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Dall'Italia

Stato di diritto con tribunali speciali

Da oltre un anno assistiamo sgomenti all’ennesimo genocidio della storia umana contro la popolazione inerme di Gaza e Cisgiordania. Secondo il ministero della salute palestinese, dall’8 ottobre 2023 al 19 gennaio 2025, le persone morte sono state 46.913 (di cui circa il 60% donne, anziani e bambini) e 110.750 quelle ferite. A questi si aggiungano le 186.000 vittime indirette causate dalla guerra, una infinità di persone traumatizzate psicologicamente, soprattutto giovanissime e infanti. Oltre a un elevato numero di dispersi ancora sotto le macerie. Dati non definitivi, purtroppo.

Un anno e mezzo di sistematica distruzione, ha privato il territorio di Gaza di qualsiasi risorsa e infrastruttura indispensabile alla sopravvivenza. Un vile blocco degli aiuti umanitari alla popolazione si è protratto per molti mesi. E’ recentissimo l’avvio dello scambio di prigionieri politici e ostaggi, sotto l’egida di una fragile tregua costantemente in pericolo a causa di azioni e reazioni belliche da tutte le parti.

La devastazione provocata dai bombardamenti israeliani, ha dato linfa alle solite speculazioni imprenditoriali. Le motivazioni addotte da Israele di “lotta al terrorismo” e “diritto alla difesa” hanno anche permesso agli USA di testare nuove strategie di offese diplomatiche.

Questa guerra di annichilimento ha toccato la sensibilità della società civile in diversi Paesi, trasformando rapidamente l’ondata di sdegno in un forte movimento di solidarietà verso il popolo palestinese.

In Italia, il tentativo di molti mass-media e forze politiche di screditare il movimento “pro-Pal” e la tiepida opposizione hanno permesso al governo di reprimere impunemente ogni espressione di dissenso popolare. Non soltanto per imprimere alla politica interna un sempre maggiore autoritarismo anti libertario di stampo neofascista, ma anche per difendere gli interessi delle lobby impegnate nella cosiddetta “economia di guerra”. Inoltre l’azione di governo ha dimostrato una acquiescente obbedienza al più becero imperialismo made in USA (e quindi anche made in Israele).

Questa sudditanza appare chiaramente nel clima di intimidazione verso chiunque voglia scendere in piazza, con violente cariche sui manifestanti, arbitrari fermi di polizia, fogli di via e arresti, fino a prendere corpo plasticamente nella spinosa vicenda giudiziaria di Anan Yaeesh.

Originario di Tulkarem, nella Cisgiordania occupata, Anan, 37 anni, ex-prigioniero politico di Israele, vive e lavora a L’Aquila dal 2017 come cittadino straniero sottoposto a protezione internazionale. Questo status gli è stato concesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Foggia, sulla base del Rapporto delle Nazioni Unite redatto dalla Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese.

Pur non avendo commesso reati nel territorio italiano, il 27 gennaio 2024 Anan è stato fermato dalla DIGOS con l’accusa, mossagli da Israele, di appartenere ed essere finanziatore delle Tulkarem Brigade, una formazione armata che riunirebbe giovani provenienti dalle varie fazioni della Resistenza palestinese, da Hamas a Fatah.

Malgrado non sussistano elementi a suffragio della misura cautelare, la Corte di Appello aquilana ne ha disposto comunque l’arresto temporaneo a scopo di estradizione e dal 29 gennaio 2024 Anan viene trattenuto in carcere.

Il provvedimento è risultato illegittimo secondo il diritto internazionale, lo Statuto delle Nazioni Unite, la Convenzione di Ginevra e i due Protocolli aggiuntivi, poiché basato più sui rapporti diplomatici tra Italia e Israele che non sulla giurisprudenza. Così, nel marzo 2024, la Corte d’Appello de L’Aquila ne ha decretato la revoca.

Non volendo mollare “la preda”, le autorità israeliane ne hanno richiesto l’estradizione. L’istanza è stata respinta in quanto l’ordinamento giuridico italiano non la prevede quando, come in questo caso, “vi è ragione di ritenere che l’imputato o condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori oppure a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona. L’estradizione non viene altresì concessa per reati politici, per motivi di razza, religione o nazionalità o per reati puniti all’estero con la pena di morte”.

Due giorni prima della revoca della custodia cautelare disposta dalla Corte d’Appello, Yaeesh è stato raggiunto da una nuova ordinanza di carcerazione preventiva con l’accusa di terrorismo ed è stato rinviato a giudizio insieme ai suoi coinquilini, Ali Irar e Mansour Doghmosh.

Successivamente, previo ricorso dei suoi legali (avv. Flavio Rossi Albertini e Stefania Calvanese) la Corte di Cassazione e il Tribunale della Libertà ne hanno ordinato il rilascio in attesa di processo.

Nello stesso mese lo stato israeliano ha poi ritirato la richiesta di estradizione.

Ma le peripezie giudiziarie di Anan Yaeesh sono proseguite con un terzo provvedimento di custodia cautelare dell’aprile del 2024.

A luglio 2024, per Ali Irar e Mansour Doghmosh, è stata annullata la carcerazione preventiva con rinvio in Corte d’Appello, ma la sesta sezione penale della Cassazione ha confermato, invece, la carcerazione nei confronti di Yaeesh. Misura confermata anche nell’udienza preliminare del processo a suo carico, tenutasi il 26 febbraio 2025 davanti al gup Guendalina Buccella del Tribunale de L’Aquila.

Oltre a questi avvenimenti, nella loro particolare successione e tempistica, è importante sottolineare soprattutto due passaggi compiuti dalle autorità italiane in questa vicenda.

Primo: non essendo in possesso di sufficienti elementi utili all’istruttoria processuale, gli inquirenti italiani hanno richiesto a Israele di collaborare alle investigazioni (scelta degna di nota considerando il clima a dir poco persecutorio nei confronti dei palestinesi da parte del governo israeliano).

Secondo: Anan Yaeesh si è autodefinito “resistente palestinese e comandante partigiano” e ha richiesto di non consegnare alle autorità israeliane il suo telefono, contenente informazioni in suo possesso in quanto tale. Il governo italiano ha pensato bene di fare esattamente il contrario, mettendo così a repentaglio l’incolumità sua e di altre persone in Palestina.

La coincidenza tra le richieste fatte da Israele e la tempistica dei provvedimenti giudiziari emessi dalla magistratura italiana per l’avvio di questo processo, evidenziano la spregiudicatezza con cui il potere costituito muova le pedine dell’esecutivo e del sistema giudiziario come armi repressive e persecutorie in difesa di interessi particolari e geopolitici, piuttosto che nell’interesse della giustizia stessa. Il rinvio a giudizio con l’accusa di terrorismo nei confronti di Anan Yaeesh, infatti, assomiglia molto ad un escamotage dittatoriale per ovviare al rigetto della richiesta di estradizione, nonostante le evidenti violazioni dei suoi diritti possano legittimare addirittura un processo per complicità con Israele in crimini di guerra e contro l’umanità.

L’utilizzo repressivo e persecutorio dei processi giudiziari ai danni degli oppositori politici riporta la mente a più tristi e sanguinari anni della storia d’Italia. Con le offensive reazionarie sempre più lampanti come il ddl sicurezza o la separazione delle carriere, che tendono a rafforzare e accentrare il potere, è impossibile non ravvisare i presupposti di un sistema sempre più autoritario, di una violenta escalation neofascista che tanto si ispira all’istituzione di un tribunale speciale per la difesa dello Stato.

Questa democratura potrebbe spalancare un’autostrada ad una nuova dittatura clericofascista e guerrafondaia che sarebbe difficile da contrastare, se non mediante il risveglio di una coscienza sociale critica e consapevole, un movimento che si indirizzi compatto verso la creazione di una società finalmente libertaria, inclusiva, laica, equa e mutualistica, basata su principi etici di pace e armonia tra i popoli.

‘Gnazio & Melitea

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Mentire con le statistiche: dati ISTAT e occupazione

A dicembre 2024 gli occupati, stando ai dati Istat, erano superiori a quelli di un anno prima, con un aumento di 274 mila unità e una crescita in percentuale del tasso di occupazione pari allo 0,3%. Per alcune fasce di età, specie i giovani, l’occupazione era invece in sostanziale decrescita e questo solo dato dovrebbe indurre a riflettere sul fallimento dei percorsi di formazione e orientamento, delle politiche attive in generale.

Ma si sa, da sempre, che le statistiche da sole non sono di aiuto specie se non riescono a distinguere tra occupazione stabile e precaria: pochissimi giorni di impiego annui vengono considerati alla stessa stregua di un contratto a tempo determinato pari a 3 mesi e perfino a uno indeterminato.

Ma ad onor del vero le rilevazioni di fine 2024 parlavano di piccola contrazione del lavoro autonomo, di vistoso calo del tempo determinato e ripresa dell’indeterminato quindi, alla luce di questi dati, ha forse ragione il governo Meloni a cantar vittoria?

La prima osservazione riguarda il numero degli anziani che trovano lavoro dopo averlo perso, il che induce a riflettere come la ricerca di personale specializzato da impiegare prontamente in ambito produttivo sia pur sempre l’opzione preferita ai processi, lunghi e costosi, di indirizzo, formazione e aggiornamento. Insomma, i posti di lavoro aumentano soprattutto nella fascia over 49 o tra gli under 30 dove le assunzioni presentano costi decisamente vantaggiosi per le imprese, tra sgravi fiscali, contratti di apprendistato e altro ancora.

Un po’ come accade con la mobilità nella Pubblica amministrazione, alla fine non si promuove nuova occupazione e permangono gli iniqui tetti di spesa in materia di personale che poi condannano la PA ad avere la forza lavoro più anziana, e tra le meno pagate in assoluto, della Ue.

C’è poi un’ulteriore considerazione che meriterebbe di essere studiata ossia i salari italiani che al cospetto degli altri nei paesi Ue calano da oltre 30 anni, un calo in potere di acquisto con i rinnovi contrattuali sempre al di sotto della inflazione. Dopo lustri, a forza di perdere potere di acquisto, il divario salariale italiano rispetto a quello Ue inizia a farsi preoccupante ma questa notizia non viene riportata perché non accresce la popolarità degli esecutivi.

