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Donald Trump

Cosa possiamo aspettarci da un asse Putin-Trump

La conversazione telefonica tra Donald Trump e Vladimir Putin, avvenuta il 12 febbraio, ha aperto una nuova stagione nelle relazioni russo-americane, suggellata dall’incontro delle delegazioni dei due paesi il 18 febbraio a Riyad, in Arabia Saudita, dove il primo round di colloqui (senza la presenza di esponenti ucraini) è stato ritenuto soddisfacente dalle parti. Trova così conferma la posizione di un settore dell’establishment russo, che aveva visto nella rielezione di Trump un'opportunità per riaprire un canale di dialogo tra i due paesi, dopo anni di relazioni tese e sanzioni sempre più stringenti.

Tuttavia, a differenza del 2016, quando la vittoria di Trump aveva scatenato una vera e propria "trump-mania" in alcuni settori della politica e della società russa, questa volta le reazioni iniziali son state più tiepide, per poi diventare, nel corso dei sei giorni trascorsi, entusiaste, condizionate principalmente dal giudizio del presidente russo, apparso più che soddisfatto dalla conversazione con l’omologo statunitense e dai primi risultati del vertice saudita.

La diffidenza nei confronti delle dichiarazioni dell’entourage presidenziale statunitense, soprattutto all’interno del Ministero degli Esteri della Federazione Russa, dove prevaleva prudenza nel giudicare le prime mosse dell’amministrazione Trump, è stata sostituita dall’ebbrezza dovuta alle dichiarazioni del leader statunitense, che ha attaccato violentemente Volodymyr Zelensky, definito un “dittatore” responsabile della guerra in Ucraina, un comico fallito e altre amenità. Parole persino più forti di quanto detto e scritto dalla propaganda russa in questi anni.

La telefonata tra Putin e Trump: una corrispondenza d’amorosi sensi?

Putin, da parte sua, ha adottato una precisa strategia, inviando segnali mirati verso Washington, tra cui il recente scambio di prigionieri avvenuto poco prima della telefonata. L’operazione ha visto la liberazione dell’insegnante americano Marc Fogel, condannato a 14 anni di detenzione per possesso di marijuana, in cambio di Aleksandr Vinnik, fondatore della borsa di criptovalute BTC, estradato dalla Grecia negli Stati Uniti nel 2022. La scelta di Fogel non è stata casuale: Trump era stato sollecitato direttamente sul caso dalla madre del docente poco prima del comizio di Butler, durante il quale era rimasto ferito da un cecchino. Questo dettaglio ha conferito una valenza simbolica ancora più forte alla liberazione, permettendo a Trump di capitalizzare immediatamente sul piano politico la promessa di intervenire per la liberazione del cittadino americano detenuto in Russia. Un primo successo per la sua diplomazia personale, ottenuto senza eccessivo sforzo grazie alla collaborazione di Putin (d’altronde, arrestare qualcuno e poi rilasciarlo non richiede un grande sforzo da parte del Cremlino). Questo episodio ha inoltre permesso di ufficializzare i contatti e le conversazioni informali che si erano intensificati nelle settimane precedenti tra le due amministrazioni.

Se per Trump questo gesto rappresenta un passo iniziale fortunato in un percorso negoziale che si preannuncia complesso e irto di ostacoli, per Putin la tanto attesa telefonata giunge in un momento in cui ritiene di trovarsi in una posizione di vantaggio. La prospettiva russa è chiara: se i negoziati dovessero decollare, Mosca potrebbe cercare di ottenere concessioni significative; se invece fallissero o non prendessero mai realmente avvio, la situazione attuale costituisce già un successo per il Cremlino. Le dinamiche sul campo di battaglia confermano questa percezione: nel sud-est dell’Ucraina l’esercito russo, tra difficoltà, avanza lentamente ma con costanza, mentre Kyiv affronta problemi sempre più urgenti, dalla carenza di uomini da inviare al fronte all’incertezza sui rifornimenti militari occidentali. Le polemiche di Trump sul sostegno finanziario e militare garantito dall’amministrazione Biden all’Ucraina, unite ai segnali lanciati nelle prime settimane della sua presidenza, rafforzano l’impressione, a Mosca, che un ridimensionamento dell’impegno americano possa tradursi in vantaggi strategici per la Russia, in termini di minore pressione militare e difficoltà logistiche per Kyiv.

Le rivendicazioni di Putin restano sostanzialmente invariate rispetto agli ultimi anni: lo status dell’Ucraina come paese non solo neutrale, ma sottoposto all'influenza russa diretta; il cambio ai vertici della leadership di Kyiv, una posizione che trova un’eco, seppur indiretta, nelle dichiarazioni di Trump sulla necessità di elezioni presidenziali in Ucraina quanto prima possibile; e infine il riconoscimento de facto dell’occupazione russa del sud-est ucraino. Questi punti, tuttavia, vanno ben oltre un semplice compromesso diplomatico e rappresentano richieste che, se accettate, equivarrebbero a una vittoria completa per il Cremlino.

Al di là dell’Ucraina, un altro elemento significativo per Putin della conversazione tra i due leader è stato il Medio Oriente, con particolare riferimento ai rapporti con Teheran, con cui Mosca potrebbe svolgere un ruolo d’intermediazione. Il solo fatto che Trump abbia discusso di queste tematiche con Putin conferma, agli occhi del Cremlino, il riconoscimento della Russia come attore imprescindibile in scenari di crisi globali. In questo contesto, le reazioni europee alla telefonata hanno fornito ulteriori spunti di riflessione per Mosca: lo spaesamento evidente dei leader del Vecchio Continente, la contrarietà non troppo velata di esponenti della Commissione Europea come Kaja Kallas, le critiche del ministro tedesco della Difesa Boris Pistorius e le dichiarazioni di Ursula von der Leyen alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dove ha ribadito la necessità di ottenere la pace attraverso la forza, hanno evidenziato le profonde divisioni interne all’Occidente. 

Anche l’estromissione, forse temporanea, di Keith Kellogg, rappresentante speciale di Trump per l’Ucraina, dal team di contatto con i russi, è stata interpretata come un segnale favorevole a Mosca, data la nota ostilità dell’ex militare nei confronti del Cremlino. E a essere ottimisti sono anche alcuni esponenti dell’establishment russo: l’ex presidente Dmitry Medvedev, noto per le sue posizioni oltranziste, in questo caso ha sottolineato come

la conversazione tra i presidenti di Russia e Stati Uniti è di per sé un evento di grande importanza. La precedente amministrazione statunitense aveva interrotto tutti i contatti ai massimi livelli, con l'obiettivo di punire e umiliare la Russia. Il risultato è stato che il mondo è stato sull’orlo dell’apocalisse.

Il presidente della commissione Affari Esteri della Duma Leonid Slutsky ha invece evidenziato “la rottura dell’isolamento imposto dall’Occidente” per poi lasciarsi a considerazioni sul “ruolo delle personalità nella storia”. Significative anche le reazioni dei canali Telegram di orientamento ultranazionalista e di sostegno alla guerra, gestiti dai cosiddetti Z-aktivisty e voenkory (gli attivisti nazionalisti presenti al fronte come blogger e corrispondenti). Rybar, tra i più letti, ha scritto commentando la conversazione tra Trump e Putin: “quanto accaduto si distingue nettamente rispetto agli ultimi anni, durante i quali la posizione ufficiale dell’Occidente collettivo si riassumeva nel principio ‘niente sull'Ucraina senza l'Ucraina’. Come si può notare, ora ci si è dimenticati di quel principio”. Nel commentare le dichiarazioni alla stampa del presidente americano dopo la telefonata, addirittura Vladimir Solovyov, il noto presentatore televisivo e propagandista, ha contato quante parole siano state utilizzate dalle fonti statunitensi per descrivere le conversazioni con Putin e Zelensky: 315 a fronte di 107, per poi aggiungere “balza agli occhi la differenza di accenti, è evidente la differenza con cui si relaziona la Casa Bianca”.

Il vertice di Riyad, il ruolo di Kirill Dmitriev e l’ottimismo di Putin

Non è affatto casuale che sia stato scelta l’Arabia Saudita come prima sede degli incontri ufficiali tra le delegazioni russa e americana. Le buone relazioni tra il paese e gli Stati Uniti rappresentano un pilastro fondamentale della politica estera di Riyad, così come il sostegno militare garantito da Washington continua a rivestire un ruolo determinante nella sicurezza del regno. Allo stesso tempo, negli ultimi anni, i legami con la Russia si sono notevolmente rafforzati, nonostante un passato segnato da tensioni, in particolare durante gli anni Novanta e Duemila, quando l’Arabia Saudita sostenne l’ala islamista nei conflitti in Cecenia e nel Daghestan.

Un momento chiave di questo riavvicinamento si ebbe nell’ottobre del 2017, con la prima visita ufficiale di un monarca saudita a Mosca: il re Salman si presentò accompagnato da una delegazione imponente di oltre mille persone, tra funzionari, diplomatici e membri della famiglia reale. La visita non passò inosservata, tra mostre, ricevimenti, apertura di nuovi progetti d’investimento, promesse reciproche e la capitale russa bloccata da immensi codazzi di limousine e imponenti misure di sicurezza. Quella dimostrazione di potere e ricchezza era la manifestazione plastica di un interesse reciproco solido, fondato su obiettivi economici condivisi tra due grandi produttori di petrolio e gas.

L’Arabia Saudita, inoltre, è stata ripetutamente invitata a entrare nei BRICS e, secondo le previsioni, sarebbe dovuta diventare membro a pieno titolo nel 2024. Tuttavia, ciò non è avvenuto, in parte per via dei rapporti strategici che il regno continua a mantenere con Washington, il cui peso resta determinante nelle scelte di politica internazionale saudita.

Infine, il ruolo dell’Arabia Saudita nello scacchiere geopolitico è stato recentemente evocato anche da Donald Trump, che ha fatto appello a Riyad a lavorare ad un incremento della produzione petrolifera al fine di abbassare il prezzo del greggio. Questo riferimento, inserito nel contesto più ampio dei negoziati per la pace in Ucraina, suona come un messaggio chiaro rivolto a Mosca: un aumento delle estrazioni saudite—sebbene al momento un’ipotesi poco probabile—potrebbe compromettere seriamente i meccanismi alternativi con cui la Russia riesce a vendere il proprio petrolio e gas eludendo le sanzioni. 

