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crisi climatica

Un nuovo Manifesto di Ventotene?

Lo sguardo sulla Terra da un satellite artificiale ha lasciato folgorati quasi tutti gli astronauti che lo hanno potuto gettare, tanto da indurre alcuni a cambiare completamente il loro modo di pensare. La Terra, ha dichiarato uno di loro, mi è apparsa un corpo unico, tutto interconnesso, molto fragile, tormentato dagli interventi umani. Quelle prime immagini pervenute dallo spazio avevano folgorato anche James Lovelock e Lynn Margulis, spingendoli a elaborare la teoria, o la visione, di Gaia: la Terra è un unico grande organismo che si autoregola, tenuto in vita da tutto ciò che la ricopre e la popola – acqua, aria, suolo ed ecosistemi – mentre molti degli interventi umani ne sono la malattia. E’ la verità dell’Antropocene, l’era della trasformazione della realtà fisica della Terra, ma anche della sua devastazione, da parte della specie umana.

Niente ci avvicina alla Terra più di quello sguardo da lontano. Per questo quelle immagini andrebbero mostrate, illustrate, commentate e approfondite il più spesso possibile nelle scuole, sui media e in ogni sede del discorso pubblico, perché parlano più e meglio di qualsiasi teoria e ne sono premesse e complementi indispensabili.

Con la crisi climatica e ambientale ci stiamo avvicinando a grandi passi all’orlo di un baratro da cui non si torna indietro. Molti ne sono consapevoli, ma pochi (e tra questi la quasi totalità dell’establishment politico, finanziario, industriale e dei media di tutto il mondo) trovano la voglia, la forza o la capacità di misurarsi con il problema. Molti altri abitanti della Terra ne percepiscono il rischio in modo indistinto e irriflesso a partire da quanto sta cambiando sotto i loro occhi: non solo il clima, soprattutto quando sono vittime di eventi metereologici estremi, ma anche “la natura”, il vivente e persino l’ambiente costruito e manomesso. Pochi ne sono realmente all’oscuro. A spingere il carro dell’indifferenza è per lo più l’attaccamento ad abitudini o privilegi a cui non si sa rinunciare, ma soprattutto la paura di rimanere soli e indifesi, molto più di una vera adesione alle tesi di coloro che hanno fatto del negazionismo climatico una professione, per lo più ben retribuita dall’industria del petrolio e affini. Ma nessuno, comunque, sembra vedere nella guerra, nelle tante guerre in corso, un acceleratore micidiale della crisi climatica e ambientale, e con essa, e per essa, anche della nostra umanità.

Per noi che invece siamo consapevoli della minaccia esistenziale (è una parola di moda) rappresentata dalla crisi climatica e da tutto ciò che ne consegue, la guerra è il culmine e il punto di approdo di un modo di agire e pensare diffuso, indotto dai poteri dominanti, che da decenni hanno consapevolmente deciso di sacrificare la salvaguardia della nostra vita su questo pianeta all’imperativo della “crescita” del prodotto interno lordo (il PIL); che altro non è che ciò che Marx, e tanti con lui, chiamavano – e ora non chiamano più – “accumulazione del capitale”.

Quindi, tutto ok per quanto riguarda la decarbonizzazione, purché non intralci la crescita, anzi, purché contribuisca, in tutto o in parte, ad alimentarla. Se no, lasciamola perdere! Così è stato lungo tutta la trentennale sequenza delle CoP per l’attuazione dell’Accordo Quadro sul Clima, che hanno continuato a riunire ogni anno decine e decine di migliaia di “addetti ai lavori” senza mai definire né imporre delle misure efficaci, e avvolgendo invece tutto in un velo di ipocrisia. Trump, con il suo negazionismo climatico a base ostentatamente affaristica e antiscientifica, non ha fatto che accelerare la fuga dalla decarbonizzazione delle tante banche, imprese e istituzioni che vi si erano – a parole – impegnate, ma che, fiutando l’aria, avevano già imboccato la propria ritirata anche prima del suo ritorno al governo degli Stati Uniti.

Ma la guerra in Ucraina, come le altre in corso, avrebbe dovuto far riflettere: sostenerle, in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo, è la negazione assoluta di ogni aspirazione, progetto o ipotesi di conversione ecologica. Perché sotto il cappello della conversione ecologica si raccoglie tutto ciò che risulta condizione o conseguenza di una transizione energetica effettiva: pace, ambiente, diritto alla vita, dignità, democrazia, decentramento, eguaglianza, salute, istruzione, mentre la guerra, con il suo consumo di combustibili e materiali, l’inquinamento di suolo, aria e acque, la devastazione di edifici, impianti, strade, ponti, macchinari, la distruzione di vite e di esistenze, il comando che non può essere discusso, è la negazione di tutte quelle cose.

