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fascismo

Giacomo Matteotti e l’attualità del suo impegno antifascista

Pubblichiamo un estratto dal libro "Matteotti. Dieci vite" (Neri Pozza) di Vittorio Zincone.

Li ha visti arrivare. Prima degli altri, più degli altri. Diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime, Giacomo Matteotti percepisce l’avvento di una dittatura. Lancia l’allarme. Cerca di impedire l’ascesa di Mussolini e il consolidarsi del governo del Duce. Muore il 10 giugno 1924, rapito e accoltellato da un commando della cosiddetta Ceka fascista.

(…)

Ma chi era Giacomo Matteotti, martire della democrazia e icona della più tenace opposizione al fascismo? Figlio ricco del poverissimo Polesine, socialista riformista, giurista brillante, sindacalista energico, neutralista-pacifista, anti-retorico, anti-populista e molto coerente nei comportamenti. Marito assente, ma presentissimo. I quotidiani ostili oggi scriverebbero di lui: «il socialista impellicciato». Ed è esattamente quello che scrivevano i suoi detrattori negli anni Venti del Novecento. A dimostrazione (e non è l’unica similitudine) che alcuni vizi della politica, della propaganda e dell’informazione hanno radici profonde almeno cento anni. La sua storia è quella di un uomo, di un leader politico, che ha visto avanzare il fascismo centimetro dopo centimetro. È la storia di allarmi lanciati e rimasti inascoltati. La storia di una resa, quella dell’Italia e della sua classe dirigente, nelle mani di Mussolini.

(…)

Matteotti era un socialista riformista. Gradualista, ma radicale e intransigente. Nulla a che vedere con l’accezione che spesso si dà oggi del riformismo, come declinazione sbiadita del moderatismo o del compromesso al ribasso.

(…)

Non subì mai il fascino della dittatura del proletariato. Anzi. Persino nell’utilizzo degli scioperi sosteneva che ci si dovesse limitare. Era convinto che prendere il potere con le armi fosse cosa facile, ma allo stesso tempo inutile, perché poi la difficoltà più grande era sempre quella di costruire il socialismo dentro le persone: lo spirito socialista, la cultura socialista, mai disgiunta, come per tutti i riformisti, da quella liberale. Di qui l’attenzione alla scuola, continua e incessante, come momento primo di educazione necessaria e pilastro democratico per edificare l’emancipazione dei singoli. Di qui la difesa dello Stato di diritto e di tutte le libertà costituzionali: di espressione, di stampa, di riunione. Di qui la necessità di costruire un fisco che colpisse chi aveva di più e non solo chi era più raggiungibile; e di organizzare un’amministrazione pubblica efficiente, per ridurre gli sprechi e per difendere il bene comune, anche a costo di essere pedanti e troppo puntigliosi.

(…)

Matteotti ha attraversato sulle barricate il passaggio delicatissimo dall’Italia liberale dei notabili a quella dei partiti di massa. Vide crescere la violenza dei fascisti nelle sue terre. Fu uno dei primi a comprendere la natura predatoria delle squadracce nere, il loro legame con gli interessi economici locali e l’immobilismo, o peggio la collusione, degli apparati dello Stato. E poi l’evoluzione sempre più aggressiva del fascismo, con l’attacco alle amministrazioni, la presa del potere, lo svuotamento delle prerogative del Parlamento per mezzo di un eccesso di decretazioni. Fu anche uno dei primi a parlare di dittatura e a denunciare alla Camera i crimini di Mussolini. E non parliamo, ovviamente, delle oscene leggi razziali o della partecipazione disastrosa alla Seconda guerra mondiale, perché quelle arrivarono con Matteotti già morto da più di un decennio. Parliamo della fine della democrazia sotto i colpi dei manganelli, dell’illegalità imperante, della stretta assillante alla libertà di espressione, dei soprusi e dello svuotamento delle istituzioni. Matteotti denunciò tutto a Montecitorio. Le sue denunce restarono inascoltate, colpevolmente inascoltate, caddero nel vuoto e nel silenzio di una classe dirigente liberale che sperava ingenuamente di ammansire il Duce.

Matteotti pagò tutto. Nel marzo del 1921 venne rapito, picchiato e abbandonato in un campo. Volevano umiliarlo anche per interrompere la sintonia creata negli anni con le masse proletarie. I fascisti gli imposero il «bando». Cioè, malgrado fosse un deputato del Regno, non poté più circo- lare nella provincia dove era stato eletto, dove risiedeva e dove si trovavano la sua casa e la sua famiglia. Tutto questo nell’indifferenza (o nell’impotenza) delle forze dell’ordine. Tutto questo mentre in Parlamento i fascisti in pratica non avevano rappresentanza (i primi trentacinque deputati fascisti ufficiali sono eletti nel maggio del 1921). Negli anni successivi subì altre aggressioni. Non si fermò mai.

Nel denunciare le violenze fasciste e le complicità governative arrivò a ipotizzare una ritorsione forte da parte dei proletari socialisti. Soprattutto nel corso dell’anno 1921, cioè prima della Marcia su Roma e prima dell’incarico di governo a Mussolini, cercò di smuovere le coscienze della vecchia maggioranza liberale, minacciando una reazione delle masse contro i soprusi fascisti. Ma forse sapeva che questa reazione non ci sarebbe stata.

E sapeva anche che nel rapporto con la violenza, il socialismo, soprattutto quello massimalista, si era sempre trovato nella peggiore posizione possibile: quella di chi predicava la necessità della violenza rivoluzionaria e poi non la praticava, se non in modo confuso, sporadico, non strategico, quindi senza una reale capacità di ribaltare il tavolo o almeno di contrastare le azioni delle milizie fasciste. Così facendo anzi, i socialisti legittimavano le manganellate nere di fronte alla classe dirigente liberale: il pericolo delle piccole violenze socialiste che annunciavano la grande rivoluzione rossa fece preferire all’establishment italiano la grande violenza fascista che almeno era al servizio degli industriali e dei proprietari terrieri, e che ristabiliva un ordine apparente.

Matteotti era perfettamente consapevole di questo meccanismo e per questo, dopo l’ascesa di Mussolini alla Presidenza del Consiglio, scrisse un volumetto per denunciare l’ondata di brutalità delle camicie nere e per smascherare sia le false promesse economiche del Duce sia il mito del fascismo come salvatore della patria dalla minaccia barbarica dei bolscevichi. Mito che, purtroppo, era stato comodamente sposato dal re, dal papa e dalla classe dirigente liberale.

Inoltre, proprio per spezzare i legami con Mussolini di tutti quelli che avevano creduto alle sue favole, lavorò incessantemente alla costruzione di un fronte larghissimo antifascista, che comprendesse anche i cattolici del Partito popolare di don Luigi Sturzo. L’operazione fallì.

(…)

Come ha scritto lo storico Degl’Innocenti, «il mondo di Matteotti non c’è più. Ma proprio per questo quando compaiono similitudini e coincidenze significative, vanno valutate alla luce del “respiro profondo della storia”». Le ingiustizie sociali procedono con costanza, la corruzione e i conflitti d’interesse navigano indisturbati, le pulsioni securitarie riaffiorano (in forma quasi grottesca, ma riaffiorano), i tentativi di accentramento del potere si fanno sempre più concreti.

Quindi, dicevamo, «avercene» di Matteotti!

Nell’Italia dei nostri tempi, con politici, ministri e sottosegretari che più o meno nascostamente, usano spesso la politica anche per migliorare la propria condizione economica e i propri affari, per trovare case o accumulare benefit e prebende a cui i comuni cittadini non hanno accesso, quanto sarebbe concretamente e simbolicamente importante un segretario di partito o un parlamentare che fa l’opposto come Matteotti?

Nell’Italia dei rider col cubo sulle spalle, dei clandestini che lavorano la terra come schiavi, degli stipendi che sembrano mance, dei servizi sociali e pubblici che arrancano... quanto sarebbe salutare avere un politico capace di leggere i bilanci dello Stato e delle aziende, preparato e pronto a difendere il potere d’acquisto del salario, che invece di arrendersi e dire «il pubblico non funziona quindi deleghiamo ai privati», rilanciasse, lottando perché il bene comune resti tale e venga gestito meglio?

