Salta al contenuto principale

Economia

Ultima Generazione al Macdonald’s di Varese

ULTIMA GENERAZIONE: VARESE, IN AZIONE AL MCDONALD’S

Volantini per denunciare un sistema di sfruttamento del lavoro e distruzione della terra

Varese, 24 marzo 2025 – Oggi, alle ore 13.30 in via Giuseppe Bolchini, cinque persone aderenti alla campagna Il Giusto Prezzo di Ultima Generazione, sono entrate presso il ristorante McDonald’s Varese Stadio.

Le persone hanno aperto degli striscioni con scritto Il Giusto Prezzo e Ultima Generazione e distribuito volantini, per presentare la nuova campagna il “Giusto Prezzo”, parlare con i clienti del fast food e denunciare i danni ecologici e di salute che causa il sistema alimentare e di sfruttamento del lavoro promosso da McDonald’s e da Inalca (azienda italiana di produzione di carne che collabora con la multinazionale statunitense).

Sul posto è intervenuta la polizia che ha identificato i partecipanti.

RISPONDIAMO ALLA PROPOSTA DEL PROF BURIONI

Un lavoratore di McDonald’s percepisce un salario di 6,50 € l’ora.
Un compenso ridicolo rispetto alla fatica e ai ritmi massacranti che deve affrontare ogni giorno.

Ma forse questo il professor Burioni, che dopo la nostra azione da Cracco ci invita con sdegno a protestare da McDonald’s, non lo sa.

Curioso poi che un uomo di scienza sembri suggerire McDonald’s come soluzione per le famiglie italiane, ignorando il fatto che parliamo di cibo ultra-processato, pieno di aromi sintetici, studiato per creare dipendenza e prodotto da un sistema che devasta l’ambiente.

Deforestazione, allevamenti intensivi, spreco di risorse: tutto per continuare a vendere hamburger a basso costo a discapito del pianeta.
Diteci, professore, è una nuova linea guida nutrizionale o solo un consiglio su dove stare zitti e buoni?

Paolo, 23 anni, cuoco locale ed ex dipendente di McDonald’s, ha dichiarato: Noi chiediamo un Giusto Prezzo per loro, che lavorano duramente per preparare i pasti di McDonald’s e vengono ripagati con appena 6,50 € all’ora.
Un compenso miserabile rispetto ai ritmi estenuanti e alla fatica che sopportano ogni giorno. Dov’è la giustizia in questo? E non sono solo loro.

Dietro il bancone c’è un’intera filiera di lavoratori sfruttati, invisibili, senza diritti, che rendono possibile questa produzione di massa. Un sistema che calpesta le persone e ci vende cibo che ci fa ammalare.

Ma allora, qual è il vero prezzo di tutto questo? Non esiste un “giusto prezzo” per la nostra salute fisica e mentale, giusto?!

TRE EURO E NOVANTA PER UN PASTO DA MCDONALD’S NON SONO UN GIUSTO PREZZO

E’ stata questa la campagna della multinazionale americana dal 19 febbraio al 18 marzo scorso.
Ma quello di McDonald’s è un cibo che fa ammalare di obesità e di diabete, prodotto con lo sfruttamento delle risorse naturali, dei grandi allevamenti intensivi con enormi emissioni di CO2, dei lavoratori del settore agricolo in tutto il pianeta.

LA CAMPAGNA “IL GIUSTO PREZZO”

Viviamo in un mondo distorto, avvolto in una totale illusione di abbondanza.
Passeggiando tra le luci dei supermercati, con scaffali traboccanti e frutti perfetti, nessuno vede cosa si nasconde dietro: eventi climatici estremi che distruggono i raccolti, case, vite, e piccoli agricoltori schiacciati da prezzi imposti, debiti e regole scritte per avvantaggiare solo la grande distribuzione organizzata, l’agribusiness e i manager delle multinazionali.
Per questo, la crisi climatica è sempre più spesso sinonimo di chiusura della propria azienda. Dall’altra parte, le famiglie italiane vedono i prezzi dei beni e servizi essenziali salire inesorabilmente, mentre i salari sono fermi da anni.

COSA CHIEDIAMO?

PROTEGGERE I RACCOLTI: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti.
Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni.
Dobbiamo proteggere i raccolti e, per farlo, è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.

AGGIUSTARE I PREZZI: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale.
Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.

FAR PAGARE I RESPONSABILI: Chi rompe paga.
Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.

Ultima Generazione

La guerra per la crescita, la crescita per la guerra

Luigino Bruni, economista e teologo, scrive: «Nella sua breve storia, il capitalismo ha avuto un rapporto ambivalente con la democrazia, con la pace e con il libero mercato. La storia, infatti, qualche volta, pensiamo alla nascita della Comunità europea, ha confermato la tesi di Montesquieu: “L’effetto naturale del commercio è il portare la pace” (L’Esprit des Lois, 1745). Altre volte, e forse sono quelle più numerose incluso il nostro presente, i fatti hanno dato invece ragione al napoletano Antonio Genovesi: “Gran fonte di guerre è il commercio”, perché “lo spirito del commercio non è che quello delle conquiste” (Lezioni di economia civile, 1769). Quale, allora, – si chiede Bruni – il rapporto tra lo spirito del capitalismo e lo spirito della pace, della democrazia e della libertà?». (Luigino Bruni, Come il capitalismo si sta alleando con la cultura bellica e illiberale. – Avvenire, martedì 25 febbraio 2025).

Sulla stessa linea di ricerca il giurista Gustavo Zagrebelsky: «La globalizzazione sembrò a molti promettere un futuro in cui la concorrenza commerciale illimitata avrebbe sostituito la guerra. È un abbaglio che viene da lontano. Trecento anni fa, quel burlone di Voltaire, nella IV lettera filosofica, s’era commosso: “Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corte reali: vi troverete riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le nazioni. Là l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’un con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta”». (Gustavo Zagrebelsky, Facilitatori di pace al tempo di guerra – la Repubblica, 31 dicembre 2024).

L’idea che l’economia in un mercato più o meno regolamentato conduca alla pace – oltre che al benessere materiale per tutti i popoli che vogliano seguire tale modello – è ancora ampiamente condivisa e sostenuta dalle liberaldemocrazie e dalle socialdemocrazie. Come abbiamo visto, affonda le sue radici nel liberalismo dell’Illuminismo, da Montesquieu a Voltaire fino a Kant, per incontrare Jeremy Bentham e Herbert Spencer e approdare a Norman Angell, premio Nobel per la pace nel 1933. L’economia come veicolo per la pace, dopo la Seconda guerra mondiale, trova sostenitori in Lord John Maynard Keynes, Kenneth Boulding e negli Economists for Peace and Security.

Ultimamente, dopo il ritorno delle guerre in Europa, un gruppo di economisti keynesiani di sinistra, tra cui Emiliano Brancaccio, ha prodotto un appello The Economic Conditions for the Peace (pubblicato dal Financial Times il 17 febbraio 2023) che chiede di «creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».

L’approccio che seguono gli economisti per la pace è pragmatico, basato su dati evidenti e perciò ritenuto più convincente. Facendo leva sugli interessi concreti delle persone è possibile convincere i governi a non sprecare risorse nelle guerre. La pace conviene, evidentemente, anche da un punto di vista strettamente economico. Applicando criteri di valutazione “costi-opportunità” della macroeconomia classica, “a conti fatti”, il solo mantenimento di uno stato permanente di deterrenza armata anche in “tempo di pace” sottrae denaro allo sviluppo economico e sociale. A ciò va aggiunta la distruzione netta e diretta di risorse materiali nel corso degli inevitabili conflitti militari (perdita di capitale fisso, umano, sociale, naturale). (Si legga anche quanto scrive Raul Caruso in Economia di pace, Il Mulino, 2017).