Ma quelle distruzioni non sono forse anche un arresto della crescita, dell’accumulazione del capitale, dell’economia? No: accumulazione del capitale non è la stessa cosa che capitale accumulato. La prima è un processo, il motore dello sviluppo capitalistico e della società che esso modella, il secondo è uno stock di beni che può anche essere azzerato, purché la prima non si interrompa, anche ricominciando da capo. Così la produzione bellica, per sostituire, integrare, accrescere le armi impiegate o distrutte in guerra può alimentare la crescita al posto delle industrie che non lo fanno più, come quella dell’auto, o non possono essere attive sotto le bombe, come quella delle costruzioni. Dunque, anche per l’Europa la guerra non è un’alternativa alla crescita, come lo è invece alla conversione ecologica, anzi, ne sta diventando il supporto. Anche per questo, nei tre anni della guerra in Ucraina, non c’è stata una sola iniziativa o un solo cenno di mediazione da parte dell’Unione Europea o di uno dei suoi Stati membri.

Non possiamo più, se mai l’abbiamo fatto, continuare ad affidarci a coloro che hanno da tempo imboccato quella strada; la loro cultura, i loro interessi, le loro abitudini, la loro ignoranza vanno tutte in quella direzione. Né possiamo contare sulle divergenze tra i Governi degli Stati europei per un’inversione di rotta. Ci vuole un taglio netto tra chi sta ai vertici ed è responsabile di quella deriva e tutti coloro che si ritrovano alla base della piramide sociale e vorrebbero vivere in un mondo diverso e senza guerre.

Il percorso per invertire rotta passa attraverso il ritiro della delega concessa a Stati e Governi, che peraltro l’hanno da tempo ceduta, a loro volta, alla finanza internazionale. E lo sviluppo dell’iniziativa di base non può darsi che abbandonando l’ossessione dei confini da “difendere” dai migranti e da nemici costruiti ad arte, per lo più con la menzogna.

Il confederalismo democratico del Rojava, multietnico, egualitario, partecipato e femminista, un processo in corso, ma forse anche la constatazione che l’obiettivo dei due Stati in Palestina è ormai irrealizzabile, e che l’unica soluzione prospettabile, un sogno a venire, certamente “a lungo termine”, è la convivenza, su un piede di parità, di due comunità diverse in un unico territorio che non sia più uno Stato, alludono entrambe alla direzione che dovrebbe imboccare una rifondazione dell’Europa orientata non alla guerra ma alla conversione ecologica.

Di fronte ai venti di guerra che stanno investendo l’Europa, occorre un ripensamento radicale come quello che oltre ottant’anni fa, nel pieno dell’offensiva nazifascista, aveva indotto tre militanti imprigionati e isolati in uno sperduto angolo dell’Europa a concepirne la rinascita in una visione che allora sembrava assurda. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di non essere solo in tre, ma molti di più, di non essere prigionieri, ma ancora liberi di circolare e confrontarci e di non essere già in piena guerra mondiale, ma di poterla ancora fermare. Forse è arrivato il momento di redigere insieme un nuovo “Manifesto di Ventotene” o qualcosa di analogo, adattato al nostro tempo, per prospettare una rinascita dal basso dell’Europa tenendo ferma la rotta della conversione ecologica. Può sembrare un’utopia assurda, ma certo non più pazza di quella che aveva ispirato i Tre di Ventotene.

 

Guido Viale

Ultima Generazione, tre processi la scorsa settimana

La scorsa settimana presso i tribunali di Firenze e Roma si sono tenute le udienze di tre processi a carico di Ultima Generazione.

Firenze – 17 marzoimbrattamento del MEF; persone coinvolte 5, capi di imputazione: art. 110 cp; art. 18 TULPS, artt. 110, 639 cp. Il giudice ha rinviato l’udienza al 19 maggio 2025

Roma – 18 marzocoloramento fontana Quattro Fiumipersone coinvolte 4, capi di imputazione: artt. 110, 112, c.1 c.p., art.  518 duodecies c. 2 c.p. Il giudice ha aggiornato il processo all’11 settembre 2025

Roma – 20 marzoblocco Tor di Quinto; persone coinvolte 10, capi di imputazione: artt. 110 e 112 c.1 c.p.; art. 340 c.1 c.2 c.p. Il giudice ha fissato la prossima udienza predibattimentale al 2 ottobre 2025

Al via la campagna “Il giusto prezzo”

L’Italia sta affrontando una crisi agricola senza precedenti. Il prezzo dell’olio, della frutta e di altri generi alimentari di base è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Dietro questi aumenti ci sono fenomeni climatici estremi come siccità, alluvioni e grandinate, che stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura italiana. Ma la crisi non colpisce solo i consumatori: anche gli agricoltori si trovano in difficoltà, schiacciati tra la crisi climatica e le logiche della grande distribuzione organizzata, che li costringe a vendere i loro prodotti a prezzi irrisori. Oggi su 100 euro di spesa solo 7 ritornano al produttore: serve un’alleanza di produttori e consumatori, entrambi vittime dell’inflazione climatica. Per affrontare questa emergenza e costruire un’alleanza tra agricoltori e famiglie italiane preoccupate per il futuro, abbiamo lanciato martedì 19 febbraio la nostra nuova campagna: “Il Giusto Prezzo”.