In un Paese dove molti leader e molti politici twittano e retwittano tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore, dove si ascoltano strafalcioni immondi dai banchi dei deputati, dove la coerenza è un miraggio e la preparazione una chimera, quanto sarebbe tranquillizzante un deputato che non cambiasse idea a ogni tremolio dell’opinione pubblica, e che soprattutto tendesse a fare, in termini di leggi e di provvedimenti, quello che ha dichiarato ai suoi elettori e ai suoi lettori?

Sono domande che si è fatto anche Sergio Luzzatto, nella prefazione al volume Contro il fascismo, in cui sono pubblicati due importanti discorsi parlamentari di Matteotti (quello del 31 gennaio 1921 e quello del 30 maggio 1924).

Sono domande a cui non si può rispondere se non dicendo «sarebbe importante», «sarebbe salutare», «sarebbe tranquillizzante».

Eppure, nel porre queste domande, quasi banali, già si sente l’eco degli annoiati, dei sempre scettici, dei cinici del tanto meglio tanto peggio, dei senza speranza, di quelli per cui essere contro il populismo giustizialista e incompetente vuol dire sventolare il motto atroce «meglio lo Stato corrotto che lo Stato rotto».

Ecco, Matteotti lottava, e lo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita, per uno Stato integro e sano. Era sia contro il populismo sia contro la corruzione, sia per il ri- spetto del diritto, sia per la soluzione concreta dei problemi dei cittadini, avendo sempre ben presente la meta di una trasformazione socialista del Paese.

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

Giacomo Matteotti e l’attualità del suo impegno antifascista

Pubblichiamo un estratto dal libro "Matteotti. Dieci vite" (Neri Pozza) di Vittorio Zincone.

Li ha visti arrivare. Prima degli altri, più degli altri. Diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime, Giacomo Matteotti percepisce l’avvento di una dittatura. Lancia l’allarme. Cerca di impedire l’ascesa di Mussolini e il consolidarsi del governo del Duce. Muore il 10 giugno 1924, rapito e accoltellato da un commando della cosiddetta Ceka fascista.

(…)

Ma chi era Giacomo Matteotti, martire della democrazia e icona della più tenace opposizione al fascismo? Figlio ricco del poverissimo Polesine, socialista riformista, giurista brillante, sindacalista energico, neutralista-pacifista, anti-retorico, anti-populista e molto coerente nei comportamenti. Marito assente, ma presentissimo. I quotidiani ostili oggi scriverebbero di lui: «il socialista impellicciato». Ed è esattamente quello che scrivevano i suoi detrattori negli anni Venti del Novecento. A dimostrazione (e non è l’unica similitudine) che alcuni vizi della politica, della propaganda e dell’informazione hanno radici profonde almeno cento anni. La sua storia è quella di un uomo, di un leader politico, che ha visto avanzare il fascismo centimetro dopo centimetro. È la storia di allarmi lanciati e rimasti inascoltati. La storia di una resa, quella dell’Italia e della sua classe dirigente, nelle mani di Mussolini.

(…)

Matteotti era un socialista riformista. Gradualista, ma radicale e intransigente. Nulla a che vedere con l’accezione che spesso si dà oggi del riformismo, come declinazione sbiadita del moderatismo o del compromesso al ribasso.

(…)

Non subì mai il fascino della dittatura del proletariato. Anzi. Persino nell’utilizzo degli scioperi sosteneva che ci si dovesse limitare. Era convinto che prendere il potere con le armi fosse cosa facile, ma allo stesso tempo inutile, perché poi la difficoltà più grande era sempre quella di costruire il socialismo dentro le persone: lo spirito socialista, la cultura socialista, mai disgiunta, come per tutti i riformisti, da quella liberale. Di qui l’attenzione alla scuola, continua e incessante, come momento primo di educazione necessaria e pilastro democratico per edificare l’emancipazione dei singoli. Di qui la difesa dello Stato di diritto e di tutte le libertà costituzionali: di espressione, di stampa, di riunione. Di qui la necessità di costruire un fisco che colpisse chi aveva di più e non solo chi era più raggiungibile; e di organizzare un’amministrazione pubblica efficiente, per ridurre gli sprechi e per difendere il bene comune, anche a costo di essere pedanti e troppo puntigliosi.

(…)

Matteotti ha attraversato sulle barricate il passaggio delicatissimo dall’Italia liberale dei notabili a quella dei partiti di massa. Vide crescere la violenza dei fascisti nelle sue terre. Fu uno dei primi a comprendere la natura predatoria delle squadracce nere, il loro legame con gli interessi economici locali e l’immobilismo, o peggio la collusione, degli apparati dello Stato. E poi l’evoluzione sempre più aggressiva del fascismo, con l’attacco alle amministrazioni, la presa del potere, lo svuotamento delle prerogative del Parlamento per mezzo di un eccesso di decretazioni. Fu anche uno dei primi a parlare di dittatura e a denunciare alla Camera i crimini di Mussolini. E non parliamo, ovviamente, delle oscene leggi razziali o della partecipazione disastrosa alla Seconda guerra mondiale, perché quelle arrivarono con Matteotti già morto da più di un decennio. Parliamo della fine della democrazia sotto i colpi dei manganelli, dell’illegalità imperante, della stretta assillante alla libertà di espressione, dei soprusi e dello svuotamento delle istituzioni. Matteotti denunciò tutto a Montecitorio. Le sue denunce restarono inascoltate, colpevolmente inascoltate, caddero nel vuoto e nel silenzio di una classe dirigente liberale che sperava ingenuamente di ammansire il Duce.

Matteotti pagò tutto. Nel marzo del 1921 venne rapito, picchiato e abbandonato in un campo. Volevano umiliarlo anche per interrompere la sintonia creata negli anni con le masse proletarie. I fascisti gli imposero il «bando». Cioè, malgrado fosse un deputato del Regno, non poté più circo- lare nella provincia dove era stato eletto, dove risiedeva e dove si trovavano la sua casa e la sua famiglia. Tutto questo nell’indifferenza (o nell’impotenza) delle forze dell’ordine. Tutto questo mentre in Parlamento i fascisti in pratica non avevano rappresentanza (i primi trentacinque deputati fascisti ufficiali sono eletti nel maggio del 1921). Negli anni successivi subì altre aggressioni. Non si fermò mai.

Nel denunciare le violenze fasciste e le complicità governative arrivò a ipotizzare una ritorsione forte da parte dei proletari socialisti. Soprattutto nel corso dell’anno 1921, cioè prima della Marcia su Roma e prima dell’incarico di governo a Mussolini, cercò di smuovere le coscienze della vecchia maggioranza liberale, minacciando una reazione delle masse contro i soprusi fascisti. Ma forse sapeva che questa reazione non ci sarebbe stata.

E sapeva anche che nel rapporto con la violenza, il socialismo, soprattutto quello massimalista, si era sempre trovato nella peggiore posizione possibile: quella di chi predicava la necessità della violenza rivoluzionaria e poi non la praticava, se non in modo confuso, sporadico, non strategico, quindi senza una reale capacità di ribaltare il tavolo o almeno di contrastare le azioni delle milizie fasciste. Così facendo anzi, i socialisti legittimavano le manganellate nere di fronte alla classe dirigente liberale: il pericolo delle piccole violenze socialiste che annunciavano la grande rivoluzione rossa fece preferire all’establishment italiano la grande violenza fascista che almeno era al servizio degli industriali e dei proprietari terrieri, e che ristabiliva un ordine apparente.

Matteotti era perfettamente consapevole di questo meccanismo e per questo, dopo l’ascesa di Mussolini alla Presidenza del Consiglio, scrisse un volumetto per denunciare l’ondata di brutalità delle camicie nere e per smascherare sia le false promesse economiche del Duce sia il mito del fascismo come salvatore della patria dalla minaccia barbarica dei bolscevichi. Mito che, purtroppo, era stato comodamente sposato dal re, dal papa e dalla classe dirigente liberale.

Inoltre, proprio per spezzare i legami con Mussolini di tutti quelli che avevano creduto alle sue favole, lavorò incessantemente alla costruzione di un fronte larghissimo antifascista, che comprendesse anche i cattolici del Partito popolare di don Luigi Sturzo. L’operazione fallì.