E allora per giustificare politiche fiscali e lavorative fallimentari (la tassa piatta, la decontribuzione,    i contratti adeguati al codice Ipca che in tempi di crescita delle tariffe energetiche palesa tutti i suoi limiti) si stanziano risorse pari a un terzo della inflazione nella Pubblica amministrazione, si scambiano aumenti economici con benefit e continuo ricorso al welfare aziendale, si punta tutto sui contratti di secondo livello che rappresentano alla lunga un’arma a doppio taglio perché accrescono la produttività, alimentano le deroghe ai già inadeguati contratti nazionali e scambiano salario con servizi alle strutture private, il che alimenta la spirale dello smantellamento dei servizi pubblici.

Torniamo, per chiudere, sugli occupati ma non prima di avere evidenziato due criticità ossia l’imminente riconversione di parte dell’industria a fini di guerra che porterà certo un incremento occupazionale, come accadde negli Usa e nella Germania di un secolo fa. E ammesso, ma non concesso, che produrre armi sia una soluzione, non viene spiegato che a guadagnarci saranno non i lavoratori e le lavoratrici ma le multinazionali del settore che hanno visto crescere i loro titoli azionari del 50% in pochi mesi, a conferma che la spirale speculativa-finanziaria è complementare ai processi di militarizzazione.

Un anno fa, quando si parlava di riconversione dell’economia a fini green, analisti e statistici davano per scontato che la perdita occupazionale sarebbe stata rilevante, i cantori del nuovo mondo sono sovente poco avvezzi a fare i conti con la vita reale.

Secondo il report di Exclesior e Unioncamere “Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2024-2028)” nei prossimi tre anni i lavori più richiesti saranno quelli di alto profilo, come dirigenti, specialisti e tecnici. Ma tra numeri chiusi per l’accesso a molte facoltà universitarie, politiche attive del lavoro carenti e inefficaci, business della formazione con poche ricadute positive, siamo certi di essere capaci di rispondere positivamente a queste sfide? La tendenza degli ultimi anni, con gli stages scuola lavoro, è stata spesso quella di impiegare per settimane studenti in lavori di bassa manovalanza (sottraendoli a ore di insegnamento), quando era stata decantata una nuova era nella quale i giovanissimi avrebbero imparato un lavoro acquisendo competenze da spendere dopo il diploma. Pochi sono i posti di lavoro creati in questi anni dagli stages scuola lavoro e sovente a tempo determinato.

Chiudiamo con il rapporto tra immigrazion e occupazione: gli stranieri in Italia sono circa 2,5 milioni e rappresentano circa il 10 per cento del totale degli occupati, con un tasso di occupazione identico a quello degli autoctoni ma con innumerevoli attività lavorative meno pagate. In un paese nel quale il permesso di soggiorno è legato ad un contratto di lavoro sovente accade di accettare condizioni retributive non dignitose, ed è per questa ragione che un crescente numero di migranti oggi presenta una coscienza di classe maggiore di quella degli italiani specie nei magazzini della logistica.

Permane poi la cosiddetta disparità di genere: le donne migranti hanno tassi di occupazione (47,5%), disoccupazione (15,2%) e inattività (43,8%) sensibilmente peggiori rispetto agli uomini. Lo stesso discorso, pur con percentuali differenti, vale anche per donne e uomini italiane, sia sufficiente ricordare che i posti da coprire per gli asili nido sono pari al 15% dei bambini e delle bambine sotto 3 anni quando la media europea è sopra il 33 per cento. E a rimetterci sono soprattutto le donne alla ricerca di un impiego: qui entrano in gioco altri fattori come la inadeguatezza del welfare, fermo alle famiglie monoreddito e con una popolazione sempre più vecchia. Ma di questo, e di molto altro, parleremo in un’altra occasione.

Federico Giusti

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Edilizia scolastica. Ordinario abbandono e lotte dal basso

La situazione dell’edilizia scolastica in Italia è drammatica. Lo testimonia l’esperienza quotidiana di chi nella scuola studia e lavora, ma lo riportano anche i dati ufficiali, che non riescono a nascondere questa evidente realtà. Secondo quanto si legge nel rapporto “Ecosistema scuola 2024”, una scuola su tre ha problematiche gravi di sicurezza che riguardano questioni strutturali: impianti elettrici, solai, certificati di agibilità mancanti. Una situazione che oltretutto ribadisce il divario esistente a livello territoriale, poiché se al Nord la situazione è un po’ migliore, al Sud solo il 22,6% delle scuole ha la certificazione di agibilità. Ricordiamo che quando parliamo di certificazioni di agibilità si fa riferimento principalmente all’antincendio è all’antisismico: non stiamo parlando quindi solo di muri scrostati o pareti da ridipingere, elementi che pure sarebbero importanti, ma di questioni di ben altro rilievo per la sicurezza. E allora diamo qualche altro parametro ufficiale più specifico.

A livello nazionale, il 57,68% degli edifici scolastici è sprovvisto del certificato di prevenzione incendi e il 41,50% non ha il collaudo statico. Da notare, a proposito di quest’ultimo dato, che quasi la metà delle scuole italiane si trova in zona sismica 1 e 2.

Tra il settembre 2023 e il settembre 2024 sono stati registrati 69 episodi di crolli negli edifici scolastici, raggiungendo la punta più alta degli ultimi sette anni. Ovviamente si tratta di eventi importanti, tali da essere registrati e divulgati nelle statistiche ufficiali. Non va dimenticato infatti che le istituzioni scolastiche, strette nel ricatto del tetto di iscrizioni da raggiungere per mantenere l’ autonomia didattica e amministrativa, nascondono talvolta le varie problematiche per millantare una sicurezza ed una efficienza che spesso non c’è. I dati ufficiali sui crolli quindi, come quelli relativi alle tante problematiche occasionali che purtroppo sono la quotidiana normalità, quali allagamenti, infiltrazioni, infissi, corto circuiti etc. corrispondono esclusivamente a quanto dichiarato, e rappresentano verosimilmente un numero inferiore alla realtà dei fatti. In un quadro generale di inadeguatezza strutturale pesante, sono assai carenti infatti sia gli interventi straordinari, in carico agli enti locali- comuni per le scuole primarie e medie, province per le scuole superiori- sia gli interventi straordinari. Per non parlare di veri e propri investimenti edilizi e costruzione di edifici scolastici nuovi: qui siamo nella nebbia totale! Eppure le occasioni non sono mancate e le risorse neppure. Durante il periodo Covid le esigenze di sicurezza e di distanziamento avevano indotto a reclamare piani edilizi adeguati per la ripresa dell’attività didattica in presenza e in generale per il futuro. A dispetto di tutto ciò, le gigantesche risorse PNRR intervenute sulla situazione post Covid sono state e sono tuttora una gigantesca beffa e un’occasione di dissipazione di risorse esistenti, finalizzate esclusivamente a quello che è solo un grande business. Pochissime le risorse destinate all’edilizia, al risanamento e alla messa a norma delle scuole, così come alla costruzione di nuovi edifici. Quelle poche sono state poi ulteriormente ridotte in ragione degli aumenti dei costi dei materiali edilizi. Ci troviamo così di fronte ad una situazione paradossale in cui fiumi di denaro sono stati riservati agli ambienti di apprendimento, intesi come arredi e ambienti digitali, mentre pochissimo è andato a finanziare le esigenze di ambienti fisici e reali che restano fatiscenti

L’ennesima beffa, in ordine di tempo, è rappresentata dall’edizione “Didacta 2025”, megaevento nazionale organizzata dal Ministero Istruzione e Merito proprio in questo mese di marzo nell’ambito degli “Interventi PNRR per l’edilizia scolastica”. Ma di cemento e mattoni nemmeno l’ombra. Corsi, seminari sviluppo di linee guida per la gestione dei nuovi ambienti digitali e didattici, accordi con la Protezione civile per campus e interventi formativi che trasformino gli studenti in “ambasciatori della cultura del rischio” e che diano ai docenti una “competenza spaziale” per meglio organizzare gli spazi didattici. Ogni commento è superfluo.

Intanto gli edifici scolastici sono lasciati nel degrado e la mancanza di sicurezza è pane quotidiano. Ma c’è chi non si rassegna a questa situazione e si batte per la reale sicurezza degli ambienti di studio e di lavoro, quelli fisici e concreti. Lo fanno studenti, lavoratori della scuola, genitori.

Di seguito l’intervista ad Andrea, un genitore delle scuole Micheli Lamarmora di Livorno, in cui si sta svolgendo una protesta che per sistematicità e continuità d’intervento è diventata una vera e propria vertenza cittadina

D: Quali sono problemi della struttura scolastica frequentata dai tuoi figli?

A: I problemi non nascono certo oggi. Le scuole Micheli-Lamarmora si trovano in piazza XI maggio, in un quartiere popolare di Livorno, e sono da sempre ospitate in un edificio molto grande e storico, costruito a fine 1800, col secondo piano realizzato nei primi decenni del ‘900. Una struttura quindi che, come è logico, ha risentito degli “acciacchi” dovuti al tempo. Le consistenti infiltrazioni di acqua piovana, presenti fino dal 1990, portarono nel 2019 al crollo dei solai in 5 spazi del secondo piano, comprendenti aule, locali mensa e bagni. All’epoca l’intervento istituzionale se la cavò chiudendo le aree pericolanti e promettendo lavori a breve. L’incuria non fece che peggiorare i problemi che progressivamente si verificarano: sbriciolamenti di solai, distacchi di pezzi di intonaco dentro e fuori l’edificio, tavole di legno della mantovana para-sassi che cadevano da un’altezza di 20, 30 metri (la mantovana para-sassi era un’impalcatura fissa posta sotto il cornicione del tetto e serviva come strumento di protezione da eventuali cadute di parti del tetto, salvo poi diventare anch’essa fonte di pericolo). Tutte cose che noi genitori verificavamo senza averne informazione ufficiale. Decidemmo perciò di attivarci, visto l’immobilismo dei dirigenti comunali e scolastici, e creammo il nucleo del gruppo genitori Micheli-Lamarmora. Con il nostro ormai storico striscione “i bambini sono il futuro, mettiamoli al sicuro”, che ci ha accompagnato anche nelle mobilitazioni più recenti, organizzammo presidi sotto il Comune di Livorno, portando in piazza la nostra protesta e facendola conoscere alla cittadinanza. La nostra vertenza fu corredata da un esposto inviato alla Procura della repubblica di Livorno e ai Vigili del Fuoco in cui puntualmente riportavamo gli eventi critici della struttura. L’esposto fu vergognosamente rifiutato dalla Procura per una questione formale, ma fu preso in carico dai Vvf che fecero un’indagine da cui scaturì che l’edificio era agibile a patto che iniziassero i lavori, cosa che finalmente portò il Comune ad attivarsi. Era il 2019. Fu un trionfo per noi, una vittoria figlia della nostra determinazione che anche in quel caso fu accusata di tutto: di aver diffamato la scuola, di aver creato allarmismo inutile, addirittura di aver fatto delle segnalazioni uscendo dalle nostre competenze! La verità è che decisivo per smuovere le cose, come sempre, fu il metodo dal basso , quello che abbiamo seguito anche ora.

