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Economia

La volpe, l’uva e il debito pubblico

Ogni mese la Banca d’Italia pubblica un report statistico intitolato “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”. Nel numero di febbraio 2025 si possono leggere i dati del 2024 e si possono confrontare con gli anni precedenti. Il risultato è allarmante, perché il debito netto delle pubbliche amministrazioni negli ultimi tre anni è aumentato di 83 miliardi di euro nel 2022, 104 miliardi di euro nel 2023 e 110 miliardi di euro nel 2024.

È interessante notare come il debito pubblico sia quasi totalmente relativo alle amministrazioni centrali (per oltre il 97% del totale), mentre le amministrazioni locali (regioni, province, città metropolitane, comuni) abbiano un debito ridotto (meno del 3% del totale). Inoltre, mentre il debito dello Stato aumenta, quello degli enti locali diminuisce: nel 2022 era di 88 miliardi di euro, nel 2023 era sceso a 85 miliardi e nel 2024 è calato a 82 miliardi di euro.

I rappresentanti dell’attuale governo di solito cercano di evitare di confrontarsi con i dati reali del debito pubblico, poiché sono visti come un intralcio alla narrazione sulle magnifiche sorti dello “stivale”, che camminerebbe spedito verso la crescita. Quando sono costretti a non ignorare il problema, le risposte dei principali leader politici prendono due strade divergenti. Alcuni cercano di rassicurare, sostenendo che comunque il debito è sotto controllo e in realtà non costituisce un vero problema per i cittadini. Altri danno la colpa dell’aumento del debito ai governi precedenti, che avrebbero lasciato dei buchi nel bilancio pubblico.

Viene alla mente una famosa favola di Esopo: «Una volpe affamata, come vide dei grappoli d’uva che pendevano da una vite, desiderò afferrarli ma non ne fu in grado. Allontanandosi però disse fra sé: “Sono acerbi”. Così anche alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze».

Resta il fatto che dopo due anni e mezzo di politiche economiche e fiscali del governo attuale, il debito pubblico continua inesorabilmente ad aumentare sia in valore assoluto sia in relazione al Prodotto Interno Lordo. L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica ha calcolato che «il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (PIL) è a fine 2024 del 136,3% (contro il previsto 135,8%) e, a fine 2025, del 138,4% (contro il previsto 136,9%), 34 miliardi e 1,5 punti percentuali in più del previsto. Queste variazioni non sono irrilevanti rispetto agli obiettivi di finanza pubblica».

Se alziamo lo sguardo oltre i confini del Paese, la visione non migliora. Infatti, tra i Paesi europei soltanto la Grecia ha un rapporto più elevato tra debito/PIL ed è comunque considerata una nazione più affidabile per la restituzione del debito, dato che ha tassi di interesse inferiori a quelli applicati al debito italiano.

Un governo responsabile di fronte a questi dati dovrebbe essere molto preoccupato per le sorti del Paese e dovrebbe indicare una strategia concreta per invertire la tendenza. Chi l’ha vista?

Rocco Artifoni

Sardegna: nuove adesioni a Sa Manifestada contra a su colonialismu energèticu

Il prossimo 1° marzo si terrà a Quartu Sant’Elena (CA) una Manifestada contra a su colonialismu energèticu (Manifestazione contro il colonialismo energetico), che si inserisce all’interno delle mobilitazioni che da oltre due anni contrastano il piano di speculazione energetica imposto dal governo Draghi e proseguito dal governo Meloni senza consenso popolare: la costruzione di un maxi condotto elettrico affidato a Terna – il Thyrrenian Link – ai fini di collegare Sardegna e Sicilia al continente per il trasporto dell’energia prodotta sulle isole e l’occupazione di ettari ed ettari di terreni per l’installazione di pale eoliche e pannelli fotovoltaici.