Uno scenario simile rappresenterebbe un colpo significativo per l’economia russa e per le strategie messe in atto dal Cremlino per aggirare le restrizioni imposte dall’Occidente. Non a caso, nella delegazione russa giunta nella capitale saudita vi era anche Kirill Dmitriev, a capo del Fondo sovrano d’investimenti diretti, l’RFPI: nativo di Kyiv, Dmitriev negli anni Novanta ha studiato a Stanford e Harvard, e ha lavorato alla Goldman Sachs e alla Kinsley. A Mosca Dmitriev si è trasferito nel 2000, lavorando per altre compagnie statunitensi tra cui la Delta Private Equity e dopo una parentesi in Ucraina come direttore della Icon Private Equity nel 2007, è stato nominato a capo dell’appena formato fondo sovrano russo tre anni dopo.

La nomina è stata resa possibile, secondo quanto ricostruito dal media indipendente Vazhnye istorii, dai rapporti d’amicizia tra la moglie di Dmitriev, Natalia Popova, e Katerina Tikhonova, figlia di Vladimir Putin, al vertice della compagnia Innopraktika. Già nel 2013 il direttore dell’RFPI si era distinto come tramite tra il principe saudita Bandar bin Sultan, all’epoca a capo dell’intelligence del paese, e il Cremlino, facendosi latore di una proposta di investimenti da parte di Riyad in cambio del ritiro del sostegno russo al regime di Bashar al Assad in Siria e all’Iran, senza però ottenere alcun risultato. La rete di relazioni di Dmitriev è estesa dagli Stati Uniti ai paesi arabi fino alla Cina, e in alcune circostanze è stato l’intervento dell’amico della famiglia Putin a risolvere casi delicati, come l’arresto e la condanna di Michael Calvey, fondatore della Baring Vostok Capital Partners, tra le più importanti compagnie private d’investimenti in Russia, liberato dai domiciliari e scagionato dalle accuse grazie a Dmitriev.

Il nome del manager russo di Stato figura anche nel rapporto di Robert Mueller sui legami tra Donald Trump e le autorità russe durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2016: le indagini hanno stabilito che pochi giorni prima dell’inaugurazione del primo mandato del tycoon, Dmitriev si è incontrato con Erik Prince, fondatore della compagnia privata di contractors Blackwater, alle isole Seychelles. Sempre nell’inverno del 2017, durante il forum di Davos, l’esponente russo ha avuto un incontro con Anthony Scaramucci, allora consigliere di Trump per l’impresa.

L’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff, commentando alla stampa il rilascio di Marc Fogel, ha attribuito i meriti a un “gentiluomo di nome Kirill”, riferimento chiaro al direttore del fondo russo d’investimenti, candidato ad essere una figura cruciale nel corso dei negoziati tra le due potenze. Poco prima dell’inizio dell’incontro di Riyad, Dmitriev ha rilasciato una dichiarazione alla stampa in merito alle prospettive future delle relazioni economiche tra Russia e Stati Uniti, sottolineando la necessità di sviluppare iniziative congiunte in diversi ambiti strategici. “Dobbiamo realizzare progetti congiunti, ad esempio, nell'Artico e in altri settori; iniziative comuni ci consentiranno di avere maggior successo”, ha affermato, lasciando intendere che i colloqui tra le due potenze non siano limitati alla guerra in Ucraina, ma abbiano l’intenzione di affrontare una più ampia dimensione economica e geopolitica a livello globale.

Le parole del manager sembrerebbero suggerire che Mosca stia cercando di posizionarsi come un partner commerciale e industriale potenzialmente appetibile per Washington, offrendo nuove opportunità di investimento in settori strategici. In particolare, il riferimento all’Artico appare significativo: la regione, oltre a rappresentare una riserva cruciale di risorse naturali, è anche un teatro di crescente competizione internazionale, con implicazioni economiche, ambientali e militari. L’idea di una cooperazione russo-americana in un’area così sensibile sembra quindi avere una duplice funzione: da un lato, proporre un terreno di dialogo economico che vada oltre le tensioni politiche; dall’altro, rivolgersi a interlocutori specifici, come Donald Trump, noto per il suo interesse verso le opportunità di sfruttamento delle risorse naturali e per una visione delle relazioni internazionali basata sugli interessi economici come riferimento principale.

In questo contesto, l’apertura della Russia a progetti congiunti può essere letta come un tentativo di Mosca di provare a superare anche la politica delle sanzioni (della cui revoca si discute negli incontri) attraverso il coinvolgimento di attori economici statunitensi, cercando di alimentare dinamiche di “business as usual” che possano, nel tempo, tradursi in una maggiore influenza diplomatica e in una possibile rimodulazione dei rapporti bilaterali.

Vladimir Putin ha commentato i lavori del vertice russo-americano all’indomani, il 19 febbraio: d’ottimo umore, il presidente russo ha sottolineato come al centro del summit vi siano stati anche temi quali la collaborazione nello spazio e in Medio Oriente, per poi fornire una valutazione ottimista delle prospettive future. “Il lavoro continua e le prospettive sono buone, questo è stato oggetto di discussione e analisi durante l'incontro a Riyad” ha poi aggiunto Putin “il cui esito è stato valutato positivamente. In generale, da quanto mi è stato riferito, il vertice si è svolto in un clima molto cordiale, secondo i nostri partecipanti la delegazione americana era composta da interlocutori completamente diversi rispetto al passato: aperti a negoziati, privi di pregiudizi e senza alcuna intenzione di condannare ciò che è stato fatto in passato. Almeno nei contatti bilaterali non vi è stata alcuna traccia di tali atteggiamenti, anzi, i rappresentanti statunitensi si sono mostrati disponibili e orientati alla collaborazione”.

Tuttavia, al di là delle convergenze, delle tattiche e delle percezioni di vantaggio, permangono nodi che sembrano difficilmente risolvibili. Le mosse della Casa Bianca di queste ultime settimane fanno intravedere, come durante la campagna per le presidenziali, la volontà di riconsiderare il sostegno militare all'Ucraina e un riassetto delle priorità strategiche più in linea con gli obiettivi di Putin. Tuttavia la completa accettazione delle condizioni poste da quest'ultimo appare un passo fin troppo rischioso. Il Cremlino continua a insistere sulla sua visione dell’Ucraina come zona soggetta all’influenza russa, Trump ha provato a far accettare a Zelensky molto più di un "rimborso" per i rifornimenti militari e gli aiuti inviati.

La partita, quindi, è ancora aperta. I primi contatti formali, salutati entusiasticamente in Russia e negli Stati Uniti dai sostenitori di Putin e Trump, hanno gettato le basi per un processo di trattative ad ampio raggio, ma finora è difficile immaginare una trattativa per una pace giusta e duratura che tenga conto di cosa vuole Kyiv. Intanto, paesi come Germania e Francia stanno valutando di inviare le proprie truppe sul territorio ucraino come "forza rassicurante".

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

Stati Uniti, decine di proteste contro le politiche di Trump e Musk

In seguito al licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici predisposto dal nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE), guidato dal miliardario Elon Musk e voluto da Trump, in alcune zone degli Stati Uniti si sono registrate proteste contro le politiche del fondatore di Tesla e del presidente della Casa Bianca. In particolare, centinaia di persone si sono radunate davanti alle concessionarie Tesla a New York, Kansas City e in tutta la California per protestare contro i tagli del DOGE. Gli organizzatori hanno riferito di almeno 37 dimostrazioni in uno sforzo coordinato attraverso gli hashtag social TeslaTakedown e TeslaTakover, con i manifestanti che hanno agitato cartelli con le scritte “Detronizzate Musk”, “Nessuno ha votato Elon Musk” e “Fermate il colpo di Stato”. In alcuni Stati democratici, inoltre, sono partite le rivendicazioni contro le politiche riguardanti i diritti all’aborto e delle persone transgender.

Attraverso il DOGE, istituito per ridurre la burocrazia statunitense, Musk ha finora licenziato più di 9.500 dipendenti federali che si occupavano di tutto, dalla gestione dei terreni federali all’assistenza dei veterani militari. I licenziamenti si aggiungono ai circa 75.000 lavoratori che hanno accettato una buonuscita offerta da Musk e Trump. Il presidente statunitense ha affermato che il governo federale è saturo e che troppi soldi vengono persi a causa di sprechi e frodi. Il governo ha circa 36 trilioni di dollari di debito e ha avuto un deficit di 1,8 trilioni di dollari l’anno scorso: c’è un accordo bipartisan sulla necessità di riforme. Tuttavia, l’ondata di licenziamenti ha causato proteste sia tra i dipendenti licenziati che tra i cittadini: molti lavoratori pubblici hanno affermato di sentirsi traditi dallo Stato che hanno servito per anni.

Trump e Musk hanno chiuso quasi completamente alcune agenzie governative come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Quest’ultimo era uno dei pochi uffici rimasti dalla crisi del 2008 con lo scopo di aiutare finanziariamente i cittadini comuni, ma è accusato dai repubblicani di abuso di potere. In risposta alla chiusura di queste Agenzie, è nata una nuova rete di dipendenti federali organizzata per contrastare i tagli nel settore pubblico, chiamata Federal Unionists Network (FUN).

Chris Dols, uno dei membri fondatori, ritiene che l’attacco al CFPB abbia chiarito qual è il vero obiettivo di Musk e Trump. «[Il CFPB] è la protezione dei consumatori contro le frodi», ha affermato, aggiungendo che «I truffatori se la sono presa con l’agenzia anti-truffa». In altre parole, secondo Dols, se Trump e Musk si preoccupassero davvero di ridurre gli sprechi e le frodi e di migliorare la vita dei lavoratori rafforzerebbero ed espanderebbero la portata del CFPB, anziché tagliarla.

Alcuni manifestanti, soprattutto negli Stati di stampo più “progressista” come la California, hanno messo in dubbio la legittimità di Elon Musk, sostenendo che nessuno lo ha votato e radunandosi fuori dalle concessionarie Tesla per protesta. Più di una trentina di eventi contro l’oligarca sudafricano naturalizzato statunitense sono andati in scena in varie parti degli USA, come riportato sul sito Action Network, dove si invitano le persone che possiedono delle Tesla o azioni della società a disinvestire, vendere il proprio veicolo e unirsi alle proteste. Le dimostrazioni seguono le notizie di incendi dolosi e danneggiamenti dei saloni Tesla in Oregon e Colorado. Alcuni investitori temono che il sostegno di Musk a Trump possa influenzare le vendite e sottrarre tempo allo sviluppo del marchio automobilistico: a gennaio le azioni Tesla hanno intrapreso una rapida discesa e anche le vendite risultano in calo.

