposto con la violenza. Al di là di tutte le considerazioni e le analisi storiche, sociali e politiche che sono state fatte e che si continueranno a fare, sul perché – a un certo punto – l’Italia si consegnò a Mussolini, con questa serie viene demolita quella falsa credenza secondo la quale, dopo tutto, i fascisti non erano poi così cattivi (meno che mai paragonabili ai nazisti) o che Mussolini altro non era che una specie di innocuo pagliaccio.

Ebbene, questo “pagliaccio” era un opportunista, era disposto a tutto pur di prendere il potere, era un narcisista, un invidioso, un maschio tossico che trattava malissimo le donne (a partire da sua moglie); era un insicuro, un bugiardo, un individuo senza alcun senso dell’onore. Ma non era uno stupido e seppe fiutare l’aria: «Sono come le bestie, sento il tempo che viene». Quando si prepara a riscuotere gli onori di un teatro gremito, poco prima di recarsi a Roma per ricevere dal re l’incarico di primo ministro, Marinelli-Mussolini ci spiega chi davvero sono i “pagliacci” in politica. Sono quelli che noi non capiamo ma questo è irrilevante: sguardo fisso in camera, pollice su, e una frase che suona tanto famigliare quanto sinistra: «Make Italy Great Again».

Qui sta il grande pregio di questa serie: nel raccontarci l’incubo del fascismo con un linguaggio comprensibile, M – Il figlio del secolo ci parla di noi, della società di oggi, delle dinamiche e dei protagonisti che – mutatis mutandis – si ripropongono e si attualizzano, così uguali e così diversi, in Italia e nel mondo.

C’è una cosa che dovremmo imparare dal Mussolini protagonista della serie: la capacità di sentire il tempo che viene e agire di conseguenza. Per smascherare i pagliacci e fermare le bestie.

Alberto La Via

L'articolo M – il figlio del secolo proviene da .

Uno schermo che siamo noi

La ripresa di Cinema Cielo di Danio Manfredini

È doveroso tracciare un bilancio di qualcosa che non succede tanto spesso nella vita di un semplice appassionato di teatro come me, quando si trova a sedersi sulle poltrone delle sale teatrali italiche da ormai circa mezzo secolo, se non erra la sua memoria: sto parlando di tornare a vedere, per addirittura la terza volta, uno spettacolo di un importante attore ed autore italiano, la ripresa di un pezzo di storia del nostro teatro contemporaneo, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini. Spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel lontano 2004, da me visto nella sua prima apparizione, dopo l’anteprima al festival di Santarcangelo nel 2003, quando fu presentato in quella stagione teatrale all’allora Elfo di Milano, adesso Teatro Menotti.

L’impressione all’epoca fu devastante, non solo per me: ricordo benissimo le decine di minuti di applausi scroscianti fatte da spettatori che per la maggior parte – me compreso – avevano le lacrime agli occhi, con Danio e gli altri tre attori costretti a ritornare in scena non so quante volte, ma l’ovazione durò tre quarti d’ora almeno, perché nessuno si decideva ad andarsene, a smettere di applaudire. Lo spettacolo, ovviamente, non è rimasto esattamente identico a quello dell’epoca, nemmeno il suo impatto è rimasto tale a quello di venti anni fa, perché i tempi sono cambiati, c’è stata di mezzo una diversa carriera e avventure diverse per i quattro protagonisti, ma ha perso in definitiva ben poco del suo spessore poetico, attoriale, sonoro e di scrittura, anche per uno spettatore che ha attraversato tutti gli anni trascorsi durante la sua mutazione come me. Ho parlato di un livello sonoro, perché, insieme a quelli visivi e di performance attoriale, non si può in questo spettacolo mettere in secondo piano la banda sonora, ripresa direttamente dallo spettacolo originale di Sant’ Arcangelo, che non ha invece subito mutazioni, anche nella mia visione di qualche giorno fa a Sarzana, nella tournée che è adesso in corso, che lo riporterà anche nella sala dove l’ho visto la prima volta.

In Cinema Cielo lo spettatore trova in scena la sala dell’omonimo reale storico cinema a luci rosse di Milano, un tempo sito in viale Premuda: si trova davanti le poltrone, alcune occupate da dei manichini, attraversate da diversi personaggi che vivono la loro esistenza estrema alla ricerca di piacere sessuale, di un rifugio dalla vita esterna, di un’illusione d’amore, mentre scorre un film sullo schermo che però siamo anche noi, lì seduti in platea ad osservare loro, come guardoni osservati dai personaggi che guardano verso di noi; un microcosmo allucinato, ma disperatamente poetico. Oltre a vedere possiamo ascoltare il sonoro di diverse voci fuori campo che appartengono a questa storia, più la banda sonora di un film immaginario che i personaggi guardano e che segue la trama di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, un testo da cui Danio diversi anni dopo Cinema Cielo ha tratto anche un bellissimo reading allietato dalla visione dei suoi disegni; tra l’altro questo spettacolo, adesso, si chiude con la visione di un disegno di Danio che appare sul sipario alla fine, là dove si vede all’inizio la foto del vero Cinema Cielo. C’è però differenza tra le avventure di Divine del romanzo di Genet, e quelle del travestito missionario dell’amore, interpretato da Danio sul palco che si muove con le sue alucce su dei tacchi alti.

Divine, Notre Dame de Fleurs, le loro amiche/amici proseguono la loro vita fuori dagli schemi normali fino alla tragedia finale e questo mondo altro viene trasceso da Genet come esemplare di una nuova e sovrumana morale, mentre la serie di avvenimenti mostrati nello spettacolo di Danio non giunge a questa dimensione di esaltazione, ma trascina tutti i personaggi in una sorta di estasi della comprensione umana che, paradossalmente, ha quasi del mistico, specialmente nelle avventure sessuali del travestito, narrate però nel suo dialogare direttamente con Gesù, che appare anche (in croce) verso la fine: un Gesù di periferia, un Gesù degli ultimi che – dice questo personaggio – non ha abbastanza forza per portarci tutti nelle sue braccia, quindi non ha più la forza di salvarci.

Quindi com’è stata l’esperienza di me spettatore alla terza visione dello spettacolo, che ha ritrovato con gli attori, con un altro se stesso, attraverso i decenni, dopo esserselo portato dentro con l’intensità del ricordo, ma anche con lo sguardo cambiato col mutarsi dei corpi messi in scena, quelli veri degli attori, quelli dei manichini, quelli evocati dalle voci della narrazione di Genet, un testo che anche lo spettatore-me ha letto ed amato (molto) nella sua lontana gioventù?

Ed è qui che si consuma la riuscita di questa reprise, nel centellinare nuove emozioni, forse meno sconvolgenti, ma altrettanto poetiche, altrettanto intense e più mature, accolte in una nuova visione in cui lo spettatore guarda questo campionario di umanità e viene quasi allegoricamente a essere osservato da esso e dalla sapiente messa in scena di Manfredini, oltre che dalla recitazione antinaturalistica sua e degli altri attori, diffusa nelle parole, nei gesti della camminata dei personaggi dell’ “angelica” protagonista e di altre figure che percorrono peripateticamente i corridoi del Cinema Cielo, come in una processione allucinata, immersi in un quadro di luce, di suoni e di canzoni che lasciano il segno. Quando questa musica si dirada, si spengono gli applausi, lo spettatore se ne torna a casa, sotto la pioggia, avendo rinchiuso dentro di sé un’altra emozione e un’altra dose della poesia del teatro del Grande Danio Manfredini.