La tesi degli economisti per la pace è che – al netto di altre motivazioni d’ordine ideologico e identitario, religiose, razziali, nazionaliste che possono portare i popoli a odiarsi e aggredirsi – lo scontro per motivi economici può sempre essere ricomposto usando gli stessi strumenti che regolano le attività economiche – senza ricorrere alle guerre. Una corretta politica economica, infatti, dovrebbe tendere a un equo accesso alle risorse e a una giusta redistribuzione degli utili consentendo di soddisfare le esigenze di tutte le popolazioni della Terra, rappacificandole. È la teoria della crescita economica in un sistema regolato di libera concorrenza variamente illustrata da metafore come quelle dei “vasi comunicanti” o della marea che alza nel porto tutte le barche (quelle dei ricchi e quelle dei poveri) o del trickle-down effect (sgocciolamento della ricchezza). Le politiche economiche democratiche sono state viste come “antidoto” alla legge primordiale del più forte praticata in altre fasi del capitalismo sfociate nel colonialismo e nell’imperialismo.

Lo sviluppo economico per il benessere di tutte e tutti come arma di pace, quindi?

Teoricamente l’idea che persone, comunità e popoli intenti a migliorare le proprie condizioni materiali collaborino e cooperino gli uni con gli altri per massimizzare i risultati del proprio lavoro è quanto di più bello e desiderabile si possa immaginare. La società che tutti vogliamo è operosa e pacifica.

Il guaio, il “baco” che fa fallire l’idea dello sviluppo progressivo del benessere economico, si annida dentro il modello stesso della crescita economica.

Se si assume, infatti, come scopo ultimo dell’attività economica quello dell’aumento indefinito e illimitato dei beni e dei servizi da offrire alle persone si innesca una corsa competitiva tra le imprese senza fine. Si finisce per perdere di vista lo scopo (il benessere, non il consumo) e il senso dell’impresa economica (soddisfare bisogni autentici delle persone, non accumulare valori monetari). La crescita per la crescita trasforma il mezzo (l’economia) in fine. Ciò che Serge Latouche ha apostrofato in vari modi: “paneconomia”, “apoteosi dell’economia”, “totalitarismo dell’economia”, ossia che: «La monetizzazione di ogni cosa provoca il collasso delle significazioni.» (Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati e Boringhieri, 2010).

Si finisce così per mettere in moto un «Un ciclo – bene descritto dall’antropologo Jason Hickel – che si autoalimenta, un tapis roulant in continua accelerazione: il denaro diventa profitto che diventa più denaro che diventa più profitto». La crescita è un imperativo strutturale, una legge ferrea del capitalismo, poiché il suo fine non è l’utilità del prodotto che l’impresa capitalista mette sul mercato ma il profitto che la sua vendita permette di realizzare. Da qui la necessità di creare continuamente nuovi mercati, nuovi oggetti, nuovi bisogni. «Se non si cresce si crolla» (Jason Hickel, Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta. Il Saggiatore 2020. Titolo originale: Less Is More: How Degrowth Will Save The World).

L’economia iscritta nella logica della crescita non conduce, quindi, a realizzare un equilibrato sistema di relazioni tra gli esseri umani e men che meno tra questi e gli ecosistemi naturali. Al contrario scatena rivalità e promuove le competizioni, incentiva l’avidità, non tiene conto dei limiti biogeofisici del pianeta (il metabolismo naturale). L’economia della crescita non assomiglia affatto al “dolce commercio” immaginato da Montesquieu e nemmeno alla “globalizzazione che funziona” ipotizzata da Joseph Stiglitz. Al contrario l’economia che ha al centro le ragioni del capitale ha bisogno, ieri come oggi, delle cannoniere che presidiano le rotte mercantili e gli oleodotti, di basi militari che controllano le zone di influenza, di eserciti sul campo che occupano i giacimenti minerari e i pozzi di petrolio e di polizia nelle piazze.

Mai dalla Seconda guerra mondiale ci sono state tante guerre aperte come oggi. Mai la spesa militare è schizzata come dopo il crollo del muro di Berlino.

Tornando a Luigino Bruni: «Questo capitalismo conosce la sola etica dell’accrescimento dei flussi e degli asset economici e finanziari, tutto il resto è solo mezzo in vista di questo unico fine. Tra i mezzi ci possono essere anche la democrazia, il libero mercato e la pace, ma non sono necessari. Lo spirito del capitalismo e dei capitalisti è adattivo e pragmatico: se in una regione del pianeta c’è democrazia, libertà di scambi e pace, si inseriscono in queste dinamiche democratiche, liberali e pacifiche e fanno i loro affari; ma non appena il clima politico cambia, con un cinismo perfetto cambiano linguaggio, alleati, mezzi, e usano guerre, dittature, dazi, populisti e populismi per continuare a perseguire il loro unico scopo. E se in circostanze ancora diverse, del passato e del presente, qualche grande potentato economico intravvedere in possibili scenari bellici, non liberali e non democratici opportunità di maggiori guadagni, non ha nessun scrupolo a favorire quel cambiamento, perché, giova ripeterlo, il telos, la natura di questo capitalismo non è né la pace, né la democrazia né il libero mercato, ma soltanto profitti e rendite. Ieri, e oggi.»

C’è un difetto di origine nel sistema economico oggi imperante – chiamiamolo con il suo nome: capitalismo – che lo rende strutturalmente inadatto alla pace. Il motore di questa economia è l’avidità e il risultato non può che essere rivalità, ostilità e antagonismo tra le persone, tra le comunità, tra gli stati. Per “ripudiare” la guerra e togliere il fucile dalla spalla dell’economia è necessario inventare e praticare un’economia di pace. Un’economia disarmata, war free.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è“ – pubblicato anche su attac-italia

 

Paolo Cacciari

Estendere il Reddito di Cittadinanza! Se non ora quando? Il welfare non è una spesa, ma un investimento!

Al Governo ed al Parlamento italiano

In un momento in cui è essenziale riconoscere che ciascun individuo è parte attiva e responsabile di una comunità, questo è il tempo in cui è necessario dare prova di aderire davvero al piano della società e ai suoi bisogni reali, questo è il tempo di garantire il diritto all’esistenza.

Ora è il tempo che ci mette davanti a cambiamenti sempre più repentini e alla necessità di strutture politiche e sociali adeguate. Sia per rispondere all’attuale emergenza sia per ridefinire una misura più universale di protezione sociale.

È il tempo di semplificare le misure, includere tutta la popolazione, garantire ciascun individuo a prescindere dalla appartenenza alla categoria del lavoro o non lavoro. Dopo i primi provvedimenti destinati agli ammortizzatori sociali è necessario garantire una universalità degli interventi.

L’Italia ha introdotto dal 2019 la misura del reddito di cittadinanza che ora, se opportunamente riformata in senso più universalistico e meno vincolante, può essere un importante strumento di sostegno alle persone, come diritto di esistenza.