(…)

Come ha scritto lo storico Degl’Innocenti, «il mondo di Matteotti non c’è più. Ma proprio per questo quando compaiono similitudini e coincidenze significative, vanno valutate alla luce del “respiro profondo della storia”». Le ingiustizie sociali procedono con costanza, la corruzione e i conflitti d’interesse navigano indisturbati, le pulsioni securitarie riaffiorano (in forma quasi grottesca, ma riaffiorano), i tentativi di accentramento del potere si fanno sempre più concreti.

Quindi, dicevamo, «avercene» di Matteotti!

Nell’Italia dei nostri tempi, con politici, ministri e sottosegretari che più o meno nascostamente, usano spesso la politica anche per migliorare la propria condizione economica e i propri affari, per trovare case o accumulare benefit e prebende a cui i comuni cittadini non hanno accesso, quanto sarebbe concretamente e simbolicamente importante un segretario di partito o un parlamentare che fa l’opposto come Matteotti?

Nell’Italia dei rider col cubo sulle spalle, dei clandestini che lavorano la terra come schiavi, degli stipendi che sembrano mance, dei servizi sociali e pubblici che arrancano... quanto sarebbe salutare avere un politico capace di leggere i bilanci dello Stato e delle aziende, preparato e pronto a difendere il potere d’acquisto del salario, che invece di arrendersi e dire «il pubblico non funziona quindi deleghiamo ai privati», rilanciasse, lottando perché il bene comune resti tale e venga gestito meglio?

In un Paese dove molti leader e molti politici twittano e retwittano tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore, dove si ascoltano strafalcioni immondi dai banchi dei deputati, dove la coerenza è un miraggio e la preparazione una chimera, quanto sarebbe tranquillizzante un deputato che non cambiasse idea a ogni tremolio dell’opinione pubblica, e che soprattutto tendesse a fare, in termini di leggi e di provvedimenti, quello che ha dichiarato ai suoi elettori e ai suoi lettori?

Sono domande che si è fatto anche Sergio Luzzatto, nella prefazione al volume Contro il fascismo, in cui sono pubblicati due importanti discorsi parlamentari di Matteotti (quello del 31 gennaio 1921 e quello del 30 maggio 1924).

Sono domande a cui non si può rispondere se non dicendo «sarebbe importante», «sarebbe salutare», «sarebbe tranquillizzante».

Eppure, nel porre queste domande, quasi banali, già si sente l’eco degli annoiati, dei sempre scettici, dei cinici del tanto meglio tanto peggio, dei senza speranza, di quelli per cui essere contro il populismo giustizialista e incompetente vuol dire sventolare il motto atroce «meglio lo Stato corrotto che lo Stato rotto».

Ecco, Matteotti lottava, e lo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita, per uno Stato integro e sano. Era sia contro il populismo sia contro la corruzione, sia per il ri- spetto del diritto, sia per la soluzione concreta dei problemi dei cittadini, avendo sempre ben presente la meta di una trasformazione socialista del Paese.

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

Giacomo Matteotti e l’attualità del suo impegno antifascista

Pubblichiamo un estratto dal libro "Matteotti. Dieci vite" (Neri Pozza) di Vittorio Zincone.

Li ha visti arrivare. Prima degli altri, più degli altri. Diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime, Giacomo Matteotti percepisce l’avvento di una dittatura. Lancia l’allarme. Cerca di impedire l’ascesa di Mussolini e il consolidarsi del governo del Duce. Muore il 10 giugno 1924, rapito e accoltellato da un commando della cosiddetta Ceka fascista.

(…)

Ma chi era Giacomo Matteotti, martire della democrazia e icona della più tenace opposizione al fascismo? Figlio ricco del poverissimo Polesine, socialista riformista, giurista brillante, sindacalista energico, neutralista-pacifista, anti-retorico, anti-populista e molto coerente nei comportamenti. Marito assente, ma presentissimo. I quotidiani ostili oggi scriverebbero di lui: «il socialista impellicciato». Ed è esattamente quello che scrivevano i suoi detrattori negli anni Venti del Novecento. A dimostrazione (e non è l’unica similitudine) che alcuni vizi della politica, della propaganda e dell’informazione hanno radici profonde almeno cento anni. La sua storia è quella di un uomo, di un leader politico, che ha visto avanzare il fascismo centimetro dopo centimetro. È la storia di allarmi lanciati e rimasti inascoltati. La storia di una resa, quella dell’Italia e della sua classe dirigente, nelle mani di Mussolini.

(…)

Matteotti era un socialista riformista. Gradualista, ma radicale e intransigente. Nulla a che vedere con l’accezione che spesso si dà oggi del riformismo, come declinazione sbiadita del moderatismo o del compromesso al ribasso.

(…)

Non subì mai il fascino della dittatura del proletariato. Anzi. Persino nell’utilizzo degli scioperi sosteneva che ci si dovesse limitare. Era convinto che prendere il potere con le armi fosse cosa facile, ma allo stesso tempo inutile, perché poi la difficoltà più grande era sempre quella di costruire il socialismo dentro le persone: lo spirito socialista, la cultura socialista, mai disgiunta, come per tutti i riformisti, da quella liberale. Di qui l’attenzione alla scuola, continua e incessante, come momento primo di educazione necessaria e pilastro democratico per edificare l’emancipazione dei singoli. Di qui la difesa dello Stato di diritto e di tutte le libertà costituzionali: di espressione, di stampa, di riunione. Di qui la necessità di costruire un fisco che colpisse chi aveva di più e non solo chi era più raggiungibile; e di organizzare un’amministrazione pubblica efficiente, per ridurre gli sprechi e per difendere il bene comune, anche a costo di essere pedanti e troppo puntigliosi.

(…)

Matteotti ha attraversato sulle barricate il passaggio delicatissimo dall’Italia liberale dei notabili a quella dei partiti di massa. Vide crescere la violenza dei fascisti nelle sue terre. Fu uno dei primi a comprendere la natura predatoria delle squadracce nere, il loro legame con gli interessi economici locali e l’immobilismo, o peggio la collusione, degli apparati dello Stato. E poi l’evoluzione sempre più aggressiva del fascismo, con l’attacco alle amministrazioni, la presa del potere, lo svuotamento delle prerogative del Parlamento per mezzo di un eccesso di decretazioni. Fu anche uno dei primi a parlare di dittatura e a denunciare alla Camera i crimini di Mussolini. E non parliamo, ovviamente, delle oscene leggi razziali o della partecipazione disastrosa alla Seconda guerra mondiale, perché quelle arrivarono con Matteotti già morto da più di un decennio. Parliamo della fine della democrazia sotto i colpi dei manganelli, dell’illegalità imperante, della stretta assillante alla libertà di espressione, dei soprusi e dello svuotamento delle istituzioni. Matteotti denunciò tutto a Montecitorio. Le sue denunce restarono inascoltate, colpevolmente inascoltate, caddero nel vuoto e nel silenzio di una classe dirigente liberale che sperava ingenuamente di ammansire il Duce.

Matteotti pagò tutto. Nel marzo del 1921 venne rapito, picchiato e abbandonato in un campo. Volevano umiliarlo anche per interrompere la sintonia creata negli anni con le masse proletarie. I fascisti gli imposero il «bando». Cioè, malgrado fosse un deputato del Regno, non poté più circo- lare nella provincia dove era stato eletto, dove risiedeva e dove si trovavano la sua casa e la sua famiglia. Tutto questo nell’indifferenza (o nell’impotenza) delle forze dell’ordine. Tutto questo mentre in Parlamento i fascisti in pratica non avevano rappresentanza (i primi trentacinque deputati fascisti ufficiali sono eletti nel maggio del 1921). Negli anni successivi subì altre aggressioni. Non si fermò mai.

Nel denunciare le violenze fasciste e le complicità governative arrivò a ipotizzare una ritorsione forte da parte dei proletari socialisti. Soprattutto nel corso dell’anno 1921, cioè prima della Marcia su Roma e prima dell’incarico di governo a Mussolini, cercò di smuovere le coscienze della vecchia maggioranza liberale, minacciando una reazione delle masse contro i soprusi fascisti. Ma forse sapeva che questa reazione non ci sarebbe stata.