La Casa Bianca ha affermato che Musk opera come dipendente governativo speciale non retribuito. Tale qualifica è riservata ufficialmente a coloro che lavorano per il governo per 130 giorni o meno in un anno. Fino ad ora, il DOGE ha chiuso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e sta cercando di chiudere il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Inoltre, come parte di una lotta alle politiche “woke“, Musk ha affermato che il suo team ha «risparmiato ai contribuenti oltre 1 miliardo di dollari in folli contratti DEI (diversità, equità e inclusione)».

L'Indipendente

Migliaia di persone protestano contro Trump e Musk in tutti e 50 gli Stati

Lunedì 17 febbraio 2025 migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutti gli Stati Uniti per protestare contro le misure di Donald Trump ed Elon Musk volte a smantellare radicalmente il governo federale in quello che molti hanno paragonato a un colpo di stato. Le proteste si sono svolte in tutte le capitali dei 50 Stati e in molte altre città. Molte delle proteste erano all’insegna dello slogan “Not My President’s Day”.

“Abbiamo Elon Musk e Donald Trump e i fratelli DOGE, i fratelli della tecnologia, che fanno a pezzi il nostro governo, fanno a pezzi la nostra Costituzione, ignorano lo stato di diritto. E il popolo americano deve opporsi” ha dichiarato Jay W. Walker di Rise and Resist durante una protesta a New York

A Washington, i manifestanti si sono riuniti davanti al Campidoglio e alla Casa Bianca. “Il fine non giustifica i mezzi. C’è un modo giusto e un modo sbagliato per realizzare un cambiamento e il Presidente Trump ha infranto ogni regola del cambiamento democratico appropriato nella nostra società” ha denunciato Daniel Fairholm.

Democracy Now!

Cosa possiamo aspettarci da un asse Putin-Trump

La conversazione telefonica tra Donald Trump e Vladimir Putin, avvenuta il 12 febbraio, ha aperto una nuova stagione nelle relazioni russo-americane, suggellata dall’incontro delle delegazioni dei due paesi il 18 febbraio a Riyad, in Arabia Saudita, dove il primo round di colloqui (senza la presenza di esponenti ucraini) è stato ritenuto soddisfacente dalle parti. Trova così conferma la posizione di un settore dell’establishment russo, che aveva visto nella rielezione di Trump un'opportunità per riaprire un canale di dialogo tra i due paesi, dopo anni di relazioni tese e sanzioni sempre più stringenti.

Tuttavia, a differenza del 2016, quando la vittoria di Trump aveva scatenato una vera e propria "trump-mania" in alcuni settori della politica e della società russa, questa volta le reazioni iniziali son state più tiepide, per poi diventare, nel corso dei sei giorni trascorsi, entusiaste, condizionate principalmente dal giudizio del presidente russo, apparso più che soddisfatto dalla conversazione con l’omologo statunitense e dai primi risultati del vertice saudita.

La diffidenza nei confronti delle dichiarazioni dell’entourage presidenziale statunitense, soprattutto all’interno del Ministero degli Esteri della Federazione Russa, dove prevaleva prudenza nel giudicare le prime mosse dell’amministrazione Trump, è stata sostituita dall’ebbrezza dovuta alle dichiarazioni del leader statunitense, che ha attaccato violentemente Volodymyr Zelensky, definito un “dittatore” responsabile della guerra in Ucraina, un comico fallito e altre amenità. Parole persino più forti di quanto detto e scritto dalla propaganda russa in questi anni.

La telefonata tra Putin e Trump: una corrispondenza d’amorosi sensi?

Putin, da parte sua, ha adottato una precisa strategia, inviando segnali mirati verso Washington, tra cui il recente scambio di prigionieri avvenuto poco prima della telefonata. L’operazione ha visto la liberazione dell’insegnante americano Marc Fogel, condannato a 14 anni di detenzione per possesso di marijuana, in cambio di Aleksandr Vinnik, fondatore della borsa di criptovalute BTC, estradato dalla Grecia negli Stati Uniti nel 2022. La scelta di Fogel non è stata casuale: Trump era stato sollecitato direttamente sul caso dalla madre del docente poco prima del comizio di Butler, durante il quale era rimasto ferito da un cecchino. Questo dettaglio ha conferito una valenza simbolica ancora più forte alla liberazione, permettendo a Trump di capitalizzare immediatamente sul piano politico la promessa di intervenire per la liberazione del cittadino americano detenuto in Russia. Un primo successo per la sua diplomazia personale, ottenuto senza eccessivo sforzo grazie alla collaborazione di Putin (d’altronde, arrestare qualcuno e poi rilasciarlo non richiede un grande sforzo da parte del Cremlino). Questo episodio ha inoltre permesso di ufficializzare i contatti e le conversazioni informali che si erano intensificati nelle settimane precedenti tra le due amministrazioni.

Se per Trump questo gesto rappresenta un passo iniziale fortunato in un percorso negoziale che si preannuncia complesso e irto di ostacoli, per Putin la tanto attesa telefonata giunge in un momento in cui ritiene di trovarsi in una posizione di vantaggio. La prospettiva russa è chiara: se i negoziati dovessero decollare, Mosca potrebbe cercare di ottenere concessioni significative; se invece fallissero o non prendessero mai realmente avvio, la situazione attuale costituisce già un successo per il Cremlino. Le dinamiche sul campo di battaglia confermano questa percezione: nel sud-est dell’Ucraina l’esercito russo, tra difficoltà, avanza lentamente ma con costanza, mentre Kyiv affronta problemi sempre più urgenti, dalla carenza di uomini da inviare al fronte all’incertezza sui rifornimenti militari occidentali. Le polemiche di Trump sul sostegno finanziario e militare garantito dall’amministrazione Biden all’Ucraina, unite ai segnali lanciati nelle prime settimane della sua presidenza, rafforzano l’impressione, a Mosca, che un ridimensionamento dell’impegno americano possa tradursi in vantaggi strategici per la Russia, in termini di minore pressione militare e difficoltà logistiche per Kyiv.

Le rivendicazioni di Putin restano sostanzialmente invariate rispetto agli ultimi anni: lo status dell’Ucraina come paese non solo neutrale, ma sottoposto all'influenza russa diretta; il cambio ai vertici della leadership di Kyiv, una posizione che trova un’eco, seppur indiretta, nelle dichiarazioni di Trump sulla necessità di elezioni presidenziali in Ucraina quanto prima possibile; e infine il riconoscimento de facto dell’occupazione russa del sud-est ucraino. Questi punti, tuttavia, vanno ben oltre un semplice compromesso diplomatico e rappresentano richieste che, se accettate, equivarrebbero a una vittoria completa per il Cremlino.

Al di là dell’Ucraina, un altro elemento significativo per Putin della conversazione tra i due leader è stato il Medio Oriente, con particolare riferimento ai rapporti con Teheran, con cui Mosca potrebbe svolgere un ruolo d’intermediazione. Il solo fatto che Trump abbia discusso di queste tematiche con Putin conferma, agli occhi del Cremlino, il riconoscimento della Russia come attore imprescindibile in scenari di crisi globali. In questo contesto, le reazioni europee alla telefonata hanno fornito ulteriori spunti di riflessione per Mosca: lo spaesamento evidente dei leader del Vecchio Continente, la contrarietà non troppo velata di esponenti della Commissione Europea come Kaja Kallas, le critiche del ministro tedesco della Difesa Boris Pistorius e le dichiarazioni di Ursula von der Leyen alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dove ha ribadito la necessità di ottenere la pace attraverso la forza, hanno evidenziato le profonde divisioni interne all’Occidente. 

Anche l’estromissione, forse temporanea, di Keith Kellogg, rappresentante speciale di Trump per l’Ucraina, dal team di contatto con i russi, è stata interpretata come un segnale favorevole a Mosca, data la nota ostilità dell’ex militare nei confronti del Cremlino. E a essere ottimisti sono anche alcuni esponenti dell’establishment russo: l’ex presidente Dmitry Medvedev, noto per le sue posizioni oltranziste, in questo caso ha sottolineato come

la conversazione tra i presidenti di Russia e Stati Uniti è di per sé un evento di grande importanza. La precedente amministrazione statunitense aveva interrotto tutti i contatti ai massimi livelli, con l'obiettivo di punire e umiliare la Russia. Il risultato è stato che il mondo è stato sull’orlo dell’apocalisse.

Il presidente della commissione Affari Esteri della Duma Leonid Slutsky ha invece evidenziato “la rottura dell’isolamento imposto dall’Occidente” per poi lasciarsi a considerazioni sul “ruolo delle personalità nella storia”. Significative anche le reazioni dei canali Telegram di orientamento ultranazionalista e di sostegno alla guerra, gestiti dai cosiddetti Z-aktivisty e voenkory (gli attivisti nazionalisti presenti al fronte come blogger e corrispondenti). Rybar, tra i più letti, ha scritto commentando la conversazione tra Trump e Putin: “quanto accaduto si distingue nettamente rispetto agli ultimi anni, durante i quali la posizione ufficiale dell’Occidente collettivo si riassumeva nel principio ‘niente sull'Ucraina senza l'Ucraina’. Come si può notare, ora ci si è dimenticati di quel principio”. Nel commentare le dichiarazioni alla stampa del presidente americano dopo la telefonata, addirittura Vladimir Solovyov, il noto presentatore televisivo e propagandista, ha contato quante parole siano state utilizzate dalle fonti statunitensi per descrivere le conversazioni con Putin e Zelensky: 315 a fronte di 107, per poi aggiungere “balza agli occhi la differenza di accenti, è evidente la differenza con cui si relaziona la Casa Bianca”.

Il vertice di Riyad, il ruolo di Kirill Dmitriev e l’ottimismo di Putin

Non è affatto casuale che sia stato scelta l’Arabia Saudita come prima sede degli incontri ufficiali tra le delegazioni russa e americana. Le buone relazioni tra il paese e gli Stati Uniti rappresentano un pilastro fondamentale della politica estera di Riyad, così come il sostegno militare garantito da Washington continua a rivestire un ruolo determinante nella sicurezza del regno. Allo stesso tempo, negli ultimi anni, i legami con la Russia si sono notevolmente rafforzati, nonostante un passato segnato da tensioni, in particolare durante gli anni Novanta e Duemila, quando l’Arabia Saudita sostenne l’ala islamista nei conflitti in Cecenia e nel Daghestan.