Falco Ranuli


L'articolo Uno schermo che siamo noi proviene da .

M – il figlio del secolo

Adesso che il clamore si è un po’ sopito, ci sembra il momento di spendere due parole sulla serie che nelle scorse settimane ha attirato l’attenzione del pubblico, della critica e, marginalmente, del mondo politico.

Stiamo parlando di M – Il figlio del secolo, prodotta da Sky e tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati.

M – Il figlio del secolo è probabilmente, nel suo genere, l’opera più interessante che sia stata proposta negli ultimi anni in Italia al grande pubblico.

C’erano tutte le condizioni per sbagliare, se così si può dire. Si trattava di raccontare una storia complicata ed evidentemente mai del tutto risolta nel nostro paese: quella di Benito Mussolini e della sua ascesa al potere.

Chiariamo, prima di tutto, un concetto: M – Il figlio del secolo non è e non vuole essere un documentario. È una fiction ispirata a un romanzo. Storico, sì, ma pur sempre un romanzo. Gli spettatori politicizzati o semplicemente più ferrati sull’argomento troveranno senz’altro imprecisioni o lacune ma, in realtà, non si tratta mai di mancanze troppo gravi, perché, fondamentalmente, è stato detto e descritto tutto ciò che era essenziale per la comprensione degli eventi.

Di solito, quando si parla del fascismo, della sua origine e della sua evoluzione, lo si fa con gli strumenti e con le griglie interpretative della storiografia, della politica, della sociologia. In questo caso, invece, i fatti vengono narrati con un approccio drammaturgico e dei linguaggi a dir poco inaspettati.

Quello che davvero colpisce, infatti, è il modo con il quale viene raccontata la storia personale di Mussolini, una storia che si intreccia inevitabilmente con quella del paese, una dimensione privata e politica allo stesso tempo.

Intanto, partiamo dalla regia. Joe Wright, che nella sua carriera ha diretto – tra le altre cose – Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, L’ora più buia e, per quanto riguarda la televisione, Carlo II il potere della passione e un episodio di Black Mirror, ha svecchiato il racconto del fascismo con un montaggio dai ritmi frenetici, una fotografia cupa che a volte richiama atmosfere da fumetto e un’ambientazione sempre claustrofobica. La sceneggiatura, curata da Stefano Bises e Davide Serino, è ricchissima di spunti e descrizioni che servono a delineare i profili psicologici dei tanti personaggi che animano la serie. Per le musiche non ci si è limitati al repertorio d’epoca o a qualcosa che richiamasse le sonorità dei primi del Novecento. Tutt’altro. Per quanto assurdo possa sembrare, in una serie che parla del fascismo, hanno affidato a Tom Rowlands dei Chemical Brothers il compito di accompagnare con la musica elettronica lo sviluppo narrativo nei suoi momenti più surreali e grotteschi con l’eccellente risultato di rendere il tutto incredibilmente fresco e moderno.

Dell’immenso Luca Marinelli si è detto molto. Lui stesso ha confessato, nel dichiararsi orgogliosamente antifascista, di aver provato un enorme disagio nel vestire i panni di Mussolini. Gli crediamo, e di certo non lo sfottiamo come ha fatto qualche giornalista di destra e, soprattutto, a corto di argomenti. Marinelli non lo sfottiamo perché è stato semplicemente bravissimo nel rendere credibile un personaggio così complesso. Una caricatura che non deforma ma che, al contrario, sottolinea i tratti più autentici del duce del fascismo. Tutto il cast, a dire il vero, è stato all’altezza: una menzione particolare la meritano, tra gli altri, Benedetta Cimatti che ha interpretato Rachele Mussolini e Francesco Russo nel ruolo di Cesare Rossi.

Un linguaggio moderno e credibile, dicevamo, a partire dalla scelta di mantenere le cadenze regionali con inserti di vero e proprio dialetto in alcuni dialoghi, così come la frequentissima rottura della quarta parete con la quale Marinelli-Mussolini si rivolge al pubblico per chiarire i suoi pensieri, svelare il suo doppiogiochismo, commentare quello che gli succede. Guardare questa serie è sorprendente e, in più occasioni, disturbante. Mussolini è un istrione, una maschera tragica e comica allo stesso tempo, e quasi ci sentiamo in colpa – di tanto in tanto – quando questa maschera ci strappa addirittura un sorriso. Ed è un senso di colpa legato non tanto alla conoscenza che ciascuno di noi può avere del personaggio o della storia, quanto a quello che ci viene continuamente proposto con brutale efficacia: una violenza feroce e parossistica restituita dalla concretezza di scene ai limiti dello splatter o da immagini oniriche che però non perdono mai il contatto con la realtà.

Uno dei meriti di M – Il figlio del secolo è che il fascismo viene finalmente riportato alla sua essenza: un movimento violento, nato dalla violenza e imposto con la violenza. Al di là di tutte le considerazioni e le analisi storiche, sociali e politiche che sono state fatte e che si continueranno a fare, sul perché – a un certo punto – l’Italia si consegnò a Mussolini, con questa serie viene demolita quella falsa credenza secondo la quale, dopo tutto, i fascisti non erano poi così cattivi (meno che mai paragonabili ai nazisti) o che Mussolini altro non era che una specie di innocuo pagliaccio.

Ebbene, questo “pagliaccio” era un opportunista, era disposto a tutto pur di prendere il potere, era un narcisista, un invidioso, un maschio tossico che trattava malissimo le donne (a partire da sua moglie); era un insicuro, un bugiardo, un individuo senza alcun senso dell’onore. Ma non era uno stupido e seppe fiutare l’aria: «Sono come le bestie, sento il tempo che viene». Quando si prepara a riscuotere gli onori di un teatro gremito, poco prima di recarsi a Roma per ricevere dal re l’incarico di primo ministro, Marinelli-Mussolini ci spiega chi davvero sono i “pagliacci” in politica. Sono quelli che noi non capiamo ma questo è irrilevante: sguardo fisso in camera, pollice su, e una frase che suona tanto famigliare quanto sinistra: «Make Italy Great Again».

Qui sta il grande pregio di questa serie: nel raccontarci l’incubo del fascismo con un linguaggio comprensibile, M – Il figlio del secolo ci parla di noi, della società di oggi, delle dinamiche e dei protagonisti che – mutatis mutandis – si ripropongono e si attualizzano, così uguali e così diversi, in Italia e nel mondo.

C’è una cosa che dovremmo imparare dal Mussolini protagonista della serie: la capacità di sentire il tempo che viene e agire di conseguenza. Per smascherare i pagliacci e fermare le bestie.

Alberto La Via

L'articolo M – il figlio del secolo proviene da .