Cosa chiediamo?

Proteggere i raccolti: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti. Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni. Dobbiamo proteggere i raccolti e per farlo è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.

Aggiustare i prezzi: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale. Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.

Far pagare i responsabili: Chi rompe paga. Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.

Prossimi processi:

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Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web:

Ultima Generazione è una coalizione di cittadini ed è membro del network A22.

Ultima Generazione

Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via freemalaysiatoday.com

Un nuovo Manifesto di Ventotene?

Lo sguardo sulla Terra da un satellite artificiale ha lasciato folgorati quasi tutti gli astronauti che lo hanno potuto gettare, tanto da indurre alcuni a cambiare completamente il loro modo di pensare. La Terra, ha dichiarato uno di loro, mi è apparsa un corpo unico, tutto interconnesso, molto fragile, tormentato dagli interventi umani. Quelle prime immagini pervenute dallo spazio avevano folgorato anche James Lovelock e Lynn Margulis, spingendoli a elaborare la teoria, o la visione, di Gaia: la Terra è un unico grande organismo che si autoregola, tenuto in vita da tutto ciò che la ricopre e la popola – acqua, aria, suolo ed ecosistemi – mentre molti degli interventi umani ne sono la malattia. E’ la verità dell’Antropocene, l’era della trasformazione della realtà fisica della Terra, ma anche della sua devastazione, da parte della specie umana.

Niente ci avvicina alla Terra più di quello sguardo da lontano. Per questo quelle immagini andrebbero mostrate, illustrate, commentate e approfondite il più spesso possibile nelle scuole, sui media e in ogni sede del discorso pubblico, perché parlano più e meglio di qualsiasi teoria e ne sono premesse e complementi indispensabili.

Con la crisi climatica e ambientale ci stiamo avvicinando a grandi passi all’orlo di un baratro da cui non si torna indietro. Molti ne sono consapevoli, ma pochi (e tra questi la quasi totalità dell’establishment politico, finanziario, industriale e dei media di tutto il mondo) trovano la voglia, la forza o la capacità di misurarsi con il problema. Molti altri abitanti della Terra ne percepiscono il rischio in modo indistinto e irriflesso a partire da quanto sta cambiando sotto i loro occhi: non solo il clima, soprattutto quando sono vittime di eventi metereologici estremi, ma anche “la natura”, il vivente e persino l’ambiente costruito e manomesso. Pochi ne sono realmente all’oscuro. A spingere il carro dell’indifferenza è per lo più l’attaccamento ad abitudini o privilegi a cui non si sa rinunciare, ma soprattutto la paura di rimanere soli e indifesi, molto più di una vera adesione alle tesi di coloro che hanno fatto del negazionismo climatico una professione, per lo più ben retribuita dall’industria del petrolio e affini. Ma nessuno, comunque, sembra vedere nella guerra, nelle tante guerre in corso, un acceleratore micidiale della crisi climatica e ambientale, e con essa, e per essa, anche della nostra umanità.

Per noi che invece siamo consapevoli della minaccia esistenziale (è una parola di moda) rappresentata dalla crisi climatica e da tutto ciò che ne consegue, la guerra è il culmine e il punto di approdo di un modo di agire e pensare diffuso, indotto dai poteri dominanti, che da decenni hanno consapevolmente deciso di sacrificare la salvaguardia della nostra vita su questo pianeta all’imperativo della “crescita” del prodotto interno lordo (il PIL); che altro non è che ciò che Marx, e tanti con lui, chiamavano – e ora non chiamano più – “accumulazione del capitale”.

Quindi, tutto ok per quanto riguarda la decarbonizzazione, purché non intralci la crescita, anzi, purché contribuisca, in tutto o in parte, ad alimentarla. Se no, lasciamola perdere! Così è stato lungo tutta la trentennale sequenza delle CoP per l’attuazione dell’Accordo Quadro sul Clima, che hanno continuato a riunire ogni anno decine e decine di migliaia di “addetti ai lavori” senza mai definire né imporre delle misure efficaci, e avvolgendo invece tutto in un velo di ipocrisia. Trump, con il suo negazionismo climatico a base ostentatamente affaristica e antiscientifica, non ha fatto che accelerare la fuga dalla decarbonizzazione delle tante banche, imprese e istituzioni che vi si erano – a parole – impegnate, ma che, fiutando l’aria, avevano già imboccato la propria ritirata anche prima del suo ritorno al governo degli Stati Uniti.