D: Veniamo al periodo più recente. Spiegaci le problematiche legate alla fase attuale

A: Nel febbraio 2023 viene decisa la chiusura dell’edificio scolastico per lavori di ammodernamento antisismico legati allo stanziamento di quasi 4 milioni di euro. Fu perciò avviato il progetto di moduli prefabbricati provvisori in cui collocare le classi nel parco delle mura lorenesi. I genitori furono coinvolti, portati a visitare l’area e le strutture modulari. I sopralluoghi furono soddisfacenti, considerata la provvisorietà della situazione, ma subito dopo la collocazione delle classi nei moduli i problemi sono emersi: oltre alla mancanza di suppellettili, problemi di riscaldamento e problemi di forte rumore, in quanto i divisori tra le aule sono sprovvisti di materiale insonorizzante. Un disagio generale con ripercussioni sulla didattica che abbiamo denunciato da subito, insieme alle maestre, ma che la dirigenza scolastica come al solito ha minimizzato, ricorrendo anche alle minacce verso le stesse maestre. A queste problematiche, col sopraggiungere della pioggia si sono aggiunte poi le infiltrazioni e l’umidità.

D: Quindi quali azioni avete intrapreso ?

A: Le infiltrazioni di acqua nei moduli si sono fatte sempre più consistenti col maltempo, senza che i lavori di riparazione occasionali fossero efficaci, dimostrando così l’inadeguatezza delle strutture, che pure erano state programmate e non allestite in modo improvvisato per una emergenza imprevista. Da mesi facevamo segnalazioni scontrandoci con l’ostinazione insensata dell’amministrazione comunale di Livorno nel non voler traferire le alunne e gli alunni in strutture sicure e dignitose. Il Comune di Livorno avrebbe dovuto operare diversamente, senza che noi genitori ci mobilitassimo, ma evidentemente dinamiche politiche a noi sconosciute hanno determinato una situazione di stallo insostenibile, di fatto pericolosa e insalubre per i nostri figli e anche per il personale scolastico.

Di fronte a una situazione talmente paradossale abbiamo iniziato a reagire. Ci siamo perciò nuovamente organizzati come genitori, sfruttando la rete di collegamento che avevamo dal 2019. Il gruppo di lavoro composto dalle rappresentanti di classe e dal rappresentante dei genitori al Consiglio d’Istituto ha formato una delegazione che si è recata una prima volta in Comune a inizio febbraio per evidenziare in modo forte i problemi di infiltrazione presenti nei moduli. Successivamente abbiamo avviato una raccolta firme dei genitori che ha avuto grandissima adesione, tutto questo mentre continuavamo a spingere per far fare lavori risolutivi nei moduli.

D: Quali risposte avete ricevuto?

A: Le risposte alle nostre segnalazioni sono sempre state tese a banalizzare le nostre rimostranze e ad accusarci di inutili allarmismi. Il disco che girava era sempre il solito: la scuola è sicura, è tutto sotto controllo ecc. Un comportamento quindi negazionista della realtà e da un certo punto di vista inquietante, se si pensa che stiamo parlando di bambini piccoli e che alcuni di loro sono disabili.

D: La vostra protesta poi come si è concretizzata?

A: Nonostante gli interventi sui moduli, che finalmente eravamo riusciti ad ottenere dopo molte pressioni e un oggettivo intensificarsi delle problematiche, si è verificata una forte pioggia che ha allagato ancora di più classi, corridoi, palestra e bagni. Il 24 febbraio abbiamo fatto quindi la prima chiamata ai Vigili del fuoco, i quali hanno interdetto due aule della scuola primaria (l’acqua andava direttamente su canaline e interruttori). Neanche in questo caso il Comune ha preso decisioni concrete sul da farsi, appoggiandosi sul fatto che i vigili hanno definito le strutture non soggette a crolli. Come se la prevenzione sulla sicurezza si basasse esclusivamente sui mancati crolli. In seguito a quanto accaduto e ai mancati interventi risolutivi, Il 28 febbraio abbiamo fatto quindi il primo sciopero, raccogliendo un’adesione quasi del 90%. I bambini non sono entrati a scuola, non hanno partecipato alla lezione, fuori dalla struttura è stato fatto un presidio partecipatissimo con striscioni e presenza della stampa, che ha dato molto risalto alla nostra iniziativa.

Successivamente, il 12 marzo, in seguito ad un altro nubifragio, si sono nuovamente allagati gli spazi dei moduli, ancora di più rispetto alle volte precedenti. Nuova chiamata ai Vigili del fuoco che hanno interdetto tre aule della primaria, la palestra e tre aule dell’asilo. Il Comune in questo caso non ha più potuto far finta di niente ed ha trasferito le classi dell’infanzia Lamarmora nella scuola Volano del quartiere Corea, lasciando però i bambini e le bambine della primaria nell’acquitrino dei moduli. Una decisione per noi inaccettabile che ha fatto scattare il secondo sciopero nella giornata del 13 marzo (anche in questo caso adesioni del 90%) e la manifestazione sotto il Comune di Livorno. Siamo stati immediatamente ricevuti nella sala consiliare. Un momento memorabile e bellissimo per quanti eravamo tra genitori, figlie e figli. Abbiamo riempito la sala! Dopo le parole “amichevolmente istituzionali” siamo passati ai fatti, accusando di colpevole ritardo l’interessamento comunale sugli allagamenti delle scuole. L’indignazione e la rabbia, già elevata, è salita quando -dopo il nostro intervento- le figure istituzionali insistevano nel definire la scuola sicura, affermando che la primaria non sarebbe stata trasferita col pretesto che gli alunni della primaria erano troppo numerosi. Non ci siamo scoraggiati e abbiamo scandito insieme ai nostri figli il coro “vogliamo essere trasferiti!” davanti ai rappresentanti degli enti decisori e alla stampa che ha ripreso tutto. Non sono riusciti ad invisibilizzarci. E alla fine siamo riusciti ad ottenere il trasferimento

D: Alla fine quindi c’è stato un riconoscimento del problema da parte dell’amministrazione comunale?

A: In realtà solo grazie al clamore che abbiamo provocato sono stati costretti a riconoscere il problema per intero, disponendo anche il trasferimento delle classi della primaria. E questo evidentemente è quello che ai dirigenti pesa di pù. Il 14 marzo la Dirigenza scolastica ci ha comunicato in modo laconico e senza minimamente ravvisare il nostro impegno: “viste le condizioni meteorologiche e considerato che ci sono lavori in corso da parte della ditta Interguest che incontra ostacoli per le condizioni meteorologiche avverse si comunica che con l’Amministrazione comunale si è concordato il momentaneo trasferimento delle classi in altre sedi scolastiche a partire da lunedì 17 marzo (…) si assicura altresì che la Ditta sta lavorando e continuerà a lavorare fino alla risoluzione delle criticità legate alle infiltrazioni per cui auspichiamo un rientro in tempi breve nella nostra sede di via Villa Glori.” Si è voluto approfittare dell’allerta arancione per disconoscere le vere motivazioni che hanno indotto il trasferimento. Ma noi sappiamo bene che è stata la nostra lotta, la nostra determinazione come genitori ma anche come cittadine e cittadini, che ha spostato l’elemento decisionale nelle mani del buonsenso. Cosa che dovrebbe avvenire sempre.

D: Come intendete procedere?

A: Continueremo a seguire da vicino sia la questione moduli che i lavori nella sede storica di piazza XI maggio. Il comportamento dell’Amministrazione comunale e della Dirigenza scolastica non lascia spazio a una fiducia degna di questo nome. Il trasferimento, tanto per fare un esempio, sta già chiamando a nostre nuove prese di posizione sul servizio scuolabus, che vogliono garantire solo per l’infanzia ma non per la primaria. Il nostro grado di attenzione è quindi massimo. Non cederemo neanche di un millimetro per quanto riguarda i diritti delle nostre figlie e dei nostri figli. Ci auguriamo infine che la nostra lotta ma anche la coesione e il metodo che ci sta contraddistinguendo venga seguita da altre realtà scolastiche. Una storia, la nostra, che, fra le altre cose, mostra come l’elemento istituzionale non rappresenti il modello di gestione della società adeguato, soprattutto quando le cose si fanno difficili.

Andrea Paolini e Patrizia Nesti

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Disarmiamo la guerra! Antimilitaristi contro la Città dell’Aerospazio

Torino. 23 marzo. Visita a sorpresa al cantiere della Città dell’Aerospazio in corso Marche, dove, da circa un mese sono cominciati i lavori di demolizione della palazzina 27 della ex Alenia – Aermacchi. 

Un manichino insanguinato, scritte, fumogeni, cartelli che ci ricordano le vite rubate dalle bombe, dalle armi, dalle guerre. Guerre tra potenti che si contendono risorse, potere, indifferenti alla distruzione di città, alla contaminazione dell’ambiente, al futuro negato di tanta parte di chi vive sul pianeta. 

Le macerie sono solo buoni affari per un capitalismo vorace e distruttivo che ha una sola logica, quella del profitto ad ogni costo. Uomini, donne, bambine e bambini sono solo pedine sacrificabili in un gioco terribile, che non ha altro limite se non quello imposto dalla forza di oppress e sfruttat, che si ribellano ad un ordine del mondo intollerabile. 

Mentre l’Europa – e il mondo – accelerano una folle corsa al riarmo è sempre più necessario mettersi di mezzo, inceppare gli ingranaggi, lottare contro l’industria bellica e il militarismo.

