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Donald Trump

L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.

La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.

Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.

Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.

Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti  i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.

La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.

Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.

Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.

Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.

Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.

Immagine in anteprima via groundup.org.za

Perché ho firmato l’appello “No alla pulizia etnica”

Il 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.

Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Times pubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”). Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.

L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato

L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.

Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia. 

Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.

L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”. 

Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto.   C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore. 

L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili. 

Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.

Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi

Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.

Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.

Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.

Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).

La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi

L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”. 

Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.

Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.

In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.

Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.

Nato come parodia dell'annunciata Gaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.

È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretz che ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.

Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.

Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.

La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.

Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.

(Immagine in anteprima via Flick)

 

L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.

La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.

Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.

Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.

Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti  i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.

La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.

Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.

Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.

Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.

Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.

Immagine in anteprima via groundup.org.za

Perché ho firmato l’appello “No alla pulizia etnica”

Il 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.

Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Times pubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”). Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.

L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato

L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.

Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia. 

Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.

L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”. 

Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto.   C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore. 

L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili. 

Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.

Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi

Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.

Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.

Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.

Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).

La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi

L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”. 

Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.

Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.

In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.

Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.

Nato come parodia dell'annunciata Gaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.

È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretz che ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.

Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.

Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.

La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.

Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.

(Immagine in anteprima via Flick)

 

L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.

La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.

Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.

Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.

Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti  i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.

La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.

Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.

Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.

Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.

Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.

Immagine in anteprima via groundup.org.za

Perché ho firmato l’appello “No alla pulizia etnica”

Il 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.

Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Times pubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”). Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.

L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato

L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.

Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia. 

Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.

L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”. 

Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto.   C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore. 

L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili. 

Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.

Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi

Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.

Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.

Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.

Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).

La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi

L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”. 

Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.

Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.

In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.

Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.

Nato come parodia dell'annunciata Gaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.

È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretz che ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.

Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.

Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.

La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.

Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.

(Immagine in anteprima via Flick)

 

L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.

La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.

Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.

Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.

Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti  i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.

La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.

Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.

Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.

Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.

Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.

Immagine in anteprima via groundup.org.za

Perché ho firmato l’appello “No alla pulizia etnica”

Il 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.

Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Times pubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”). Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.

L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato

L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.

Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia. 

Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.

L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”. 

Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto.   C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore. 

L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili. 

Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.

Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi

Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.

Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.

Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.

Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).

La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi

L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”. 

Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.

Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.

In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.

Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.

Nato come parodia dell'annunciata Gaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.

È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretz che ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.

Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.

Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.

La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.

Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.

(Immagine in anteprima via Flick)

 

L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.

La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.

Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.

Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.

Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti  i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.

La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.

Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.

Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.

Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.

Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.

Immagine in anteprima via groundup.org.za

Perché ho firmato l’appello “No alla pulizia etnica”

Il 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.

Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Times pubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”). Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.

L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato

L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.

Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia. 

Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.

L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”. 

Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto.   C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore. 

L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili. 

Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.

Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi

Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.

Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.

Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.

Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).

La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi

L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”. 

Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.

Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.

In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.

Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.

Nato come parodia dell'annunciata Gaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.

È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretz che ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.

Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.

Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.

La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.

Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.

(Immagine in anteprima via Flick)