E sapeva anche che nel rapporto con la violenza, il socialismo, soprattutto quello massimalista, si era sempre trovato nella peggiore posizione possibile: quella di chi predicava la necessità della violenza rivoluzionaria e poi non la praticava, se non in modo confuso, sporadico, non strategico, quindi senza una reale capacità di ribaltare il tavolo o almeno di contrastare le azioni delle milizie fasciste. Così facendo anzi, i socialisti legittimavano le manganellate nere di fronte alla classe dirigente liberale: il pericolo delle piccole violenze socialiste che annunciavano la grande rivoluzione rossa fece preferire all’establishment italiano la grande violenza fascista che almeno era al servizio degli industriali e dei proprietari terrieri, e che ristabiliva un ordine apparente.

Matteotti era perfettamente consapevole di questo meccanismo e per questo, dopo l’ascesa di Mussolini alla Presidenza del Consiglio, scrisse un volumetto per denunciare l’ondata di brutalità delle camicie nere e per smascherare sia le false promesse economiche del Duce sia il mito del fascismo come salvatore della patria dalla minaccia barbarica dei bolscevichi. Mito che, purtroppo, era stato comodamente sposato dal re, dal papa e dalla classe dirigente liberale.

Inoltre, proprio per spezzare i legami con Mussolini di tutti quelli che avevano creduto alle sue favole, lavorò incessantemente alla costruzione di un fronte larghissimo antifascista, che comprendesse anche i cattolici del Partito popolare di don Luigi Sturzo. L’operazione fallì.

(…)

Come ha scritto lo storico Degl’Innocenti, «il mondo di Matteotti non c’è più. Ma proprio per questo quando compaiono similitudini e coincidenze significative, vanno valutate alla luce del “respiro profondo della storia”». Le ingiustizie sociali procedono con costanza, la corruzione e i conflitti d’interesse navigano indisturbati, le pulsioni securitarie riaffiorano (in forma quasi grottesca, ma riaffiorano), i tentativi di accentramento del potere si fanno sempre più concreti.

Quindi, dicevamo, «avercene» di Matteotti!

Nell’Italia dei nostri tempi, con politici, ministri e sottosegretari che più o meno nascostamente, usano spesso la politica anche per migliorare la propria condizione economica e i propri affari, per trovare case o accumulare benefit e prebende a cui i comuni cittadini non hanno accesso, quanto sarebbe concretamente e simbolicamente importante un segretario di partito o un parlamentare che fa l’opposto come Matteotti?

Nell’Italia dei rider col cubo sulle spalle, dei clandestini che lavorano la terra come schiavi, degli stipendi che sembrano mance, dei servizi sociali e pubblici che arrancano... quanto sarebbe salutare avere un politico capace di leggere i bilanci dello Stato e delle aziende, preparato e pronto a difendere il potere d’acquisto del salario, che invece di arrendersi e dire «il pubblico non funziona quindi deleghiamo ai privati», rilanciasse, lottando perché il bene comune resti tale e venga gestito meglio?

In un Paese dove molti leader e molti politici twittano e retwittano tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore, dove si ascoltano strafalcioni immondi dai banchi dei deputati, dove la coerenza è un miraggio e la preparazione una chimera, quanto sarebbe tranquillizzante un deputato che non cambiasse idea a ogni tremolio dell’opinione pubblica, e che soprattutto tendesse a fare, in termini di leggi e di provvedimenti, quello che ha dichiarato ai suoi elettori e ai suoi lettori?

Sono domande che si è fatto anche Sergio Luzzatto, nella prefazione al volume Contro il fascismo, in cui sono pubblicati due importanti discorsi parlamentari di Matteotti (quello del 31 gennaio 1921 e quello del 30 maggio 1924).

Sono domande a cui non si può rispondere se non dicendo «sarebbe importante», «sarebbe salutare», «sarebbe tranquillizzante».

Eppure, nel porre queste domande, quasi banali, già si sente l’eco degli annoiati, dei sempre scettici, dei cinici del tanto meglio tanto peggio, dei senza speranza, di quelli per cui essere contro il populismo giustizialista e incompetente vuol dire sventolare il motto atroce «meglio lo Stato corrotto che lo Stato rotto».

Ecco, Matteotti lottava, e lo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita, per uno Stato integro e sano. Era sia contro il populismo sia contro la corruzione, sia per il ri- spetto del diritto, sia per la soluzione concreta dei problemi dei cittadini, avendo sempre ben presente la meta di una trasformazione socialista del Paese.

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

Giacomo Matteotti e l’attualità del suo impegno antifascista

Pubblichiamo un estratto dal libro "Matteotti. Dieci vite" (Neri Pozza) di Vittorio Zincone.

Li ha visti arrivare. Prima degli altri, più degli altri. Diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime, Giacomo Matteotti percepisce l’avvento di una dittatura. Lancia l’allarme. Cerca di impedire l’ascesa di Mussolini e il consolidarsi del governo del Duce. Muore il 10 giugno 1924, rapito e accoltellato da un commando della cosiddetta Ceka fascista.

(…)

Ma chi era Giacomo Matteotti, martire della democrazia e icona della più tenace opposizione al fascismo? Figlio ricco del poverissimo Polesine, socialista riformista, giurista brillante, sindacalista energico, neutralista-pacifista, anti-retorico, anti-populista e molto coerente nei comportamenti. Marito assente, ma presentissimo. I quotidiani ostili oggi scriverebbero di lui: «il socialista impellicciato». Ed è esattamente quello che scrivevano i suoi detrattori negli anni Venti del Novecento. A dimostrazione (e non è l’unica similitudine) che alcuni vizi della politica, della propaganda e dell’informazione hanno radici profonde almeno cento anni. La sua storia è quella di un uomo, di un leader politico, che ha visto avanzare il fascismo centimetro dopo centimetro. È la storia di allarmi lanciati e rimasti inascoltati. La storia di una resa, quella dell’Italia e della sua classe dirigente, nelle mani di Mussolini.

(…)

Matteotti era un socialista riformista. Gradualista, ma radicale e intransigente. Nulla a che vedere con l’accezione che spesso si dà oggi del riformismo, come declinazione sbiadita del moderatismo o del compromesso al ribasso.

(…)

Non subì mai il fascino della dittatura del proletariato. Anzi. Persino nell’utilizzo degli scioperi sosteneva che ci si dovesse limitare. Era convinto che prendere il potere con le armi fosse cosa facile, ma allo stesso tempo inutile, perché poi la difficoltà più grande era sempre quella di costruire il socialismo dentro le persone: lo spirito socialista, la cultura socialista, mai disgiunta, come per tutti i riformisti, da quella liberale. Di qui l’attenzione alla scuola, continua e incessante, come momento primo di educazione necessaria e pilastro democratico per edificare l’emancipazione dei singoli. Di qui la difesa dello Stato di diritto e di tutte le libertà costituzionali: di espressione, di stampa, di riunione. Di qui la necessità di costruire un fisco che colpisse chi aveva di più e non solo chi era più raggiungibile; e di organizzare un’amministrazione pubblica efficiente, per ridurre gli sprechi e per difendere il bene comune, anche a costo di essere pedanti e troppo puntigliosi.

(…)

Matteotti ha attraversato sulle barricate il passaggio delicatissimo dall’Italia liberale dei notabili a quella dei partiti di massa. Vide crescere la violenza dei fascisti nelle sue terre. Fu uno dei primi a comprendere la natura predatoria delle squadracce nere, il loro legame con gli interessi economici locali e l’immobilismo, o peggio la collusione, degli apparati dello Stato. E poi l’evoluzione sempre più aggressiva del fascismo, con l’attacco alle amministrazioni, la presa del potere, lo svuotamento delle prerogative del Parlamento per mezzo di un eccesso di decretazioni. Fu anche uno dei primi a parlare di dittatura e a denunciare alla Camera i crimini di Mussolini. E non parliamo, ovviamente, delle oscene leggi razziali o della partecipazione disastrosa alla Seconda guerra mondiale, perché quelle arrivarono con Matteotti già morto da più di un decennio. Parliamo della fine della democrazia sotto i colpi dei manganelli, dell’illegalità imperante, della stretta assillante alla libertà di espressione, dei soprusi e dello svuotamento delle istituzioni. Matteotti denunciò tutto a Montecitorio. Le sue denunce restarono inascoltate, colpevolmente inascoltate, caddero nel vuoto e nel silenzio di una classe dirigente liberale che sperava ingenuamente di ammansire il Duce.

