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Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo

Sui paesi di origine “sicuri” la Commissione Europea si contraddice

1. Alla fine la data fatidica del 25 febbraio è arrivata, ma dopo mesi di disinformazione da parte del governo Meloni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha deciso sulle prime due questioni pregiudiziali sollevate dai Tribunali italiani, ma ha soltanto tenuto una udienza di apertura del procedimento, nella quale le parti hanno precisato le loro posizioni. Per il prossimo 10 maggio si attende la requisitoria dell’Avvocato generale della Corte, e la decisione finale potrebbe arrivare entro il prossimo giugno.

Troppo tardi per la fretta delle destre italiane che puntavano tutta la loro propaganda, dopo la attesa decisione della Corte di Lussemburgo sulla definizione di “paesi di origine sicuri”, su un riavvio immediato dei centri di detenzione extra-UE previsti dal Protocollo Italia-Albania.

Non sembrano destinati a successo i tentativi operati dal governo italiano per anticipare l’implementazione del nuovo Regolamento procedure dello scorso anno, che non potrà che entrare in vigore, contemporaneamente, in tutti gli Stati membri, entro la scadenza del 2026.

La decisione della Corte di Giustizia dovrà dunque essere adottata sulla base della normativa vigente e non secondo quanto previsto da disposizioni di un Regolamento che non è ancora entrato in vigore, e che pure, in materia di procedure accelerate in frontiera e di trattenimento amministrativo, presenta rigorose garanzie procedurali, ignote alla vigente legislazione italiana.

2. Dopo il parere depositato in precedenza dalla Commissione europea, l’avvocata della stessa Commissione, Flavia Tomat, ha parzialmente contraddetto quanto affermato nel parere, sostenendo che la Direttiva “procedure” 2013/32/UE lascerebbe un ampio margine di valutazione agli Stati membri nella designazione dei paesi di origine sicuri, anche se questi devono rispettare le condizioni stabilite dall’Allegato 1 della direttiva secondo cui “un Paese può essere designato come sicuro solo se non vi sono persecuzioni generalmente e costantemente”.

Secondo l’avvocata Tomat la Direttiva attualmente in vigore non escluderebbe la possibilità di prevedere eccezioni per determinate categorie di persone, “ciò che conta è che tali categorie siano chiaramente identificate e che il diritto a un ricorso effettivo venga garantito”. Come, sembra sempre più evidente, non si verifica nei confronti delle persone richiedenti asilo “non vulnerabili”, provenienti da “paesi di origine sicuri”, intercettate in acque internazionali e trasferite nei centri di Shengjin e di Gjader in Albania.

Per l’avvocata, rappresentante della Commissione europea, dunque, il concetto di “generalmente e costantemente” sicuro deve essere interpretato con attenzione, poiché alcuni gruppi specifici di persone potrebbero non godere di tale protezione. “Non si puo’ ignorare il fatto che alcune categorie di persone, come giornalisti, membri di minoranze religiose o persone Lgbtq+, possano essere esposte a rischi sistematici anche in Paesi considerati generalmente sicuri”, e gli Stati membri devono garantire che le eccezioni previste coprano adeguatamente questi gruppi vulnerabili”.

La rappresentante della Commissione, con una autentica inversione logica, rispetto al parere depositato in precedenza, ha quindi concluso che la direttiva procedure 2013/32 consentirebbe agli Stati membri “di designare Paesi di origine come sicuri, prevedendo delle eccezioni tra categorie di persone”. Quasi la stessa posizione sostenuta dal governo italiano, che vede in questa soluzione l’unica possibilità di riavviare l’esperimento finora fallito del Protocollo Italia-Albania.

In realtà la possibilità di designare un paese di origine come “sicuro” per alcuni gruppi era prevista esplicitamente già nella direttiva procedure 83 del 2005 e ritornerà, con una serie di garanzie procedurali, nel Regolamento procedure applicabile in futuro sulla base del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma non è affatto prevista nell’attuale direttiva sulle procedure 2013/32/UE.

In ogni caso, la valutazione della situazione di sicurezza del paese di origine, e le eventuali eccezioni su base personale, non si potrà sovrapporre alla valutazione della sicurezza individuale della singola persona richiedente asilo, nella prospettiva di un rimpatrio forzato nel paese di origine.