Ma gli speculatori e sciacalli della transizione energetica promossa dagli imperialisti UE in barba alla maggioranza della popolazione sarda, non hanno tenuto conto della resistenza popolare. Un’isola vessata da decenni dall’occupazione militare (un quarto del territorio soggetto a servitù militare) già inquinato dalle esercitazioni a fuoco dei paesi Nato, dallo smantellamento della sanità pubblica, dal degrado di intere aree industriali dismesse e abbandonate e, in particolare nel Sulcis e nella zona di Porto Torres, il pesante inquinamento ambientale dovuto alle ex miniere mai bonificate e al petrolchimico, non può più tollerare l’abuso della propria terra e lo sfruttamento dei propri lavoratori.

Le mobilitazioni che hanno infiammato la Sardegna, dall’ampio protagonismo popolare nella raccolta firme per la legge di iniziativa popolare “Pratobello24” fino ai blocchi stradali per impedire il trasporto delle pale eoliche, ai presidi di occupazione delle terre soggette a esproprio così le decine di altre iniziative popolari che hanno attraversato la Sardegna (solidarietà al popolo Palestinese, lotta contro l’occupazione militare, lotta contro lo smantellamento della sanità pubblica e del tessuto produttivo), dimostrano che una grossa fetta delle masse popolari sarde vuole un cambiamento radicale.

Cambio radicale promesso dalla stessa giunta regionale presieduta da Alessandra Todde e dalla “campo largo” M5S-PD che però, decisa a proseguire i programmi previsti dall’agenda Draghi in Sardegna, sputa letteralmente in faccia alle decine di migliaia di sardi che l’hanno votata, non accettando la vittoria politica che le oltre 210.000 firme raccolte per presentare la legge Pratobello24 hanno dimostrato: la giunta regionale “del cambiamento” o si rimette alla volontà e le indicazioni delle masse popolari oppure è lo zerbino del governo Meloni, degli speculatori che vogliono fare della Sardegna un banchetto con cui ingrassarsi, degli imperialisti Usa, dei sionisti, della Nato e della Ue. È negli interessi di questi padroni che sono imposte le grandi opere e le scorribande di speculatori e affaristi in Sardegna, nostrani o stranieri, non di quelli delle masse popolari sarde.

Allo stesso tempo, le 210.000 firme raccolte con la campagna Pratobello24 dimostra che solo le masse popolari organizzate possono fermare la fiera delle speculazioni e degli affari e che la Sardegna non ha bisogno di governanti zerbini delle autorità italiane e delle multinazionali.

La mobilitazione contro la speculazione energetica deve alzare di tono tutte le mobilitazioni in corso in Sardegna, unirle sotto la parola d’ordine di cacciare la giunta Todde dal consiglio regionale e lo stuolo di partiti e individui che per anni hanno banchettato sulle spalle dei lavoratori sardi promettendo “autonomia” dallo Stato centrale ma asservendo sempre di più la Sardegna agli interessi delle multinazionali.

La mobilitazione contro la speculazione energetica deve unire le mobilitazioni in corso in Sardegna per imporre la costituzione di una giunta regionale di tipo nuovo che approfitta della crisi di governo e dello scontro interno al Consiglio regionale, composta da quegli organismi e individui che nel corso degli ultimi anni non hanno mai piegato la testa contro le autorità dello Stato italiano e contro gli interessi degli speculatori, che nella lotta hanno dimostrato di essere coerenti e di voler difendere e affermare i diritti delle masse popolari sarde.

Serve un nuovo governo della Regione Sardegna, che fa saltare il banco del gioco sporco con cui le multinazionali della “green economy” vogliono occupare la Sardegna e che metta mano a tutti gli altri problemi che l’Isola vive: dallo smantellamento del tessuto produttivo e dallo spopolamento ad esso collegato, all’occupazione militare e all’inquinamento da poligono, fino allo smantellamento della sanità pubblica.

Ma tutto ciò vuol dire innanzitutto combattere sfiducia, disfattismo e superare lo spirito di concorrenza fra partiti e organizzazioni politiche e sindacali in favore dell’unità d’azione, della concatenazione delle mobilitazioni e del coordinamento degli organismi che le promuovono. Solo unendo le forze di tutti verso un obiettivo comune è possibile sbarrare la strada alla classe dominante e cambiare la rotta.