Uno schermo che siamo noi

La ripresa di Cinema Cielo di Danio Manfredini

È doveroso tracciare un bilancio di qualcosa che non succede tanto spesso nella vita di un semplice appassionato di teatro come me, quando si trova a sedersi sulle poltrone delle sale teatrali italiche da ormai circa mezzo secolo, se non erra la sua memoria: sto parlando di tornare a vedere, per addirittura la terza volta, uno spettacolo di un importante attore ed autore italiano, la ripresa di un pezzo di storia del nostro teatro contemporaneo, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini. Spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel lontano 2004, da me visto nella sua prima apparizione, dopo l’anteprima al festival di Santarcangelo nel 2003, quando fu presentato in quella stagione teatrale all’allora Elfo di Milano, adesso Teatro Menotti.

L’impressione all’epoca fu devastante, non solo per me: ricordo benissimo le decine di minuti di applausi scroscianti fatte da spettatori che per la maggior parte – me compreso – avevano le lacrime agli occhi, con Danio e gli altri tre attori costretti a ritornare in scena non so quante volte, ma l’ovazione durò tre quarti d’ora almeno, perché nessuno si decideva ad andarsene, a smettere di applaudire. Lo spettacolo, ovviamente, non è rimasto esattamente identico a quello dell’epoca, nemmeno il suo impatto è rimasto tale a quello di venti anni fa, perché i tempi sono cambiati, c’è stata di mezzo una diversa carriera e avventure diverse per i quattro protagonisti, ma ha perso in definitiva ben poco del suo spessore poetico, attoriale, sonoro e di scrittura, anche per uno spettatore che ha attraversato tutti gli anni trascorsi durante la sua mutazione come me. Ho parlato di un livello sonoro, perché, insieme a quelli visivi e di performance attoriale, non si può in questo spettacolo mettere in secondo piano la banda sonora, ripresa direttamente dallo spettacolo originale di Sant’ Arcangelo, che non ha invece subito mutazioni, anche nella mia visione di qualche giorno fa a Sarzana, nella tournée che è adesso in corso, che lo riporterà anche nella sala dove l’ho visto la prima volta.

In Cinema Cielo lo spettatore trova in scena la sala dell’omonimo reale storico cinema a luci rosse di Milano, un tempo sito in viale Premuda: si trova davanti le poltrone, alcune occupate da dei manichini, attraversate da diversi personaggi che vivono la loro esistenza estrema alla ricerca di piacere sessuale, di un rifugio dalla vita esterna, di un’illusione d’amore, mentre scorre un film sullo schermo che però siamo anche noi, lì seduti in platea ad osservare loro, come guardoni osservati dai personaggi che guardano verso di noi; un microcosmo allucinato, ma disperatamente poetico. Oltre a vedere possiamo ascoltare il sonoro di diverse voci fuori campo che appartengono a questa storia, più la banda sonora di un film immaginario che i personaggi guardano e che segue la trama di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, un testo da cui Danio diversi anni dopo Cinema Cielo ha tratto anche un bellissimo reading allietato dalla visione dei suoi disegni; tra l’altro questo spettacolo, adesso, si chiude con la visione di un disegno di Danio che appare sul sipario alla fine, là dove si vede all’inizio la foto del vero Cinema Cielo. C’è però differenza tra le avventure di Divine del romanzo di Genet, e quelle del travestito missionario dell’amore, interpretato da Danio sul palco che si muove con le sue alucce su dei tacchi alti.

Divine, Notre Dame de Fleurs, le loro amiche/amici proseguono la loro vita fuori dagli schemi normali fino alla tragedia finale e questo mondo altro viene trasceso da Genet come esemplare di una nuova e sovrumana morale, mentre la serie di avvenimenti mostrati nello spettacolo di Danio non giunge a questa dimensione di esaltazione, ma trascina tutti i personaggi in una sorta di estasi della comprensione umana che, paradossalmente, ha quasi del mistico, specialmente nelle avventure sessuali del travestito, narrate però nel suo dialogare direttamente con Gesù, che appare anche (in croce) verso la fine: un Gesù di periferia, un Gesù degli ultimi che – dice questo personaggio – non ha abbastanza forza per portarci tutti nelle sue braccia, quindi non ha più la forza di salvarci.

Quindi com’è stata l’esperienza di me spettatore alla terza visione dello spettacolo, che ha ritrovato con gli attori, con un altro se stesso, attraverso i decenni, dopo esserselo portato dentro con l’intensità del ricordo, ma anche con lo sguardo cambiato col mutarsi dei corpi messi in scena, quelli veri degli attori, quelli dei manichini, quelli evocati dalle voci della narrazione di Genet, un testo che anche lo spettatore-me ha letto ed amato (molto) nella sua lontana gioventù?

Ed è qui che si consuma la riuscita di questa reprise, nel centellinare nuove emozioni, forse meno sconvolgenti, ma altrettanto poetiche, altrettanto intense e più mature, accolte in una nuova visione in cui lo spettatore guarda questo campionario di umanità e viene quasi allegoricamente a essere osservato da esso e dalla sapiente messa in scena di Manfredini, oltre che dalla recitazione antinaturalistica sua e degli altri attori, diffusa nelle parole, nei gesti della camminata dei personaggi dell’ “angelica” protagonista e di altre figure che percorrono peripateticamente i corridoi del Cinema Cielo, come in una processione allucinata, immersi in un quadro di luce, di suoni e di canzoni che lasciano il segno. Quando questa musica si dirada, si spengono gli applausi, lo spettatore se ne torna a casa, sotto la pioggia, avendo rinchiuso dentro di sé un’altra emozione e un’altra dose della poesia del teatro del Grande Danio Manfredini.

Falco Ranuli


L'articolo Uno schermo che siamo noi proviene da .

M – il figlio del secolo

Adesso che il clamore si è un po’ sopito, ci sembra il momento di spendere due parole sulla serie che nelle scorse settimane ha attirato l’attenzione del pubblico, della critica e, marginalmente, del mondo politico.

Stiamo parlando di M – Il figlio del secolo, prodotta da Sky e tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati.

M – Il figlio del secolo è probabilmente, nel suo genere, l’opera più interessante che sia stata proposta negli ultimi anni in Italia al grande pubblico.

C’erano tutte le condizioni per sbagliare, se così si può dire. Si trattava di raccontare una storia complicata ed evidentemente mai del tutto risolta nel nostro paese: quella di Benito Mussolini e della sua ascesa al potere.

Chiariamo, prima di tutto, un concetto: M – Il figlio del secolo non è e non vuole essere un documentario. È una fiction ispirata a un romanzo. Storico, sì, ma pur sempre un romanzo. Gli spettatori politicizzati o semplicemente più ferrati sull’argomento troveranno senz’altro imprecisioni o lacune ma, in realtà, non si tratta mai di mancanze troppo gravi, perché, fondamentalmente, è stato detto e descritto tutto ciò che era essenziale per la comprensione degli eventi.