Per questo riteniamo urgente:

– Espandere , ampliando significativamente la soglia di accesso , la misura del Reddito di Cittadinanza per raggiungere tutte e tutti coloro che sono escluse ed esclusi dagli ammortizzatori sociali;

– Semplificare le procedure ed i criteri di accesso e rendere l’erogazione immediata ;

– Riconoscere l’individualità della prestazione;

– Liberare la misura dai vincoli delle politiche attive, o altri obblighi , dispendiosi e ora quanto mai inefficaci;

– Utilizzare tutte le forme di finanziamento , anche dei fondi europei, destinate a sostenere la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza;

– Prevedere che le modifiche in senso universalistico della misura non si esauriscano nel periodo della “quarantena” o “dell’emergenza”, ma divengano strutturali , come fondamento di un nuovo Welfare finalmente inclusivo e garantistico.

Il welfare non è una spesa, ma un investimento!

Consiglio direttivo del Basic Income Network (BIN) Italia

firma la petizione
*Per le realtà sociali e collettive che vogliono aderire e inserire la loro firma in calce, inviare una mail a info@bin-italia.org

Redazione Italia

Scioperare insegna a scioperare, in corteo con i librai Feltrinelli

Con tutti i suoi difetti, il tobleronico edificio della Fondazione Feltrinelli a Milano è un posto perfetto dove far partire un corteo. L’algida piazza davanti all’ingresso sembra fatta apposta per essere invasa da scarpe da ginnastica, bandiere, striscioni, fumogeni e da una playlist, dai Lunapop ai Depeche Mode, che esce da una cassa tirata da una bicicletta. Sulle vetrate della Fondazione, pulitissime come sempre, si riflettono le figure dei manifestanti che arrivano alla spicciolata, mentre la citazione di Ferruccio Parri a lettere cubitali sulla facciata – È IN GIOCO L’AVVENIRE – si presta ad automatici détournement. I sindacati di librai e libraie Feltrinelli (Filcams CGIL, Fisascat CISL e Uiltucs) hanno convocato il concentramento per il corteo qui il 17 marzo perché contemporaneamente era prevista una Convention di due giorni per i settant’anni dell’editore. Convention poi ridotta a un giorno solo, il 18. La mattina di sole dopo tanti giorni di pioggia sembra confermare che è comunque il giorno giusto per scioperare.

Nelle 120 librerie del gruppo sparse per l’Italia si sciopera per il rinnovo del Contratto integrativo aziendale, le questioni in ballo sono: abolizione del salario d’ingresso per i neoassunti, chiarezza sui premi di risultato e aumento di 1.5€ dei buoni pasto, oggi fermi a 6€. A quanto pare l’azienda ha abbandonato la trattativa proprio su quest’ultima questione, vorrebbe spalmare l’aumento su tre anni, mentre per i sindacati deve avvenire entro un anno. Dalle interviste raccolte da Radio Onda d’Urto è chiaro che librai e libraie non scioperano solo per anticipare l’arrivo di un buono da 7.5€ con cui, non solo a Milano, serve una certa creatività per mettere insieme un pasto degno di questo nome. Il conflitto ha a che fare con il progressivo svilimento del lavoro, con i tanti anni di contratti di solidarietà e cassa integrazione e con la speculare narrazione trionfalistica con cui vengono raccontati i successi aziendali – uno stile sopra le righe anche per gli standard del settore culturale che, si vocifera da qualche anno, potrebbe essere il preludio di un corposo riassetto della proprietà.

Al di là della retorica, il gruppo Feltrinelli appare in buona salute – nel 2023 i ricavi hanno raggiunto i 510 milioni e il margine operativo lordo è aumentato del 10% –, un momento ideale per ottenere miglioramenti del contratto, ma l’adesione allo sciopero non è scontata: sia nelle interviste in radio che nelle chiacchiere in piazza è chiaro che per molti lo sciopero è una novità e, soprattutto, che buona parte di chi lavora in Feltrinelli ha scelto di farlo per un’adesione al progetto culturale, oggi brand, che da settant’anni è schierato “a sinistra”. Una componente vocazionale – che si traduce in una maggiore capacità di sopportare condizioni di lavoro peggiori, a parità di salario, per un lavoro che “piace” – che riguarda molti altri che lavorano in ambiti culturali e creativi. Forse è per questo che quando ho letto per la prima volta la frase che chiude il volantino distribuito nei giorni prima del corteo ho pensato che non si rivolgesse solo a librai e libraie Feltrinelli: “Leggere insegna a leggere. Scioperare insegna a scioperare”. Si rivolgeva anche a noi.

Faccio parte del contingente di freelance editoriali di Redacta che accompagna il corteo, in solidarietà con chi sciopera. Negli anni abbiamo organizzato eventi e firmato petizioni per i lavoratori della stampa, in particolare Grafica Veneta, e per quelli della logistica, sia quelli del gigantesco magazzino editoriale di Stradella (Pv) – dove la joint venture Feltrinelli-Messaggerie stocca e distribuisce la maggior parte dei libri italiani –, sia quelli della Gls di Napoli. La solidarietà non è mai scontata, ma può essere anche facile, un post sui social e poco più. Per questo preferiamo gli incontri. Tre anni fa abbiamo organizzato un confronto in uno storico spazio anarchico milanese con alcuni di quelli che oggi scioperano. Alcuni di loro tre anni fa non lavoravano in libreria, erano freelance. Aspettando la partenza del corteo ci facciamo due chiacchiere: qualcuno ha fatto per anni da “consulente” con scrivania, con orario di lavoro, ma senza contratto per una casa editrice indipendente, qualcun altro ha migliaia di euro di crediti da una scuola di editoria che, mentre i founder riempiono il proprio feed Instragram di viaggi ai tropici, ha smesso di pagare i fornitori. C’è il ragazzo con il record di stage e la ragazza che ci racconta la volta che, da collaboratrice esterna di un’altra casa editrice con brand progressista, ha contrattato il proprio indegno compenso e si è vista proporre un magnanimo aumento di 20 centesimi a pagina. Tutte persone con lauree e master che hanno abbandonato il lavoro freelance e sono finite a vendere libri in Feltrinelli. Alcune hanno ottenuto il tempo indeterminato, altre no: partecipano allo sciopero da clandestine, nel giorno di riposo. Le riconosci perché si sfilano opportunamente dalle foto. È la prima volta che hanno occasione di scioperare nella loro carriera editoriale e non se la sono fatta sfuggire.

Alle 11 abbiamo assorbito abbastanza radiazioni solari e partiamo per il breve percorso che prevede una tappa a Casa Feltrinelli, nuova sede della casa editrice e di altri uffici del gruppo, per concludersi sul cavalcavia Bussa, tozzo e grigio asfalto, da cui si vede buona parte dei grattacieli spuntati negli ultimi quindici anni a Milano. Feltrinelli ha anche un prestigioso patrimonio immobiliare, non solo tobleroni.

Alla partenza del corteo, con le bandiere che sventolano e i fumogeni che ci avvolgono, ci scambiamo un’occhiata perplessa: il fatto che dopo sei anni di Redacta non abbiamo ancora uno striscione, o almeno una bandierina, può essere spiegato con le particolarità sociologiche e organizzative del lavoro freelance, sì, ma rimane un peccato. La nostra borsina di tela con lo slogan “Belli i libri, ma la vita di più” fa comunque la sua discreta figura.