Si tratta di applicare il principio per cui è legittimo tutto quello che va negli interessi delle masse popolari anche se è illegale: rendere ordinaria la violazione dei divieti e delle censure con cui le autorità borghesi cercano di impedire lo sviluppo della mobilitazione (ogni divieto è efficace solo se qualcuno lo rispetta). Far decadere il principio per cui le opere speculative proseguono sotto la giustificazione degli accordi già presi (ma da chi? Per quali interessi?) o per sbrigare “gli affari correnti”: gli accordi così come sono stati firmati possono essere stracciati!

Si tratta, infine, di superare la convinzione che l’unico ruolo che le masse popolari organizzate possono assumere verso il governo è quello di rivendicare, in un contesto e in una fase in cui, invece, l’unica alternativa realistica al marasma in cui siamo immersi è che le organizzazioni operaie e popolari si occupino direttamente di politica, di governo dei territori e di governo del paese: che assumano il ruolo di nuova classe dirigente, indipendentemente dalle tornate elettorali. Il presupposto per l’autodeterminazione delle masse popolari sarde passa attraverso la mobilitazione per la sovranità nazionale e popolare, per la costituzione di un nuovo governo dell’isola che risponda del suo operato direttamente agli organismi operai e popolari.

Redazione Sardigna

Energia: il mercato libero che rende poveri

Le bollette italiane sono le più care d’Europa: il 30% più alte di quelle della Germania e il doppio di quelle della Spagna. “Da ormai tre anni, denuncia la CGIL, mentre le grandi aziende del settore energia registrano bilanci stellari, circa 2,2 milioni di famiglie italiane sperimentano il dramma della povertà energetica. Si tratta quasi dell’8% della popolazione del Paese. A essere specialmente colpiti sono gli anziani: il 47% di loro è a rischio o in povertà energetica. Per di più, complice anche la fine del mercato tutelato, la spesa media annuale di una famiglia tipo è destinata ad aumentare ulteriormente, sfiorando i 3mila euro l’anno.”

Sono circa 13.200 i possibili contratti del libero mercato di energia tra i quali una famiglia dovrebbe scegliere il più adeguato alle proprie esigenze. E in molti casi, oltre al costo di luce o gas, questi contratti obbligano ad acquistare servizi accessori: assicurazioni, canoni di manutenzione delle caldaie, servizi di telemedicina oltre costi occulti in caso di recesso anticipato e cambi tariffe. Costi e servizi accessori che spesso nulla hanno a che vedere con l’erogazione del gas o dell’elettricità. E’ l’amara constatazione che arriva dalla Caritas di Roma, che denuncia con forza le ipocrisie e i paradossi del “mercato libero” nei contratti, “le cui offerte economiche sono consultabili sul Portale ARERA, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, che risultano incomprensibili ai più e soprattutto quasi mai effettivamente convenienti.” Anche per gli anziani, i disabili e i percettori di redditi bassi, i clienti “ vulnerabili” che sono rimasti gli unici ad aver diritto al mercato “tutelato”, la situazione appare critica: al momento, per il complesso meccanismo della formazione del prezzo, stanno pagando circa il 18% in più rispetto ai clienti non vulnerabili approdati al Servizio di Tutele Graduali (STG). I vulnerabili adesso hanno tempo fino al 30 giugno 2025 per accedere al STG cercando di risparmiare così qualche centinaio di euro su base annua. Al momento, il libero mercato si sta traducendo in grandi profitti per le imprese e in un crescente rischio di povertà per le famiglie. Un rischio più volte segnalato, che oggi è diventato realtà.