Un momento chiave di questo riavvicinamento si ebbe nell’ottobre del 2017, con la prima visita ufficiale di un monarca saudita a Mosca: il re Salman si presentò accompagnato da una delegazione imponente di oltre mille persone, tra funzionari, diplomatici e membri della famiglia reale. La visita non passò inosservata, tra mostre, ricevimenti, apertura di nuovi progetti d’investimento, promesse reciproche e la capitale russa bloccata da immensi codazzi di limousine e imponenti misure di sicurezza. Quella dimostrazione di potere e ricchezza era la manifestazione plastica di un interesse reciproco solido, fondato su obiettivi economici condivisi tra due grandi produttori di petrolio e gas.

L’Arabia Saudita, inoltre, è stata ripetutamente invitata a entrare nei BRICS e, secondo le previsioni, sarebbe dovuta diventare membro a pieno titolo nel 2024. Tuttavia, ciò non è avvenuto, in parte per via dei rapporti strategici che il regno continua a mantenere con Washington, il cui peso resta determinante nelle scelte di politica internazionale saudita.

Infine, il ruolo dell’Arabia Saudita nello scacchiere geopolitico è stato recentemente evocato anche da Donald Trump, che ha fatto appello a Riyad a lavorare ad un incremento della produzione petrolifera al fine di abbassare il prezzo del greggio. Questo riferimento, inserito nel contesto più ampio dei negoziati per la pace in Ucraina, suona come un messaggio chiaro rivolto a Mosca: un aumento delle estrazioni saudite—sebbene al momento un’ipotesi poco probabile—potrebbe compromettere seriamente i meccanismi alternativi con cui la Russia riesce a vendere il proprio petrolio e gas eludendo le sanzioni. 

Uno scenario simile rappresenterebbe un colpo significativo per l’economia russa e per le strategie messe in atto dal Cremlino per aggirare le restrizioni imposte dall’Occidente. Non a caso, nella delegazione russa giunta nella capitale saudita vi era anche Kirill Dmitriev, a capo del Fondo sovrano d’investimenti diretti, l’RFPI: nativo di Kyiv, Dmitriev negli anni Novanta ha studiato a Stanford e Harvard, e ha lavorato alla Goldman Sachs e alla Kinsley. A Mosca Dmitriev si è trasferito nel 2000, lavorando per altre compagnie statunitensi tra cui la Delta Private Equity e dopo una parentesi in Ucraina come direttore della Icon Private Equity nel 2007, è stato nominato a capo dell’appena formato fondo sovrano russo tre anni dopo.

La nomina è stata resa possibile, secondo quanto ricostruito dal media indipendente Vazhnye istorii, dai rapporti d’amicizia tra la moglie di Dmitriev, Natalia Popova, e Katerina Tikhonova, figlia di Vladimir Putin, al vertice della compagnia Innopraktika. Già nel 2013 il direttore dell’RFPI si era distinto come tramite tra il principe saudita Bandar bin Sultan, all’epoca a capo dell’intelligence del paese, e il Cremlino, facendosi latore di una proposta di investimenti da parte di Riyad in cambio del ritiro del sostegno russo al regime di Bashar al Assad in Siria e all’Iran, senza però ottenere alcun risultato. La rete di relazioni di Dmitriev è estesa dagli Stati Uniti ai paesi arabi fino alla Cina, e in alcune circostanze è stato l’intervento dell’amico della famiglia Putin a risolvere casi delicati, come l’arresto e la condanna di Michael Calvey, fondatore della Baring Vostok Capital Partners, tra le più importanti compagnie private d’investimenti in Russia, liberato dai domiciliari e scagionato dalle accuse grazie a Dmitriev.

Il nome del manager russo di Stato figura anche nel rapporto di Robert Mueller sui legami tra Donald Trump e le autorità russe durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2016: le indagini hanno stabilito che pochi giorni prima dell’inaugurazione del primo mandato del tycoon, Dmitriev si è incontrato con Erik Prince, fondatore della compagnia privata di contractors Blackwater, alle isole Seychelles. Sempre nell’inverno del 2017, durante il forum di Davos, l’esponente russo ha avuto un incontro con Anthony Scaramucci, allora consigliere di Trump per l’impresa.

L’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff, commentando alla stampa il rilascio di Marc Fogel, ha attribuito i meriti a un “gentiluomo di nome Kirill”, riferimento chiaro al direttore del fondo russo d’investimenti, candidato ad essere una figura cruciale nel corso dei negoziati tra le due potenze. Poco prima dell’inizio dell’incontro di Riyad, Dmitriev ha rilasciato una dichiarazione alla stampa in merito alle prospettive future delle relazioni economiche tra Russia e Stati Uniti, sottolineando la necessità di sviluppare iniziative congiunte in diversi ambiti strategici. “Dobbiamo realizzare progetti congiunti, ad esempio, nell'Artico e in altri settori; iniziative comuni ci consentiranno di avere maggior successo”, ha affermato, lasciando intendere che i colloqui tra le due potenze non siano limitati alla guerra in Ucraina, ma abbiano l’intenzione di affrontare una più ampia dimensione economica e geopolitica a livello globale.

Le parole del manager sembrerebbero suggerire che Mosca stia cercando di posizionarsi come un partner commerciale e industriale potenzialmente appetibile per Washington, offrendo nuove opportunità di investimento in settori strategici. In particolare, il riferimento all’Artico appare significativo: la regione, oltre a rappresentare una riserva cruciale di risorse naturali, è anche un teatro di crescente competizione internazionale, con implicazioni economiche, ambientali e militari. L’idea di una cooperazione russo-americana in un’area così sensibile sembra quindi avere una duplice funzione: da un lato, proporre un terreno di dialogo economico che vada oltre le tensioni politiche; dall’altro, rivolgersi a interlocutori specifici, come Donald Trump, noto per il suo interesse verso le opportunità di sfruttamento delle risorse naturali e per una visione delle relazioni internazionali basata sugli interessi economici come riferimento principale.

In questo contesto, l’apertura della Russia a progetti congiunti può essere letta come un tentativo di Mosca di provare a superare anche la politica delle sanzioni (della cui revoca si discute negli incontri) attraverso il coinvolgimento di attori economici statunitensi, cercando di alimentare dinamiche di “business as usual” che possano, nel tempo, tradursi in una maggiore influenza diplomatica e in una possibile rimodulazione dei rapporti bilaterali.

Vladimir Putin ha commentato i lavori del vertice russo-americano all’indomani, il 19 febbraio: d’ottimo umore, il presidente russo ha sottolineato come al centro del summit vi siano stati anche temi quali la collaborazione nello spazio e in Medio Oriente, per poi fornire una valutazione ottimista delle prospettive future. “Il lavoro continua e le prospettive sono buone, questo è stato oggetto di discussione e analisi durante l'incontro a Riyad” ha poi aggiunto Putin “il cui esito è stato valutato positivamente. In generale, da quanto mi è stato riferito, il vertice si è svolto in un clima molto cordiale, secondo i nostri partecipanti la delegazione americana era composta da interlocutori completamente diversi rispetto al passato: aperti a negoziati, privi di pregiudizi e senza alcuna intenzione di condannare ciò che è stato fatto in passato. Almeno nei contatti bilaterali non vi è stata alcuna traccia di tali atteggiamenti, anzi, i rappresentanti statunitensi si sono mostrati disponibili e orientati alla collaborazione”.

Tuttavia, al di là delle convergenze, delle tattiche e delle percezioni di vantaggio, permangono nodi che sembrano difficilmente risolvibili. Le mosse della Casa Bianca di queste ultime settimane fanno intravedere, come durante la campagna per le presidenziali, la volontà di riconsiderare il sostegno militare all'Ucraina e un riassetto delle priorità strategiche più in linea con gli obiettivi di Putin. Tuttavia la completa accettazione delle condizioni poste da quest'ultimo appare un passo fin troppo rischioso. Il Cremlino continua a insistere sulla sua visione dell’Ucraina come zona soggetta all’influenza russa, Trump ha provato a far accettare a Zelensky molto più di un "rimborso" per i rifornimenti militari e gli aiuti inviati.

La partita, quindi, è ancora aperta. I primi contatti formali, salutati entusiasticamente in Russia e negli Stati Uniti dai sostenitori di Putin e Trump, hanno gettato le basi per un processo di trattative ad ampio raggio, ma finora è difficile immaginare una trattativa per una pace giusta e duratura che tenga conto di cosa vuole Kyiv. Intanto, paesi come Germania e Francia stanno valutando di inviare le proprie truppe sul territorio ucraino come "forza rassicurante".

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

Stati Uniti, decine di proteste contro le politiche di Trump e Musk

In seguito al licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici predisposto dal nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE), guidato dal miliardario Elon Musk e voluto da Trump, in alcune zone degli Stati Uniti si sono registrate proteste contro le politiche del fondatore di Tesla e del presidente della Casa Bianca. In particolare, centinaia di persone si sono radunate davanti alle concessionarie Tesla a New York, Kansas City e in tutta la California per protestare contro i tagli del DOGE. Gli organizzatori hanno riferito di almeno 37 dimostrazioni in uno sforzo coordinato attraverso gli hashtag social TeslaTakedown e TeslaTakover, con i manifestanti che hanno agitato cartelli con le scritte “Detronizzate Musk”, “Nessuno ha votato Elon Musk” e “Fermate il colpo di Stato”. In alcuni Stati democratici, inoltre, sono partite le rivendicazioni contro le politiche riguardanti i diritti all’aborto e delle persone transgender.

Attraverso il DOGE, istituito per ridurre la burocrazia statunitense, Musk ha finora licenziato più di 9.500 dipendenti federali che si occupavano di tutto, dalla gestione dei terreni federali all’assistenza dei veterani militari. I licenziamenti si aggiungono ai circa 75.000 lavoratori che hanno accettato una buonuscita offerta da Musk e Trump. Il presidente statunitense ha affermato che il governo federale è saturo e che troppi soldi vengono persi a causa di sprechi e frodi. Il governo ha circa 36 trilioni di dollari di debito e ha avuto un deficit di 1,8 trilioni di dollari l’anno scorso: c’è un accordo bipartisan sulla necessità di riforme. Tuttavia, l’ondata di licenziamenti ha causato proteste sia tra i dipendenti licenziati che tra i cittadini: molti lavoratori pubblici hanno affermato di sentirsi traditi dallo Stato che hanno servito per anni.

Trump e Musk hanno chiuso quasi completamente alcune agenzie governative come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Quest’ultimo era uno dei pochi uffici rimasti dalla crisi del 2008 con lo scopo di aiutare finanziariamente i cittadini comuni, ma è accusato dai repubblicani di abuso di potere. In risposta alla chiusura di queste Agenzie, è nata una nuova rete di dipendenti federali organizzata per contrastare i tagli nel settore pubblico, chiamata Federal Unionists Network (FUN).