Di solito, quando si parla del fascismo, della sua origine e della sua evoluzione, lo si fa con gli strumenti e con le griglie interpretative della storiografia, della politica, della sociologia. In questo caso, invece, i fatti vengono narrati con un approccio drammaturgico e dei linguaggi a dir poco inaspettati.

Quello che davvero colpisce, infatti, è il modo con il quale viene raccontata la storia personale di Mussolini, una storia che si intreccia inevitabilmente con quella del paese, una dimensione privata e politica allo stesso tempo.

Intanto, partiamo dalla regia. Joe Wright, che nella sua carriera ha diretto – tra le altre cose – Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, L’ora più buia e, per quanto riguarda la televisione, Carlo II il potere della passione e un episodio di Black Mirror, ha svecchiato il racconto del fascismo con un montaggio dai ritmi frenetici, una fotografia cupa che a volte richiama atmosfere da fumetto e un’ambientazione sempre claustrofobica. La sceneggiatura, curata da Stefano Bises e Davide Serino, è ricchissima di spunti e descrizioni che servono a delineare i profili psicologici dei tanti personaggi che animano la serie. Per le musiche non ci si è limitati al repertorio d’epoca o a qualcosa che richiamasse le sonorità dei primi del Novecento. Tutt’altro. Per quanto assurdo possa sembrare, in una serie che parla del fascismo, hanno affidato a Tom Rowlands dei Chemical Brothers il compito di accompagnare con la musica elettronica lo sviluppo narrativo nei suoi momenti più surreali e grotteschi con l’eccellente risultato di rendere il tutto incredibilmente fresco e moderno.

Dell’immenso Luca Marinelli si è detto molto. Lui stesso ha confessato, nel dichiararsi orgogliosamente antifascista, di aver provato un enorme disagio nel vestire i panni di Mussolini. Gli crediamo, e di certo non lo sfottiamo come ha fatto qualche giornalista di destra e, soprattutto, a corto di argomenti. Marinelli non lo sfottiamo perché è stato semplicemente bravissimo nel rendere credibile un personaggio così complesso. Una caricatura che non deforma ma che, al contrario, sottolinea i tratti più autentici del duce del fascismo. Tutto il cast, a dire il vero, è stato all’altezza: una menzione particolare la meritano, tra gli altri, Benedetta Cimatti che ha interpretato Rachele Mussolini e Francesco Russo nel ruolo di Cesare Rossi.

Un linguaggio moderno e credibile, dicevamo, a partire dalla scelta di mantenere le cadenze regionali con inserti di vero e proprio dialetto in alcuni dialoghi, così come la frequentissima rottura della quarta parete con la quale Marinelli-Mussolini si rivolge al pubblico per chiarire i suoi pensieri, svelare il suo doppiogiochismo, commentare quello che gli succede. Guardare questa serie è sorprendente e, in più occasioni, disturbante. Mussolini è un istrione, una maschera tragica e comica allo stesso tempo, e quasi ci sentiamo in colpa – di tanto in tanto – quando questa maschera ci strappa addirittura un sorriso. Ed è un senso di colpa legato non tanto alla conoscenza che ciascuno di noi può avere del personaggio o della storia, quanto a quello che ci viene continuamente proposto con brutale efficacia: una violenza feroce e parossistica restituita dalla concretezza di scene ai limiti dello splatter o da immagini oniriche che però non perdono mai il contatto con la realtà.

Uno dei meriti di M – Il figlio del secolo è che il fascismo viene finalmente riportato alla sua essenza: un movimento violento, nato dalla violenza e imposto con la violenza. Al di là di tutte le considerazioni e le analisi storiche, sociali e politiche che sono state fatte e che si continueranno a fare, sul perché – a un certo punto – l’Italia si consegnò a Mussolini, con questa serie viene demolita quella falsa credenza secondo la quale, dopo tutto, i fascisti non erano poi così cattivi (meno che mai paragonabili ai nazisti) o che Mussolini altro non era che una specie di innocuo pagliaccio.

Ebbene, questo “pagliaccio” era un opportunista, era disposto a tutto pur di prendere il potere, era un narcisista, un invidioso, un maschio tossico che trattava malissimo le donne (a partire da sua moglie); era un insicuro, un bugiardo, un individuo senza alcun senso dell’onore. Ma non era uno stupido e seppe fiutare l’aria: «Sono come le bestie, sento il tempo che viene». Quando si prepara a riscuotere gli onori di un teatro gremito, poco prima di recarsi a Roma per ricevere dal re l’incarico di primo ministro, Marinelli-Mussolini ci spiega chi davvero sono i “pagliacci” in politica. Sono quelli che noi non capiamo ma questo è irrilevante: sguardo fisso in camera, pollice su, e una frase che suona tanto famigliare quanto sinistra: «Make Italy Great Again».

Qui sta il grande pregio di questa serie: nel raccontarci l’incubo del fascismo con un linguaggio comprensibile, M – Il figlio del secolo ci parla di noi, della società di oggi, delle dinamiche e dei protagonisti che – mutatis mutandis – si ripropongono e si attualizzano, così uguali e così diversi, in Italia e nel mondo.

C’è una cosa che dovremmo imparare dal Mussolini protagonista della serie: la capacità di sentire il tempo che viene e agire di conseguenza. Per smascherare i pagliacci e fermare le bestie.

Alberto La Via

L'articolo M – il figlio del secolo proviene da .

Uno schermo che siamo noi

La ripresa di Cinema Cielo di Danio Manfredini

È doveroso tracciare un bilancio di qualcosa che non succede tanto spesso nella vita di un semplice appassionato di teatro come me, quando si trova a sedersi sulle poltrone delle sale teatrali italiche da ormai circa mezzo secolo, se non erra la sua memoria: sto parlando di tornare a vedere, per addirittura la terza volta, uno spettacolo di un importante attore ed autore italiano, la ripresa di un pezzo di storia del nostro teatro contemporaneo, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini. Spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel lontano 2004, da me visto nella sua prima apparizione, dopo l’anteprima al festival di Santarcangelo nel 2003, quando fu presentato in quella stagione teatrale all’allora Elfo di Milano, adesso Teatro Menotti.

L’impressione all’epoca fu devastante, non solo per me: ricordo benissimo le decine di minuti di applausi scroscianti fatte da spettatori che per la maggior parte – me compreso – avevano le lacrime agli occhi, con Danio e gli altri tre attori costretti a ritornare in scena non so quante volte, ma l’ovazione durò tre quarti d’ora almeno, perché nessuno si decideva ad andarsene, a smettere di applaudire. Lo spettacolo, ovviamente, non è rimasto esattamente identico a quello dell’epoca, nemmeno il suo impatto è rimasto tale a quello di venti anni fa, perché i tempi sono cambiati, c’è stata di mezzo una diversa carriera e avventure diverse per i quattro protagonisti, ma ha perso in definitiva ben poco del suo spessore poetico, attoriale, sonoro e di scrittura, anche per uno spettatore che ha attraversato tutti gli anni trascorsi durante la sua mutazione come me. Ho parlato di un livello sonoro, perché, insieme a quelli visivi e di performance attoriale, non si può in questo spettacolo mettere in secondo piano la banda sonora, ripresa direttamente dallo spettacolo originale di Sant’ Arcangelo, che non ha invece subito mutazioni, anche nella mia visione di qualche giorno fa a Sarzana, nella tournée che è adesso in corso, che lo riporterà anche nella sala dove l’ho visto la prima volta.