Matteotti pagò tutto. Nel marzo del 1921 venne rapito, picchiato e abbandonato in un campo. Volevano umiliarlo anche per interrompere la sintonia creata negli anni con le masse proletarie. I fascisti gli imposero il «bando». Cioè, malgrado fosse un deputato del Regno, non poté più circo- lare nella provincia dove era stato eletto, dove risiedeva e dove si trovavano la sua casa e la sua famiglia. Tutto questo nell’indifferenza (o nell’impotenza) delle forze dell’ordine. Tutto questo mentre in Parlamento i fascisti in pratica non avevano rappresentanza (i primi trentacinque deputati fascisti ufficiali sono eletti nel maggio del 1921). Negli anni successivi subì altre aggressioni. Non si fermò mai.

Nel denunciare le violenze fasciste e le complicità governative arrivò a ipotizzare una ritorsione forte da parte dei proletari socialisti. Soprattutto nel corso dell’anno 1921, cioè prima della Marcia su Roma e prima dell’incarico di governo a Mussolini, cercò di smuovere le coscienze della vecchia maggioranza liberale, minacciando una reazione delle masse contro i soprusi fascisti. Ma forse sapeva che questa reazione non ci sarebbe stata.

E sapeva anche che nel rapporto con la violenza, il socialismo, soprattutto quello massimalista, si era sempre trovato nella peggiore posizione possibile: quella di chi predicava la necessità della violenza rivoluzionaria e poi non la praticava, se non in modo confuso, sporadico, non strategico, quindi senza una reale capacità di ribaltare il tavolo o almeno di contrastare le azioni delle milizie fasciste. Così facendo anzi, i socialisti legittimavano le manganellate nere di fronte alla classe dirigente liberale: il pericolo delle piccole violenze socialiste che annunciavano la grande rivoluzione rossa fece preferire all’establishment italiano la grande violenza fascista che almeno era al servizio degli industriali e dei proprietari terrieri, e che ristabiliva un ordine apparente.

Matteotti era perfettamente consapevole di questo meccanismo e per questo, dopo l’ascesa di Mussolini alla Presidenza del Consiglio, scrisse un volumetto per denunciare l’ondata di brutalità delle camicie nere e per smascherare sia le false promesse economiche del Duce sia il mito del fascismo come salvatore della patria dalla minaccia barbarica dei bolscevichi. Mito che, purtroppo, era stato comodamente sposato dal re, dal papa e dalla classe dirigente liberale.

Inoltre, proprio per spezzare i legami con Mussolini di tutti quelli che avevano creduto alle sue favole, lavorò incessantemente alla costruzione di un fronte larghissimo antifascista, che comprendesse anche i cattolici del Partito popolare di don Luigi Sturzo. L’operazione fallì.

(…)

Come ha scritto lo storico Degl’Innocenti, «il mondo di Matteotti non c’è più. Ma proprio per questo quando compaiono similitudini e coincidenze significative, vanno valutate alla luce del “respiro profondo della storia”». Le ingiustizie sociali procedono con costanza, la corruzione e i conflitti d’interesse navigano indisturbati, le pulsioni securitarie riaffiorano (in forma quasi grottesca, ma riaffiorano), i tentativi di accentramento del potere si fanno sempre più concreti.

Quindi, dicevamo, «avercene» di Matteotti!

Nell’Italia dei nostri tempi, con politici, ministri e sottosegretari che più o meno nascostamente, usano spesso la politica anche per migliorare la propria condizione economica e i propri affari, per trovare case o accumulare benefit e prebende a cui i comuni cittadini non hanno accesso, quanto sarebbe concretamente e simbolicamente importante un segretario di partito o un parlamentare che fa l’opposto come Matteotti?

Nell’Italia dei rider col cubo sulle spalle, dei clandestini che lavorano la terra come schiavi, degli stipendi che sembrano mance, dei servizi sociali e pubblici che arrancano... quanto sarebbe salutare avere un politico capace di leggere i bilanci dello Stato e delle aziende, preparato e pronto a difendere il potere d’acquisto del salario, che invece di arrendersi e dire «il pubblico non funziona quindi deleghiamo ai privati», rilanciasse, lottando perché il bene comune resti tale e venga gestito meglio?

In un Paese dove molti leader e molti politici twittano e retwittano tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore, dove si ascoltano strafalcioni immondi dai banchi dei deputati, dove la coerenza è un miraggio e la preparazione una chimera, quanto sarebbe tranquillizzante un deputato che non cambiasse idea a ogni tremolio dell’opinione pubblica, e che soprattutto tendesse a fare, in termini di leggi e di provvedimenti, quello che ha dichiarato ai suoi elettori e ai suoi lettori?

Sono domande che si è fatto anche Sergio Luzzatto, nella prefazione al volume Contro il fascismo, in cui sono pubblicati due importanti discorsi parlamentari di Matteotti (quello del 31 gennaio 1921 e quello del 30 maggio 1924).

Sono domande a cui non si può rispondere se non dicendo «sarebbe importante», «sarebbe salutare», «sarebbe tranquillizzante».

Eppure, nel porre queste domande, quasi banali, già si sente l’eco degli annoiati, dei sempre scettici, dei cinici del tanto meglio tanto peggio, dei senza speranza, di quelli per cui essere contro il populismo giustizialista e incompetente vuol dire sventolare il motto atroce «meglio lo Stato corrotto che lo Stato rotto».

Ecco, Matteotti lottava, e lo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita, per uno Stato integro e sano. Era sia contro il populismo sia contro la corruzione, sia per il ri- spetto del diritto, sia per la soluzione concreta dei problemi dei cittadini, avendo sempre ben presente la meta di una trasformazione socialista del Paese.

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

“La lotta per la libertà in Ucraina è strettamente legata alla lotta globale contro il fascismo”

Hanna Perekhoda è una storica, ricercatrice dell'Università di Losanna (Istituto di studi politici e Centro di storia internazionale e studi politici sulla globalizzazione) e si è specializzata sul nazionalismo nel contesto della storia dell'Impero russo e dell'Unione sovietica. 

La ricerca di Perekhoda esamina le strategie politiche dei bolscevichi in Ucraina tra il 1917 e gli anni venti. Perekhoda si occupa anche dello sviluppo, dal punto di vista storico dell'immaginario politico russo, con particolare attenzione al ruolo dell'Ucraina nell'ideologia di stato russa. Perekhoda fa anche parte di Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”), un gruppo politico di sinistra fondato da militanti e sindacalisti sulla scia di Euromaidan, la rivolta del 2013-14 che ha portato alla destituzione del presidente filorusso Viktor Janukovyč.

Francesca Barca: Sono passati tre anni da quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell'Ucraina. Cosa pensa della situazione odierna?

Hanna Perekhoda: Con il ritorno di Donald Trump, dovrebbe essere ormai chiaro che l'impunità della Russia sta alimentando l'ascesa delle forze fasciste nei nostri paesi e viceversa. Queste forze stanno lavorando attivamente per smantellare ogni struttura internazionale che limiti le loro ambizioni. La lotta per la libertà in Ucraina è quindi intimamente legata alla lotta globale contro queste tendenze distruttive. Ma bisogna dirlo con chiarezza: le probabilità di una liberazione diminuiscono di minuto in minuto.

L'ascesa di forze che uniscono autoritarismo e libertarismo negli Stati Uniti e in Europa va presa molto sul serio. La razionalità capitalista, con il suo culto della crescita illimitata e del profitto, pone quest’ultimo al di sopra di tutto: dalla vita privata alla sicurezza collettiva. In questo mondo, se non si rompe questa dinamica, l'Ucraina non avrà futuro. Ma che sia chiaro: non ci sarà futuro per nessuno.

Parte del dibattito in Occidente, soprattutto a sinistra ma non solo, si è concentrata da un lato sul pacifismo e dall'altro sul pericolo rappresentato dalle forze di estrema destra – se non neonaziste – in Ucraina. Ci può dare il suo punto di vista?