Ma la guerra in Ucraina, come le altre in corso, avrebbe dovuto far riflettere: sostenerle, in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo, è la negazione assoluta di ogni aspirazione, progetto o ipotesi di conversione ecologica. Perché sotto il cappello della conversione ecologica si raccoglie tutto ciò che risulta condizione o conseguenza di una transizione energetica effettiva: pace, ambiente, diritto alla vita, dignità, democrazia, decentramento, eguaglianza, salute, istruzione, mentre la guerra, con il suo consumo di combustibili e materiali, l’inquinamento di suolo, aria e acque, la devastazione di edifici, impianti, strade, ponti, macchinari, la distruzione di vite e di esistenze, il comando che non può essere discusso, è la negazione di tutte quelle cose.

Ma quelle distruzioni non sono forse anche un arresto della crescita, dell’accumulazione del capitale, dell’economia? No: accumulazione del capitale non è la stessa cosa che capitale accumulato. La prima è un processo, il motore dello sviluppo capitalistico e della società che esso modella, il secondo è uno stock di beni che può anche essere azzerato, purché la prima non si interrompa, anche ricominciando da capo. Così la produzione bellica, per sostituire, integrare, accrescere le armi impiegate o distrutte in guerra può alimentare la crescita al posto delle industrie che non lo fanno più, come quella dell’auto, o non possono essere attive sotto le bombe, come quella delle costruzioni. Dunque, anche per l’Europa la guerra non è un’alternativa alla crescita, come lo è invece alla conversione ecologica, anzi, ne sta diventando il supporto. Anche per questo, nei tre anni della guerra in Ucraina, non c’è stata una sola iniziativa o un solo cenno di mediazione da parte dell’Unione Europea o di uno dei suoi Stati membri.

Non possiamo più, se mai l’abbiamo fatto, continuare ad affidarci a coloro che hanno da tempo imboccato quella strada; la loro cultura, i loro interessi, le loro abitudini, la loro ignoranza vanno tutte in quella direzione. Né possiamo contare sulle divergenze tra i Governi degli Stati europei per un’inversione di rotta. Ci vuole un taglio netto tra chi sta ai vertici ed è responsabile di quella deriva e tutti coloro che si ritrovano alla base della piramide sociale e vorrebbero vivere in un mondo diverso e senza guerre.

Il percorso per invertire rotta passa attraverso il ritiro della delega concessa a Stati e Governi, che peraltro l’hanno da tempo ceduta, a loro volta, alla finanza internazionale. E lo sviluppo dell’iniziativa di base non può darsi che abbandonando l’ossessione dei confini da “difendere” dai migranti e da nemici costruiti ad arte, per lo più con la menzogna.

Il confederalismo democratico del Rojava, multietnico, egualitario, partecipato e femminista, un processo in corso, ma forse anche la constatazione che l’obiettivo dei due Stati in Palestina è ormai irrealizzabile, e che l’unica soluzione prospettabile, un sogno a venire, certamente “a lungo termine”, è la convivenza, su un piede di parità, di due comunità diverse in un unico territorio che non sia più uno Stato, alludono entrambe alla direzione che dovrebbe imboccare una rifondazione dell’Europa orientata non alla guerra ma alla conversione ecologica.

Di fronte ai venti di guerra che stanno investendo l’Europa, occorre un ripensamento radicale come quello che oltre ottant’anni fa, nel pieno dell’offensiva nazifascista, aveva indotto tre militanti imprigionati e isolati in uno sperduto angolo dell’Europa a concepirne la rinascita in una visione che allora sembrava assurda. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di non essere solo in tre, ma molti di più, di non essere prigionieri, ma ancora liberi di circolare e confrontarci e di non essere già in piena guerra mondiale, ma di poterla ancora fermare. Forse è arrivato il momento di redigere insieme un nuovo “Manifesto di Ventotene” o qualcosa di analogo, adattato al nostro tempo, per prospettare una rinascita dal basso dell’Europa tenendo ferma la rotta della conversione ecologica. Può sembrare un’utopia assurda, ma certo non più pazza di quella che aveva ispirato i Tre di Ventotene.

 

Guido Viale

Ultima Generazione, tre processi la scorsa settimana

La scorsa settimana presso i tribunali di Firenze e Roma si sono tenute le udienze di tre processi a carico di Ultima Generazione.

Firenze – 17 marzoimbrattamento del MEF; persone coinvolte 5, capi di imputazione: art. 110 cp; art. 18 TULPS, artt. 110, 639 cp. Il giudice ha rinviato l’udienza al 19 maggio 2025

Roma – 18 marzocoloramento fontana Quattro Fiumipersone coinvolte 4, capi di imputazione: artt. 110, 112, c.1 c.p., art.  518 duodecies c. 2 c.p. Il giudice ha aggiornato il processo all’11 settembre 2025

Roma – 20 marzoblocco Tor di Quinto; persone coinvolte 10, capi di imputazione: artt. 110 e 112 c.1 c.p.; art. 340 c.1 c.2 c.p. Il giudice ha fissato la prossima udienza predibattimentale al 2 ottobre 2025

Al via la campagna “Il giusto prezzo”