Chris Dols, uno dei membri fondatori, ritiene che l’attacco al CFPB abbia chiarito qual è il vero obiettivo di Musk e Trump. «[Il CFPB] è la protezione dei consumatori contro le frodi», ha affermato, aggiungendo che «I truffatori se la sono presa con l’agenzia anti-truffa». In altre parole, secondo Dols, se Trump e Musk si preoccupassero davvero di ridurre gli sprechi e le frodi e di migliorare la vita dei lavoratori rafforzerebbero ed espanderebbero la portata del CFPB, anziché tagliarla.

Alcuni manifestanti, soprattutto negli Stati di stampo più “progressista” come la California, hanno messo in dubbio la legittimità di Elon Musk, sostenendo che nessuno lo ha votato e radunandosi fuori dalle concessionarie Tesla per protesta. Più di una trentina di eventi contro l’oligarca sudafricano naturalizzato statunitense sono andati in scena in varie parti degli USA, come riportato sul sito Action Network, dove si invitano le persone che possiedono delle Tesla o azioni della società a disinvestire, vendere il proprio veicolo e unirsi alle proteste. Le dimostrazioni seguono le notizie di incendi dolosi e danneggiamenti dei saloni Tesla in Oregon e Colorado. Alcuni investitori temono che il sostegno di Musk a Trump possa influenzare le vendite e sottrarre tempo allo sviluppo del marchio automobilistico: a gennaio le azioni Tesla hanno intrapreso una rapida discesa e anche le vendite risultano in calo.

La Casa Bianca ha affermato che Musk opera come dipendente governativo speciale non retribuito. Tale qualifica è riservata ufficialmente a coloro che lavorano per il governo per 130 giorni o meno in un anno. Fino ad ora, il DOGE ha chiuso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e sta cercando di chiudere il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Inoltre, come parte di una lotta alle politiche “woke“, Musk ha affermato che il suo team ha «risparmiato ai contribuenti oltre 1 miliardo di dollari in folli contratti DEI (diversità, equità e inclusione)».

L'Indipendente

Migliaia di persone protestano contro Trump e Musk in tutti e 50 gli Stati

Lunedì 17 febbraio 2025 migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutti gli Stati Uniti per protestare contro le misure di Donald Trump ed Elon Musk volte a smantellare radicalmente il governo federale in quello che molti hanno paragonato a un colpo di stato. Le proteste si sono svolte in tutte le capitali dei 50 Stati e in molte altre città. Molte delle proteste erano all’insegna dello slogan “Not My President’s Day”.

“Abbiamo Elon Musk e Donald Trump e i fratelli DOGE, i fratelli della tecnologia, che fanno a pezzi il nostro governo, fanno a pezzi la nostra Costituzione, ignorano lo stato di diritto. E il popolo americano deve opporsi” ha dichiarato Jay W. Walker di Rise and Resist durante una protesta a New York

A Washington, i manifestanti si sono riuniti davanti al Campidoglio e alla Casa Bianca. “Il fine non giustifica i mezzi. C’è un modo giusto e un modo sbagliato per realizzare un cambiamento e il Presidente Trump ha infranto ogni regola del cambiamento democratico appropriato nella nostra società” ha denunciato Daniel Fairholm.

Democracy Now!

Cosa possiamo aspettarci da un asse Putin-Trump

La conversazione telefonica tra Donald Trump e Vladimir Putin, avvenuta il 12 febbraio, ha aperto una nuova stagione nelle relazioni russo-americane, suggellata dall’incontro delle delegazioni dei due paesi il 18 febbraio a Riyad, in Arabia Saudita, dove il primo round di colloqui (senza la presenza di esponenti ucraini) è stato ritenuto soddisfacente dalle parti. Trova così conferma la posizione di un settore dell’establishment russo, che aveva visto nella rielezione di Trump un'opportunità per riaprire un canale di dialogo tra i due paesi, dopo anni di relazioni tese e sanzioni sempre più stringenti.

Tuttavia, a differenza del 2016, quando la vittoria di Trump aveva scatenato una vera e propria "trump-mania" in alcuni settori della politica e della società russa, questa volta le reazioni iniziali son state più tiepide, per poi diventare, nel corso dei sei giorni trascorsi, entusiaste, condizionate principalmente dal giudizio del presidente russo, apparso più che soddisfatto dalla conversazione con l’omologo statunitense e dai primi risultati del vertice saudita.

La diffidenza nei confronti delle dichiarazioni dell’entourage presidenziale statunitense, soprattutto all’interno del Ministero degli Esteri della Federazione Russa, dove prevaleva prudenza nel giudicare le prime mosse dell’amministrazione Trump, è stata sostituita dall’ebbrezza dovuta alle dichiarazioni del leader statunitense, che ha attaccato violentemente Volodymyr Zelensky, definito un “dittatore” responsabile della guerra in Ucraina, un comico fallito e altre amenità. Parole persino più forti di quanto detto e scritto dalla propaganda russa in questi anni.

La telefonata tra Putin e Trump: una corrispondenza d’amorosi sensi?

Putin, da parte sua, ha adottato una precisa strategia, inviando segnali mirati verso Washington, tra cui il recente scambio di prigionieri avvenuto poco prima della telefonata. L’operazione ha visto la liberazione dell’insegnante americano Marc Fogel, condannato a 14 anni di detenzione per possesso di marijuana, in cambio di Aleksandr Vinnik, fondatore della borsa di criptovalute BTC, estradato dalla Grecia negli Stati Uniti nel 2022. La scelta di Fogel non è stata casuale: Trump era stato sollecitato direttamente sul caso dalla madre del docente poco prima del comizio di Butler, durante il quale era rimasto ferito da un cecchino. Questo dettaglio ha conferito una valenza simbolica ancora più forte alla liberazione, permettendo a Trump di capitalizzare immediatamente sul piano politico la promessa di intervenire per la liberazione del cittadino americano detenuto in Russia. Un primo successo per la sua diplomazia personale, ottenuto senza eccessivo sforzo grazie alla collaborazione di Putin (d’altronde, arrestare qualcuno e poi rilasciarlo non richiede un grande sforzo da parte del Cremlino). Questo episodio ha inoltre permesso di ufficializzare i contatti e le conversazioni informali che si erano intensificati nelle settimane precedenti tra le due amministrazioni.

Se per Trump questo gesto rappresenta un passo iniziale fortunato in un percorso negoziale che si preannuncia complesso e irto di ostacoli, per Putin la tanto attesa telefonata giunge in un momento in cui ritiene di trovarsi in una posizione di vantaggio. La prospettiva russa è chiara: se i negoziati dovessero decollare, Mosca potrebbe cercare di ottenere concessioni significative; se invece fallissero o non prendessero mai realmente avvio, la situazione attuale costituisce già un successo per il Cremlino. Le dinamiche sul campo di battaglia confermano questa percezione: nel sud-est dell’Ucraina l’esercito russo, tra difficoltà, avanza lentamente ma con costanza, mentre Kyiv affronta problemi sempre più urgenti, dalla carenza di uomini da inviare al fronte all’incertezza sui rifornimenti militari occidentali. Le polemiche di Trump sul sostegno finanziario e militare garantito dall’amministrazione Biden all’Ucraina, unite ai segnali lanciati nelle prime settimane della sua presidenza, rafforzano l’impressione, a Mosca, che un ridimensionamento dell’impegno americano possa tradursi in vantaggi strategici per la Russia, in termini di minore pressione militare e difficoltà logistiche per Kyiv.

Le rivendicazioni di Putin restano sostanzialmente invariate rispetto agli ultimi anni: lo status dell’Ucraina come paese non solo neutrale, ma sottoposto all'influenza russa diretta; il cambio ai vertici della leadership di Kyiv, una posizione che trova un’eco, seppur indiretta, nelle dichiarazioni di Trump sulla necessità di elezioni presidenziali in Ucraina quanto prima possibile; e infine il riconoscimento de facto dell’occupazione russa del sud-est ucraino. Questi punti, tuttavia, vanno ben oltre un semplice compromesso diplomatico e rappresentano richieste che, se accettate, equivarrebbero a una vittoria completa per il Cremlino.

Al di là dell’Ucraina, un altro elemento significativo per Putin della conversazione tra i due leader è stato il Medio Oriente, con particolare riferimento ai rapporti con Teheran, con cui Mosca potrebbe svolgere un ruolo d’intermediazione. Il solo fatto che Trump abbia discusso di queste tematiche con Putin conferma, agli occhi del Cremlino, il riconoscimento della Russia come attore imprescindibile in scenari di crisi globali. In questo contesto, le reazioni europee alla telefonata hanno fornito ulteriori spunti di riflessione per Mosca: lo spaesamento evidente dei leader del Vecchio Continente, la contrarietà non troppo velata di esponenti della Commissione Europea come Kaja Kallas, le critiche del ministro tedesco della Difesa Boris Pistorius e le dichiarazioni di Ursula von der Leyen alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dove ha ribadito la necessità di ottenere la pace attraverso la forza, hanno evidenziato le profonde divisioni interne all’Occidente. 

Anche l’estromissione, forse temporanea, di Keith Kellogg, rappresentante speciale di Trump per l’Ucraina, dal team di contatto con i russi, è stata interpretata come un segnale favorevole a Mosca, data la nota ostilità dell’ex militare nei confronti del Cremlino. E a essere ottimisti sono anche alcuni esponenti dell’establishment russo: l’ex presidente Dmitry Medvedev, noto per le sue posizioni oltranziste, in questo caso ha sottolineato come

la conversazione tra i presidenti di Russia e Stati Uniti è di per sé un evento di grande importanza. La precedente amministrazione statunitense aveva interrotto tutti i contatti ai massimi livelli, con l'obiettivo di punire e umiliare la Russia. Il risultato è stato che il mondo è stato sull’orlo dell’apocalisse.