No al nuovo polo bellico di Leonardo e Politecnico! 

Non contino sulla nostra rassegnazione! 

Come gocce continueremo ad alimentare la marea che li sommergerá.

Lo dobbiamo a chi, ogni giorno, muore per le armi che si progettano e costruiscono a due passi dalle nostre case. 

Lo dobbiamo a chi viene massacrato, in Congo, in Sudan, in Ucraina, a Gaza, Siria… Lo dobbiamo a chi muore lungo le frontiere che separano i sommersi dai salvati. 

Lo dobbiamo a chi non ci sta, a chi lotta contro gli Stati, i confini, i nazionalismi. 

Non esistono popoli oppressi, perché la nozione di popolo è alla radice di ogni nazionalismo, di ogni trappola inventata dai potenti per arruolare i corpi e le coscienze. 

Noi non appoggiamo di nessun popolo, noi sosteniamo oppresse e oppressi di ogni dove.

Noi siamo fianco di chi diserta. Noi siamo disertori di tutte le guerre. 

La guerra è a due passi dalle nostre case: fermiamola!

 

Assemblea Antimilitarista

antimilitarista.to@gmail.com

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Tra REMS, carceri e CPR

Violenze e abusi di Stato

Disumano sovraffollamento, abuso di psicofarmaci, altissimi tassi di suicidio e continue violenze da parte delle guardie verso detenut3. Questo è lo scenario italiano nei CPR e nelle carceri, mentre i nuovi manicomi stanno pian piano riaprendo in forma privata, alle spalle della legge Basaglia. Signor3, vi presento il lavoro a pieno regime del governo in camicia nera e del trio della morte Meloni-Nordio-Schillaci!

Partiamo prima da alcune considerazioni generali su salute mentale e carceri. Le sottilissime e dispotiche linee delineate dalla medicina, dagli stati, dalle chiese e dalla società tra comportamento normale e anormale, criminale e legale, malvagio e retto, accettabile o no, sono tra gli strumenti oppressivi più importanti del biopotere su cui si regge gran parte del sistema in cui viviamo e contro cui gli anarchici saranno sempre scettici e antagonisti.

Negli anni il potere ha sempre cercato di definire e categorizzare gli esseri umani così da poter avere un controllo su di loro perché, se io decido cosa e chi sei, allora io ho il controllo su di te, sulla tua anima, sul tuo corpo, sulle tue azioni e pure sul tuo territorio, e sarò solo io a decidere se siano accettabili o no i tuoi comportamenti e punirti o premiarti di conseguenza. Così, questo sistema ha contribuito fortemente a mettere esseri umani gli uni contro gli altri, uomini contro donne, bianchi contro neri, cristiani contro musulmani, ecc… Queste linee oppressive definiscono i contorni e le forme delle nazioni, delle città, dei corpi, delle menti, fino ad arrivare a definire quali emozioni siano accettabili e quali no.

Così, con questo chiaro intento dell’oppressore di mettere gli esseri umani dentro scatole sempre più piccole, sia fisiche che mentali, negli anni la medicina e, in particolare, la psichiatria di Stato si è adoperata a fare la sua parte e a ridefinire sempre di più la normalità, in una narrativa tutta a favore della classe dominate. Tra gli esempi più classici e più razzisti della medicina psichiatrica abbiamo la “drapetomania” (la mania di fuggire), un presunto disturbo mentale descritto dal medico statunitense Samuel Cartwright nel 1851, caratterizzato dai continui tentativi di fuga degli schiavi afroamericani dalle coltivazioni. Davvero non ci si capacitava come queste persone volessero a tutti i costi scappare dai loro padroni! Cose da pazzi!

La psichiatria è stata sempre usata per favorire strutture di categorizzazione di tendenza razzista e fortemente politicizzata in favore del dominatore di turno. Troviamo le figure degli psichiatri militari e accademici in tutte le colonie francesi, inglesi, italiane e anche sioniste/israeliane a giustificare la violenza dell’occupazione. Apre a Betlemme il primo manicomio nel 1922 sotto il regime britannico, che introduce per la prima volta pratiche psichiatriche coercitive per studiare la mente “indigena” e i suoi presunti deficit. Nel 1948 fu la volta dell’apertura di Kfar Shaul Mental Health Center, in seguito al massacro di Deir Yassin. In questo ultimo caso, i coloni sionisti crearono una struttura psichiatrica in alcune delle abitazioni che i palestinesi dovettero abbandonare. Come le prigioni, anche gli ospedali psichiatrici sono delle priorità per poter portare avanti il progetto fascista di colonizzazione dei corpi e delle menti, sia in “pace” che in guerra.

Più o meno nello stesso periodo storico, nel 1952, prende vita in America (e poi in tutto il mondo) il mostro a quattro teste: il DSM, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (voluto da quattro grosse istituzioni americane) considerato ancora oggi la bibbia dei professionisti della salute mentale. Per intenderci, lo stesso manuale che fino al 1974 (DSM-II) considerava l’omosessualità un disturbo mentale!

Questo manuale, operando apparentemente su piani diversi, ma in realtà con scopi molto simili, in parallelo allo sviluppo e l’ampliamento continuo del Codice penale e civile negli ultimi sessant’ anni, definisce sempre di più e con maglie sempre più strette, il normale dal patologico, il permissibile dal non. Così, come il numero di reati si fa sempre più grande, aumenta anche il numero di diagnosi di salute mentale che passano da 106 nel 1952 (DSM-I), a 297 nel DSM-IV TR, fino a ben 370 con l’ultimo DSM IV TR (2022). In contemporanea, solo negli ultimi 2 anni sono stati introdotti 24 nuove fattispecie di reato penale in Italia.

Paul Goodman (psicoterapeuta anarchico) negli anni Ottanta spiegava bene che in questa società malata, alienante e oppressiva sia i crimini che i problemi di salute mentale non sono altro che due facce della stessa medaglia. Riteneva il legame tra criminalità e sintomi di salute mentale profondamente intrecciato con le circostanze sociali, sostenendo che molti giovani nel provare ad adattarsi alla disumana realtà manifestano i loro problemi attraverso comportamenti che la società spesso criminalizza, anziché capirli come reazioni ad un disagio sociale e psicologico più profondo. Ma il fattore comune determinante di tutte le problematiche di salute fisica e mentale, come pure di quelle legate ad atti “criminali”, è sempre e solo lo stesso: la povertà.

Allora, guardiamo un po’ la situazione in Italia riprendendo statistiche dell’Associazione Antigone: al momento, abbiamo circa 62.000 detenut3 su un totale di circa 48.000 posti (tutta da discutere la questione legata a come e su che basi l’ingegneria biomedico-sociale possa decidere di quanti metri quadri minimi abbia bisogno una persona per sopravvivere senza impazzire). Arriviamo a tassi di sovraffollamento anche del 184%, con una media nazionale del 145%. La corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato già più volte l’Italia, con un costo finanziario e morale. Molte persone sono convinte che senza le carceri avremmo pericolosissimi criminali in giro (al pari di Berlusconi, Trump e Netanyahu?) e invece non è così, perché moltissim3 sono in carcere per reati minori, il 33% ha pene inferiori ai 5 anni e il 70% è in attesa di giudizio. Alcune persone spesso sono in carcere in seguito a episodi isolati che non rispecchiano la loro vera natura o carattere. Per non parlare poi degli errori giudiziari. Inoltre, circa il 32% sono considerat3 tossicodipendenti, e il 76% sono malat3, affette da condizioni fisiche e psicologiche/psichiatriche (o meglio, psicosociali).

Ci vengono a dire che le prigioni “rieducano”, e invece no, anzi! Abbiamo un tasso di recidiva del 70% circa, non c’è nessuna riduzione di “criminalità”. Per chi durante la detenzione viene inserit3 in percorsi educativi, formativi e attività professionalizzanti la recidiva crolla drasticamente, ma queste realtà sono estremamente rare in Italia e comunque anch’esse sono in parte coercitive. Il carcere non è un deterrente neanche per i giovani, i quali, come gli adulti commettono “reati” sulla base delle loro condizioni di vita, marginalità, violenza, ingiustizie e povertà. Neanche per i minorenni il giustizialismo fascista si arresta, sebbene i reati dei minori negli ultimi dieci anni non siano cresciuti il numero di minori in detenzione sia aumentato.

Consideriamo ora la situazione dei detenuti stranieri e del razzismo delle carceri. Il carcere, oltre ad essere il simbolo vivente della violenza dello Stato è anche la rappresentazione fisica del razzismo. Nei centri di detenzione del Trentino il 61% sono stranieri, in Valle D’Aosta il 60%, in Liguria il 52%, in Lombardia il 45%, ma nella popolazione italiana gli stranieri costituiscono solo il 9%. Un simile fenomeno di disparità statistica lo si registra anche nelle carceri minorili.

Passando ad esaminare suicidi e uso di psicofarmaci, nelle carceri nel 2024 si sono registrati 88 suicidi su 243 decessi; 70 nel 2023; 85 nel 2022; 70 nel 2021. Sempre nel 2024, 1.800 detenut3 hanno cercato di togliersi la vita. Le condizioni disumane e disumanizzanti, il sovraffollamento, le continue violenze carcerarie, la poca speranza per il futuro, così pure la mancanza di supporto psicosociale sono enormi fattori di rischio che portano le persone all’ultimo atto estremo di dissenso e liberazione, il suicidio. Inoltre, nelle carceri si usano da sempre quantitativi preoccupanti di psicofarmaci di vario tipo, come ulteriore mezzo di controllo e contenimento senza un reale monitoraggio o piano terapeutico clinico. In particolare c’è un chiaro abuso dei seguenti farmaci:

Nozinam (fortissimo “antipsicotico” levomepromazina) che crea anche allucinazioni e viene spesso dato a persone con dipendenze; non ha alcuna efficacia terapeutica, ma serve solo a sedare. Molto usato anche il Rivotril – clonazepam – benzodiazepina, un “antipsicotico”, che tra gli effetti collaterali conosciuti ha anche quello di portare a comportamenti suicidari. Abbiamo poi Valium – diazepam – benzodiazepina –, quando le benzodiazepine sono sconsigliate dall’OMS perché portano velocemente a forme di dipendenza da queste. E infine vi è un largo impiego di stabilizzanti dell’umore vari, sotto il nome di SSRI (inibitori selettivi del reuptake di serotonina).