Immaginate di affacciarvi alla finestra e di vedere una persona aggredita, picchiata e violentata. Questa persona si accorge di voi e vi implora di aiutarla. Avete gli strumenti necessari per permetterle di difendersi, ma scegliete di non fare nulla, lasciandola morire. Quando si tratta di una persona, è ovvio che non intervenire equivale a incoraggiare il crimine o ad aggravarne le conseguenze. Se qualcuno giustificasse la propria inazione dicendo di essere pacifista e contro ogni forma di violenza, questa argomentazione sarebbe considerata inappropriata, per non dire assurda.

Pur non ricadendo nel penale, un simile atteggiamento di solito viene considerato profondamente immorale. Allora mi chiedo: perché questo stesso atteggiamento tutto a un tratto diventa accettabile quando la situazione passa dal livello di un individuo aggredito a quello di una società sotto attacco? Come per miracolo, il rifiuto di prestare soccorso diventa pacifismo e trova una legittimazione morale.

La realtà è che quando manca il sostegno alle vittime, gli aggressori si sentono incoraggiati. È chiaro nelle relazioni personali, all'interno delle famiglie, dei gruppi di lavoro o di qualsiasi istituzione sociale. Ma vale anche nella politica internazionale. Abbandonare al loro destino le vittime di aggressioni militari è come dire a tutti gli psicopatici in posizione di potere che ora sono liberi di ricorrere alle guerre per risolvere i loro problemi di legittimità.

L'impunità concessa a chi sostiene la legge del più forte sulla scena internazionale alimenta inevitabilmente l'ascesa di forze che difendono gli stessi principi in patria. Forze come Alternative für Deutschland (Afd) in Germania, il Rassemblement National in Francia, Donald Trump negli Stati Uniti e Vladimir Putin in Russia condividono lo stesso culto della forza bruta: in altre parole, del fascismo. In definitiva, qualsiasi aggressione, per quanto lontana, se normalizzata, ha implicazioni che prima o poi si ripercuotono su tutti noi.

L'argomentazione secondo cui la presenza dell'estrema destra in Ucraina giustificherebbe il rifiuto di inviare armi si basa su un errore di logica piuttosto lampante. Rifiutarsi di aiutare un popolo con questo pretesto significa punire un'intera società per una realtà che esiste ovunque. Sì, in Ucraina ci sono gruppi di estrema destra, come in molti altri paesi. Nelle elezioni precedenti a quelle del 2022, questi gruppi hanno ottenuto percentuali marginali e non sono riusciti a entrare in parlamento. In Francia e in Germania ci sono movimenti di estrema destra infinitamente più influenti che in Ucraina, eppure nessuno metterebbe in dubbio il loro diritto all'autodifesa in caso di aggressione. Questo atteggiamento non è piuttosto frutto del pregiudiziooccidentale di un “Est” reazionario e retrogrado, che persiste anche quando le società occidentali stesse sono alle prese con una fascistizzazione contro cui la sinistra di questi paesi sembra del tutto impotente?

Questo argomento è tanto più ipocrita se si considera che molte di queste stesse voci  non esitano a sostenere movimenti di resistenza che includono attori più che problematici. Perché pretendere dall'Ucraina sotto attacco una purezza che nessun'altra società è tenuta a mostrare quando si tratta di difendersi?

È innegabile che la guerra, che dura da più di dieci anni, abbia già contribuito a rafforzare e banalizzare simboli e discorsi nazionalisti che prima non erano così rilevanti. Le guerre non rendono migliore nessuna società. 

Tuttavia, il rapporto tra l'invio di armi e il rafforzamento dell'estrema destra in Ucraina è inversamente proporzionale. Le armi servono innanzitutto a difendere la società nel suo complesso da un esercito invasore. La vittoria dell'Ucraina garantisce l'esistenza stessa di uno stato in cui i cittadini possono scegliere il proprio futuro in modo democratico. Al contrario, nulla rafforza i movimenti di estrema destra o le organizzazioni terroristiche più dell'occupazione militare e dell'oppressione sistematica che ne consegue.

Infatti, se l'Ucraina ottiene la pace alle condizioni russe – la pace delle tombe – è più che probabile che i gruppi radicali, che capitalizzeranno la frustrazione e il senso di ingiustizia, si rafforzeranno rapidamente a scapito degli attori moderati.

Il ruolo delle lingue (ucraino e russo) è molto importante per comprendere i dibattiti (spesso artificiali) e le polemiche. Puo’ aiutarci a meglio definire la questione?

È effettivamente utile collocare la questione nel suo contesto storico. Fin dal XIX secolo, lo Stato russo ha cercato di emarginare la lingua ucraina presentandola come una forma inferiore di russo. Le élite russe ritenevano che il riconoscimento di una lingua ucraina a sé stante minacciasse l'unità del loro stato nazionale in costruzione. Sotto l'Unione Sovietica, il russo era stato imposto come l'unica lingua legittima della modernità e del progresso. Dopo l'indipendenza ucraina [nel 1991], questa gerarchia linguistica è rimasta.

Fino al 2014, parlare ucraino nelle grandi città era malvisto, mentre il russo continuava a essere ammantato di un prestigio superiore. Per gli ucraini, quindi, la promozione dell'ucraino nello spazio pubblico non è un attacco ai russofoni, ma un tentativo di correggere secoli di emarginazione. Considerare tutto ciò come prova di un nazionalismo aggressivo significa ignorare il contesto (post-)imperiale che sottende queste dinamiche, un contesto spesso invisibile a chi appartiene a nazioni storicamente imperialiste e non a gruppi culturalmente oppressi.

Quindi la questione della lingua è strumentalizzata?

Sì, ciò che è importante considerare è il modo in cui la Russia ha usato la questione linguistica per legittimare la sua aggressione contro l'Ucraina. Nel 2014, al momento dell'annessione della Crimea e dell'inizio della guerra nel Donbass, il Cremlino ha giustificato le sue azioni sostenendo di voler proteggere la popolazione russofona, presunta vittima di un “genocidio linguistico”. Se prima, nel quotidiano, l’ucraino e il russo coesistevano in modo abbastanza pacifico, l'uso delle questioni linguistiche come arma di manipolazione politica ha esacerbato le divisioni.

È fondamentale ricordare che parlare russo in Ucraina non significa essere filo-russi o appoggiare il Cremlino. Dovremmo evitare di ripetere pedissequamente la narrativa della propaganda russa, che fa di tutto per legittimare l'attacco alla sovranità degli stati democratici vicini. 

Solo con l'aggressione russa del 2014 lo Stato ucraino ha rotto lo status quo di relativo non intervento nelle questioni linguistiche. Nel 2018, il Parlamento ha approvato una legge che impone l'uso dell'ucraino nella maggior parte degli aspetti della vita pubblica, obbligando i funzionari pubblici e le persone che lavorano nella sfera pubblica a conoscerlo e a usarlo nelle loro comunicazioni. 

L'ucraino è diventato obbligatorio nelle scuole. Questo non ha necessariamente portato a cambiamenti radicali: molte persone utilizzavano sia l'ucraino che il russo nella loro vita quotidiana, per non parlare di chi parlava un misto dei due. La realtà dell'Ucraina è quella della porosità linguistica.

La guerra e le atrocità commesse dai russi hanno portato molti ucraini a parlare solamente ucraino e a guardare con sospetto chi continua a parlare “la lingua dell'occupante”. Non è raro che i sopravvissuti russofoni ai bombardamenti siano accusati di mancanza di patriottismo dai residenti di lingua ucraina delle città lontane dai combattimenti. Il rifiuto radicale della lingua russa, inesistente nel 2014 ma brandito da Putin per legittimare l'aggressione militare, a distanza di dieci anni è diventato una profezia che si è autoavverata.

Per i russofoni d’Ucraina, il problema è che lo Stato che dice di voler proteggere la loro lingua la usa per diffondere narrazioni che negano il diritto all'esistenza dell'Ucraina. Al momento, i russofoni non hanno dei portavoce in grado di articolare la loro esperienza senza sfruttarla a fini politici. Se la Russia non sfruttasse la lingua e la cultura come strumenti di espansione, e se la presenza di una popolazione russofona non fosse stata usata per giustificare una dominazione politica e poi l'invasione militare, la coesistenza delle due lingue probabilmente porrebbe pochi problemi.