L’Italia sta affrontando una crisi agricola senza precedenti. Il prezzo dell’olio, della frutta e di altri generi alimentari di base è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Dietro questi aumenti ci sono fenomeni climatici estremi come siccità, alluvioni e grandinate, che stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura italiana. Ma la crisi non colpisce solo i consumatori: anche gli agricoltori si trovano in difficoltà, schiacciati tra la crisi climatica e le logiche della grande distribuzione organizzata, che li costringe a vendere i loro prodotti a prezzi irrisori. Oggi su 100 euro di spesa solo 7 ritornano al produttore: serve un’alleanza di produttori e consumatori, entrambi vittime dell’inflazione climatica. Per affrontare questa emergenza e costruire un’alleanza tra agricoltori e famiglie italiane preoccupate per il futuro, abbiamo lanciato martedì 19 febbraio la nostra nuova campagna: “Il Giusto Prezzo”.

Cosa chiediamo?

Proteggere i raccolti: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti. Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni. Dobbiamo proteggere i raccolti e per farlo è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.

Aggiustare i prezzi: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale. Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.

Far pagare i responsabili: Chi rompe paga. Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.

Prossimi processi:

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Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web:

Ultima Generazione è una coalizione di cittadini ed è membro del network A22.

Ultima Generazione

Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via freemalaysiatoday.com

Un nuovo Manifesto di Ventotene?

Lo sguardo sulla Terra da un satellite artificiale ha lasciato folgorati quasi tutti gli astronauti che lo hanno potuto gettare, tanto da indurre alcuni a cambiare completamente il loro modo di pensare. La Terra, ha dichiarato uno di loro, mi è apparsa un corpo unico, tutto interconnesso, molto fragile, tormentato dagli interventi umani. Quelle prime immagini pervenute dallo spazio avevano folgorato anche James Lovelock e Lynn Margulis, spingendoli a elaborare la teoria, o la visione, di Gaia: la Terra è un unico grande organismo che si autoregola, tenuto in vita da tutto ciò che la ricopre e la popola – acqua, aria, suolo ed ecosistemi – mentre molti degli interventi umani ne sono la malattia. E’ la verità dell’Antropocene, l’era della trasformazione della realtà fisica della Terra, ma anche della sua devastazione, da parte della specie umana.

Niente ci avvicina alla Terra più di quello sguardo da lontano. Per questo quelle immagini andrebbero mostrate, illustrate, commentate e approfondite il più spesso possibile nelle scuole, sui media e in ogni sede del discorso pubblico, perché parlano più e meglio di qualsiasi teoria e ne sono premesse e complementi indispensabili.

Con la crisi climatica e ambientale ci stiamo avvicinando a grandi passi all’orlo di un baratro da cui non si torna indietro. Molti ne sono consapevoli, ma pochi (e tra questi la quasi totalità dell’establishment politico, finanziario, industriale e dei media di tutto il mondo) trovano la voglia, la forza o la capacità di misurarsi con il problema. Molti altri abitanti della Terra ne percepiscono il rischio in modo indistinto e irriflesso a partire da quanto sta cambiando sotto i loro occhi: non solo il clima, soprattutto quando sono vittime di eventi metereologici estremi, ma anche “la natura”, il vivente e persino l’ambiente costruito e manomesso. Pochi ne sono realmente all’oscuro. A spingere il carro dell’indifferenza è per lo più l’attaccamento ad abitudini o privilegi a cui non si sa rinunciare, ma soprattutto la paura di rimanere soli e indifesi, molto più di una vera adesione alle tesi di coloro che hanno fatto del negazionismo climatico una professione, per lo più ben retribuita dall’industria del petrolio e affini. Ma nessuno, comunque, sembra vedere nella guerra, nelle tante guerre in corso, un acceleratore micidiale della crisi climatica e ambientale, e con essa, e per essa, anche della nostra umanità.

Per noi che invece siamo consapevoli della minaccia esistenziale (è una parola di moda) rappresentata dalla crisi climatica e da tutto ciò che ne consegue, la guerra è il culmine e il punto di approdo di un modo di agire e pensare diffuso, indotto dai poteri dominanti, che da decenni hanno consapevolmente deciso di sacrificare la salvaguardia della nostra vita su questo pianeta all’imperativo della “crescita” del prodotto interno lordo (il PIL); che altro non è che ciò che Marx, e tanti con lui, chiamavano – e ora non chiamano più – “accumulazione del capitale”.

Quindi, tutto ok per quanto riguarda la decarbonizzazione, purché non intralci la crescita, anzi, purché contribuisca, in tutto o in parte, ad alimentarla. Se no, lasciamola perdere! Così è stato lungo tutta la trentennale sequenza delle CoP per l’attuazione dell’Accordo Quadro sul Clima, che hanno continuato a riunire ogni anno decine e decine di migliaia di “addetti ai lavori” senza mai definire né imporre delle misure efficaci, e avvolgendo invece tutto in un velo di ipocrisia. Trump, con il suo negazionismo climatico a base ostentatamente affaristica e antiscientifica, non ha fatto che accelerare la fuga dalla decarbonizzazione delle tante banche, imprese e istituzioni che vi si erano – a parole – impegnate, ma che, fiutando l’aria, avevano già imboccato la propria ritirata anche prima del suo ritorno al governo degli Stati Uniti.