In questi istituti penitenziari che sono quasi ospedali psichiatrici, dove circa il 40% delle persone detenute soffre di problemi di salute mentale, spendiamo circa 2 milioni di euro l’anno in psicofarmaci, mentre le strutture che dovrebbero supportare le persone con “diagnosi psichiatriche”, le REMS (i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari), hanno una lista di attesa di circa 750 persone.

Abbiamo poi i costi di queste strutture detentive. Ogni detenut3 costa circa 140 euro al giorno, 8 milioni al giorno in Italia complessivamente, circa 3,3 MILIARDI l’anno! Tutti questi soldi tuttavia non servono per il mantenimento de3 detenut3 perché quasi il 95% della somma è usata per mandare avanti l’ISTITUZIONE TOTALE carceraria (stipendi, auto, ecc…).

Mentre il contratto sociale con lo Stato prevede che l’esistenza di questo sia giustificabile sulla base della protezione verso i cittadini, è in realtà evidente, oggi e nella storia, che tutti gli Stati sono abusanti e violenti verso i loro cittadini. Mettendoci in continuo pericolo economico, portandoci in situazioni belliche, lasciando che multinazionali inquinino i territori in modo irreparabile con rischi enormi per l’ecosistema, appoggiando costantemente le industrie del farmaco invece che favorire la prevenzione, svendendo beni comuni a favore di privati senza scrupoli. Le carceri sono l’esempio più evidente del fatto che sono gli Stati i veri serial killer, i violentatori e gli stupratori seriali, attraverso contesti di “rieducazione” basati sulla repressione, sull’alienazione, sulla violenza, sulla paura e sul contenimento fisico e biopsicologico. Dobbiamo superare l’idea che gli Stati con i loro strumenti siano i salvatori e i protettori dei cittadini! Tutte le carceri vanno chiuse adesso!

 

Gabriele Cammarata

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Manifesti strappati. La polemica su Ventotene

L’attacco di Giorgia Meloni al Manifesto di Ventotene nel corso del dibattito alla Camera sul tema del piano di riarmo europeo ha avuto il merito di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica su un documento politico che, probabilmente, non sono in molti a conoscere.

Nelle ore successive al durissimo scontro che si è consumato in aula tra deputati di maggioranza e opposizione, moltissime testate ne hanno riportato ampi stralci o, addirittura, lo hanno pubblicato per intero.

Il Manifesto di Ventotene andrebbe letto, dall’inizio alla fine, per diversi motivi. Intanto, è sempre utile e interessante accostarsi al frutto di una elaborazione politica e teorica maturata nel drammatico contesto della seconda guerra mondiale e delle persecuzioni subite dagli antifascisti che lo redassero. In secondo luogo, è opportuno sapere di cosa si sta parlando specialmente adesso che il tema dell’Europa e del suo ruolo politico nello scenario internazionale sta animando il dibattito in Italia, anche e soprattutto per via della manifestazione europeista dello scorso 15 marzo (a tal proposito rimandiamo alla lettura dell’ottimo articolo di Massimo Varengo pubblicato in prima pagina su Umanità Nova n. 8 del 23/03/2025).

«Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto» – questo il titolo originale – è, in realtà, un testo profondamente incompreso. Tanto incompreso quanto strumentalmente utilizzato, nel corso dei decenni, per finalità che poco o nulla hanno a che fare con la visione ideale e politica dei suoi estensori: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Tre antifascisti di diversa estrazione ma tutti e tre accomunati da una postura radicalmente eterodossa e originale rispetto alle grandi narrazioni ideologiche del loro tempo e alle rispettive famiglie politiche di riferimento. È per questo che il loro Manifesto viene spesso definito come un documento visionario: concepire ed elaborare nelle sofferenze del confino, in piena guerra e in un momento in cui le sorti del conflitto sembravano arridere al nazismo e al fascismo, l’idea di un’Europa unita e federale che superasse e archiviasse per sempre la centralità degli stati-nazione, fu un atto estremamente coraggioso e lungimirante. Si voleva scardinare, infatti, tutto quello che fino a quel momento aveva creato i presupposti per l’affermazione dei totalitarismi e della carneficina bellica: il nazionalismo, il militarismo, l’autoritarismo fondato sulla volontà di sopraffazione. E furono sottoposte a profonda revisione critica anche le tradizionali formule con le quali intraprendere la trasformazione sociale in senso egualitario. Effettuando uno scarto teorico assolutamente inedito, gli estensori del Manifesto individuarono una nuova faglia che sarebbe stata necessaria, dopo la fine delle ostilità, a individuare la vera frattura tra posizioni conservative e posizioni progressiste: non più il maggiore o minore grado di democrazia o socialismo da istituire, ma la maggiore o minore disponibilità a impegnarsi per la creazione di un «solido stato internazionale».

È evidente che noi anarchici non abbiamo mai condiviso, né mai potremo farlo, un impianto ideologico di questo tipo, fondato comunque sull’esistenza di strutture statuali benché federaliste o sovranazionali. Il nostro è un federalismo libertario dove lo stato non c’è perché cede il passo a comunità autogestite che cooperano liberamente. Tra l’altro, la parola “anarchia” ricorre un paio di volte in quel testo con una connotazione neanche troppo positiva, e gli stessi anarchici confinati a Ventotene espressero a Ernesto Rossi tutte le loro perplessità, pratiche e teoriche, di fronte all’idea di un grande stato europeo. Ma non è questo il punto.

Ci preme piuttosto sottolineare, da anarchici, che non ci è mai sfuggito il valore intrinseco di quella proposta politica finalizzata, comunque, a sparigliare le carte da molti punti di vista. Una proposta alimentata da un afflato internazionalista che, di fatto, non ha mai trovato realizzazione e che, anzi, fu soffocato sul nascere appena finita la guerra con la divisione del mondo in blocchi.

E allora, diciamo le cose come stanno. Nonostante lo consideri ufficialmente come un suo documento fondativo, l’Unione europea non ha mai espresso in alcun modo le istanze profonde di quel Manifesto. Non ci pare proprio, infatti, che questa istituzione – così come la conosciamo – possa considerarsi la felice realizzazione di quanto prefigurato a Ventotene più di ottant’anni fa. L’Unione europea dei burocrati, del potere finanziario, delle politiche di austerità che hanno affamato la Grecia (e non solo), delle direttive che distruggono le economie, della brutale repressione dei migranti, dei centri per il rimpatrio, dei morti in mare, delle frontiere, del coinvolgimento nelle guerre di mezzo mondo e dell’attuale corsa agli armamenti, è qualcosa di molto diverso da quegli Stati uniti d’Europa immaginati da Spinelli, Rossi e Colorni. Eppure, nonostante tutto, i partecipanti alla piazza del 15 marzo agitavano il Manifesto di Ventotene preso in regalo con Repubblica, rivendicando a gran voce la necessità di spendere un mare di soldi pubblici per armare fino ai denti gli eserciti di ogni stato europeo così come vorrebbe Ursula von der Leyen.

Quanto a Meloni, in molti hanno sottolineato la superficialità e la malafede con la quale ha strumentalmente citato alcuni passaggi che le facevano comodo per svilire il contenuto del Manifesto di Ventotene e buttarla in caciara. Si tratta, guarda caso, di quelle parti che esprimono molto chiaramente la matrice socialista e progressista di chi lo scrisse. Quell’Europa federale concepita a Ventotene era un ambito politico improntato all’equità e alla giustizia sociale tanto che a Giorgia Meloni ha fatto molta impressione – tra le altre cose – il riferimento alla «dittatura del partito rivoluzionario». Evidentemente, la presidente del consiglio non ha letto il passaggio successivo in cui si chiarisce che quel partito creerà «le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato». In quel testo, la parola «partito» va intesa come «schieramento» o, meglio, come «movimento» e non indica, di certo, il partito unico di un regime totalitario, magari dal retrogusto sovietico. Si tratta, piuttosto, di quella avanguardia – più culturale che politica – che dovrà incaricarsi di creare le condizioni affinché il nuovo paradigma europeista, refrattario a ogni tipo di autoritarismo di impronta nazionale, diventi la nuova cornice condivisa per garantire un futuro di pace, libertà e giustizia sociale.

«Questa non è la mia Europa» ha chiarito Meloni, credendo così di delegittimare il Manifesto di Ventotene. E noi aggiungiamo che ha perfettamente ragione. Quella non è la sua Europa perché Meloni non è neanche in grado di affrontare una tale complessità teorica. Né possiamo dimenticare che la presidente del consiglio, dopotutto, raccoglie l’eredità politica di quella banda di criminali che trascinò il nostro paese nella dittatura e nella guerra mandando al confino anche gli autori di quel documento.

È chiaro a tutti e non deve sorprendere che l’Europa di Spinelli, Rossi e Colorni non sia quella di Meloni. Ma è altrettanto chiaro che non sia nemmeno quella di Michele Serra, del Partito democratico o di Ursula von der Leyen.

 

Alberto La Via

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Stato di diritto con tribunali speciali

Da oltre un anno assistiamo sgomenti all’ennesimo genocidio della storia umana contro la popolazione inerme di Gaza e Cisgiordania. Secondo il ministero della salute palestinese, dall’8 ottobre 2023 al 19 gennaio 2025, le persone morte sono state 46.913 (di cui circa il 60% donne, anziani e bambini) e 110.750 quelle ferite. A questi si aggiungano le 186.000 vittime indirette causate dalla guerra, una infinità di persone traumatizzate psicologicamente, soprattutto giovanissime e infanti. Oltre a un elevato numero di dispersi ancora sotto le macerie. Dati non definitivi, purtroppo.

Un anno e mezzo di sistematica distruzione, ha privato il territorio di Gaza di qualsiasi risorsa e infrastruttura indispensabile alla sopravvivenza. Un vile blocco degli aiuti umanitari alla popolazione si è protratto per molti mesi. E’ recentissimo l’avvio dello scambio di prigionieri politici e ostaggi, sotto l’egida di una fragile tregua costantemente in pericolo a causa di azioni e reazioni belliche da tutte le parti.