L’impasse viene superata grazie a una signora che distribuisce bandiere della Cgil, ci vede con le mani libere e ce ne porge una, la afferriamo con una certa convinzione e ci mettiamo a sventolare verso la sede della casa editrice. Dalle finestre dell’ultimo piano alcuni impiegati si sbracciano per salutare, non sono coinvolti direttamente nello sciopero perché sono inquadrati con un altro contratto integrativo. Altri aspettano in strada e si uniscono ai cori che partono dal corteo. Passano diversi minuti così, con canti, fumogeni, bandiere e gruppetti che chiacchierano da una parte, un palazzo tirato a lucido che si svuota pian piano di persone dall’altra.

Alla fine le adesioni allo sciopero in tutta Italia hanno avuto percentuali molto alte, secondo i sindacati 80-90%, un successo. Lo scopriremo solo qualche ora dopo. Tra i parcheggi del cavalcavia Bussa ascoltiamo una delegata che legge una lettera di solidarietà dei lavoratori dell’Ikea, molto bella, e poi invita tutti a pranzare insieme nei dintorni. Noi abbiamo già ricominciato a guardare la mail, rispondiamo a caporedattrici e autori scombussolati dalla nostra assenza di risposte dalle 10 alle 12 di lunedì mattina: il file deve andare in stampa oggi pomeriggio, puoi ricontrollare le testatine? E queste ultime correzioni alla bibliografia, le puoi inserire? E questo titolo, ti convince?

Eravamo così concentrati sullo sciopero che non ci siamo accorti di aver smesso di lavorare.

fonte: monitor

 

Redazione Italia

Operatori del sociale di nuovo in piazza: la rivendicazione prosegue davanti al Comune di Torino

Continua la protesta degli operatori del settore contro la politica al ribasso dei servizi sociali, messa in atto dal Comune di Torino e per il riconoscimento della loro professionalità e del loro diritto alla giusta retribuzione, al motto di “non siamo solo rette”.

Dopo il primo momento di protesta (qui è possibile evincere un’analisi più approfondita della situazione e delle richieste dei lavoratori), oggi, lunedì 24 marzo 2025, oltre 200 persone tra operatori socio sanitari, educatori, utenti dei servizi e le loro famiglie, si sono ritrovati davanti al Municipio di Torino in Piazza Palazzo di Città.

Le parole d’ordine non sono cambiate, quanto mai attuali:

  • revisione integrale delle tariffe dei servizi socio-sanitari in accreditamento:
  • rispetto degli aumenti previsti dai CCNL di settore:
  • riconoscimento e valorizzazione dell’importanza dei lavoratori;
  • difesa dei servizi erogati e della loro qualità per permettere agli utenti ed alle loro famiglie una vita dignitosa.

Da citare la performance “La danza del disoccupato”, a cura della compagnia teatrale della cooperativa Arcobaleno, composta in gran parte da disabili.

Al termine del Consiglio Comunale che si stava nel frattempo svolgendo al Municipio, l’Assessore alle politiche sociali Rosatelli ed altri consiglieri sono scesi nella piazza dove c’è stato un confronto con i lavoratori, con un impegno a incontrarsi nuovamente e ad una audizione in comune.

Prossimo appuntamento: manifestazione del 12 aprile.

Gianluca Gabriele

Nuove energie per l’Italia dall’imprenditoria immigrata

L’imprenditoria immigrata si conferma un pilastro essenziale dell’economia italiana e stando ai dati del Rapporto Immigrazione e Imprenditoria 2024 del Centro Studi e Ricerche IDOS, predisposto in collaborazione con la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, le imprese guidate da persone nate all’estero sono cresciute del 32,7% in dieci anni, raggiungendo 660.000 unità e superando l’11% del totale. Il cambiamento più significativo riguarda l’evoluzione della forma giuridica: mentre le imprese individuali restano dominanti (73%), le società di capitale sono quasi triplicate (+160%), segnalando una maggiore solidità e competitività. Inoltre, mentre le imprese giovanili italiane sono diminuite del 22,8%, quelle guidate da giovani immigrati hanno subito un calo simile, ma mantengono comunque il 19% del totale delle imprese immigrate. Tra il 2013 e il 2023 gli imprenditori immigrati si espandono oltre i settori tradizionali (commercio ed edilizia), registrando forti incrementi in alloggio e ristorazione (+57,6%), servizi alla persona (+101,6%) e in ambiti ad alta qualificazione come attività scientifiche e tecniche (+56%) e sanità e assistenza sociale (+77,6%).

Dal punto di vista geografico, la crescita è diffusa in tutto il Paese. Il Nord resta il polo principale (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), ma il Sud accelera, con Campania (+72,8%) e Puglia (+33,8%) in forte espansione. Roma e Milano si confermano capitali dell’imprenditoria immigrata, mentre Napoli e Caserta emergono come nuovi centri dinamici. Il Sud e le Isole, spesso considerate aree meno dinamiche dal punto di vista economico, stanno vivendo una trasformazione significativa, con tassi di crescita che spesso superano la media nazionale. La Campania, in particolare, ha registrato un incremento straordinario, passando da 29.912 a 51.690 imprese, evidenziando un dinamismo imprenditoriale che riflette la capacità degli immigrati di inserirsi in mercati locali in espansione. Anche la Calabria (+24,4%, da 12.112 a 15.069 imprese) e la Puglia (+33,8%, da 16.550 a 22.146 imprese) mostrano come l’imprenditoria straniera rappresenti una risorsa cruciale per il rilancio economico del mezzogiorno. Nelle isole, la Sicilia ha visto una crescita del 19,3%, mentre la Sardegna ha registrato un aumento del 16,0%.

Lontana dal rappresentare una realtà marginale, si legge nel Rapporto, l’imprenditoria straniera si è progressivamente consolidata come un asset strategico, capace di contribuire non solo al tessuto economico, ma anche alla diversificazione culturale del Paese. Questo trend positivo ha spinto la loro incidenza sul totale delle imprese registrate dai valori vicini all’8% del 2013 a superare la quota dell’11% nel 2023, ultimo anno disponibile, segnalando il rafforzamento dell’imprenditoria immigrata nel mercato nazionale. Questo fenomeno è ancora più significativo quando viene messo a confronto con il sostanziale declino osservabile per le imprese gestite da imprenditori nati in Italia, che nello stesso periodo sono diminuite complessivamente del 4,8%, passando dai circa 5 milioni e 500mila del 2013 a soltanto 5 milioni e 200mila in appena dieci anni.”

Il Rapporto mette in evidenza come l’evoluzione complessiva della presenza di imprese in Italia sia stata fortemente condizionata – in modo positivo – dal dinamismo delle attività imprenditoriali avviate da cittadini nati all’estero, sottolineando che in assenza  di tale crescita, il tessuto produttivo del nostro Paese sarebbe decisamente più ridotto e povero di imprese. Alla luce di importanti trasformazioni del sistema economico globale, l’imprenditoria immigrata si può considerare quindi una risorsa più che preziosa per affrontare le sfide del futuro e per promuovere una crescita inclusiva e sostenibile. Il segmento delle imprese extra UE rappresenta ormai il 79,4% del totale delle imprese a gestione immigrata, e si sta consolidando ulteriormente con ruolo di notevole peso nell’economia italiana. D’altra parte, le imprese guidate da imprenditori provenienti da paesi UE (si tratta in larga parte di persone nate in Paesi come la Romania e la Polonia, mentre è una minoranza quella delle persone nate in Europa occidentale) hanno registrato una crescita più contenuta, pari al 22,2%, passando da 111.031 unità nel 2013 a 135.660 nel 2023. Di conseguenza, il loro peso percentuale sul totale delle imprese immigrate è leggermente diminuito, passando da circa il 22,0% ad appena il 20,6%.

Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS e Antonio Ricci, vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, nella prefazione del Rapporto riportano alcune esperienze di imprenditoria immigrata, come quella di Cristobal, il quale arrivato in Italia dal Perù vent’anni fa, “ha iniziato la sua avventura lavorativa come lavapiatti in un ristorante, sognando un futuro migliore. Con impegno e sacrificio, è riuscito a mettere da parte abbastanza risorse per aprire il proprio locale, oggi una vera istituzione della cucina latinoamericana nella sua città. Ma il suo ristorante è molto più di un semplice luogo dove si mangia bene: è un crocevia di culture, un punto d’incontro che favorisce il dialogo e l’integrazione tra la comunità locale e quella straniera.”

Qui una scheda di sintesi del Rapporto: https://www.dossierimmigrazione.it/rapporto-immigrazione-e-imprenditoria-2024/

Giovanni Caprio

340mila euro per aver chiesto di valutare la legittimità del Ponte sullo Stretto

Dovranno pagare 340mila euro per aver presentato, al Tribunale delle imprese, un ricorso contro la società Stretto di Messina, concessionaria del Ponte sullo Stretto. Parliamo dei 104 cittadini che hanno mosso un’azione inibitoria collettiva per fermare la realizzazione del Ponte. Il ricorso è stato giudicato non ammissibile dal Tribunale di Roma, che li ha condannati a pagare 238mila euro di spese oltre oneri di legge, per complessivi circa 340mila euro.

Poco chiari i parametri in base ai quali è stata determinata una cifra così spropositata e abnorme.

Facendo un confronto con i 19 provvedimenti, relativi ad azioni inibitorie, emessi in precedenza, troviamo che, in sette casi, le Corti hanno dichiarato compensate le spese del giudizio, vale a dire che ognuna delle parti deve pagare i propri avvocati.

Una compensazione decisa sulla base della “novità” della questione o della sua complessità, vale a dire le stesse caratteristiche che sono rintracciabili nel nostro caso, in cui – però – i giudici hanno ritenuto di condannare i richiedenti al pagamento delle spese.

Lo avevano fatto anche nelle restanti 12 azioni inibitorie, ma con un massimo di 16.290 euro, un importo consistente ma accettabile, che rispetta il principio di “proporzionalità e adeguatezza degli onorari di avvocato” indicato anche dalla Cassazione (sez II, 8/7/24). Nulla a che vedere con quanto avvenuto per il ricorso contro la Sretto di Messina.

La richiesta dei ricorrenti, rappresentati e difesi dagli avvocati Aurora Notarianni, Giuseppe Vitarelli, Antonino De Luca e Maria Grazia Fedele, era che venisse “disapplicato” il decreto n.35 del 2023, la legge con cui è stato ripreso integralmente sia il vecchio progetto di Ponte del 2011 sia la relativa concessione.

Si chiedeva di accertare «la responsabilità della società e il danno ingiusto causato per la violazione del dovere di diligenza, correttezza e buona fede proseguendo nell’attività per la realizzazione del ponte sullo Stretto, nonostante l’opera non abbia alcun reale interesse strategico e non sia fattibile sotto i profili ambientali, strutturali ed economici».

A tutela dei proprio “interessi sovraindividuali – collettivi, diffusi e omogenei – garantiti dagli artt. 9, 32, 41 be 42 della Costituzione”, i ricorrenti segnalavano come venissero lesi i diritti alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico (art.9), alla salute (art.32), alla proprietà privata (art.41 e 42). E che non venissero rispettate le norme del diritto europeo, a partire dall’obbligo di espletare una nuova gara d’appalto fino alla mancata osservanza dei principi di prevenzione e precauzione in materia ambientale. Per fare cosa? Per realizzare un’opera che non ha i requisiti di necessità, straordinarietà ed urgenza, non è di preminente interesse nazionale. Oltre ad avere profili di danno erariale e irrisolti problemi tecnici.

Tutto questo in un ricorso di 42 pagine, molto dettagliato e supportato da materiale documentario.

I giudici non sono, però, entrati nel merito delle questioni segnalate, hanno emesso una sentenza in cui si sono limitati a dichiarare il ricorso inammissibile perché “prematuro”, avanzato “non solo in assenza di alcun effettivo danno ambientale che si sia iniziato a produrre in conseguenza di una condotta illecita, ma addirittura senza che il pregiudizio all’ambiente sia stato prospettato come imminente”. Essendo “ancora in corso ulteriori procedimenti istruttori e valutativi”, con particolare riferimento alla approvazione del CIPESS ancora da venire.

La Corte ha dichiarano inammissibile anche l’intervento di 139 cittadini (originariamente 140), che si erano costituiti in giudizio a sostegno della società Stretto di Messina, ritenendo il Ponte un’opera strategica necessaria per superare l’emarginazione e il depauperamento del territorio. Questi cittadini, sostenitori della Stretto di Messina, hanno – di fatto – spostato l’asse del contendere dalla illegittimità del procedimento, contestata dai ricorrenti, alla opportunità ed urgenza di realizzare un collegamento stabile tra Sicilia e Calabria.

Non vogliamo essere così cattivi da pensare sia stata la loro tesi favorevole al Ponte, a “questo” Ponte, a indurre la Corte a essere più benevola nei loro confronti. Fatto sta che, per loro, le spese di giudizio sono state compensate.

Dopo la condanna, i 104 ricorrenti e i loro avvocati hanno deciso di fare appello e hanno presentato una impugnativa in cui si chiede “l’annullamento della condanna alle spese legali per carenza di motivazione, violazione delle norme di legge e di tariffa” e la compensazione delle spese di giudizio.

Non viene, invece, impugnato il merito della sentenza “per sopravvenuta carenza di interesse”. Nel novembre 2024, infatti, la commissione VIA/VAS ha espresso parere negativo e la progettazione dell’opera non può proseguire – scrivono gli appellanti – senza l’autorizzazione della Commissione europea a derogare i vincoli ambientali previsti per le zone di protezione speciale (Curcuraci, Antennammare, Costa Viola etc).

Sarà comunque possibile, in futuro, che i ricorrenti ritornino sul merito, sia dell’interesse collettivo ad un ambiente salubre sia della illegittimità del procedimento, quando il pericolo sarà più imminente, meno “evanascente e ipotetico”, come è stato al momento valutato.

Già attuale, invece, l’interesse ad ottenere la revisione della condanna a pagare le spese di giudizio. Nell’impugnativa, gli appellanti denunciano la manifesta sproporzione e l’irragionevaolezza della cifra indicata. Notano come non siano stati rispettati i parametri previsti dalla legge per la determinazione dei compensi (DM 55/2014, 147/2022), compensi che possono essere derogati solo con una specifica motivazione, che non viene fornita. Ed evidenziano che, anche se fosse stata applicata la tariffa massima, si sarebbe arrivati ad un valore di paio di decine di migliaia di ero, non certo di centinaia di migliaia.

Tale violazione – scrivono – “comporta la lesione del principio di uguaglianza sostanziale per cui il godimento dei diritti, tra cui l’accesso alla giustizia, deve essere assicurato” a tutti, anche a chi non è ricco.