E come se non bastasse, denuncia la Caritas di Roma, il mercato si è arricchito di offerte con vendite abbinate: nella bolletta il cliente trova costi di assicurazioni improbabili o ancora servizi di telemedicina dal costo di 150 euro annui, più o meno l’equivalente su base annua del bonus sociale. Tutto questo non è tollerabile. Alle offerte del libero mercato poco convenienti si aggiungono i costi di servizi accessori non richiesti che erodono i tentativi di calmierare il costo della bolletta. Una situazione che, come spesso accade, sta mettendo in crisi soprattutto le famiglie più fragili e gli anziani, che sempre più si rivolgono ai centri di ascolto parrocchiali per chiedere un aiuto per il pagamento delle bollette.” La Caritas di Roma dal 2022 ad oggi si è attivata con iniziative come la “Bolletta sospesa” e “Fondo famiglia” in aiuto di oltre 200 mila euro per consentire il pagamento delle bollette ed evitare i distacchi per morosità e ha diffuso un Manuale operativo dei diritti per accompagnare le parrocchie (e non solo) nella tutela delle famiglie fragili.

La Caritas di Roma ha anche chiesto un intervento urgente su più fronti per: 1. Stabilizzare bonus sociali elevando le soglie ISEE a euro 15.000 e rivedendo la soglia di età dei beneficiari abbassandola dall’attuale 75 a 70 anni. A copertura della misura può contribuire anche quanto ricavato dalle truffe del 110% in considerazione del fatto che l’efficientamento energetico degli edifici doveva e poteva essere pensato come leva principale per contrastare la povertà energetica con una seria riqualificazione dell’edilizia popolare; 2. Ripulire da bolletta da costi impropri vietando la vendita abbinata di servizi estranei alla fornitura di energia elettrica e gas almeno per i clienti definiti vulnerabili, introducendo idonee sanzioni in caso di violazioni, da destinare al sostegno delle famiglie in difficoltà; 3. Introdurre una valutazione (Rating) di legalità obbligatoria e specifica per le aziende che operano nel settore della vendita di energia elettrica e gas per estirpare il fenomeno delle truffe telefoniche e delle diverse pratiche commerciali scorrette; 4. Rafforzare la campagna di comunicazione per avvertire i clienti vulnerabili della possibilità di accesso al Servizio a Tutele Graduali entro il 30 giugno 2025; 5. Semplificare e rafforzare gli strumenti di tutela rendendo maggiormente accessibile il servizio conciliazione energia predisposto da ARERA adottando anche strumenti di moral suasion e leve reputazionali per favorire la risoluzione delle controversie.

Non si può pensare, ha dichiarato dichiara Giustino Trincia, direttore della Caritas diocesana di Roma, di gestire il “libero mercato” permettendo ingiustizie sociali e confidando nel sostegno del mondo del volontariato. Chiediamo invece, anzitutto al Governo e al Parlamento, di garantire la dignità delle persone a partire dal riconoscimento dei bisogni essenziali quali la fornitura di acqua, energia elettrica e gas in un contesto di fiducia reciproca e legalità”.

Qui il Manuale della Caritas: 

Giovanni Caprio

PIL, lavoro, industria: l’Italia è fragile e il governo Meloni non ha una politica economica

Siamo tornati a una situazione di non-crescita. Il nostro paese, che da trent’anni presenta una situazione economica estremamente fragile, aveva vissuto durante il governo Draghi e poi quello Meloni un rimbalzo post pandemico. Il PIL aumentava, mentre l’occupazione raggiungeva livelli record. Ma oggi quel rimbalzo sembra ormai esaurito: come testimoniano i dati, la crescita italiana è sempre più stagnante, mentre l’occupazione ha avuto una battuta d’arresto negli ultimi mesi dell’anno, anche se modesta. 

I segnali che indicavano l’estrema fragilità della crescita italiana si potevano già percepire: i dati sulla produzione industriale lo segnalavano da tempo, con un calo che va avanti dai tempi del governo Draghi. Eppure, nonostante le prospettive per la nostra economica siano tutt’altro che rosee, non vi è alcuna flessione nelle intenzioni di voto ai partiti che compongono la maggioranza. Questo è particolarmente preoccupante proprio alla luce della politica economica portata avanti dal governo Meloni, orientata a misure di corto raggio a discapito di riforme e programmazione sul lungo periodo per cercare di fermare il declino del paese. 