La devastazione provocata dai bombardamenti israeliani, ha dato linfa alle solite speculazioni imprenditoriali. Le motivazioni addotte da Israele di “lotta al terrorismo” e “diritto alla difesa” hanno anche permesso agli USA di testare nuove strategie di offese diplomatiche.

Questa guerra di annichilimento ha toccato la sensibilità della società civile in diversi Paesi, trasformando rapidamente l’ondata di sdegno in un forte movimento di solidarietà verso il popolo palestinese.

In Italia, il tentativo di molti mass-media e forze politiche di screditare il movimento “pro-Pal” e la tiepida opposizione hanno permesso al governo di reprimere impunemente ogni espressione di dissenso popolare. Non soltanto per imprimere alla politica interna un sempre maggiore autoritarismo anti libertario di stampo neofascista, ma anche per difendere gli interessi delle lobby impegnate nella cosiddetta “economia di guerra”. Inoltre l’azione di governo ha dimostrato una acquiescente obbedienza al più becero imperialismo made in USA (e quindi anche made in Israele).

Questa sudditanza appare chiaramente nel clima di intimidazione verso chiunque voglia scendere in piazza, con violente cariche sui manifestanti, arbitrari fermi di polizia, fogli di via e arresti, fino a prendere corpo plasticamente nella spinosa vicenda giudiziaria di Anan Yaeesh.

Originario di Tulkarem, nella Cisgiordania occupata, Anan, 37 anni, ex-prigioniero politico di Israele, vive e lavora a L’Aquila dal 2017 come cittadino straniero sottoposto a protezione internazionale. Questo status gli è stato concesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Foggia, sulla base del Rapporto delle Nazioni Unite redatto dalla Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese.

Pur non avendo commesso reati nel territorio italiano, il 27 gennaio 2024 Anan è stato fermato dalla DIGOS con l’accusa, mossagli da Israele, di appartenere ed essere finanziatore delle Tulkarem Brigade, una formazione armata che riunirebbe giovani provenienti dalle varie fazioni della Resistenza palestinese, da Hamas a Fatah.

Malgrado non sussistano elementi a suffragio della misura cautelare, la Corte di Appello aquilana ne ha disposto comunque l’arresto temporaneo a scopo di estradizione e dal 29 gennaio 2024 Anan viene trattenuto in carcere.

Il provvedimento è risultato illegittimo secondo il diritto internazionale, lo Statuto delle Nazioni Unite, la Convenzione di Ginevra e i due Protocolli aggiuntivi, poiché basato più sui rapporti diplomatici tra Italia e Israele che non sulla giurisprudenza. Così, nel marzo 2024, la Corte d’Appello de L’Aquila ne ha decretato la revoca.

Non volendo mollare “la preda”, le autorità israeliane ne hanno richiesto l’estradizione. L’istanza è stata respinta in quanto l’ordinamento giuridico italiano non la prevede quando, come in questo caso, “vi è ragione di ritenere che l’imputato o condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori oppure a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona. L’estradizione non viene altresì concessa per reati politici, per motivi di razza, religione o nazionalità o per reati puniti all’estero con la pena di morte”.

Due giorni prima della revoca della custodia cautelare disposta dalla Corte d’Appello, Yaeesh è stato raggiunto da una nuova ordinanza di carcerazione preventiva con l’accusa di terrorismo ed è stato rinviato a giudizio insieme ai suoi coinquilini, Ali Irar e Mansour Doghmosh.

Successivamente, previo ricorso dei suoi legali (avv. Flavio Rossi Albertini e Stefania Calvanese) la Corte di Cassazione e il Tribunale della Libertà ne hanno ordinato il rilascio in attesa di processo.

Nello stesso mese lo stato israeliano ha poi ritirato la richiesta di estradizione.

Ma le peripezie giudiziarie di Anan Yaeesh sono proseguite con un terzo provvedimento di custodia cautelare dell’aprile del 2024.

A luglio 2024, per Ali Irar e Mansour Doghmosh, è stata annullata la carcerazione preventiva con rinvio in Corte d’Appello, ma la sesta sezione penale della Cassazione ha confermato, invece, la carcerazione nei confronti di Yaeesh. Misura confermata anche nell’udienza preliminare del processo a suo carico, tenutasi il 26 febbraio 2025 davanti al gup Guendalina Buccella del Tribunale de L’Aquila.

Oltre a questi avvenimenti, nella loro particolare successione e tempistica, è importante sottolineare soprattutto due passaggi compiuti dalle autorità italiane in questa vicenda.

Primo: non essendo in possesso di sufficienti elementi utili all’istruttoria processuale, gli inquirenti italiani hanno richiesto a Israele di collaborare alle investigazioni (scelta degna di nota considerando il clima a dir poco persecutorio nei confronti dei palestinesi da parte del governo israeliano).

Secondo: Anan Yaeesh si è autodefinito “resistente palestinese e comandante partigiano” e ha richiesto di non consegnare alle autorità israeliane il suo telefono, contenente informazioni in suo possesso in quanto tale. Il governo italiano ha pensato bene di fare esattamente il contrario, mettendo così a repentaglio l’incolumità sua e di altre persone in Palestina.

La coincidenza tra le richieste fatte da Israele e la tempistica dei provvedimenti giudiziari emessi dalla magistratura italiana per l’avvio di questo processo, evidenziano la spregiudicatezza con cui il potere costituito muova le pedine dell’esecutivo e del sistema giudiziario come armi repressive e persecutorie in difesa di interessi particolari e geopolitici, piuttosto che nell’interesse della giustizia stessa. Il rinvio a giudizio con l’accusa di terrorismo nei confronti di Anan Yaeesh, infatti, assomiglia molto ad un escamotage dittatoriale per ovviare al rigetto della richiesta di estradizione, nonostante le evidenti violazioni dei suoi diritti possano legittimare addirittura un processo per complicità con Israele in crimini di guerra e contro l’umanità.

L’utilizzo repressivo e persecutorio dei processi giudiziari ai danni degli oppositori politici riporta la mente a più tristi e sanguinari anni della storia d’Italia. Con le offensive reazionarie sempre più lampanti come il ddl sicurezza o la separazione delle carriere, che tendono a rafforzare e accentrare il potere, è impossibile non ravvisare i presupposti di un sistema sempre più autoritario, di una violenta escalation neofascista che tanto si ispira all’istituzione di un tribunale speciale per la difesa dello Stato.

Questa democratura potrebbe spalancare un’autostrada ad una nuova dittatura clericofascista e guerrafondaia che sarebbe difficile da contrastare, se non mediante il risveglio di una coscienza sociale critica e consapevole, un movimento che si indirizzi compatto verso la creazione di una società finalmente libertaria, inclusiva, laica, equa e mutualistica, basata su principi etici di pace e armonia tra i popoli.

‘Gnazio & Melitea

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Mentire con le statistiche: dati ISTAT e occupazione

A dicembre 2024 gli occupati, stando ai dati Istat, erano superiori a quelli di un anno prima, con un aumento di 274 mila unità e una crescita in percentuale del tasso di occupazione pari allo 0,3%. Per alcune fasce di età, specie i giovani, l’occupazione era invece in sostanziale decrescita e questo solo dato dovrebbe indurre a riflettere sul fallimento dei percorsi di formazione e orientamento, delle politiche attive in generale.

Ma si sa, da sempre, che le statistiche da sole non sono di aiuto specie se non riescono a distinguere tra occupazione stabile e precaria: pochissimi giorni di impiego annui vengono considerati alla stessa stregua di un contratto a tempo determinato pari a 3 mesi e perfino a uno indeterminato.

Ma ad onor del vero le rilevazioni di fine 2024 parlavano di piccola contrazione del lavoro autonomo, di vistoso calo del tempo determinato e ripresa dell’indeterminato quindi, alla luce di questi dati, ha forse ragione il governo Meloni a cantar vittoria?

La prima osservazione riguarda il numero degli anziani che trovano lavoro dopo averlo perso, il che induce a riflettere come la ricerca di personale specializzato da impiegare prontamente in ambito produttivo sia pur sempre l’opzione preferita ai processi, lunghi e costosi, di indirizzo, formazione e aggiornamento. Insomma, i posti di lavoro aumentano soprattutto nella fascia over 49 o tra gli under 30 dove le assunzioni presentano costi decisamente vantaggiosi per le imprese, tra sgravi fiscali, contratti di apprendistato e altro ancora.

Un po’ come accade con la mobilità nella Pubblica amministrazione, alla fine non si promuove nuova occupazione e permangono gli iniqui tetti di spesa in materia di personale che poi condannano la PA ad avere la forza lavoro più anziana, e tra le meno pagate in assoluto, della Ue.

C’è poi un’ulteriore considerazione che meriterebbe di essere studiata ossia i salari italiani che al cospetto degli altri nei paesi Ue calano da oltre 30 anni, un calo in potere di acquisto con i rinnovi contrattuali sempre al di sotto della inflazione. Dopo lustri, a forza di perdere potere di acquisto, il divario salariale italiano rispetto a quello Ue inizia a farsi preoccupante ma questa notizia non viene riportata perché non accresce la popolarità degli esecutivi.

E allora per giustificare politiche fiscali e lavorative fallimentari (la tassa piatta, la decontribuzione,    i contratti adeguati al codice Ipca che in tempi di crescita delle tariffe energetiche palesa tutti i suoi limiti) si stanziano risorse pari a un terzo della inflazione nella Pubblica amministrazione, si scambiano aumenti economici con benefit e continuo ricorso al welfare aziendale, si punta tutto sui contratti di secondo livello che rappresentano alla lunga un’arma a doppio taglio perché accrescono la produttività, alimentano le deroghe ai già inadeguati contratti nazionali e scambiano salario con servizi alle strutture private, il che alimenta la spirale dello smantellamento dei servizi pubblici.

Torniamo, per chiudere, sugli occupati ma non prima di avere evidenziato due criticità ossia l’imminente riconversione di parte dell’industria a fini di guerra che porterà certo un incremento occupazionale, come accadde negli Usa e nella Germania di un secolo fa. E ammesso, ma non concesso, che produrre armi sia una soluzione, non viene spiegato che a guadagnarci saranno non i lavoratori e le lavoratrici ma le multinazionali del settore che hanno visto crescere i loro titoli azionari del 50% in pochi mesi, a conferma che la spirale speculativa-finanziaria è complementare ai processi di militarizzazione.