Il presidente della commissione Affari Esteri della Duma Leonid Slutsky ha invece evidenziato “la rottura dell’isolamento imposto dall’Occidente” per poi lasciarsi a considerazioni sul “ruolo delle personalità nella storia”. Significative anche le reazioni dei canali Telegram di orientamento ultranazionalista e di sostegno alla guerra, gestiti dai cosiddetti Z-aktivisty e voenkory (gli attivisti nazionalisti presenti al fronte come blogger e corrispondenti). Rybar, tra i più letti, ha scritto commentando la conversazione tra Trump e Putin: “quanto accaduto si distingue nettamente rispetto agli ultimi anni, durante i quali la posizione ufficiale dell’Occidente collettivo si riassumeva nel principio ‘niente sull'Ucraina senza l'Ucraina’. Come si può notare, ora ci si è dimenticati di quel principio”. Nel commentare le dichiarazioni alla stampa del presidente americano dopo la telefonata, addirittura Vladimir Solovyov, il noto presentatore televisivo e propagandista, ha contato quante parole siano state utilizzate dalle fonti statunitensi per descrivere le conversazioni con Putin e Zelensky: 315 a fronte di 107, per poi aggiungere “balza agli occhi la differenza di accenti, è evidente la differenza con cui si relaziona la Casa Bianca”.

Il vertice di Riyad, il ruolo di Kirill Dmitriev e l’ottimismo di Putin

Non è affatto casuale che sia stato scelta l’Arabia Saudita come prima sede degli incontri ufficiali tra le delegazioni russa e americana. Le buone relazioni tra il paese e gli Stati Uniti rappresentano un pilastro fondamentale della politica estera di Riyad, così come il sostegno militare garantito da Washington continua a rivestire un ruolo determinante nella sicurezza del regno. Allo stesso tempo, negli ultimi anni, i legami con la Russia si sono notevolmente rafforzati, nonostante un passato segnato da tensioni, in particolare durante gli anni Novanta e Duemila, quando l’Arabia Saudita sostenne l’ala islamista nei conflitti in Cecenia e nel Daghestan.

Un momento chiave di questo riavvicinamento si ebbe nell’ottobre del 2017, con la prima visita ufficiale di un monarca saudita a Mosca: il re Salman si presentò accompagnato da una delegazione imponente di oltre mille persone, tra funzionari, diplomatici e membri della famiglia reale. La visita non passò inosservata, tra mostre, ricevimenti, apertura di nuovi progetti d’investimento, promesse reciproche e la capitale russa bloccata da immensi codazzi di limousine e imponenti misure di sicurezza. Quella dimostrazione di potere e ricchezza era la manifestazione plastica di un interesse reciproco solido, fondato su obiettivi economici condivisi tra due grandi produttori di petrolio e gas.

L’Arabia Saudita, inoltre, è stata ripetutamente invitata a entrare nei BRICS e, secondo le previsioni, sarebbe dovuta diventare membro a pieno titolo nel 2024. Tuttavia, ciò non è avvenuto, in parte per via dei rapporti strategici che il regno continua a mantenere con Washington, il cui peso resta determinante nelle scelte di politica internazionale saudita.

Infine, il ruolo dell’Arabia Saudita nello scacchiere geopolitico è stato recentemente evocato anche da Donald Trump, che ha fatto appello a Riyad a lavorare ad un incremento della produzione petrolifera al fine di abbassare il prezzo del greggio. Questo riferimento, inserito nel contesto più ampio dei negoziati per la pace in Ucraina, suona come un messaggio chiaro rivolto a Mosca: un aumento delle estrazioni saudite—sebbene al momento un’ipotesi poco probabile—potrebbe compromettere seriamente i meccanismi alternativi con cui la Russia riesce a vendere il proprio petrolio e gas eludendo le sanzioni. 

Uno scenario simile rappresenterebbe un colpo significativo per l’economia russa e per le strategie messe in atto dal Cremlino per aggirare le restrizioni imposte dall’Occidente. Non a caso, nella delegazione russa giunta nella capitale saudita vi era anche Kirill Dmitriev, a capo del Fondo sovrano d’investimenti diretti, l’RFPI: nativo di Kyiv, Dmitriev negli anni Novanta ha studiato a Stanford e Harvard, e ha lavorato alla Goldman Sachs e alla Kinsley. A Mosca Dmitriev si è trasferito nel 2000, lavorando per altre compagnie statunitensi tra cui la Delta Private Equity e dopo una parentesi in Ucraina come direttore della Icon Private Equity nel 2007, è stato nominato a capo dell’appena formato fondo sovrano russo tre anni dopo.

La nomina è stata resa possibile, secondo quanto ricostruito dal media indipendente Vazhnye istorii, dai rapporti d’amicizia tra la moglie di Dmitriev, Natalia Popova, e Katerina Tikhonova, figlia di Vladimir Putin, al vertice della compagnia Innopraktika. Già nel 2013 il direttore dell’RFPI si era distinto come tramite tra il principe saudita Bandar bin Sultan, all’epoca a capo dell’intelligence del paese, e il Cremlino, facendosi latore di una proposta di investimenti da parte di Riyad in cambio del ritiro del sostegno russo al regime di Bashar al Assad in Siria e all’Iran, senza però ottenere alcun risultato. La rete di relazioni di Dmitriev è estesa dagli Stati Uniti ai paesi arabi fino alla Cina, e in alcune circostanze è stato l’intervento dell’amico della famiglia Putin a risolvere casi delicati, come l’arresto e la condanna di Michael Calvey, fondatore della Baring Vostok Capital Partners, tra le più importanti compagnie private d’investimenti in Russia, liberato dai domiciliari e scagionato dalle accuse grazie a Dmitriev.

Il nome del manager russo di Stato figura anche nel rapporto di Robert Mueller sui legami tra Donald Trump e le autorità russe durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2016: le indagini hanno stabilito che pochi giorni prima dell’inaugurazione del primo mandato del tycoon, Dmitriev si è incontrato con Erik Prince, fondatore della compagnia privata di contractors Blackwater, alle isole Seychelles. Sempre nell’inverno del 2017, durante il forum di Davos, l’esponente russo ha avuto un incontro con Anthony Scaramucci, allora consigliere di Trump per l’impresa.

L’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff, commentando alla stampa il rilascio di Marc Fogel, ha attribuito i meriti a un “gentiluomo di nome Kirill”, riferimento chiaro al direttore del fondo russo d’investimenti, candidato ad essere una figura cruciale nel corso dei negoziati tra le due potenze. Poco prima dell’inizio dell’incontro di Riyad, Dmitriev ha rilasciato una dichiarazione alla stampa in merito alle prospettive future delle relazioni economiche tra Russia e Stati Uniti, sottolineando la necessità di sviluppare iniziative congiunte in diversi ambiti strategici. “Dobbiamo realizzare progetti congiunti, ad esempio, nell'Artico e in altri settori; iniziative comuni ci consentiranno di avere maggior successo”, ha affermato, lasciando intendere che i colloqui tra le due potenze non siano limitati alla guerra in Ucraina, ma abbiano l’intenzione di affrontare una più ampia dimensione economica e geopolitica a livello globale.

Le parole del manager sembrerebbero suggerire che Mosca stia cercando di posizionarsi come un partner commerciale e industriale potenzialmente appetibile per Washington, offrendo nuove opportunità di investimento in settori strategici. In particolare, il riferimento all’Artico appare significativo: la regione, oltre a rappresentare una riserva cruciale di risorse naturali, è anche un teatro di crescente competizione internazionale, con implicazioni economiche, ambientali e militari. L’idea di una cooperazione russo-americana in un’area così sensibile sembra quindi avere una duplice funzione: da un lato, proporre un terreno di dialogo economico che vada oltre le tensioni politiche; dall’altro, rivolgersi a interlocutori specifici, come Donald Trump, noto per il suo interesse verso le opportunità di sfruttamento delle risorse naturali e per una visione delle relazioni internazionali basata sugli interessi economici come riferimento principale.

In questo contesto, l’apertura della Russia a progetti congiunti può essere letta come un tentativo di Mosca di provare a superare anche la politica delle sanzioni (della cui revoca si discute negli incontri) attraverso il coinvolgimento di attori economici statunitensi, cercando di alimentare dinamiche di “business as usual” che possano, nel tempo, tradursi in una maggiore influenza diplomatica e in una possibile rimodulazione dei rapporti bilaterali.

Vladimir Putin ha commentato i lavori del vertice russo-americano all’indomani, il 19 febbraio: d’ottimo umore, il presidente russo ha sottolineato come al centro del summit vi siano stati anche temi quali la collaborazione nello spazio e in Medio Oriente, per poi fornire una valutazione ottimista delle prospettive future. “Il lavoro continua e le prospettive sono buone, questo è stato oggetto di discussione e analisi durante l'incontro a Riyad” ha poi aggiunto Putin “il cui esito è stato valutato positivamente. In generale, da quanto mi è stato riferito, il vertice si è svolto in un clima molto cordiale, secondo i nostri partecipanti la delegazione americana era composta da interlocutori completamente diversi rispetto al passato: aperti a negoziati, privi di pregiudizi e senza alcuna intenzione di condannare ciò che è stato fatto in passato. Almeno nei contatti bilaterali non vi è stata alcuna traccia di tali atteggiamenti, anzi, i rappresentanti statunitensi si sono mostrati disponibili e orientati alla collaborazione”.

Tuttavia, al di là delle convergenze, delle tattiche e delle percezioni di vantaggio, permangono nodi che sembrano difficilmente risolvibili. Le mosse della Casa Bianca di queste ultime settimane fanno intravedere, come durante la campagna per le presidenziali, la volontà di riconsiderare il sostegno militare all'Ucraina e un riassetto delle priorità strategiche più in linea con gli obiettivi di Putin. Tuttavia la completa accettazione delle condizioni poste da quest'ultimo appare un passo fin troppo rischioso. Il Cremlino continua a insistere sulla sua visione dell’Ucraina come zona soggetta all’influenza russa, Trump ha provato a far accettare a Zelensky molto più di un "rimborso" per i rifornimenti militari e gli aiuti inviati.

La partita, quindi, è ancora aperta. I primi contatti formali, salutati entusiasticamente in Russia e negli Stati Uniti dai sostenitori di Putin e Trump, hanno gettato le basi per un processo di trattative ad ampio raggio, ma finora è difficile immaginare una trattativa per una pace giusta e duratura che tenga conto di cosa vuole Kyiv. Intanto, paesi come Germania e Francia stanno valutando di inviare le proprie truppe sul territorio ucraino come "forza rassicurante".