La situazione odierna: PIL, occupati, produzione industriale

Partiamo da una rapida panoramica sui principali indicatori macroeconomici, concentrandoci su tre di questi. 

Il punto di partenza è chiaramente il PIL. Nel quarto trimestre del 2024, secondo le stime preliminari dell’ISTAT, la crescita del PIL è rimasta stazionaria rispetto al trimestre precedente, con un lieve aumento invece rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Questo comporterebbe una crescita su base annua dello 0,5 per cento, nonostante le precedenti stime di crescita della Commissione Europea dello 0,7 fossero già al di sotto della media europea. Le stime del Governo, contenute nel documento programmatico di Bilancio, stimavano una crescita nel 2024 intorno all’1 per cento. 

Un altro fattore di preoccupazione è che la crescita acquisita per il 2025 risulta, secondo queste stime preliminari, pari a zero. Questo significa che non c’è alcun supporto dell’anno passato per la crescita dell’anno corrente, delineando una strada tutta in salita. 

Il secondo dato riguarda l’occupazione. Nel corso degli ultimi anni l’occupazione è cresciuta fino a raggiungere il record dagli anni Settanta. Tuttavia, da alcuni mesi si assiste a una situazione meno rosea. Come fa notare una nota dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), già nei mesi estivi, nonostante la buona performance del mercato del lavoro, le ore lavorate pro capite sono diminuite in tutti i settori. Ciò è dovuto, scrive l’UPB, al fenomeno del labour hoarding: quando l’economia è in fase di stagnazione le imprese scelgono di mantenere i dipendenti non utilizzati per non incorrere in costi di licenziamento qualora la situazione migliorasse. Nei mesi autunnali, invece, si è assistito a un lieve rallentamento, con un calo dello 0,1 per cento. 

Il terzo e ultimo dato, forse quello più preoccupante vista la tendenza, riguarda il calo della produzione industriale. Secondo i dati diffusi, si è assistito a un calo del 3,5 per cento nel mese di dicembre rispetto a novembre. Su base annua il calo è ancora più impressionante, arrivando al 7,1 per cento rispetto a dicembre 2023. Un valore che deve essere visto in una situazione di già profonda difficoltà dell’industria nel nostro paese: il calo della produzione industriale nell’anno 2023 era stato intorno al 2 per cento. Se allarghiamo l’orizzonte, i grafici ISTAT mostrano come la produzione industriale sia oggi inferiore rispetto ai valori pre-pandemia. 

Il Sole 24 Ore ha stimato che il costo in termini di incassi si aggira attorno ai 42 miliardi di euro nell’anno appena passato. Per quanto vi sia eterogeneità tra i settori, gli unici che hanno registrato una crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente sono stati quello estrattivo, con un aumento del 17,4 per cento, e quello della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria, con un incremento del 5 per cento. Al contrario, si sono osservate significative flessioni in altri settori: la produzione di mezzi di trasporto è diminuita del 23,6 per cento, le industrie tessili, dell’abbigliamento, delle pelli e degli accessori hanno registrato un calo del 18,3 per cento e la metallurgia che ha invece chiuso con un -14,6 per cento.

Un report del centro di ricerca Prometeia ci permette di avere una situazione comparata rispetto ai nostri partner e un prospetto di quello che ci attende nel 2025. Sia Francia sia Spagna, escludendo il comparto energetico, hanno registrato un calo su base mensile di 0,7 e 0,4 per cento rispettivamente. Al contrario la Germania, che si trova da anni in una situazione economica delicata, ha registrato un calo del 3,3 per cento.  