E’ questo l’aspetto più grave di questa condanna, il rischio che scoraggi il ricorso alla Giustizia per ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Come leggiamo nell’impugnativa, “l’abnormità della condanna ha come effetto quello di disincentivare i cittadini e soprattutto le classi sociali più deboli nel far ricorso alla giustizia”, nel timore delle conseguenze economiche che ne possano derivare.

Per adesso, i 104 cittadini che hanno avviato questa azione sono decisi ad andare avanti. Si sono esposti personalmente ma hanno agito – di fatto – nell’interesse di tutti coloro che condividono il loro punto di vista sulla necessità di preservare il territorio “anche nell’interesse delle future generazioni”. Ed opporsi all’inizio dei lavori anche solo propedeutici ad una struttura, allo stato attuale, non realizzabile. Lavori che comunque sconvolgerebbero due città e tutta l’area ad esse circostante, provocando danni irreversibili.

Per sostenere le spese legali che ancora li aspettano, hanno avviato una raccolta fondi. Possiamo aiutarli con una donazione da effettuare collegandoci a questo link https://www.produzionidalbasso.com/project/difendere-lo-stretto-di-messina-costa-sostieni-il-movimento-no-ponte/
oppure
con un bonifico a questo IBAN: IT85G0503416504000000002792 (Intestato a: ASS.CULT.AMB. – Ragione Sociale: ASS.CULT.AMB. la città dello stretto – Filiale: MESSINA – GANZIRRI – CAUSALE: difendo lo stretto)

340mila euro per aver chiesto di valutare la legittimità del Ponte sullo Stretto

Redazione Sicilia

I “ladri digitali” in 3 anni hanno rubato oltre mezzo miliardo attraverso frodi informatiche e online

Oltre mezzo miliardo di euro rubato dai “ladri digitali” negli ultimi tre anni agli italiani, con un aumento del 30% solo negli ultimi 12 mesi. Sono alcuni dei dati di uno studio pubblicato dalla Federazione Autonoma Bancari ItalianiFABI. Nel triennio 2022-2024, il denaro sottratto attraverso truffe online e frodi informatiche ha raggiunto complessivamente 559,4 milioni. Le truffe online rappresentano la voce più rilevante, con un aumento da 114,4 milioni di euro nel 2022 a 181 milioni nel 2024 (+58%). Tra il 2022 e il 2023, l’incremento è stato di 22,7 milioni di euro (+19,9%), mentre tra il 2023 e il 2024 il salto è stato di 43,8 milioni (+31,9%). Le frodi informatiche sono passate da 38,5 milioni nel 2022 a 48,1 milioni nel 2024 (+25%), con un incremento di 1,6 milioni tra il 2022 e il 2023 (+4,3%) e di 8 milioni tra il 2023 e il 2024 (+19,8%). Complessivamente, tra il 2022 e il 2023 il totale delle somme sottratte è aumentato di 24,4 milioni (+15,9%), mentre tra il 2023 e il 2024 la crescita è stata di 51,7 milioni (+29,2%).

E il fenomeno è destinato a crescere anche a motivo del sistematico aumento dell’utilizzo di strumenti digitali. Gli italiani, infatti, hanno aumentato significativamente l’uso dei pagamenti senza contante: tra il 2020 e il 2024, l’importo complessivo dei bonifici è cresciuto del 55,2%, passando da 11.300 miliardi di euro a 17.600 miliardi, mentre il numero di operazioni è salito del 49,1% (da 2,36 milioni a 3,52 milioni). I bonifici automatizzati sono aumentati del 68,9% in valore e del 61,7% in numero di transazioni. Forte crescita anche per le carte di debito: tra il 2020 e il 2024, l’importo complessivo è aumentato dell’85,7% (da 139,6 miliardi a 259,3 miliardi), mentre le operazioni sono più che raddoppiate (+132,1%). La tendenza si conferma anche nell’ultimo anno, con un incremento del 2% negli importi dei bonifici e del 9,2% nei pagamenti con carte. Ad accelerare il passaggio massiccio verso i pagamenti elettronici, consolidando un cambiamento strutturale nelle abitudini degli italiani, ha contribuito senza dubbio la pandemia da Covid.

Per cercare di porre un argine all’aumento delle frodi digitali e delle truffe online, è stato messo a punto il vademecum completo rivolto a cittadini e risparmiatori “Attenti al lupo online”. Una guida, realizzata nell’ambito della recente campagna di educazione finanziaria Fabi Financial Lab per la Global Money Week dell’Ocse, che fornisce consigli pratici e indicazioni dettagliate per riconoscere ed evitare le principali minacce online, proprio mentre le frodi digitali sono in forte aumento e diventano sempre più sofisticate grazie all’uso dell’intelligenza artificiale e di nuove tecniche di ingegneria sociale. Il documento analizza i diversi strumenti di pagamento più vulnerabili alle truffe – carte di credito, bonifici bancari, portafogli digitali – e offre una serie di “8 regole d’oro” per proteggere i propri risparmi e le informazioni personali. Particolare attenzione è riservata ai nuovi rischi emergenti, tra cui deepfake video e vocali, truffe via WhatsApp, falsi investimenti e attacchi sui social network. La guida include anche un focus sulle norme dell’Unione europea in materia di sicurezza nei pagamenti digitali, con riferimento alla nuova direttiva sui servizi di pagamento (PSD3) e al regolamento sui servizi di pagamento (PSR), approvati dal Parlamento europeo lo scorso aprile, che mirano a rafforzare la tutela dei consumatori e la sicurezza delle transazioni.

Gli inganni e le frodi sentimentali – si legge nella Guida – rappresentano un fenomeno in crescita, sfruttano il bisogno di affetto e la solitudine delle vittime per trarle in inganno. Questo tipo di raggiri si sviluppa prevalentemente online, dove seduttori senza scrupoli tessono trame di fiducia e vicinanza emotiva con il solo obiettivo di sottrarre denaro alle loro vittime. Il meccanismo è consolidato: un individuo dall’apparenza affascinante e premurosa, creato da un algoritmo, entra in contatto con la vittima attraverso social network, app di incontri o piattaforme digitali. Dopo un’intensa fase di conoscenza virtuale, caratterizzata da attenzioni costanti e dichiarazioni di affetto, sopraggiunge un’emergenza improvvisa – una spesa medica, un investimento irripetibile, un blocco dei fondi inaspettato. A quel punto, la richiesta di denaro diventa inevitabile e, mentre la vittima crede di aiutare una persona ormai cara, il truffatore incassa e scompare. Nessuno è esente da questo rischio: uomini e donne, giovani e anziani, possono cadere nella rete di queste sofisticate manipolazioni. Non si tratta di ingenuità, ma di speranza: un sentimento su cui questa categoria di criminali costruisce il loro inganno. Oltre al danno economico, il peso psicologico è significativo: chi subisce la frode spesso prova vergogna, senso di colpa e difficoltà nel denunciare quanto accaduto. Prevenire è possibile: è fondamentale diffidare di storie che appaiono eccessivamente perfette, richieste di denaro inaspettate o promesse troppo allettanti.”