Un anno fa, quando si parlava di riconversione dell’economia a fini green, analisti e statistici davano per scontato che la perdita occupazionale sarebbe stata rilevante, i cantori del nuovo mondo sono sovente poco avvezzi a fare i conti con la vita reale.

Secondo il report di Exclesior e Unioncamere “Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2024-2028)” nei prossimi tre anni i lavori più richiesti saranno quelli di alto profilo, come dirigenti, specialisti e tecnici. Ma tra numeri chiusi per l’accesso a molte facoltà universitarie, politiche attive del lavoro carenti e inefficaci, business della formazione con poche ricadute positive, siamo certi di essere capaci di rispondere positivamente a queste sfide? La tendenza degli ultimi anni, con gli stages scuola lavoro, è stata spesso quella di impiegare per settimane studenti in lavori di bassa manovalanza (sottraendoli a ore di insegnamento), quando era stata decantata una nuova era nella quale i giovanissimi avrebbero imparato un lavoro acquisendo competenze da spendere dopo il diploma. Pochi sono i posti di lavoro creati in questi anni dagli stages scuola lavoro e sovente a tempo determinato.

Chiudiamo con il rapporto tra immigrazion e occupazione: gli stranieri in Italia sono circa 2,5 milioni e rappresentano circa il 10 per cento del totale degli occupati, con un tasso di occupazione identico a quello degli autoctoni ma con innumerevoli attività lavorative meno pagate. In un paese nel quale il permesso di soggiorno è legato ad un contratto di lavoro sovente accade di accettare condizioni retributive non dignitose, ed è per questa ragione che un crescente numero di migranti oggi presenta una coscienza di classe maggiore di quella degli italiani specie nei magazzini della logistica.

Permane poi la cosiddetta disparità di genere: le donne migranti hanno tassi di occupazione (47,5%), disoccupazione (15,2%) e inattività (43,8%) sensibilmente peggiori rispetto agli uomini. Lo stesso discorso, pur con percentuali differenti, vale anche per donne e uomini italiane, sia sufficiente ricordare che i posti da coprire per gli asili nido sono pari al 15% dei bambini e delle bambine sotto 3 anni quando la media europea è sopra il 33 per cento. E a rimetterci sono soprattutto le donne alla ricerca di un impiego: qui entrano in gioco altri fattori come la inadeguatezza del welfare, fermo alle famiglie monoreddito e con una popolazione sempre più vecchia. Ma di questo, e di molto altro, parleremo in un’altra occasione.

Federico Giusti

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Edilizia scolastica. Ordinario abbandono e lotte dal basso

La situazione dell’edilizia scolastica in Italia è drammatica. Lo testimonia l’esperienza quotidiana di chi nella scuola studia e lavora, ma lo riportano anche i dati ufficiali, che non riescono a nascondere questa evidente realtà. Secondo quanto si legge nel rapporto “Ecosistema scuola 2024”, una scuola su tre ha problematiche gravi di sicurezza che riguardano questioni strutturali: impianti elettrici, solai, certificati di agibilità mancanti. Una situazione che oltretutto ribadisce il divario esistente a livello territoriale, poiché se al Nord la situazione è un po’ migliore, al Sud solo il 22,6% delle scuole ha la certificazione di agibilità. Ricordiamo che quando parliamo di certificazioni di agibilità si fa riferimento principalmente all’antincendio è all’antisismico: non stiamo parlando quindi solo di muri scrostati o pareti da ridipingere, elementi che pure sarebbero importanti, ma di questioni di ben altro rilievo per la sicurezza. E allora diamo qualche altro parametro ufficiale più specifico.

A livello nazionale, il 57,68% degli edifici scolastici è sprovvisto del certificato di prevenzione incendi e il 41,50% non ha il collaudo statico. Da notare, a proposito di quest’ultimo dato, che quasi la metà delle scuole italiane si trova in zona sismica 1 e 2.

Tra il settembre 2023 e il settembre 2024 sono stati registrati 69 episodi di crolli negli edifici scolastici, raggiungendo la punta più alta degli ultimi sette anni. Ovviamente si tratta di eventi importanti, tali da essere registrati e divulgati nelle statistiche ufficiali. Non va dimenticato infatti che le istituzioni scolastiche, strette nel ricatto del tetto di iscrizioni da raggiungere per mantenere l’ autonomia didattica e amministrativa, nascondono talvolta le varie problematiche per millantare una sicurezza ed una efficienza che spesso non c’è. I dati ufficiali sui crolli quindi, come quelli relativi alle tante problematiche occasionali che purtroppo sono la quotidiana normalità, quali allagamenti, infiltrazioni, infissi, corto circuiti etc. corrispondono esclusivamente a quanto dichiarato, e rappresentano verosimilmente un numero inferiore alla realtà dei fatti. In un quadro generale di inadeguatezza strutturale pesante, sono assai carenti infatti sia gli interventi straordinari, in carico agli enti locali- comuni per le scuole primarie e medie, province per le scuole superiori- sia gli interventi straordinari. Per non parlare di veri e propri investimenti edilizi e costruzione di edifici scolastici nuovi: qui siamo nella nebbia totale! Eppure le occasioni non sono mancate e le risorse neppure. Durante il periodo Covid le esigenze di sicurezza e di distanziamento avevano indotto a reclamare piani edilizi adeguati per la ripresa dell’attività didattica in presenza e in generale per il futuro. A dispetto di tutto ciò, le gigantesche risorse PNRR intervenute sulla situazione post Covid sono state e sono tuttora una gigantesca beffa e un’occasione di dissipazione di risorse esistenti, finalizzate esclusivamente a quello che è solo un grande business. Pochissime le risorse destinate all’edilizia, al risanamento e alla messa a norma delle scuole, così come alla costruzione di nuovi edifici. Quelle poche sono state poi ulteriormente ridotte in ragione degli aumenti dei costi dei materiali edilizi. Ci troviamo così di fronte ad una situazione paradossale in cui fiumi di denaro sono stati riservati agli ambienti di apprendimento, intesi come arredi e ambienti digitali, mentre pochissimo è andato a finanziare le esigenze di ambienti fisici e reali che restano fatiscenti

L’ennesima beffa, in ordine di tempo, è rappresentata dall’edizione “Didacta 2025”, megaevento nazionale organizzata dal Ministero Istruzione e Merito proprio in questo mese di marzo nell’ambito degli “Interventi PNRR per l’edilizia scolastica”. Ma di cemento e mattoni nemmeno l’ombra. Corsi, seminari sviluppo di linee guida per la gestione dei nuovi ambienti digitali e didattici, accordi con la Protezione civile per campus e interventi formativi che trasformino gli studenti in “ambasciatori della cultura del rischio” e che diano ai docenti una “competenza spaziale” per meglio organizzare gli spazi didattici. Ogni commento è superfluo.

Intanto gli edifici scolastici sono lasciati nel degrado e la mancanza di sicurezza è pane quotidiano. Ma c’è chi non si rassegna a questa situazione e si batte per la reale sicurezza degli ambienti di studio e di lavoro, quelli fisici e concreti. Lo fanno studenti, lavoratori della scuola, genitori.

Di seguito l’intervista ad Andrea, un genitore delle scuole Micheli Lamarmora di Livorno, in cui si sta svolgendo una protesta che per sistematicità e continuità d’intervento è diventata una vera e propria vertenza cittadina

D: Quali sono problemi della struttura scolastica frequentata dai tuoi figli?

A: I problemi non nascono certo oggi. Le scuole Micheli-Lamarmora si trovano in piazza XI maggio, in un quartiere popolare di Livorno, e sono da sempre ospitate in un edificio molto grande e storico, costruito a fine 1800, col secondo piano realizzato nei primi decenni del ‘900. Una struttura quindi che, come è logico, ha risentito degli “acciacchi” dovuti al tempo. Le consistenti infiltrazioni di acqua piovana, presenti fino dal 1990, portarono nel 2019 al crollo dei solai in 5 spazi del secondo piano, comprendenti aule, locali mensa e bagni. All’epoca l’intervento istituzionale se la cavò chiudendo le aree pericolanti e promettendo lavori a breve. L’incuria non fece che peggiorare i problemi che progressivamente si verificarano: sbriciolamenti di solai, distacchi di pezzi di intonaco dentro e fuori l’edificio, tavole di legno della mantovana para-sassi che cadevano da un’altezza di 20, 30 metri (la mantovana para-sassi era un’impalcatura fissa posta sotto il cornicione del tetto e serviva come strumento di protezione da eventuali cadute di parti del tetto, salvo poi diventare anch’essa fonte di pericolo). Tutte cose che noi genitori verificavamo senza averne informazione ufficiale. Decidemmo perciò di attivarci, visto l’immobilismo dei dirigenti comunali e scolastici, e creammo il nucleo del gruppo genitori Micheli-Lamarmora. Con il nostro ormai storico striscione “i bambini sono il futuro, mettiamoli al sicuro”, che ci ha accompagnato anche nelle mobilitazioni più recenti, organizzammo presidi sotto il Comune di Livorno, portando in piazza la nostra protesta e facendola conoscere alla cittadinanza. La nostra vertenza fu corredata da un esposto inviato alla Procura della repubblica di Livorno e ai Vigili del Fuoco in cui puntualmente riportavamo gli eventi critici della struttura. L’esposto fu vergognosamente rifiutato dalla Procura per una questione formale, ma fu preso in carico dai Vvf che fecero un’indagine da cui scaturì che l’edificio era agibile a patto che iniziassero i lavori, cosa che finalmente portò il Comune ad attivarsi. Era il 2019. Fu un trionfo per noi, una vittoria figlia della nostra determinazione che anche in quel caso fu accusata di tutto: di aver diffamato la scuola, di aver creato allarmismo inutile, addirittura di aver fatto delle segnalazioni uscendo dalle nostre competenze! La verità è che decisivo per smuovere le cose, come sempre, fu il metodo dal basso , quello che abbiamo seguito anche ora.