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

Stati Uniti, decine di proteste contro le politiche di Trump e Musk

In seguito al licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici predisposto dal nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE), guidato dal miliardario Elon Musk e voluto da Trump, in alcune zone degli Stati Uniti si sono registrate proteste contro le politiche del fondatore di Tesla e del presidente della Casa Bianca. In particolare, centinaia di persone si sono radunate davanti alle concessionarie Tesla a New York, Kansas City e in tutta la California per protestare contro i tagli del DOGE. Gli organizzatori hanno riferito di almeno 37 dimostrazioni in uno sforzo coordinato attraverso gli hashtag social TeslaTakedown e TeslaTakover, con i manifestanti che hanno agitato cartelli con le scritte “Detronizzate Musk”, “Nessuno ha votato Elon Musk” e “Fermate il colpo di Stato”. In alcuni Stati democratici, inoltre, sono partite le rivendicazioni contro le politiche riguardanti i diritti all’aborto e delle persone transgender.

Attraverso il DOGE, istituito per ridurre la burocrazia statunitense, Musk ha finora licenziato più di 9.500 dipendenti federali che si occupavano di tutto, dalla gestione dei terreni federali all’assistenza dei veterani militari. I licenziamenti si aggiungono ai circa 75.000 lavoratori che hanno accettato una buonuscita offerta da Musk e Trump. Il presidente statunitense ha affermato che il governo federale è saturo e che troppi soldi vengono persi a causa di sprechi e frodi. Il governo ha circa 36 trilioni di dollari di debito e ha avuto un deficit di 1,8 trilioni di dollari l’anno scorso: c’è un accordo bipartisan sulla necessità di riforme. Tuttavia, l’ondata di licenziamenti ha causato proteste sia tra i dipendenti licenziati che tra i cittadini: molti lavoratori pubblici hanno affermato di sentirsi traditi dallo Stato che hanno servito per anni.

Trump e Musk hanno chiuso quasi completamente alcune agenzie governative come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Quest’ultimo era uno dei pochi uffici rimasti dalla crisi del 2008 con lo scopo di aiutare finanziariamente i cittadini comuni, ma è accusato dai repubblicani di abuso di potere. In risposta alla chiusura di queste Agenzie, è nata una nuova rete di dipendenti federali organizzata per contrastare i tagli nel settore pubblico, chiamata Federal Unionists Network (FUN).

Chris Dols, uno dei membri fondatori, ritiene che l’attacco al CFPB abbia chiarito qual è il vero obiettivo di Musk e Trump. «[Il CFPB] è la protezione dei consumatori contro le frodi», ha affermato, aggiungendo che «I truffatori se la sono presa con l’agenzia anti-truffa». In altre parole, secondo Dols, se Trump e Musk si preoccupassero davvero di ridurre gli sprechi e le frodi e di migliorare la vita dei lavoratori rafforzerebbero ed espanderebbero la portata del CFPB, anziché tagliarla.

Alcuni manifestanti, soprattutto negli Stati di stampo più “progressista” come la California, hanno messo in dubbio la legittimità di Elon Musk, sostenendo che nessuno lo ha votato e radunandosi fuori dalle concessionarie Tesla per protesta. Più di una trentina di eventi contro l’oligarca sudafricano naturalizzato statunitense sono andati in scena in varie parti degli USA, come riportato sul sito Action Network, dove si invitano le persone che possiedono delle Tesla o azioni della società a disinvestire, vendere il proprio veicolo e unirsi alle proteste. Le dimostrazioni seguono le notizie di incendi dolosi e danneggiamenti dei saloni Tesla in Oregon e Colorado. Alcuni investitori temono che il sostegno di Musk a Trump possa influenzare le vendite e sottrarre tempo allo sviluppo del marchio automobilistico: a gennaio le azioni Tesla hanno intrapreso una rapida discesa e anche le vendite risultano in calo.

La Casa Bianca ha affermato che Musk opera come dipendente governativo speciale non retribuito. Tale qualifica è riservata ufficialmente a coloro che lavorano per il governo per 130 giorni o meno in un anno. Fino ad ora, il DOGE ha chiuso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e sta cercando di chiudere il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Inoltre, come parte di una lotta alle politiche “woke“, Musk ha affermato che il suo team ha «risparmiato ai contribuenti oltre 1 miliardo di dollari in folli contratti DEI (diversità, equità e inclusione)».

L'Indipendente

Migliaia di persone protestano contro Trump e Musk in tutti e 50 gli Stati

Lunedì 17 febbraio 2025 migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutti gli Stati Uniti per protestare contro le misure di Donald Trump ed Elon Musk volte a smantellare radicalmente il governo federale in quello che molti hanno paragonato a un colpo di stato. Le proteste si sono svolte in tutte le capitali dei 50 Stati e in molte altre città. Molte delle proteste erano all’insegna dello slogan “Not My President’s Day”.

“Abbiamo Elon Musk e Donald Trump e i fratelli DOGE, i fratelli della tecnologia, che fanno a pezzi il nostro governo, fanno a pezzi la nostra Costituzione, ignorano lo stato di diritto. E il popolo americano deve opporsi” ha dichiarato Jay W. Walker di Rise and Resist durante una protesta a New York

A Washington, i manifestanti si sono riuniti davanti al Campidoglio e alla Casa Bianca. “Il fine non giustifica i mezzi. C’è un modo giusto e un modo sbagliato per realizzare un cambiamento e il Presidente Trump ha infranto ogni regola del cambiamento democratico appropriato nella nostra società” ha denunciato Daniel Fairholm.

Democracy Now!

La crociata anti-gender di Trump si conferma un cavallo di Troia per attaccare i diritti umani

Che la situazione fosse grave, ma non seria, avremmo dovuto capirlo già durante l’ultima campagna elettorale per le politiche del 2022. Era settembre, le elezioni dietro l’angolo e Federico Mollicone, al tempo candidato per Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati, tuonava: “È inaccettabile la scelta degli autori del cartone animato Peppa Pig di inserire un personaggio con due mamme. Ancora una volta il politicamente corretto ha colpito e a farne le spese sono i nostri figli. Ma i bambini non possono essere solo bambini?”.

Non potevamo saperlo, ma in quell’occasione la crociata contro il “gender” – e, contestualmente, contro il “woke” e il “politicamente corretto” – vedeva un punto di svolta. Non che prima le destre (estreme e non), le associazioni catto-integraliste e ben più di un appartenente a Santa Romana Chiesa non si fossero già espressi, in verità. Ma col governo dei patrioti la lotta alla temibile ideologia che rischia di trasformare in unicorni, drag queen o – peggio ancora – in gay e trans le generazioni più giovani, sarebbe diventata un punto qualificante dell’azione della nuova maggioranza politica. Non il caro bollette, non le politiche energetiche, non il salario minimo. Di fronte alle urgenze, cambia l’ordine di priorità. E la lotta al gender era (ed è tuttora) una di queste.

In effetti, un po’ ce la siamo cercata. Come apprendiamo in qualche accorato appello su giornali rigorosamente di destra da parte di attivisti gay e lesbiche che si dicono di sinistra, per poi dire cose di destra. E in cui si invita la comunità queer ad abbandonare massimalismi di sorta per essere più pragmatica. Dopo tutti questi anni – passati a imporre lo schwa, i femminili dei nomi di professione e altre catastrofi identitarie – che il maschio bianco, etero, borghese, cristiano corresse ai ripari dovevamo immaginarlo. Sarà il caso di passare in rassegna tutti i nostri errori, per evitare di ripeterli in futuro.

Innanzi tutto, abbiamo cominciato a invadere gli “spazi”. Anzi, per essere più precisi: abbiamo invaso gli spazi delle donne. A cominciare dai bagni. Il buon senso contemporaneo ci suggerisce che la separazione delle toilette per generi risponde a un’esigenza di sicurezza e di igiene. Ma non sempre è stato così. Ai tempi dell’antica Roma, ad esempio, tale distinzione non c’era e i bagni pubblici erano – con terminologia moderna – unisex. Spariti dalla scena pubblica col passare dei secoli, torneranno in voga dopo la rivoluzione industriale. Nelle fabbriche, in primis. Ma anche nei bar, nei pub, nei luoghi pubblici. Dove però c’erano solo quelli per uomini. Anche perché ad avere una vita sociale erano proprio i maschi. Avere dunque bagni separati fu un’esigenza portata avanti dalle associazioni femministe di fine Ottocento. 

Le donne (ma anche gli uomini) transgender chiedono di poter accedere ai bagni del genere in cui si riconoscono per le stesse identiche esigenze di sicurezza e di discrezione. Non deve essere facile, per una persona trans, condividere certi spazi con chi potrebbe deriderla, insultarla o addirittura aggredirla in ragione della sua identità di genere. Chi si dice contrario, invece, scomoda ragioni di sicurezza. Se basta definirsi donne per essere tali, è la critica mossa, chiunque potrà entrare nei bagni delle donne e, con la scusa, molestare o compiere abusi sessuali. D’altro canto, lo zelo anti-trans può anche andare contro le stesse donne cisgender. Come è successo, negli USA, dove la deputata repubblicana Lauren Boebert ha scambiato un’avventrice, dalle apparenze forse un po’ troppo mascoline, per la deputata transgender Sarah McBride nei bagni del Campidoglio, intimandole a lasciare il posto. Salvo poi capire che aveva compiuto un grosso errore.

Per fortuna ci pensa la nuova era trumpiana, che corre ai ripari e difende le donne combattendo "il gender". E con il benestare delle terf. Basterà vietare alle adolescenti transgender di poter usare le toilette femminili e le violenze spariranno. Evidentemente per chi difende questa scelta sarà sufficiente scrivere “ladies” sulla porta del bagno per impedire – un po’ come accade ai vampiri coi crocifissi – a orde di maniaci sessuali e di stupratori di intrufolarsi nei luoghi riservati alle donne (quelle “vere”). Chissà perché non ci abbiamo pensato prima!

Stessa cosa per le persone trans nel mondo dello sport. A leggere i siti specializzati delle cosiddette radfem, negli USA si assisterebbe a una vera e propria piaga sociale: eserciti di uomini che, attraverso una semplice dichiarazione, si improvvisano donne per rubare titoli, trofei, borse di studio e medaglie olimpioniche alle “donne bio”. Persone, ricordiamolo, che si sottopongono ad anni di terapie ormonali, mettendo a repentaglio le proprie reti di relazioni e amicizie, e affrontando stigma e rischio persecuzioni: tutto questo, a sentire certi ambienti, nella speranza di poter far carriera negli sport femminili.