Ma la guerra in Ucraina, come le altre in corso, avrebbe dovuto far riflettere: sostenerle, in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo, è la negazione assoluta di ogni aspirazione, progetto o ipotesi di conversione ecologica. Perché sotto il cappello della conversione ecologica si raccoglie tutto ciò che risulta condizione o conseguenza di una transizione energetica effettiva: pace, ambiente, diritto alla vita, dignità, democrazia, decentramento, eguaglianza, salute, istruzione, mentre la guerra, con il suo consumo di combustibili e materiali, l’inquinamento di suolo, aria e acque, la devastazione di edifici, impianti, strade, ponti, macchinari, la distruzione di vite e di esistenze, il comando che non può essere discusso, è la negazione di tutte quelle cose.

Ma quelle distruzioni non sono forse anche un arresto della crescita, dell’accumulazione del capitale, dell’economia? No: accumulazione del capitale non è la stessa cosa che capitale accumulato. La prima è un processo, il motore dello sviluppo capitalistico e della società che esso modella, il secondo è uno stock di beni che può anche essere azzerato, purché la prima non si interrompa, anche ricominciando da capo. Così la produzione bellica, per sostituire, integrare, accrescere le armi impiegate o distrutte in guerra può alimentare la crescita al posto delle industrie che non lo fanno più, come quella dell’auto, o non possono essere attive sotto le bombe, come quella delle costruzioni. Dunque, anche per l’Europa la guerra non è un’alternativa alla crescita, come lo è invece alla conversione ecologica, anzi, ne sta diventando il supporto. Anche per questo, nei tre anni della guerra in Ucraina, non c’è stata una sola iniziativa o un solo cenno di mediazione da parte dell’Unione Europea o di uno dei suoi Stati membri.

Non possiamo più, se mai l’abbiamo fatto, continuare ad affidarci a coloro che hanno da tempo imboccato quella strada; la loro cultura, i loro interessi, le loro abitudini, la loro ignoranza vanno tutte in quella direzione. Né possiamo contare sulle divergenze tra i Governi degli Stati europei per un’inversione di rotta. Ci vuole un taglio netto tra chi sta ai vertici ed è responsabile di quella deriva e tutti coloro che si ritrovano alla base della piramide sociale e vorrebbero vivere in un mondo diverso e senza guerre.

Il percorso per invertire rotta passa attraverso il ritiro della delega concessa a Stati e Governi, che peraltro l’hanno da tempo ceduta, a loro volta, alla finanza internazionale. E lo sviluppo dell’iniziativa di base non può darsi che abbandonando l’ossessione dei confini da “difendere” dai migranti e da nemici costruiti ad arte, per lo più con la menzogna.

Il confederalismo democratico del Rojava, multietnico, egualitario, partecipato e femminista, un processo in corso, ma forse anche la constatazione che l’obiettivo dei due Stati in Palestina è ormai irrealizzabile, e che l’unica soluzione prospettabile, un sogno a venire, certamente “a lungo termine”, è la convivenza, su un piede di parità, di due comunità diverse in un unico territorio che non sia più uno Stato, alludono entrambe alla direzione che dovrebbe imboccare una rifondazione dell’Europa orientata non alla guerra ma alla conversione ecologica.

Di fronte ai venti di guerra che stanno investendo l’Europa, occorre un ripensamento radicale come quello che oltre ottant’anni fa, nel pieno dell’offensiva nazifascista, aveva indotto tre militanti imprigionati e isolati in uno sperduto angolo dell’Europa a concepirne la rinascita in una visione che allora sembrava assurda. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di non essere solo in tre, ma molti di più, di non essere prigionieri, ma ancora liberi di circolare e confrontarci e di non essere già in piena guerra mondiale, ma di poterla ancora fermare. Forse è arrivato il momento di redigere insieme un nuovo “Manifesto di Ventotene” o qualcosa di analogo, adattato al nostro tempo, per prospettare una rinascita dal basso dell’Europa tenendo ferma la rotta della conversione ecologica. Può sembrare un’utopia assurda, ma certo non più pazza di quella che aveva ispirato i Tre di Ventotene.

 

Guido Viale

Ultima Generazione, tre processi la scorsa settimana

La scorsa settimana presso i tribunali di Firenze e Roma si sono tenute le udienze di tre processi a carico di Ultima Generazione.