D: Veniamo al periodo più recente. Spiegaci le problematiche legate alla fase attuale

A: Nel febbraio 2023 viene decisa la chiusura dell’edificio scolastico per lavori di ammodernamento antisismico legati allo stanziamento di quasi 4 milioni di euro. Fu perciò avviato il progetto di moduli prefabbricati provvisori in cui collocare le classi nel parco delle mura lorenesi. I genitori furono coinvolti, portati a visitare l’area e le strutture modulari. I sopralluoghi furono soddisfacenti, considerata la provvisorietà della situazione, ma subito dopo la collocazione delle classi nei moduli i problemi sono emersi: oltre alla mancanza di suppellettili, problemi di riscaldamento e problemi di forte rumore, in quanto i divisori tra le aule sono sprovvisti di materiale insonorizzante. Un disagio generale con ripercussioni sulla didattica che abbiamo denunciato da subito, insieme alle maestre, ma che la dirigenza scolastica come al solito ha minimizzato, ricorrendo anche alle minacce verso le stesse maestre. A queste problematiche, col sopraggiungere della pioggia si sono aggiunte poi le infiltrazioni e l’umidità.

D: Quindi quali azioni avete intrapreso ?

A: Le infiltrazioni di acqua nei moduli si sono fatte sempre più consistenti col maltempo, senza che i lavori di riparazione occasionali fossero efficaci, dimostrando così l’inadeguatezza delle strutture, che pure erano state programmate e non allestite in modo improvvisato per una emergenza imprevista. Da mesi facevamo segnalazioni scontrandoci con l’ostinazione insensata dell’amministrazione comunale di Livorno nel non voler traferire le alunne e gli alunni in strutture sicure e dignitose. Il Comune di Livorno avrebbe dovuto operare diversamente, senza che noi genitori ci mobilitassimo, ma evidentemente dinamiche politiche a noi sconosciute hanno determinato una situazione di stallo insostenibile, di fatto pericolosa e insalubre per i nostri figli e anche per il personale scolastico.

Di fronte a una situazione talmente paradossale abbiamo iniziato a reagire. Ci siamo perciò nuovamente organizzati come genitori, sfruttando la rete di collegamento che avevamo dal 2019. Il gruppo di lavoro composto dalle rappresentanti di classe e dal rappresentante dei genitori al Consiglio d’Istituto ha formato una delegazione che si è recata una prima volta in Comune a inizio febbraio per evidenziare in modo forte i problemi di infiltrazione presenti nei moduli. Successivamente abbiamo avviato una raccolta firme dei genitori che ha avuto grandissima adesione, tutto questo mentre continuavamo a spingere per far fare lavori risolutivi nei moduli.

D: Quali risposte avete ricevuto?

A: Le risposte alle nostre segnalazioni sono sempre state tese a banalizzare le nostre rimostranze e ad accusarci di inutili allarmismi. Il disco che girava era sempre il solito: la scuola è sicura, è tutto sotto controllo ecc. Un comportamento quindi negazionista della realtà e da un certo punto di vista inquietante, se si pensa che stiamo parlando di bambini piccoli e che alcuni di loro sono disabili.

D: La vostra protesta poi come si è concretizzata?

A: Nonostante gli interventi sui moduli, che finalmente eravamo riusciti ad ottenere dopo molte pressioni e un oggettivo intensificarsi delle problematiche, si è verificata una forte pioggia che ha allagato ancora di più classi, corridoi, palestra e bagni. Il 24 febbraio abbiamo fatto quindi la prima chiamata ai Vigili del fuoco, i quali hanno interdetto due aule della scuola primaria (l’acqua andava direttamente su canaline e interruttori). Neanche in questo caso il Comune ha preso decisioni concrete sul da farsi, appoggiandosi sul fatto che i vigili hanno definito le strutture non soggette a crolli. Come se la prevenzione sulla sicurezza si basasse esclusivamente sui mancati crolli. In seguito a quanto accaduto e ai mancati interventi risolutivi, Il 28 febbraio abbiamo fatto quindi il primo sciopero, raccogliendo un’adesione quasi del 90%. I bambini non sono entrati a scuola, non hanno partecipato alla lezione, fuori dalla struttura è stato fatto un presidio partecipatissimo con striscioni e presenza della stampa, che ha dato molto risalto alla nostra iniziativa.

Successivamente, il 12 marzo, in seguito ad un altro nubifragio, si sono nuovamente allagati gli spazi dei moduli, ancora di più rispetto alle volte precedenti. Nuova chiamata ai Vigili del fuoco che hanno interdetto tre aule della primaria, la palestra e tre aule dell’asilo. Il Comune in questo caso non ha più potuto far finta di niente ed ha trasferito le classi dell’infanzia Lamarmora nella scuola Volano del quartiere Corea, lasciando però i bambini e le bambine della primaria nell’acquitrino dei moduli. Una decisione per noi inaccettabile che ha fatto scattare il secondo sciopero nella giornata del 13 marzo (anche in questo caso adesioni del 90%) e la manifestazione sotto il Comune di Livorno. Siamo stati immediatamente ricevuti nella sala consiliare. Un momento memorabile e bellissimo per quanti eravamo tra genitori, figlie e figli. Abbiamo riempito la sala! Dopo le parole “amichevolmente istituzionali” siamo passati ai fatti, accusando di colpevole ritardo l’interessamento comunale sugli allagamenti delle scuole. L’indignazione e la rabbia, già elevata, è salita quando -dopo il nostro intervento- le figure istituzionali insistevano nel definire la scuola sicura, affermando che la primaria non sarebbe stata trasferita col pretesto che gli alunni della primaria erano troppo numerosi. Non ci siamo scoraggiati e abbiamo scandito insieme ai nostri figli il coro “vogliamo essere trasferiti!” davanti ai rappresentanti degli enti decisori e alla stampa che ha ripreso tutto. Non sono riusciti ad invisibilizzarci. E alla fine siamo riusciti ad ottenere il trasferimento

D: Alla fine quindi c’è stato un riconoscimento del problema da parte dell’amministrazione comunale?

A: In realtà solo grazie al clamore che abbiamo provocato sono stati costretti a riconoscere il problema per intero, disponendo anche il trasferimento delle classi della primaria. E questo evidentemente è quello che ai dirigenti pesa di pù. Il 14 marzo la Dirigenza scolastica ci ha comunicato in modo laconico e senza minimamente ravvisare il nostro impegno: “viste le condizioni meteorologiche e considerato che ci sono lavori in corso da parte della ditta Interguest che incontra ostacoli per le condizioni meteorologiche avverse si comunica che con l’Amministrazione comunale si è concordato il momentaneo trasferimento delle classi in altre sedi scolastiche a partire da lunedì 17 marzo (…) si assicura altresì che la Ditta sta lavorando e continuerà a lavorare fino alla risoluzione delle criticità legate alle infiltrazioni per cui auspichiamo un rientro in tempi breve nella nostra sede di via Villa Glori.” Si è voluto approfittare dell’allerta arancione per disconoscere le vere motivazioni che hanno indotto il trasferimento. Ma noi sappiamo bene che è stata la nostra lotta, la nostra determinazione come genitori ma anche come cittadine e cittadini, che ha spostato l’elemento decisionale nelle mani del buonsenso. Cosa che dovrebbe avvenire sempre.

D: Come intendete procedere?

A: Continueremo a seguire da vicino sia la questione moduli che i lavori nella sede storica di piazza XI maggio. Il comportamento dell’Amministrazione comunale e della Dirigenza scolastica non lascia spazio a una fiducia degna di questo nome. Il trasferimento, tanto per fare un esempio, sta già chiamando a nostre nuove prese di posizione sul servizio scuolabus, che vogliono garantire solo per l’infanzia ma non per la primaria. Il nostro grado di attenzione è quindi massimo. Non cederemo neanche di un millimetro per quanto riguarda i diritti delle nostre figlie e dei nostri figli. Ci auguriamo infine che la nostra lotta ma anche la coesione e il metodo che ci sta contraddistinguendo venga seguita da altre realtà scolastiche. Una storia, la nostra, che, fra le altre cose, mostra come l’elemento istituzionale non rappresenti il modello di gestione della società adeguato, soprattutto quando le cose si fanno difficili.

Andrea Paolini e Patrizia Nesti

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Disarmiamo la guerra! Antimilitaristi contro la Città dell’Aerospazio

Torino. 23 marzo. Visita a sorpresa al cantiere della Città dell’Aerospazio in corso Marche, dove, da circa un mese sono cominciati i lavori di demolizione della palazzina 27 della ex Alenia – Aermacchi. 

Un manichino insanguinato, scritte, fumogeni, cartelli che ci ricordano le vite rubate dalle bombe, dalle armi, dalle guerre. Guerre tra potenti che si contendono risorse, potere, indifferenti alla distruzione di città, alla contaminazione dell’ambiente, al futuro negato di tanta parte di chi vive sul pianeta. 

Le macerie sono solo buoni affari per un capitalismo vorace e distruttivo che ha una sola logica, quella del profitto ad ogni costo. Uomini, donne, bambine e bambini sono solo pedine sacrificabili in un gioco terribile, che non ha altro limite se non quello imposto dalla forza di oppress e sfruttat, che si ribellano ad un ordine del mondo intollerabile. 

Mentre l’Europa – e il mondo – accelerano una folle corsa al riarmo è sempre più necessario mettersi di mezzo, inceppare gli ingranaggi, lottare contro l’industria bellica e il militarismo.

No al nuovo polo bellico di Leonardo e Politecnico! 

Non contino sulla nostra rassegnazione! 

Come gocce continueremo ad alimentare la marea che li sommergerá.

Lo dobbiamo a chi, ogni giorno, muore per le armi che si progettano e costruiscono a due passi dalle nostre case. 

Lo dobbiamo a chi viene massacrato, in Congo, in Sudan, in Ucraina, a Gaza, Siria… Lo dobbiamo a chi muore lungo le frontiere che separano i sommersi dai salvati. 

Lo dobbiamo a chi non ci sta, a chi lotta contro gli Stati, i confini, i nazionalismi. 

Non esistono popoli oppressi, perché la nozione di popolo è alla radice di ogni nazionalismo, di ogni trappola inventata dai potenti per arruolare i corpi e le coscienze. 

Noi non appoggiamo di nessun popolo, noi sosteniamo oppresse e oppressi di ogni dove.

Noi siamo fianco di chi diserta. Noi siamo disertori di tutte le guerre. 

La guerra è a due passi dalle nostre case: fermiamola!

 

Assemblea Antimilitarista

antimilitarista.to@gmail.com

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