Qui la Guida: https://www.fabi.it/2025/03/22/la-guida-attenti-al-lupo-online-per-evitare-rischi-e-truffe/

 

Giovanni Caprio

ENI non ha rivelato la reale portata delle emissioni di gas climalteranti in Mozambico

ReCommon lancia oggi il rapporto “Fiamme Nascoste” sugli impatti sul clima dell’impianto di ENI Coral South FLNG al largo delle coste mozambicane. Dall’analisi dei dati pubblici e delle immagini satellitari esaminati dall’associazione e dai suoi consulenti, si può evincere che l’impianto per l’estrazione e liquefazione di gas del cane a sei zampe è stato protagonista di numerosi fenomeni di flaring dall’inizio della sua attività nel 2022, non adeguatamente riportati dall’azienda petrolifera. Il flaring consiste nella pratica di bruciare in torcia il gas in eccesso estratto insieme ad altri idrocarburi, che ha impatti rilevanti sul clima, l’ambiente e – in prossimità di centri abitati – sulle persone.

Solo fra giugno e dicembre 2022, le operazioni di flaring avrebbero comportato lo spreco di 435.000 metri cubi di gas, equivalente a circa il 40% del fabbisogno annuo del Mozambico. Ma gli episodi si sono ripetuti anche in numerose altre giornate negli anni successivi. 

Per esempio il 13 gennaio 2024, quando, secondo le stime di ReCommon basate su dati NASA, per ogni ora di flaring avvenuto in quella giornata ENI avrebbe mandato in fumo tanto gas quanto una famiglia media italiana consuma in 8 anni e mezzo.

Eppure la multinazionale italiana ha assicurato su documenti pubblici che «gli investimenti sono stati compiuti garantendo la piena compliance con gli standard della International Finance Corporation (IFC) e gli Equatorial Principles (sic)». Tuttavia, la “piena compliance” ostentata da ENI si traduce in emissioni totali di Coral South FLNG sottostimate di ben sette volte. Nello studio d’impatto ambientale, che ha dato poca rilevanza al flaring, le emissioni complessive della piattaforma erano state valutate come “trascurabili”, stimate a soli 150.000 tonnellate di CO2e all’anno. 

Partendo però dai dati della Banca Mondiale, solo quelle associate al flaring avvenuto fra giugno e dicembre 2022 ammontano a 1.098.188 tCO2e. Considerato che le emissioni totali del Mozambico per il 2022 sono state di 10.028.180 tCO2e, in sei mesi le sole emissioni da flaring della piattaforma hanno rappresentato l’11,2% delle emissioni annuali del Mozambico, in crescita dell’11,68% rispetto al 2021.

In generale, le emissioni totali associate all’intera catena del valore di Coral South FLNG e del progetto gemello Coral North FLNG non ancora realizzato e per cui ENI si accinge a trovare capitali sul mercato – durante i previsti 25 anni di operatività sarebbero pari a 1 miliardo di tonnellate di CO2e, cioè più di tre volte le emissioni dell’Italia nel solo 2023.

In occasione dell’assemblea degli azionisti di ENI del 2024, a una domanda posta da ReCommon su possibili episodi di flaring relativi a Coral South FLNG, la società aveva così risposto: «Sono stati limitati alla fase di collaudo iniziale e agli sporadici casi di riavvio dell’impianto». 

Un’affermazione in netta contraddizione rispetto a quanto rilevato a settembre 2023 da GALP, l’omologa portoghese di ENI, che all’epoca deteneva una quota azionaria del progetto Coral South. 

In un documento redatto per Climate Disclosure Project (CDP), organizzazione con base nel Regno Unito e tra le voci internazionali più accreditate in materia di rendicontazione degli impatti ambientali e sociali  anche nel mondo corporate, GALP riporta l’impatto sull’ambiente delle proprie operazioni usando toni diversi da quelli di ENI: «La fase di messa in servizio di Coral FLNG, in Mozambico, ha comportato flaring intenso con conseguente aumento temporaneo delle emissioni di livello 1 durante il secondo semestre del 2022». Ovvero il lasso di tempo già menzionato quale uno dei più caratterizzati dal fenomeno del flaring

«La principale multinazionale italiana si appresta a bussare alla porta di finanziatori pubblici e privati per la realizzazione di Coral North FLNG, con gli italiani SACE e Intesa Sanpaolo in prima fila, a cui si aggiungono KEXIM e K-Sure in Corea del Sud. Ci chiediamo come queste istituzioni, dopo aver finanziato Coral South FLNG a seguito di una scarsa due diligence ambientale, possano fare altrettanto con il progetto gemello Coral North FLNG noncuranti anche degli impatti associati al flaring», ha dichiarato Simone Ogno di ReCommon.

«Il tanto declamato “fiore all’occhiello” della cooperazione tra Italia e Mozambico non è mai stato tale: ENI ha provato a dissimulare le difficoltà operative e sottostimato gli effetti del flaring di Coral South FLNG, un progetto che non porta alcuna sicurezza energetica né all’Italia né tanto meno al Mozambico. In un Paese in cui violenze sistemiche e impatti ambientali sono legati anche alle attività dell’industria estrattiva, il contributo di ENI arriva in larga parte sotto forma di emissioni climalteranti. Uno scenario che rischia di deteriorarsi con il nuovo progetto Coral North FLNG», ha aggiunto Eva Pastorelli di ReCommon.

 

PER SCARICARE IL RAPPORTO: https://www.recommon.org/fiamme-nascoste-flaring-eni-in-mozambico/ 

Re: Common

Sardegna: per la Rete Pratobello 24, il servizio di PresaDiretta sulla transizione energetica è una narrazione di stampo neo-coloniale

Pubblichiamo integralmente la lettera della Rete Pratobello 24 indirizzata a PresaDiretta.
Gentilissimi amici di PresaDiretta,

abbiamo assistito con amarezza e sgomento al vostro ampio servizio sulla transizione energetica in Sardegna.

La fama di reporter e l’ampio contributo dato, finora, al giornalismo d’inchiesta in Italia, ha oggi esibito il volto ignobile di quella che a stento possiamo definire “informazione”, per di più pubblica.

Una narrazione tendenziale, pretestuosa, incompleta e viziata da una visione neo-coloniale, assolutamente sprezzante del diritto all’autodeterminazione del nostro Popolo.

Il primo aspetto che dobbiamo doverosamente sottolineare è che i Comitati sono nati spontaneamente nei territori interessati dai progetti e non, come da voi sostenuto, sulla scia di una narrazione mediatica tossica.

Come avete ben sottolineato, in Sardegna si è creata una situazione in cui vi è un’inflazione spaventosa di proposte progettuali. Allo stato attuale, non è dato sapere ai sardi quali e quanti di questi progetti saranno realizzati.

Le nostre comunità sono rimaste semplicemente sbigottite dalle caratteristiche oggettive di questi progetti i quali, nella loro generalità, non hanno tenuto minimamente conto delle caratteristiche del territorio, delle sue vocazioni, delle condizioni della rete elettrica locale, delle attività economiche preesistenti e delle emergenze archeologiche presenti.

Grave carenza del vostro reportage è il fatto di non citare minimamente tale aspetto, come se la Sardegna non possedesse una ruralità geologicamente e paesaggisticamente unica, caratterizzata dalla più alta densità di siti archeologici al Mondo.

Anche il confronto con la Cina lascia a dir poco sbigottiti. Oggi la Repubblica Popolare, in base ai propri consumi, produce il 36% da FER, mentre la Sardegna ne produce oltre il 43%. Ma, a differenza del gigante asiatico, la Sardegna ha i consumi industriali e civili in calo, e dunque anche le emissioni, mentre la Cina necessità della continua costruzione di nuove centrali a carbone per poter alimentare l’aumento sostenuto dei propri consumi.