Firenze – 17 marzoimbrattamento del MEF; persone coinvolte 5, capi di imputazione: art. 110 cp; art. 18 TULPS, artt. 110, 639 cp. Il giudice ha rinviato l’udienza al 19 maggio 2025

Roma – 18 marzocoloramento fontana Quattro Fiumipersone coinvolte 4, capi di imputazione: artt. 110, 112, c.1 c.p., art.  518 duodecies c. 2 c.p. Il giudice ha aggiornato il processo all’11 settembre 2025

Roma – 20 marzoblocco Tor di Quinto; persone coinvolte 10, capi di imputazione: artt. 110 e 112 c.1 c.p.; art. 340 c.1 c.2 c.p. Il giudice ha fissato la prossima udienza predibattimentale al 2 ottobre 2025

Al via la campagna “Il giusto prezzo”

L’Italia sta affrontando una crisi agricola senza precedenti. Il prezzo dell’olio, della frutta e di altri generi alimentari di base è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Dietro questi aumenti ci sono fenomeni climatici estremi come siccità, alluvioni e grandinate, che stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura italiana. Ma la crisi non colpisce solo i consumatori: anche gli agricoltori si trovano in difficoltà, schiacciati tra la crisi climatica e le logiche della grande distribuzione organizzata, che li costringe a vendere i loro prodotti a prezzi irrisori. Oggi su 100 euro di spesa solo 7 ritornano al produttore: serve un’alleanza di produttori e consumatori, entrambi vittime dell’inflazione climatica. Per affrontare questa emergenza e costruire un’alleanza tra agricoltori e famiglie italiane preoccupate per il futuro, abbiamo lanciato martedì 19 febbraio la nostra nuova campagna: “Il Giusto Prezzo”.

Cosa chiediamo?

Proteggere i raccolti: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti. Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni. Dobbiamo proteggere i raccolti e per farlo è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.

Aggiustare i prezzi: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale. Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.

Far pagare i responsabili: Chi rompe paga. Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.

Prossimi processi:

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Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web:

Ultima Generazione è una coalizione di cittadini ed è membro del network A22.

Ultima Generazione

Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via freemalaysiatoday.com

Un nuovo Manifesto di Ventotene?

Lo sguardo sulla Terra da un satellite artificiale ha lasciato folgorati quasi tutti gli astronauti che lo hanno potuto gettare, tanto da indurre alcuni a cambiare completamente il loro modo di pensare. La Terra, ha dichiarato uno di loro, mi è apparsa un corpo unico, tutto interconnesso, molto fragile, tormentato dagli interventi umani. Quelle prime immagini pervenute dallo spazio avevano folgorato anche James Lovelock e Lynn Margulis, spingendoli a elaborare la teoria, o la visione, di Gaia: la Terra è un unico grande organismo che si autoregola, tenuto in vita da tutto ciò che la ricopre e la popola – acqua, aria, suolo ed ecosistemi – mentre molti degli interventi umani ne sono la malattia. E’ la verità dell’Antropocene, l’era della trasformazione della realtà fisica della Terra, ma anche della sua devastazione, da parte della specie umana.

Niente ci avvicina alla Terra più di quello sguardo da lontano. Per questo quelle immagini andrebbero mostrate, illustrate, commentate e approfondite il più spesso possibile nelle scuole, sui media e in ogni sede del discorso pubblico, perché parlano più e meglio di qualsiasi teoria e ne sono premesse e complementi indispensabili.

Con la crisi climatica e ambientale ci stiamo avvicinando a grandi passi all’orlo di un baratro da cui non si torna indietro. Molti ne sono consapevoli, ma pochi (e tra questi la quasi totalità dell’establishment politico, finanziario, industriale e dei media di tutto il mondo) trovano la voglia, la forza o la capacità di misurarsi con il problema. Molti altri abitanti della Terra ne percepiscono il rischio in modo indistinto e irriflesso a partire da quanto sta cambiando sotto i loro occhi: non solo il clima, soprattutto quando sono vittime di eventi metereologici estremi, ma anche “la natura”, il vivente e persino l’ambiente costruito e manomesso. Pochi ne sono realmente all’oscuro. A spingere il carro dell’indifferenza è per lo più l’attaccamento ad abitudini o privilegi a cui non si sa rinunciare, ma soprattutto la paura di rimanere soli e indifesi, molto più di una vera adesione alle tesi di coloro che hanno fatto del negazionismo climatico una professione, per lo più ben retribuita dall’industria del petrolio e affini. Ma nessuno, comunque, sembra vedere nella guerra, nelle tante guerre in corso, un acceleratore micidiale della crisi climatica e ambientale, e con essa, e per essa, anche della nostra umanità.

Per noi che invece siamo consapevoli della minaccia esistenziale (è una parola di moda) rappresentata dalla crisi climatica e da tutto ciò che ne consegue, la guerra è il culmine e il punto di approdo di un modo di agire e pensare diffuso, indotto dai poteri dominanti, che da decenni hanno consapevolmente deciso di sacrificare la salvaguardia della nostra vita su questo pianeta all’imperativo della “crescita” del prodotto interno lordo (il PIL); che altro non è che ciò che Marx, e tanti con lui, chiamavano – e ora non chiamano più – “accumulazione del capitale”.