Il caso Lia Thomas dovrebbe far scuola, almeno secondo certo femminismo gender critical per cui l’atleta trans da un giorno all’altro avrebbe deciso di farsi chiamare Lia per poter competere con delle avversarie facilmente sbaragliabili, incurante così di fornire un facile cavallo di battaglia ai Repubblicani. Peccato che esista Wikipedia, non a caso ora presa di mira dalla destra americana e da Musk. Lì possiamo scoprire che, prima della transizione, Lia “è giunta sesta ai campionati di nuoto maschili delle scuole superiori statali, gareggiando per la Westlake High School”. E, ancora, che “ha iniziato a nuotare nella squadra di nuoto maschile dell'Università della Pennsylvania nel 2017” raggiungendo “il sesto tempo nazionale maschile” e collocandosi, sempre prima della transizione “tra i primi 100 a livello nazionale”, arrivando al secondo posto nello stile libero maschile nel 2018-19. Dopo il coming-out e le terapie ormonali, le sue prestazioni sono calate di conseguenza, e pur avendo vinto delle gare i suoi tempi non brillavano certo per eccezionalità

Ma del resto, quando ci sono di mezzo atlete transgender, comunque vada sono colpevoli: se vincono è la prova di un vantaggio ingiusto; se perdono, o hanno risultati modesti, qualcuno le accuserà di farlo apposta per non generare sospetti sul vantaggio ingiusto. E se non competono, allora bisogna inventarsele, come per Imane Khelif, che ancora molte testate si ostinano ad accostare alla parola “trans”, come in questo articolo del Telegraph che usa la sua foto per commentare gli ordini esecutivi di Trump. Perché alla fine, sempre di “maschi biologici” si tratta, no? Così si loda persino Trump perché con la mano destra “difende la scienza” in nome dei cromosomi, mentre con l’altra distrugge l’immunologia nominando Robert F. Kennedy, Jr. alla Sanità e la climatologia sposando un’agenda negazionista. Poco importa se nella sua difesa “scientifica”, la definizione di sesso sia abbastanza discutibile, e soprattutto venga posta al “concepimento”, aprendo la strada alle leggi anti-aborto. 

Sarebbe interessante, ancora, capire come la pensano le terf e tutta la cosiddetta galassia gender critical sul nuovo corso trumpiano, dopo i furiosi dibattiti efficacemente portati avanti dai repubblicani, ora che conquiste quali l’interruzione di gravidanza sono seriamente messi in pericolo. E ora che gli spazi riservati alle donne sono sempre meno. Come si legge su Wired, e rilanciato nei loro spazi on line dalle scrittrici Licia Troisi e Vera Gheno, “un ordine ufficiale avrebbe imposto” alla NASA “di rimuovere tutti i riferimenti alle scienziate dalle sue pagine web”. Ah, se solo le scienziate non avessero insistito a mettere i pronomi sui profili social! Ironia a parte, la sensazione è che non ci sia lo stesso muro di fuoco con quella destra con cui sono andate a braccetto negli ultimi anni, in USA come in Italia, almeno dai tempi delle unioni civili e dell’affossamento del ddl Zan. 

Intanto la lotta contro il "gender", al di qua e al di là dell’oceano, va avanti senza esclusione di colpi. Trump, infatti, “makes America transphobic again” addossando a una donna trans il disastro aereo del 29 gennaio scorso, a Washington. Scopo nobile, nell’ottica repubblicana: dimostrare i nefasti effetti delle politiche di inclusione della precedente amministrazione. Peccato che fosse una notizia falsa. Al centro della polemica c’è finita Jo Ellis, aviatrice della Guardia Nazionale, e indicata come la pilota dell'elicottero Black Hawk, entrato in collisione con un aereo passeggeri, provocando la morte 67 persone. Ellis è comparsa in tv, dimostrando di non essere morta. E, dunque, di non aver mai pilotato quell’elicottero. Per sicurezza, l’amministrazione Trump si sta comunque impegnando a cancellare le persone trans ovunque, a partire dalla storia del paese e proseguendo alla ricerca scientifica e medica, dove un intero vocabolario è a rischio. Ve le ricordate le polemiche sulle statue e i “talebani” che volevano "cancellare" la storia? A quanto basta votare le persone giuste e poi si può cancellare, stavolta per davvero.

Nel frattempo, anche qui nel Belpaese la battaglia contro “gender” e persone trans non conosce sosta. Di recente, Massimo Prearo – ricercatore dell’Università di Verona – ha pubblicato, su Instagram, un post con due immagini. In una si vede l’ultima fatica letteraria del leghista Rossano Sasso (non c’è ironia) intitolata Il gender non esiste, titolo a cui segue l’ormai tradizionale slogan Giù le mani dai nostri figli. Nell’altra, una locandina di un’iniziativa “con lo stesso titolo, ma con sottotitolo un po' diverso” come fa notare lo studioso: Il gender non esiste. Transattivismo all'assalto di donne e bambini.

Il gruppo che ha organizzato l’evento, ricorda ancora Prearo, “si definisce ‘femminista radicale’” e “mette in forma e mobilita una versione ‘gender-critical’ del discorso anti-gender […]. Un discorso che vede nelle persone trans, nelle rivendicazioni LGBTQIA+, e nelle teorie queer un nemico da combattere […] da cancellare”. Anche qui, è certamente nobile l’intento di preservare le generazioni più fragili. Sarebbe interessante, tuttavia, capire come fanno queste femministe radicali ad adottare lo stesso identico linguaggio di una compagine politica che non brilla certo per femminismo. E ci dovrebbe spiegare il leghista in questione, che non vuole si mettano le mani sui bambini, come concilia questa missione con il sostegno a un governo che ha liberato un tale Almasri, ricercato internazionale anche per violenze e stupri (anche su minori) commessi nel carcere che dirigeva. A meno che non si voglia far credere che la lotta “all’ideologia di genere” sia più importante del principio di coerenza.

Nell’attesa di una risposta a questi interrogativi, va ricordato che a Perugia, il 28 gennaio scorso, durante un incontro sui disturbi alimentari in Comune, Clara Pastorelli (in quota FdI) ha chiesto ad alcune esperte se alla base del problema non ci fosse lo zampino del “gender”: “Al di là delle ideologie, vorrei capire secondo voi operatori che aiutate questi bambini e ragazzi quanto una parte di questa società e una parte politica che porta avanti politiche che cercano di confondere, aprire a tante possibilità quella che è la formazione della propria identità, principalmente sessuale, va a incidere oggi con dati concreti sulla crescita di questi disturbi”. Domanda dal vago sapore trumpiano, secondo Omphalos, la storica associazione Lgbtqia+ cittadina che ha aspramente criticato la patriota. A meno che, forte della vibrante denuncia del già citato Mollicone, Pastorelli non si sia convinta che vedendo Peppa Pig le nuove generazioni si rifiutino di mangiare derivati animali.

In tutto questo, la triade "gender-woke-politically correct" non perde occasione di insidiare il mondo dei più piccoli intrufolandosi anche tra i loro giochi. O almeno così lascerebbero intendere Il Giornale e Hoara Borselli, ancora in un video su Instagram. “L’ultima deriva woke ha colpito i Lego etichettandoli come omofobi. Al Science Museum di Londra l’audioguida afferma che i celebri mattoncini colorati possono rafforzare l’idea che l’eterosessualità “è la norma”. Il motivo? Le persone descriverebbero i mattoncini come aventi parti maschili o femminili che sono fatte per “accoppiarsi” tra di loro. La fine del buonsenso, insomma”.

Peccato che le cose non siano andate esattamente così. Il sito Pink News prova a far chiarezza. La sezione del museo dedicata ai Lego riporta le seguenti parole (di cui riporto la traduzione): "Come altri connettori e dispositivi di fissaggio, i mattoncini Lego sono spesso descritti in modo di genere. La parte superiore del mattoncino con i perni sporgenti è maschile, la parte inferiore del mattoncino con i fori per ricevere i perni è femminile e il processo di assemblaggio dei due lati è chiamato accoppiamento". E quindi: "Questo è un esempio di applicazione del linguaggio eteronormativo a temi non correlati a genere, sesso e riproduzione. Illustra come l'eteronormatività [...] modella il modo in cui parliamo di scienza, tecnologia e del mondo in generale". Il focus era sulla presenza di un linguaggio sessuato nella scienza e nella tecnologia. Ma nessuno ha mai dichiarato che i Lego siano omofobi o che promuovano i due generi.

In buona sostanza ciò che emerge, in tutti i casi riportati – e fuor da ogni ironia, per quanto tragica – è una duplice attitudine. In primo luogo, c’è un certo vittimismo. Gli attori politici e culturali riconducibili al campo delle destre sovraniste e suprematiste agitano un pericolo, di solito inventato o manipolato oltre misura, da cui si sentono sotto assedio. Ciò procura un allarme sociale più diffuso, che necessita di un nemico comune – e facilmente riconoscibile – da identificare come minaccia collettiva. Specialmente contro donne e, soprattutto, bambini. Una retorica già adottata in epoche passate contro altre minoranze le cui conseguenze sono state tristemente note. Nel caso della comunità LGBTQIA+, ad esempio, con l’equiparazione alla pedofilia. O l’appiattimento dell’identità gay all’HIV.

Per la seconda evidenza bisognerà scomodare il termine “repressione”. Per anni le forze conservatrici, ma anche quelle neoliberali e borghesi, hanno visto con sospetto la rabbia delle popolazioni afrodiscendenti contro le statue dei coloni schiavisti. O la necessità di problematizzare pellicole datate, in cui razzismo e sessismo sono ingrediente principale di certe narrazioni. O ancora la necessità di adottare linguaggi più rispettosi delle differenze, quando questi linguaggi riguardano la comunità queer, le donne, le persone disabili, razzializzate, e così via. E scomodando termini ideologicamente scellerati – uno tra tutti: cancel culture – per demonizzare il conflitto e le questioni poste dalle categorie marginalizzate e discriminate.

Invece di rispondere all’esigenza di superare quella visione del mondo, violenta e discriminatoria, si mette in campo la vecchia repressione: quella di un sistema di (dis)valori che si abbatte contro tutte le categorie succitate. Oggi tocca in prima istanza alle donne, che vedono ridotti diritti e spazi di rappresentazione, e alla stessa componente transgender. Agitando lo spettro “dell’ideologia gender”, che altro non è che un cavallo di Troia per cancellare de facto i diritti delle donne; e cavalcando l’ondata transfobica, ulteriore trojan che, sul medio e lungo periodo, colpirà i diritti della restante galassia LGB+. E un domani potrebbe riguardare altre categorie ancora, che oggi si sentono o fuori pericolo o addirittura protette. E ritenere che tale cancellazione non ci riguardi, perché non ci tocca in prima persona, è l’errore più grossolano che potremmo commettere. L’errore da evitare assolutamente.

(Immagine anteprima via Flicrk)