Allo stesso tempo, aggiungo, l'autoproclamata élite intellettuale ucraina si sta dimostrando particolarmente arretrata e francamente ridicola, perché costruisce l'identità nazionale secondo le ricette del XIX secolo. In realtà, è impossibile richiudere la popolazione ucraina contemporanea in uno dei due sistemi oscurantisti che le vengono proposti: il nazionalismo etnolinguistico ucraino da un lato, e il nazionalismo imperiale russo dall'altro.

Prima del 2022, esisteva ancora la possibilità di costruire in Ucraina una cultura russofona alternativa, non infettata dall'immaginario imperiale russo e indipendente dalle priorità politiche dello stato russo. L'invasione ha reso questo progetto completamente impossibile. 

Putin ne sarà probabilmente contento, perché il suo timore principale non è che l'Ucraina tagli tutti i legami con i russi, bensì che l'Ucraina condivida la loro lingua, ma che sviluppi un solido sistema politico democratico, “infettando” i russi con il virus della libertà.

L'Unione Europea è spesso percepita come “superata” nel migliore dei casi, se non “neoliberale” e “antidemocratica” dalla sinistra e dagli attivisti dell'Europa occidentale; in Europa orientale, invece, che si tratti di Moldova, Romania, Ucraina o Georgia, i cittadini si mobilitano dietro questa idea... Come si spiega questa differenza? Cosa rappresenta l'Ue nell'est del continente? E in particolare in Ucraina?

Dall'interno l'UE può essere vista come un progetto in cui le logiche di mercato hanno la precedenza sulla giustizia sociale, in cui le decisioni sono spesso prese a porte chiuse e in cui gli interessi di grandi potenze economiche come la Germania impongono le loro priorità. In questo contesto, non sorprende che alcuni vedano l'UE come un ostacolo di cui liberarsi.

Ma per i paesi europei non appartenenti all'UE, e in particolare per l'Ucraina, incarna qualcosa di diverso. “L'Europa” è soprattutto un'aspirazione, un'idea di futuro in cui prevalgono lo stato di diritto, le libertà individuali e un certo livello di prosperità. Quello non sempre chiaro in Europa occidentale, è che qui l'UE rappresenta un'alternativa a un modello autoritario e oppressivo, un modello che la Russia impone con la forza ai suoi vicini.

Per i cittadini dell'UE, l'Unione è innanzitutto un progetto economico. Per chi non ne fa parte, invece, è in primo luogo un progetto culturale e di civiltà. Che la ammirino o la odino, i suoi sostenitori e i suoi detrattori al di fuori dell'Unione la considerano una forza innanzitutto politica. La Russia, del resto, è esplicita da questo punto di vista: almeno dal 2013 tratta l'UE non come un concorrente economico, ma come un rivale geopolitico e ideologico.

Questa dimensione è diventata ancora più evidente nel 2014, con l’Euromaidan, quando gli ucraini hanno letteralmente dato la vita per difendere il futuro “europeo” del proprio paese. È stato un atto che molti europei non hanno compreso, o hanno addirittura guardato con condiscendenza o pena. Eppure, per questi manifestanti, “l’Europa” non era un'area economica, ma un simbolo di dignità e libertà.

Gli europei faticano a riconoscere che dietro l'idea di un'Europa politicamente unita c'è davvero della sostanza, perché appare screditata dalle sue politiche neoliberiste. Tuttavia, come ogni progetto nato dalla modernità, l'Unione Europea porta dentro di sé tendenze contraddittorie. Per usare le parole del filosofo ed economista Cornelius Castoriadis, essa porta in sé sia l'espansione illimitata del controllo razionale del mondo, che si manifesta nel neoliberismo, sia il potenziale di autonomia e apertura politica che assume la forma della democrazia.

Quale tendenza prevarrà? Dipende dalle forze politiche che investiranno in questo progetto. Certo è, però, che se, pur combattendo legittimamente le politiche neoliberiste dell'UE, abbandoniamo anche l'idea di un'Europa politicamente unita, buttiamo via il bambino con l'acqua sporca. Mentre l'Europa si cullava nel sogno di una pace post-nazionale, di una prosperità basata sugli idrocarburi russi e le merci cinesi, le élite di questi paesi accumulavano eserciti, risorse e, soprattutto, risentimento. 

E questo risentimento è rivolto proprio all'immaginario democratico dell'Europa, non al suo liberalismo economico.

Può sembrare paradossale...

Questo paradosso è tristemente logico: il potenziale democratico del progetto europeo sembra più evidente da fuori. È un po' come i vaccini: più sono efficaci, più vengono denigrati. In un paese dove i vaccini sono appena arrivati, dove è ancora alto il tasso di bambini che muoiono di poliomielite, un movimento anti-vaccinazione risulterebbe assurdo. Allo stesso modo, gli europei che abbandonano così facilmente l'idea dell'unità europea appaiono ingenui agli occhi di quanti stanno combattendo un esercito deciso a distruggerli.

Detto questo, gli attivisti ucraini di sinistra non si lasciano ingannare dalle realtà economiche dell'Europa. Hanno osservato attentamente ciò che è accaduto in Grecia, per esempio. Ma bisogna capire che l'Ucraina è già un paese fortemente neoliberista, con élite predatorie e un diritto del lavoro precario. 

In alcuni settori, la legislazione europea potrebbe effettivamente smantellare ciò che resta delle protezioni sociali. In altri, invece, potrebbe introdurre standard e regole inesistenti in questo capitalismo selvaggio. Non ci sono quindi risposte facili.

In ogni caso, per la stragrande maggioranza degli ucraini, i dettagli contano poco. “L’Europa” rappresenta una promessa di giustizia, democrazia ed emancipazione. Di fronte all'abisso dell'occupazione russa, gli ucraini – come i georgiani – si aggrappano all'unica alternativa di unità politica che offre il continente.

*Articolo pubblicato anche su voxeurop.ue, giornale online indipendente pensato e costruito intorno a una comunità di giornalisti e giornaliste, traduttori e traduttrici, media partner, e lettori, lettrici e membri di oltre 30 paesi.

Immagine in anteprima via pexels.com

“La lotta per la libertà in Ucraina è strettamente legata alla lotta globale contro il fascismo”

Hanna Perekhoda è una storica, ricercatrice dell'Università di Losanna (Istituto di studi politici e Centro di storia internazionale e studi politici sulla globalizzazione) e si è specializzata sul nazionalismo nel contesto della storia dell'Impero russo e dell'Unione sovietica. 

La ricerca di Perekhoda esamina le strategie politiche dei bolscevichi in Ucraina tra il 1917 e gli anni venti. Perekhoda si occupa anche dello sviluppo, dal punto di vista storico dell'immaginario politico russo, con particolare attenzione al ruolo dell'Ucraina nell'ideologia di stato russa. Perekhoda fa anche parte di Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”), un gruppo politico di sinistra fondato da militanti e sindacalisti sulla scia di Euromaidan, la rivolta del 2013-14 che ha portato alla destituzione del presidente filorusso Viktor Janukovyč.

Francesca Barca: Sono passati tre anni da quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell'Ucraina. Cosa pensa della situazione odierna?

Hanna Perekhoda: Con il ritorno di Donald Trump, dovrebbe essere ormai chiaro che l'impunità della Russia sta alimentando l'ascesa delle forze fasciste nei nostri paesi e viceversa. Queste forze stanno lavorando attivamente per smantellare ogni struttura internazionale che limiti le loro ambizioni. La lotta per la libertà in Ucraina è quindi intimamente legata alla lotta globale contro queste tendenze distruttive. Ma bisogna dirlo con chiarezza: le probabilità di una liberazione diminuiscono di minuto in minuto.

L'ascesa di forze che uniscono autoritarismo e libertarismo negli Stati Uniti e in Europa va presa molto sul serio. La razionalità capitalista, con il suo culto della crescita illimitata e del profitto, pone quest’ultimo al di sopra di tutto: dalla vita privata alla sicurezza collettiva. In questo mondo, se non si rompe questa dinamica, l'Ucraina non avrà futuro. Ma che sia chiaro: non ci sarà futuro per nessuno.