Quindi, tutto ok per quanto riguarda la decarbonizzazione, purché non intralci la crescita, anzi, purché contribuisca, in tutto o in parte, ad alimentarla. Se no, lasciamola perdere! Così è stato lungo tutta la trentennale sequenza delle CoP per l’attuazione dell’Accordo Quadro sul Clima, che hanno continuato a riunire ogni anno decine e decine di migliaia di “addetti ai lavori” senza mai definire né imporre delle misure efficaci, e avvolgendo invece tutto in un velo di ipocrisia. Trump, con il suo negazionismo climatico a base ostentatamente affaristica e antiscientifica, non ha fatto che accelerare la fuga dalla decarbonizzazione delle tante banche, imprese e istituzioni che vi si erano – a parole – impegnate, ma che, fiutando l’aria, avevano già imboccato la propria ritirata anche prima del suo ritorno al governo degli Stati Uniti.

Ma la guerra in Ucraina, come le altre in corso, avrebbe dovuto far riflettere: sostenerle, in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo, è la negazione assoluta di ogni aspirazione, progetto o ipotesi di conversione ecologica. Perché sotto il cappello della conversione ecologica si raccoglie tutto ciò che risulta condizione o conseguenza di una transizione energetica effettiva: pace, ambiente, diritto alla vita, dignità, democrazia, decentramento, eguaglianza, salute, istruzione, mentre la guerra, con il suo consumo di combustibili e materiali, l’inquinamento di suolo, aria e acque, la devastazione di edifici, impianti, strade, ponti, macchinari, la distruzione di vite e di esistenze, il comando che non può essere discusso, è la negazione di tutte quelle cose.

Ma quelle distruzioni non sono forse anche un arresto della crescita, dell’accumulazione del capitale, dell’economia? No: accumulazione del capitale non è la stessa cosa che capitale accumulato. La prima è un processo, il motore dello sviluppo capitalistico e della società che esso modella, il secondo è uno stock di beni che può anche essere azzerato, purché la prima non si interrompa, anche ricominciando da capo. Così la produzione bellica, per sostituire, integrare, accrescere le armi impiegate o distrutte in guerra può alimentare la crescita al posto delle industrie che non lo fanno più, come quella dell’auto, o non possono essere attive sotto le bombe, come quella delle costruzioni. Dunque, anche per l’Europa la guerra non è un’alternativa alla crescita, come lo è invece alla conversione ecologica, anzi, ne sta diventando il supporto. Anche per questo, nei tre anni della guerra in Ucraina, non c’è stata una sola iniziativa o un solo cenno di mediazione da parte dell’Unione Europea o di uno dei suoi Stati membri.

Non possiamo più, se mai l’abbiamo fatto, continuare ad affidarci a coloro che hanno da tempo imboccato quella strada; la loro cultura, i loro interessi, le loro abitudini, la loro ignoranza vanno tutte in quella direzione. Né possiamo contare sulle divergenze tra i Governi degli Stati europei per un’inversione di rotta. Ci vuole un taglio netto tra chi sta ai vertici ed è responsabile di quella deriva e tutti coloro che si ritrovano alla base della piramide sociale e vorrebbero vivere in un mondo diverso e senza guerre.

Il percorso per invertire rotta passa attraverso il ritiro della delega concessa a Stati e Governi, che peraltro l’hanno da tempo ceduta, a loro volta, alla finanza internazionale. E lo sviluppo dell’iniziativa di base non può darsi che abbandonando l’ossessione dei confini da “difendere” dai migranti e da nemici costruiti ad arte, per lo più con la menzogna.

Il confederalismo democratico del Rojava, multietnico, egualitario, partecipato e femminista, un processo in corso, ma forse anche la constatazione che l’obiettivo dei due Stati in Palestina è ormai irrealizzabile, e che l’unica soluzione prospettabile, un sogno a venire, certamente “a lungo termine”, è la convivenza, su un piede di parità, di due comunità diverse in un unico territorio che non sia più uno Stato, alludono entrambe alla direzione che dovrebbe imboccare una rifondazione dell’Europa orientata non alla guerra ma alla conversione ecologica.

Di fronte ai venti di guerra che stanno investendo l’Europa, occorre un ripensamento radicale come quello che oltre ottant’anni fa, nel pieno dell’offensiva nazifascista, aveva indotto tre militanti imprigionati e isolati in uno sperduto angolo dell’Europa a concepirne la rinascita in una visione che allora sembrava assurda. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di non essere solo in tre, ma molti di più, di non essere prigionieri, ma ancora liberi di circolare e confrontarci e di non essere già in piena guerra mondiale, ma di poterla ancora fermare. Forse è arrivato il momento di redigere insieme un nuovo “Manifesto di Ventotene” o qualcosa di analogo, adattato al nostro tempo, per prospettare una rinascita dal basso dell’Europa tenendo ferma la rotta della conversione ecologica. Può sembrare un’utopia assurda, ma certo non più pazza di quella che aveva ispirato i Tre di Ventotene.

 

Guido Viale