In Cinema Cielo lo spettatore trova in scena la sala dell’omonimo reale storico cinema a luci rosse di Milano, un tempo sito in viale Premuda: si trova davanti le poltrone, alcune occupate da dei manichini, attraversate da diversi personaggi che vivono la loro esistenza estrema alla ricerca di piacere sessuale, di un rifugio dalla vita esterna, di un’illusione d’amore, mentre scorre un film sullo schermo che però siamo anche noi, lì seduti in platea ad osservare loro, come guardoni osservati dai personaggi che guardano verso di noi; un microcosmo allucinato, ma disperatamente poetico. Oltre a vedere possiamo ascoltare il sonoro di diverse voci fuori campo che appartengono a questa storia, più la banda sonora di un film immaginario che i personaggi guardano e che segue la trama di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, un testo da cui Danio diversi anni dopo Cinema Cielo ha tratto anche un bellissimo reading allietato dalla visione dei suoi disegni; tra l’altro questo spettacolo, adesso, si chiude con la visione di un disegno di Danio che appare sul sipario alla fine, là dove si vede all’inizio la foto del vero Cinema Cielo. C’è però differenza tra le avventure di Divine del romanzo di Genet, e quelle del travestito missionario dell’amore, interpretato da Danio sul palco che si muove con le sue alucce su dei tacchi alti.

Divine, Notre Dame de Fleurs, le loro amiche/amici proseguono la loro vita fuori dagli schemi normali fino alla tragedia finale e questo mondo altro viene trasceso da Genet come esemplare di una nuova e sovrumana morale, mentre la serie di avvenimenti mostrati nello spettacolo di Danio non giunge a questa dimensione di esaltazione, ma trascina tutti i personaggi in una sorta di estasi della comprensione umana che, paradossalmente, ha quasi del mistico, specialmente nelle avventure sessuali del travestito, narrate però nel suo dialogare direttamente con Gesù, che appare anche (in croce) verso la fine: un Gesù di periferia, un Gesù degli ultimi che – dice questo personaggio – non ha abbastanza forza per portarci tutti nelle sue braccia, quindi non ha più la forza di salvarci.

Quindi com’è stata l’esperienza di me spettatore alla terza visione dello spettacolo, che ha ritrovato con gli attori, con un altro se stesso, attraverso i decenni, dopo esserselo portato dentro con l’intensità del ricordo, ma anche con lo sguardo cambiato col mutarsi dei corpi messi in scena, quelli veri degli attori, quelli dei manichini, quelli evocati dalle voci della narrazione di Genet, un testo che anche lo spettatore-me ha letto ed amato (molto) nella sua lontana gioventù?

Ed è qui che si consuma la riuscita di questa reprise, nel centellinare nuove emozioni, forse meno sconvolgenti, ma altrettanto poetiche, altrettanto intense e più mature, accolte in una nuova visione in cui lo spettatore guarda questo campionario di umanità e viene quasi allegoricamente a essere osservato da esso e dalla sapiente messa in scena di Manfredini, oltre che dalla recitazione antinaturalistica sua e degli altri attori, diffusa nelle parole, nei gesti della camminata dei personaggi dell’ “angelica” protagonista e di altre figure che percorrono peripateticamente i corridoi del Cinema Cielo, come in una processione allucinata, immersi in un quadro di luce, di suoni e di canzoni che lasciano il segno. Quando questa musica si dirada, si spengono gli applausi, lo spettatore se ne torna a casa, sotto la pioggia, avendo rinchiuso dentro di sé un’altra emozione e un’altra dose della poesia del teatro del Grande Danio Manfredini.

Falco Ranuli


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M – il figlio del secolo

Adesso che il clamore si è un po’ sopito, ci sembra il momento di spendere due parole sulla serie che nelle scorse settimane ha attirato l’attenzione del pubblico, della critica e, marginalmente, del mondo politico.

Stiamo parlando di M – Il figlio del secolo, prodotta da Sky e tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati.

M – Il figlio del secolo è probabilmente, nel suo genere, l’opera più interessante che sia stata proposta negli ultimi anni in Italia al grande pubblico.

C’erano tutte le condizioni per sbagliare, se così si può dire. Si trattava di raccontare una storia complicata ed evidentemente mai del tutto risolta nel nostro paese: quella di Benito Mussolini e della sua ascesa al potere.

Chiariamo, prima di tutto, un concetto: M – Il figlio del secolo non è e non vuole essere un documentario. È una fiction ispirata a un romanzo. Storico, sì, ma pur sempre un romanzo. Gli spettatori politicizzati o semplicemente più ferrati sull’argomento troveranno senz’altro imprecisioni o lacune ma, in realtà, non si tratta mai di mancanze troppo gravi, perché, fondamentalmente, è stato detto e descritto tutto ciò che era essenziale per la comprensione degli eventi.

Di solito, quando si parla del fascismo, della sua origine e della sua evoluzione, lo si fa con gli strumenti e con le griglie interpretative della storiografia, della politica, della sociologia. In questo caso, invece, i fatti vengono narrati con un approccio drammaturgico e dei linguaggi a dir poco inaspettati.

Quello che davvero colpisce, infatti, è il modo con il quale viene raccontata la storia personale di Mussolini, una storia che si intreccia inevitabilmente con quella del paese, una dimensione privata e politica allo stesso tempo.

Intanto, partiamo dalla regia. Joe Wright, che nella sua carriera ha diretto – tra le altre cose – Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, L’ora più buia e, per quanto riguarda la televisione, Carlo II il potere della passione e un episodio di Black Mirror, ha svecchiato il racconto del fascismo con un montaggio dai ritmi frenetici, una fotografia cupa che a volte richiama atmosfere da fumetto e un’ambientazione sempre claustrofobica. La sceneggiatura, curata da Stefano Bises e Davide Serino, è ricchissima di spunti e descrizioni che servono a delineare i profili psicologici dei tanti personaggi che animano la serie. Per le musiche non ci si è limitati al repertorio d’epoca o a qualcosa che richiamasse le sonorità dei primi del Novecento. Tutt’altro. Per quanto assurdo possa sembrare, in una serie che parla del fascismo, hanno affidato a Tom Rowlands dei Chemical Brothers il compito di accompagnare con la musica elettronica lo sviluppo narrativo nei suoi momenti più surreali e grotteschi con l’eccellente risultato di rendere il tutto incredibilmente fresco e moderno.

Dell’immenso Luca Marinelli si è detto molto. Lui stesso ha confessato, nel dichiararsi orgogliosamente antifascista, di aver provato un enorme disagio nel vestire i panni di Mussolini. Gli crediamo, e di certo non lo sfottiamo come ha fatto qualche giornalista di destra e, soprattutto, a corto di argomenti. Marinelli non lo sfottiamo perché è stato semplicemente bravissimo nel rendere credibile un personaggio così complesso. Una caricatura che non deforma ma che, al contrario, sottolinea i tratti più autentici del duce del fascismo. Tutto il cast, a dire il vero, è stato all’altezza: una menzione particolare la meritano, tra gli altri, Benedetta Cimatti che ha interpretato Rachele Mussolini e Francesco Russo nel ruolo di Cesare Rossi.