Il fatto che questo dato, così elementare e immediato, sia, più o meno volontariamente, sfuggito a “presunti” professionisti dell’informazione, determina un’ulteriore verità disattesa, della quale vi rendiamo edotti: la Sardegna non è il deserto delle rinnovabili. Tutt’altro. Produce, infatti, quasi 2000 GWh attraverso più di 1200 torri eoliche, un contributo ampio e significativo. Altri 1400 GWh derivano dal fotovoltaico, mentre quasi 300 dall’idroelettrico.

Anche il confronto con la situazione pugliese, subito seguito alla descrizione paternalistica di una Sardegna schiava della menzogna e impermeabile alla modernità, non coglie il reale sforzo fatto finora dall’Isola per ridurre le emissioni sulla base dei propri consumi: la quota di energia green prodotta per ogni pugliese non è infatti dissimile da quella prodotta per ogni sardo, differenziandosi per soli 327 kwh pro capite.

Ma gli sforzi fatti finora dalla Sardegna in termini di produzione percentuale da fonti rinnovabili in base ai propri consumi, emergono in tutta la loro portata se facciamo un confronto con le Regioni energivore del Centro-Nord: la Lombardia non raggiunge il 20% di produzione FER rispetto ai propri consumi, percentuale superata di poco da Veneto ed Emilia Romagna. Tra le grandi Regioni popolose, solo il Piemonte e la Toscana superano il 30%, ma non di certo grazie agli impianti eolici o fotovoltaici. La prima può contare su una vasta produzione idroelettrica, mentre la seconda ha l’unicum italiano del geotermico (dati Terna 2022).

Stentiamo dunque a capire come mai sia necessario per Voi additare la Sardegna come cenerentola delle rinnovabili in Italia.

É vero che la Sardegna ospita due centrali a carbone e una gigantesca raffineria che produce energia attraverso gli scarti della lavorazione, ma questo, gentile Iacona, non è il frutto di un processo storico decisionale, democratico e capillare, ma della vecchia imposizione centralista nazionale, che secondo Lei dovrebbe animare anche il processo della transizione, attuandolo in tal modo estromettendo e ridimensionando le Istituzioni regionali e locali, e umiliando le nostre prerogative autonomistiche.

In cambio di queste desuete servitù industriali, noi sardi abbiamo ricevuto la bolletta elettrica più salata d’Italia, intere aree dell’Isola inquinate permanentemente, e un tasso di malattie genetiche spaventosamente elevato.

Per queste ragioni riteniamo pretestuoso e offensivo citare le vecchie e sofferte servitù come l’alibi per introdurne di nuove.

Anche se vi siete ben guardati dall’intervistare i promotori, abbiamo notato con piacere che non avete potuto fare a meno di citare la proposta di legge di iniziativa popolare Pratobello 24, sottoscritta da oltre 210.000 sardi. Un risultato di democrazia partecipata senza eguali in Italia e non solo.

Ci sorge una domanda spontanea, dopo aver osservato la vostra trasmissione dal banco degli imputati: l’avete letto il testo della Pratobello 24?

Si direbbe di no, visto che avete omesso tutta la parte propositiva in termini di transizione energetica in Sardegna. Diversamente da quanto riferito, i nostri Comitati non sono contrari alla transizione energetica, che ritengono invece necessaria e opportuna.

Ciò che ci differenzia dagli speculatori è la modalità: loro vorrebbero industrializzare massivamente la nostra ruralità, con il solo scopo del guadagno rapido e dell’incasso degli incentivi; noi vogliamo pannellizzare democraticamente le superfici già cementificate, bitumizzate e impermeabilizzate, a esclusivo vantaggio delle famiglie sarde e delle nostre attività economiche. Loro vorrebbero “rubare” a basso costo il nostro vento e il nostro sole per esportare l’energia prodotta verso il Centro-Nord energivoro; noi, in ossequio a tutta la letteratura normativa pre-Draghi, vogliamo raggiungere gli obbiettivi Europei per la transizione al 2030 calibrandola sulla base delle nostre peculiarità paesaggistiche e sulle nostre necessità di consumo.

Per raggiungere questo obbiettivo alla Sardegna basterebbe installare 2,5GW da fonte rinnovabile, cosa che possiamo fare senza aprire le porte alle multinazionali, senza distruggere il paesaggio, senza consumare ulteriore suolo fertile.

E, cari amici di Presa Diretta, quando la Sardegna sarà padrona del processo, e sarà chiaro ai sardi quanto vantaggiosa sia una transizione democratica anti-speculativa, forse potremo fare anche qualcosa di più, ma solo alle nostre condizioni e attraverso processi decisionali trasparenti e partecipati.

Abbiamo sempre sognato la transizione energetica ed ecologica come un grande processo complessivo di innovazione democratica e tecnologica. Ci troviamo invece davanti ad un incubo distopico nel quale la Sardegna rischia di diventare il Delta del Niger dell’energia eolica e solare.

Non accetteremo mai, dunque, il sottinteso che ha segnato dall’inizio alla fine il vostro reportage, ovvero il fatto che i sardi siano una popolazione priva di discernimento, preda delle fake-news, contraria alla decarbonizzazione, pronta ad atti vandalici (che nessuno ha mai rivendicato) simili al luddismo, contro una tecnologia descritta come priva di difetti, la cui unica colpa è quella di trovarsi in un vasto spazio ventoso e irradiato, ricco di terre “abbandonate” e con le servitù militari più grandi d’Europa.

Ricordatevi che quelle terre sono le nostre, vi affonda le sue radici un popolo antico che merita rispetto, e che se sarà lasciato libero di decidere senza ulteriori vessazioni, saprà raggiungere gli obbiettivi auspicati senza traumi, contribuendo per propria parte e sulla base dei propri consumi ad una trasformazione necessaria che noi pretendiamo sia anche giusta.

Se riterrete di dover approfondire i temi da noi sollevati in questa lettera, cosa che auspichiamo, sapete dove trovarci e sarete come sempre accolti con rispetto e approccio costruttivo.

Rete Pratobello 24 – Un Popolo in Marcia
Sardegna

Coro e Bentu – Comitato del Marghine contro la devastazione del territorio e la speculazione energetica
Gruppo Libera Terra – Nuoro
Comitato Sarcidano Difesa Territoriale
Comitadu pro sa Nurra
Sa Domo de Totus – Sassari
Coordinamento Ogliastra Pratobello24
Bentu de Libertadi – Cagliari
Coordinamento Gallura contro la speculazione eolica e fotovoltaica
Comitato difesa del Territorio – Uta
Gru.T.Te.s Gruppo Tutela Territorio Sardo – Oristano
Sardigna no est colonia – Coord. per la Difesa del territorio di Sinnai, Settimo S.P. e Maracalagonis
Nuova Resistenza per la Terra Sarda –  Alghero
Bassa Baronia contro la speculazione energetica
Comitato per la difesa del territorio del Parteolla Gerrei
Comitato Orani Stop speculazione energetica
Bentu e soli – Comitato in Difesa del Territorio Sardo – Villamassargia
Ventu Hontrariu – Orgosolo
Comitato di difesa del territorio No Tyrrhenian Link – Selargius
Oliena contro la speculazione energetica in Sardegna
Entulendhe – Gruppo del Nurkara contro la speculazione energetica – Pozzomaggiore
Comitato Difesa Territorio Capoterra
Assemblea Alta Baronia
Gruppo Karalis – Pirri
Comitato Logudoro Monteacuto

 

Redazione Sardigna