A differenza di quanto “sparato” nei titoli di buona parte della stampa italiana, la questione affrontata dalla Corte di giustizia UE riguarda tutte le procedure accelerate in frontiera, previste, con un inasprimento rispetto alla normativa precedente, dal Decreto Cutro (legge n.50 del 2023) e non risolve tutte le criticità che presenta il Protocollo Italia-Albania che, al di là di quanto verrà deciso dalla Corte di Lussemburgo in materia di “paesi di origine sicuri”, troverà altri ostacoli di carattere giuridico ed a livello operativo che ne impediranno la piena attuazione. Sempre che nel frattempo in Albania non cambi la maggioranza di governo, e non si decida di porre fine, da Tirana, all’esperimento di esternalizzazione del diritto di asilo che la Meloni continua a vantare a livello globale come un successo, malgrado si confermi ancora oggi come un totale fallimento.

3. Per l’avvio operativo delle intese tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non sarà neppure rilevante la annunciata introduzione dei cd. hub per i rimpatri al di fuori del territorio europeo, che richiederebbe una modifica della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, attualmente in vigore, che non prevede la possibilità per i paesi membri di effettuare operazioni di rimpatrio forzato da paesi terzi. Lo stesso ostacolo sul quale si bloccherà l’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si superi lo scoglio della definizione dei “paesi di origine sicuri”, in quanto l’art. 3 della Direttiva rimpatri definisce espressamente come allontanamento “l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro”.

La direttiva procedure 2013/32/CE si applica poi a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito, mentre non si applica alle domande di asilo presentate presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri e non sembra quindi applicabile al di fuori del territorio dello Stato. Non si prevede dunque la possibilità di un allontanamento forzato di un immigrato irregolare, come si considera il richiedente asilo già dopo il primo diniego, da un paese terzo come l’Albania.

Bisogna poi verificare quanto il ricorso alle cd. procedure accelerate in frontiera sia ammissibile al di fuori di una frontiera europea, perché il trucco della cessione di giurisdizione da parte dell’Albania all’Italia sui centri di detenzione di Shengjin e di Gjader è stato scoperto dalle stesse autorità albanesi che hanno ribadito che si tratta di cessione in uso di aree territoriali, ma non di cessione della sovranità. Sovranità albanese che non si può certamentee escludere nelle aree aeroportuali dalle quali le autorità italiane dovrebbero effettuare i rimpatri con accompagamento forzato nei paesi di origine designati come sicuri per legge. Mentre rimane molto lontana l’adozione di una lista comune di paesi di origine sicuri da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, malgrado gli annunci propagandistici di Giorgia Meloni che ad ogni riunione del Conisglio europeo la anticipa come se fosse scontata.

4. Il Protocollo Italia-Albania non potrà avere comunque piena attuazione, anche se il governo italiano, sull’onda di una decisione politica della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul concetto di paese di origine sicuro, dovesse tentare ancora una volta il rilancio del “modello Albania”. Una ondata di ricorsi senza precedenti bloccherà i trasferimenti di richiedenti asilo, provenienti da paesi di origine sicuri e soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, anche se la maggioranza parlamentare dovesse inventarsi, in via di urgenza, un ennesimo decreto legge “Albania”.

Nessuno Stato membro può anticipare unilateralmente l’entrata in vigore di una Direttiva o di un Regolamento europeo, in attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, per i quali la Commissione europea ha stabilito tempi di attuazione “comune”, dunque coincidenti per tutti i paesi dell’Unione, anche per la impossibilità di una implementazione “a macchia di leopardo”. Semmai è proprio in Italia che i lavori per la attuazione del Patto si stanno svolgendo in un clima di opacità che esclude la partecipazione civica, e si rivela strumentale alle esigenze di propaganda del governo.

Anche in vista del nuovo Regolamento sugli “accertamenti” in frontiera, si dovrà innanzitutto, demistificare la categoria di “non vulnerabili” che, dopo un sommario pre-screening, costituisce uno dei presupposti per il trasferimento in Albania dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane.

La vicenda ancora non conclusa, sul piano giudiziario interno ed internazionale, dell’arresto di Al Masri su mandato della Corte Penale internazionale e del suo rilascio immediato, ha esposto in tutta evidenza la diffusione delle pratiche di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti dalle persone migranti in Libia, anche nei cd. centri governativi, con conseguenze che non sempre emergono nelle prime frettolose fasi di pre-screening in alto mare.

Per questa ragione occorre moltiplicare e sostenere tutte le testimonianze di torture e di altri trattamenti inumani o degradanti subiti in Libia da coloro che sono selezionati in acque internazionali, e quindi trasferiti nei centri albanesi, dove dovranno operare stabilmente équipe di medici indipendenti specialisti nell’accertamento delle vittime di tortura. Persone che in quanto tali vanno immediatamente trasferite in Italia ed esaminate, ai fini della richiesta di protezione, nell’ambito di una procedura ordinaria, con la consulenza di esperti in materia di tortura, dopo essere stati inseriti nel sistema nazionale di accoglienza.

 

Fulvio Vassallo Paleologo