Un linguaggio moderno e credibile, dicevamo, a partire dalla scelta di mantenere le cadenze regionali con inserti di vero e proprio dialetto in alcuni dialoghi, così come la frequentissima rottura della quarta parete con la quale Marinelli-Mussolini si rivolge al pubblico per chiarire i suoi pensieri, svelare il suo doppiogiochismo, commentare quello che gli succede. Guardare questa serie è sorprendente e, in più occasioni, disturbante. Mussolini è un istrione, una maschera tragica e comica allo stesso tempo, e quasi ci sentiamo in colpa – di tanto in tanto – quando questa maschera ci strappa addirittura un sorriso. Ed è un senso di colpa legato non tanto alla conoscenza che ciascuno di noi può avere del personaggio o della storia, quanto a quello che ci viene continuamente proposto con brutale efficacia: una violenza feroce e parossistica restituita dalla concretezza di scene ai limiti dello splatter o da immagini oniriche che però non perdono mai il contatto con la realtà.

Uno dei meriti di M – Il figlio del secolo è che il fascismo viene finalmente riportato alla sua essenza: un movimento violento, nato dalla violenza e imposto con la violenza. Al di là di tutte le considerazioni e le analisi storiche, sociali e politiche che sono state fatte e che si continueranno a fare, sul perché – a un certo punto – l’Italia si consegnò a Mussolini, con questa serie viene demolita quella falsa credenza secondo la quale, dopo tutto, i fascisti non erano poi così cattivi (meno che mai paragonabili ai nazisti) o che Mussolini altro non era che una specie di innocuo pagliaccio.

Ebbene, questo “pagliaccio” era un opportunista, era disposto a tutto pur di prendere il potere, era un narcisista, un invidioso, un maschio tossico che trattava malissimo le donne (a partire da sua moglie); era un insicuro, un bugiardo, un individuo senza alcun senso dell’onore. Ma non era uno stupido e seppe fiutare l’aria: «Sono come le bestie, sento il tempo che viene». Quando si prepara a riscuotere gli onori di un teatro gremito, poco prima di recarsi a Roma per ricevere dal re l’incarico di primo ministro, Marinelli-Mussolini ci spiega chi davvero sono i “pagliacci” in politica. Sono quelli che noi non capiamo ma questo è irrilevante: sguardo fisso in camera, pollice su, e una frase che suona tanto famigliare quanto sinistra: «Make Italy Great Again».

Qui sta il grande pregio di questa serie: nel raccontarci l’incubo del fascismo con un linguaggio comprensibile, M – Il figlio del secolo ci parla di noi, della società di oggi, delle dinamiche e dei protagonisti che – mutatis mutandis – si ripropongono e si attualizzano, così uguali e così diversi, in Italia e nel mondo.

C’è una cosa che dovremmo imparare dal Mussolini protagonista della serie: la capacità di sentire il tempo che viene e agire di conseguenza. Per smascherare i pagliacci e fermare le bestie.

Alberto La Via

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Uno schermo che siamo noi

La ripresa di Cinema Cielo di Danio Manfredini

È doveroso tracciare un bilancio di qualcosa che non succede tanto spesso nella vita di un semplice appassionato di teatro come me, quando si trova a sedersi sulle poltrone delle sale teatrali italiche da ormai circa mezzo secolo, se non erra la sua memoria: sto parlando di tornare a vedere, per addirittura la terza volta, uno spettacolo di un importante attore ed autore italiano, la ripresa di un pezzo di storia del nostro teatro contemporaneo, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini. Spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel lontano 2004, da me visto nella sua prima apparizione, dopo l’anteprima al festival di Santarcangelo nel 2003, quando fu presentato in quella stagione teatrale all’allora Elfo di Milano, adesso Teatro Menotti.

L’impressione all’epoca fu devastante, non solo per me: ricordo benissimo le decine di minuti di applausi scroscianti fatte da spettatori che per la maggior parte – me compreso – avevano le lacrime agli occhi, con Danio e gli altri tre attori costretti a ritornare in scena non so quante volte, ma l’ovazione durò tre quarti d’ora almeno, perché nessuno si decideva ad andarsene, a smettere di applaudire. Lo spettacolo, ovviamente, non è rimasto esattamente identico a quello dell’epoca, nemmeno il suo impatto è rimasto tale a quello di venti anni fa, perché i tempi sono cambiati, c’è stata di mezzo una diversa carriera e avventure diverse per i quattro protagonisti, ma ha perso in definitiva ben poco del suo spessore poetico, attoriale, sonoro e di scrittura, anche per uno spettatore che ha attraversato tutti gli anni trascorsi durante la sua mutazione come me. Ho parlato di un livello sonoro, perché, insieme a quelli visivi e di performance attoriale, non si può in questo spettacolo mettere in secondo piano la banda sonora, ripresa direttamente dallo spettacolo originale di Sant’ Arcangelo, che non ha invece subito mutazioni, anche nella mia visione di qualche giorno fa a Sarzana, nella tournée che è adesso in corso, che lo riporterà anche nella sala dove l’ho visto la prima volta.

In Cinema Cielo lo spettatore trova in scena la sala dell’omonimo reale storico cinema a luci rosse di Milano, un tempo sito in viale Premuda: si trova davanti le poltrone, alcune occupate da dei manichini, attraversate da diversi personaggi che vivono la loro esistenza estrema alla ricerca di piacere sessuale, di un rifugio dalla vita esterna, di un’illusione d’amore, mentre scorre un film sullo schermo che però siamo anche noi, lì seduti in platea ad osservare loro, come guardoni osservati dai personaggi che guardano verso di noi; un microcosmo allucinato, ma disperatamente poetico. Oltre a vedere possiamo ascoltare il sonoro di diverse voci fuori campo che appartengono a questa storia, più la banda sonora di un film immaginario che i personaggi guardano e che segue la trama di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, un testo da cui Danio diversi anni dopo Cinema Cielo ha tratto anche un bellissimo reading allietato dalla visione dei suoi disegni; tra l’altro questo spettacolo, adesso, si chiude con la visione di un disegno di Danio che appare sul sipario alla fine, là dove si vede all’inizio la foto del vero Cinema Cielo. C’è però differenza tra le avventure di Divine del romanzo di Genet, e quelle del travestito missionario dell’amore, interpretato da Danio sul palco che si muove con le sue alucce su dei tacchi alti.

Divine, Notre Dame de Fleurs, le loro amiche/amici proseguono la loro vita fuori dagli schemi normali fino alla tragedia finale e questo mondo altro viene trasceso da Genet come esemplare di una nuova e sovrumana morale, mentre la serie di avvenimenti mostrati nello spettacolo di Danio non giunge a questa dimensione di esaltazione, ma trascina tutti i personaggi in una sorta di estasi della comprensione umana che, paradossalmente, ha quasi del mistico, specialmente nelle avventure sessuali del travestito, narrate però nel suo dialogare direttamente con Gesù, che appare anche (in croce) verso la fine: un Gesù di periferia, un Gesù degli ultimi che – dice questo personaggio – non ha abbastanza forza per portarci tutti nelle sue braccia, quindi non ha più la forza di salvarci.