Come rileva sempre il report di Prometeia, non ci sono segnali di miglioramento all’orizzonte. A gennaio, il clima di fiducia tra le imprese manifatturiere italiane ha registrato un lieve aumento, ma rimane comunque su livelli molto bassi. Inoltre, le aspettative per il futuro non indicano alcun cambiamento significativo rispetto alla situazione attuale, lasciando poco spazio all’ottimismo. Si vanno infatti ad aggiungere fattori esogeni che potrebbero compromettere la performance della manifattura italiana. 

Su tutti, il più grave rischio resta quello dei dazi degli Stati Uniti. Il Presidente Donald Trump ha infatti attaccato il deficit commerciale sui beni con l’Europa, puntando su misure protezionistiche per riequilibrarlo. È probabile che questo si rifletta sulla produzione industriale europea, almeno nel breve periodo, se non saranno trovati nuovi mercati o se non si sostituisce con la domanda interna. Tra i paesi più esposti ci sono Germania e, appunto, Italia. 

Il problema è strutturale, ma il governo Meloni non vuole affrontarlo

Concentrandosi sul dato della produzione industriale, è necessario evidenziare quali siano i fattori dietro a questo calo. E, soprattutto, se questa situazione non segnali anche una debolezza più strutturale del tessuto economico italiano. 

Il leader di Confindustria Emanuele Orsini ha sostenuto che, a differenza della Germania, la situazione nel nostro paese non è strutturale, ma dipende da vari fattori contingenti. Come riportato da Il Sole 24 Ore, secondo Orsini: 

Ci sono due settori, auto e moda-tessile abbigliamento, con gravi perdite a doppia cifra. Ci sono poi i settori energivori che perdono in maniera rilevante per l’aumento dei costi, e ci sono settori, come i beni intermedi e i beni strumentali per la produzione, macchinari e robotica, che perdono per il freno agli investimenti nel nostro paese. Tutto questo, in assenza di correzioni drastiche, rischia di contaminare anche settori che finora stanno tenendo a galla con fatica l’economia italiana.

Uno dei temi principali resta, quindi, quello dei costi dell’energia. I rincari, non solo per le imprese ma anche per le famiglie, sono stimati intorno al 31 per cento. Un tale aumento dei costi di produzione rischia di essere un macigno sui beni italiani, soprattutto sull’export che rappresenta una componente principale del mercato. Il governo Meloni però non è ancora intervenuto su questo nuovo aumento: il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Pichetto Fratin punta sul nucleare, che non ha alcun effetto sull’immediato. Non solo: per quel che riguarda l’export, la crisi tedesca ha indubbiamente un effetto contagio in Italia. Le imprese di beni intermedi italiane vendono a quelle tedesche e anche i dati confermano la sincronizzazione tra i due paesi.  

Ma se è vero che vi sono dei fattori contingenti, il tessuto industriale italiano presenta problemi che sono ben più radicati. Dopo la fine della stagione dello Stato Imprenditore, con la privatizzazione dell’IRI, il nostro paese ha esacerbato un dualismo all’interno dell’industria - e in generale della nostra economia - con poche imprese di grandi dimensioni che sono in grado di competere sul mercato globale e una marea di piccole e medie che invece arranca. Inoltre, si è assistito a una sempre maggior enfasi su settori a basso valore aggiunto e nei servizi, come quello del turismo di cui il governo sottolineava l’ottima performance. 

La natura persistente del problema indica che le soluzioni non possono essere trovate, se non quelle tampone, in tempi rapidi. Al contrario,  richiedono una visione strategica di lungo periodo. 

Ma il governo Meloni sta facendo qualcosa  in tal senso? Se si esamina la linea di politica economica seguita dal governo nel corso di questi anni, attraverso le finanziarie e altri provvedimenti, si nota una totale assenza di programmazione. Il governo Meloni tratta i problemi dell’industria italiana soltanto a parole, denunciando sì le decisioni di Stellantis, ma senza intervenire, come aveva detto, per garantire un nuovo produttore italiano. Lo stesso Ministro Adolfo Urso parla di tutto, tranne che di impresa: nel corso degli anni ha lanciato proposte mirabolanti, come “aggiungi un posto a tavola”, che non hanno alcun effetto sulla crescita e sul benessere del paese. D’industria, salvo in casi eccezionali ed emergenziali, non si parla. 