Quindi com’è stata l’esperienza di me spettatore alla terza visione dello spettacolo, che ha ritrovato con gli attori, con un altro se stesso, attraverso i decenni, dopo esserselo portato dentro con l’intensità del ricordo, ma anche con lo sguardo cambiato col mutarsi dei corpi messi in scena, quelli veri degli attori, quelli dei manichini, quelli evocati dalle voci della narrazione di Genet, un testo che anche lo spettatore-me ha letto ed amato (molto) nella sua lontana gioventù?

Ed è qui che si consuma la riuscita di questa reprise, nel centellinare nuove emozioni, forse meno sconvolgenti, ma altrettanto poetiche, altrettanto intense e più mature, accolte in una nuova visione in cui lo spettatore guarda questo campionario di umanità e viene quasi allegoricamente a essere osservato da esso e dalla sapiente messa in scena di Manfredini, oltre che dalla recitazione antinaturalistica sua e degli altri attori, diffusa nelle parole, nei gesti della camminata dei personaggi dell’ “angelica” protagonista e di altre figure che percorrono peripateticamente i corridoi del Cinema Cielo, come in una processione allucinata, immersi in un quadro di luce, di suoni e di canzoni che lasciano il segno. Quando questa musica si dirada, si spengono gli applausi, lo spettatore se ne torna a casa, sotto la pioggia, avendo rinchiuso dentro di sé un’altra emozione e un’altra dose della poesia del teatro del Grande Danio Manfredini.

Falco Ranuli


L'articolo Uno schermo che siamo noi proviene da .

M – il figlio del secolo

Adesso che il clamore si è un po’ sopito, ci sembra il momento di spendere due parole sulla serie che nelle scorse settimane ha attirato l’attenzione del pubblico, della critica e, marginalmente, del mondo politico.

Stiamo parlando di M – Il figlio del secolo, prodotta da Sky e tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati.

M – Il figlio del secolo è probabilmente, nel suo genere, l’opera più interessante che sia stata proposta negli ultimi anni in Italia al grande pubblico.

C’erano tutte le condizioni per sbagliare, se così si può dire. Si trattava di raccontare una storia complicata ed evidentemente mai del tutto risolta nel nostro paese: quella di Benito Mussolini e della sua ascesa al potere.

Chiariamo, prima di tutto, un concetto: M – Il figlio del secolo non è e non vuole essere un documentario. È una fiction ispirata a un romanzo. Storico, sì, ma pur sempre un romanzo. Gli spettatori politicizzati o semplicemente più ferrati sull’argomento troveranno senz’altro imprecisioni o lacune ma, in realtà, non si tratta mai di mancanze troppo gravi, perché, fondamentalmente, è stato detto e descritto tutto ciò che era essenziale per la comprensione degli eventi.

Di solito, quando si parla del fascismo, della sua origine e della sua evoluzione, lo si fa con gli strumenti e con le griglie interpretative della storiografia, della politica, della sociologia. In questo caso, invece, i fatti vengono narrati con un approccio drammaturgico e dei linguaggi a dir poco inaspettati.

Quello che davvero colpisce, infatti, è il modo con il quale viene raccontata la storia personale di Mussolini, una storia che si intreccia inevitabilmente con quella del paese, una dimensione privata e politica allo stesso tempo.

Intanto, partiamo dalla regia. Joe Wright, che nella sua carriera ha diretto – tra le altre cose – Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, L’ora più buia e, per quanto riguarda la televisione, Carlo II il potere della passione e un episodio di Black Mirror, ha svecchiato il racconto del fascismo con un montaggio dai ritmi frenetici, una fotografia cupa che a volte richiama atmosfere da fumetto e un’ambientazione sempre claustrofobica. La sceneggiatura, curata da Stefano Bises e Davide Serino, è ricchissima di spunti e descrizioni che servono a delineare i profili psicologici dei tanti personaggi che animano la serie. Per le musiche non ci si è limitati al repertorio d’epoca o a qualcosa che richiamasse le sonorità dei primi del Novecento. Tutt’altro. Per quanto assurdo possa sembrare, in una serie che parla del fascismo, hanno affidato a Tom Rowlands dei Chemical Brothers il compito di accompagnare con la musica elettronica lo sviluppo narrativo nei suoi momenti più surreali e grotteschi con l’eccellente risultato di rendere il tutto incredibilmente fresco e moderno.

Dell’immenso Luca Marinelli si è detto molto. Lui stesso ha confessato, nel dichiararsi orgogliosamente antifascista, di aver provato un enorme disagio nel vestire i panni di Mussolini. Gli crediamo, e di certo non lo sfottiamo come ha fatto qualche giornalista di destra e, soprattutto, a corto di argomenti. Marinelli non lo sfottiamo perché è stato semplicemente bravissimo nel rendere credibile un personaggio così complesso. Una caricatura che non deforma ma che, al contrario, sottolinea i tratti più autentici del duce del fascismo. Tutto il cast, a dire il vero, è stato all’altezza: una menzione particolare la meritano, tra gli altri, Benedetta Cimatti che ha interpretato Rachele Mussolini e Francesco Russo nel ruolo di Cesare Rossi.

Un linguaggio moderno e credibile, dicevamo, a partire dalla scelta di mantenere le cadenze regionali con inserti di vero e proprio dialetto in alcuni dialoghi, così come la frequentissima rottura della quarta parete con la quale Marinelli-Mussolini si rivolge al pubblico per chiarire i suoi pensieri, svelare il suo doppiogiochismo, commentare quello che gli succede. Guardare questa serie è sorprendente e, in più occasioni, disturbante. Mussolini è un istrione, una maschera tragica e comica allo stesso tempo, e quasi ci sentiamo in colpa – di tanto in tanto – quando questa maschera ci strappa addirittura un sorriso. Ed è un senso di colpa legato non tanto alla conoscenza che ciascuno di noi può avere del personaggio o della storia, quanto a quello che ci viene continuamente proposto con brutale efficacia: una violenza feroce e parossistica restituita dalla concretezza di scene ai limiti dello splatter o da immagini oniriche che però non perdono mai il contatto con la realtà.

Uno dei meriti di M – Il figlio del secolo è che il fascismo viene finalmente riportato alla sua essenza: un movimento violento, nato dalla violenza e imposto con la violenza. Al di là di tutte le considerazioni e le analisi storiche, sociali e politiche che sono state fatte e che si continueranno a fare, sul perché – a un certo punto – l’Italia si consegnò a Mussolini, con questa serie viene demolita quella falsa credenza secondo la quale, dopo tutto, i fascisti non erano poi così cattivi (meno che mai paragonabili ai nazisti) o che Mussolini altro non era che una specie di innocuo pagliaccio.