Anzi, stando alle misure principali, il governo Meloni sembra andare addirittura nella direzione opposta, puntando più su politiche sul lato domanda che sul lato offerta. Per comprenderlo è bene riprendere i due provvedimenti di maggior importanza intrapresi dal governo nel corso di questi anni in materia di politica economica: il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento degli scaglioni IRPEF. Quello che accomuna le due misure è il tentativo di intervenire sui salari netti, aumentandoli con un taglio delle trattenute da parte dello stato. Anche le promesse del governo, come quella di ridurre la seconda aliquota IRPEF dal 35 al 33 per cento per aiutare il ceto medio, sembrano andare nella stessa direzione. 

Una strategia di questo tipo poteva forse essere condivisibile in un periodo emergenziale di elevata inflazione, come quello che  si è trovato ad affrontare il governo Draghi e nel primo anno e mezzo il governo Meloni. In un contesto in cui l’inflazione è in calo - se non appunto su beni come l’energia - servirebbe invece un piano non tanto per aumentare i salari netti, bensì quelli lordi. 

Perché è così importante parlare di salari lordi, se alla fine ai lavoratori arriva quello netto con cui spendono e risparmiano? Il motivo risiede nella relazione, estremamente complessa, tra il salario e la produttività, un indicatore cruciale che misura il rapporto tra la quantità di output e di input. Ci permette, cioè, di comprendere se le risorse come il lavoro e il capitale sono utilizzate in maniera efficiente. Se le aziende sono più produttive e quindi più efficienti nella produzione, possono permettersi stipendi più elevati per i dipendenti. Questo è il problema del tessuto industriale italiano da almeno trent’anni a questa parte: una produttività in calo che si riflette sui salari, impoverendo il paese e rendendolo meno competitivo. Per affrontarlo, serve una strategia più incisiva e ragionata rispetto a un taglio del cuneo fiscale che, come mostrano le evidenze comparate, non è che la punta dell’iceberg. 

Il governo Meloni non ha un piano, ma nemmeno l’opposizione

Se la situazione economica non è più complicata di quanto già non fosse, ciò che preoccupa è invece un governo che anche di fronte a problemi urgenti non riesce a essere incisivo. Il governo Meloni sembra più interessato a controllare l’agenda mediatica con attacchi a settori come la magistratura, per cercare di sviare i problemi dell’economia. Quest’ultimo tema, un tempo al centro del dibattito pubblico, è via via scomparso, quasi come se il paese avesse accettato la strada di declino imboccata trent’anni fa. Il governo ha preferito così concentrarsi su piccoli contentini nell’immediato rispetto a politiche più incisive, il tutto mediante uno strumento che si presta bene alla narrazione della destra italiana: quello delle tasse. 

Se il governo non ha un piano, però, nemmeno l’opposizione sembra in grado di sfruttare i problemi sul fronte economico per far breccia nell’elettorato. Sia il PD sia gli altri partiti di opposizione riescono a malapena a scalfire la superficie del dibattito, spesso andando a riprendere gli argomenti portati dalla destra più che cercando di imporre la propria narrazione e denunciando  l’inadeguatezza del governo davanti alla situazione in cui si trova il paese.

Allo stesso tempo, data la natura continentale del problema, anche l’Europa deve ripensare la sua strategia industriale alla luce delle tensioni geopolitiche. Questo passa inevitabilmente da un rilancio della politica industriale europea, soprattutto per sostenere settori come quello automobilistico, con  il duplice scopo di aumentare la produttività e contrastare la crisi climatica. Se  questo sforzo è necessario, allo stesso tempo va coniugato con politiche per rafforzare i diritti dei lavoratori e i salari, dopo decenni di quota salari in discesa, al fine di supportare la domanda interna.

(Immagine anteprima via governo.it)