Ebbene, questo “pagliaccio” era un opportunista, era disposto a tutto pur di prendere il potere, era un narcisista, un invidioso, un maschio tossico che trattava malissimo le donne (a partire da sua moglie); era un insicuro, un bugiardo, un individuo senza alcun senso dell’onore. Ma non era uno stupido e seppe fiutare l’aria: «Sono come le bestie, sento il tempo che viene». Quando si prepara a riscuotere gli onori di un teatro gremito, poco prima di recarsi a Roma per ricevere dal re l’incarico di primo ministro, Marinelli-Mussolini ci spiega chi davvero sono i “pagliacci” in politica. Sono quelli che noi non capiamo ma questo è irrilevante: sguardo fisso in camera, pollice su, e una frase che suona tanto famigliare quanto sinistra: «Make Italy Great Again».

Qui sta il grande pregio di questa serie: nel raccontarci l’incubo del fascismo con un linguaggio comprensibile, M – Il figlio del secolo ci parla di noi, della società di oggi, delle dinamiche e dei protagonisti che – mutatis mutandis – si ripropongono e si attualizzano, così uguali e così diversi, in Italia e nel mondo.

C’è una cosa che dovremmo imparare dal Mussolini protagonista della serie: la capacità di sentire il tempo che viene e agire di conseguenza. Per smascherare i pagliacci e fermare le bestie.

Alberto La Via

L'articolo M – il figlio del secolo proviene da .

Uno schermo che siamo noi

La ripresa di Cinema Cielo di Danio Manfredini

È doveroso tracciare un bilancio di qualcosa che non succede tanto spesso nella vita di un semplice appassionato di teatro come me, quando si trova a sedersi sulle poltrone delle sale teatrali italiche da ormai circa mezzo secolo, se non erra la sua memoria: sto parlando di tornare a vedere, per addirittura la terza volta, uno spettacolo di un importante attore ed autore italiano, la ripresa di un pezzo di storia del nostro teatro contemporaneo, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini. Spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel lontano 2004, da me visto nella sua prima apparizione, dopo l’anteprima al festival di Santarcangelo nel 2003, quando fu presentato in quella stagione teatrale all’allora Elfo di Milano, adesso Teatro Menotti.

L’impressione all’epoca fu devastante, non solo per me: ricordo benissimo le decine di minuti di applausi scroscianti fatte da spettatori che per la maggior parte – me compreso – avevano le lacrime agli occhi, con Danio e gli altri tre attori costretti a ritornare in scena non so quante volte, ma l’ovazione durò tre quarti d’ora almeno, perché nessuno si decideva ad andarsene, a smettere di applaudire. Lo spettacolo, ovviamente, non è rimasto esattamente identico a quello dell’epoca, nemmeno il suo impatto è rimasto tale a quello di venti anni fa, perché i tempi sono cambiati, c’è stata di mezzo una diversa carriera e avventure diverse per i quattro protagonisti, ma ha perso in definitiva ben poco del suo spessore poetico, attoriale, sonoro e di scrittura, anche per uno spettatore che ha attraversato tutti gli anni trascorsi durante la sua mutazione come me. Ho parlato di un livello sonoro, perché, insieme a quelli visivi e di performance attoriale, non si può in questo spettacolo mettere in secondo piano la banda sonora, ripresa direttamente dallo spettacolo originale di Sant’ Arcangelo, che non ha invece subito mutazioni, anche nella mia visione di qualche giorno fa a Sarzana, nella tournée che è adesso in corso, che lo riporterà anche nella sala dove l’ho visto la prima volta.

In Cinema Cielo lo spettatore trova in scena la sala dell’omonimo reale storico cinema a luci rosse di Milano, un tempo sito in viale Premuda: si trova davanti le poltrone, alcune occupate da dei manichini, attraversate da diversi personaggi che vivono la loro esistenza estrema alla ricerca di piacere sessuale, di un rifugio dalla vita esterna, di un’illusione d’amore, mentre scorre un film sullo schermo che però siamo anche noi, lì seduti in platea ad osservare loro, come guardoni osservati dai personaggi che guardano verso di noi; un microcosmo allucinato, ma disperatamente poetico. Oltre a vedere possiamo ascoltare il sonoro di diverse voci fuori campo che appartengono a questa storia, più la banda sonora di un film immaginario che i personaggi guardano e che segue la trama di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, un testo da cui Danio diversi anni dopo Cinema Cielo ha tratto anche un bellissimo reading allietato dalla visione dei suoi disegni; tra l’altro questo spettacolo, adesso, si chiude con la visione di un disegno di Danio che appare sul sipario alla fine, là dove si vede all’inizio la foto del vero Cinema Cielo. C’è però differenza tra le avventure di Divine del romanzo di Genet, e quelle del travestito missionario dell’amore, interpretato da Danio sul palco che si muove con le sue alucce su dei tacchi alti.

Divine, Notre Dame de Fleurs, le loro amiche/amici proseguono la loro vita fuori dagli schemi normali fino alla tragedia finale e questo mondo altro viene trasceso da Genet come esemplare di una nuova e sovrumana morale, mentre la serie di avvenimenti mostrati nello spettacolo di Danio non giunge a questa dimensione di esaltazione, ma trascina tutti i personaggi in una sorta di estasi della comprensione umana che, paradossalmente, ha quasi del mistico, specialmente nelle avventure sessuali del travestito, narrate però nel suo dialogare direttamente con Gesù, che appare anche (in croce) verso la fine: un Gesù di periferia, un Gesù degli ultimi che – dice questo personaggio – non ha abbastanza forza per portarci tutti nelle sue braccia, quindi non ha più la forza di salvarci.

Quindi com’è stata l’esperienza di me spettatore alla terza visione dello spettacolo, che ha ritrovato con gli attori, con un altro se stesso, attraverso i decenni, dopo esserselo portato dentro con l’intensità del ricordo, ma anche con lo sguardo cambiato col mutarsi dei corpi messi in scena, quelli veri degli attori, quelli dei manichini, quelli evocati dalle voci della narrazione di Genet, un testo che anche lo spettatore-me ha letto ed amato (molto) nella sua lontana gioventù?

Ed è qui che si consuma la riuscita di questa reprise, nel centellinare nuove emozioni, forse meno sconvolgenti, ma altrettanto poetiche, altrettanto intense e più mature, accolte in una nuova visione in cui lo spettatore guarda questo campionario di umanità e viene quasi allegoricamente a essere osservato da esso e dalla sapiente messa in scena di Manfredini, oltre che dalla recitazione antinaturalistica sua e degli altri attori, diffusa nelle parole, nei gesti della camminata dei personaggi dell’ “angelica” protagonista e di altre figure che percorrono peripateticamente i corridoi del Cinema Cielo, come in una processione allucinata, immersi in un quadro di luce, di suoni e di canzoni che lasciano il segno. Quando questa musica si dirada, si spengono gli applausi, lo spettatore se ne torna a casa, sotto la pioggia, avendo rinchiuso dentro di sé un’altra emozione e un’altra dose della poesia del teatro del Grande Danio Manfredini.

Falco Ranuli


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