Parte del dibattito in Occidente, soprattutto a sinistra ma non solo, si è concentrata da un lato sul pacifismo e dall'altro sul pericolo rappresentato dalle forze di estrema destra – se non neonaziste – in Ucraina. Ci può dare il suo punto di vista?

Immaginate di affacciarvi alla finestra e di vedere una persona aggredita, picchiata e violentata. Questa persona si accorge di voi e vi implora di aiutarla. Avete gli strumenti necessari per permetterle di difendersi, ma scegliete di non fare nulla, lasciandola morire. Quando si tratta di una persona, è ovvio che non intervenire equivale a incoraggiare il crimine o ad aggravarne le conseguenze. Se qualcuno giustificasse la propria inazione dicendo di essere pacifista e contro ogni forma di violenza, questa argomentazione sarebbe considerata inappropriata, per non dire assurda.

Pur non ricadendo nel penale, un simile atteggiamento di solito viene considerato profondamente immorale. Allora mi chiedo: perché questo stesso atteggiamento tutto a un tratto diventa accettabile quando la situazione passa dal livello di un individuo aggredito a quello di una società sotto attacco? Come per miracolo, il rifiuto di prestare soccorso diventa pacifismo e trova una legittimazione morale.

La realtà è che quando manca il sostegno alle vittime, gli aggressori si sentono incoraggiati. È chiaro nelle relazioni personali, all'interno delle famiglie, dei gruppi di lavoro o di qualsiasi istituzione sociale. Ma vale anche nella politica internazionale. Abbandonare al loro destino le vittime di aggressioni militari è come dire a tutti gli psicopatici in posizione di potere che ora sono liberi di ricorrere alle guerre per risolvere i loro problemi di legittimità.

L'impunità concessa a chi sostiene la legge del più forte sulla scena internazionale alimenta inevitabilmente l'ascesa di forze che difendono gli stessi principi in patria. Forze come Alternative für Deutschland (Afd) in Germania, il Rassemblement National in Francia, Donald Trump negli Stati Uniti e Vladimir Putin in Russia condividono lo stesso culto della forza bruta: in altre parole, del fascismo. In definitiva, qualsiasi aggressione, per quanto lontana, se normalizzata, ha implicazioni che prima o poi si ripercuotono su tutti noi.

L'argomentazione secondo cui la presenza dell'estrema destra in Ucraina giustificherebbe il rifiuto di inviare armi si basa su un errore di logica piuttosto lampante. Rifiutarsi di aiutare un popolo con questo pretesto significa punire un'intera società per una realtà che esiste ovunque. Sì, in Ucraina ci sono gruppi di estrema destra, come in molti altri paesi. Nelle elezioni precedenti a quelle del 2022, questi gruppi hanno ottenuto percentuali marginali e non sono riusciti a entrare in parlamento. In Francia e in Germania ci sono movimenti di estrema destra infinitamente più influenti che in Ucraina, eppure nessuno metterebbe in dubbio il loro diritto all'autodifesa in caso di aggressione. Questo atteggiamento non è piuttosto frutto del pregiudiziooccidentale di un “Est” reazionario e retrogrado, che persiste anche quando le società occidentali stesse sono alle prese con una fascistizzazione contro cui la sinistra di questi paesi sembra del tutto impotente?

Questo argomento è tanto più ipocrita se si considera che molte di queste stesse voci  non esitano a sostenere movimenti di resistenza che includono attori più che problematici. Perché pretendere dall'Ucraina sotto attacco una purezza che nessun'altra società è tenuta a mostrare quando si tratta di difendersi?

È innegabile che la guerra, che dura da più di dieci anni, abbia già contribuito a rafforzare e banalizzare simboli e discorsi nazionalisti che prima non erano così rilevanti. Le guerre non rendono migliore nessuna società. 

Tuttavia, il rapporto tra l'invio di armi e il rafforzamento dell'estrema destra in Ucraina è inversamente proporzionale. Le armi servono innanzitutto a difendere la società nel suo complesso da un esercito invasore. La vittoria dell'Ucraina garantisce l'esistenza stessa di uno stato in cui i cittadini possono scegliere il proprio futuro in modo democratico. Al contrario, nulla rafforza i movimenti di estrema destra o le organizzazioni terroristiche più dell'occupazione militare e dell'oppressione sistematica che ne consegue.

Infatti, se l'Ucraina ottiene la pace alle condizioni russe – la pace delle tombe – è più che probabile che i gruppi radicali, che capitalizzeranno la frustrazione e il senso di ingiustizia, si rafforzeranno rapidamente a scapito degli attori moderati.

Il ruolo delle lingue (ucraino e russo) è molto importante per comprendere i dibattiti (spesso artificiali) e le polemiche. Puo’ aiutarci a meglio definire la questione?

È effettivamente utile collocare la questione nel suo contesto storico. Fin dal XIX secolo, lo Stato russo ha cercato di emarginare la lingua ucraina presentandola come una forma inferiore di russo. Le élite russe ritenevano che il riconoscimento di una lingua ucraina a sé stante minacciasse l'unità del loro stato nazionale in costruzione. Sotto l'Unione Sovietica, il russo era stato imposto come l'unica lingua legittima della modernità e del progresso. Dopo l'indipendenza ucraina [nel 1991], questa gerarchia linguistica è rimasta.

Fino al 2014, parlare ucraino nelle grandi città era malvisto, mentre il russo continuava a essere ammantato di un prestigio superiore. Per gli ucraini, quindi, la promozione dell'ucraino nello spazio pubblico non è un attacco ai russofoni, ma un tentativo di correggere secoli di emarginazione. Considerare tutto ciò come prova di un nazionalismo aggressivo significa ignorare il contesto (post-)imperiale che sottende queste dinamiche, un contesto spesso invisibile a chi appartiene a nazioni storicamente imperialiste e non a gruppi culturalmente oppressi.

Quindi la questione della lingua è strumentalizzata?

Sì, ciò che è importante considerare è il modo in cui la Russia ha usato la questione linguistica per legittimare la sua aggressione contro l'Ucraina. Nel 2014, al momento dell'annessione della Crimea e dell'inizio della guerra nel Donbass, il Cremlino ha giustificato le sue azioni sostenendo di voler proteggere la popolazione russofona, presunta vittima di un “genocidio linguistico”. Se prima, nel quotidiano, l’ucraino e il russo coesistevano in modo abbastanza pacifico, l'uso delle questioni linguistiche come arma di manipolazione politica ha esacerbato le divisioni.

È fondamentale ricordare che parlare russo in Ucraina non significa essere filo-russi o appoggiare il Cremlino. Dovremmo evitare di ripetere pedissequamente la narrativa della propaganda russa, che fa di tutto per legittimare l'attacco alla sovranità degli stati democratici vicini. 

Solo con l'aggressione russa del 2014 lo Stato ucraino ha rotto lo status quo di relativo non intervento nelle questioni linguistiche. Nel 2018, il Parlamento ha approvato una legge che impone l'uso dell'ucraino nella maggior parte degli aspetti della vita pubblica, obbligando i funzionari pubblici e le persone che lavorano nella sfera pubblica a conoscerlo e a usarlo nelle loro comunicazioni. 

L'ucraino è diventato obbligatorio nelle scuole. Questo non ha necessariamente portato a cambiamenti radicali: molte persone utilizzavano sia l'ucraino che il russo nella loro vita quotidiana, per non parlare di chi parlava un misto dei due. La realtà dell'Ucraina è quella della porosità linguistica.

La guerra e le atrocità commesse dai russi hanno portato molti ucraini a parlare solamente ucraino e a guardare con sospetto chi continua a parlare “la lingua dell'occupante”. Non è raro che i sopravvissuti russofoni ai bombardamenti siano accusati di mancanza di patriottismo dai residenti di lingua ucraina delle città lontane dai combattimenti. Il rifiuto radicale della lingua russa, inesistente nel 2014 ma brandito da Putin per legittimare l'aggressione militare, a distanza di dieci anni è diventato una profezia che si è autoavverata.

Per i russofoni d’Ucraina, il problema è che lo Stato che dice di voler proteggere la loro lingua la usa per diffondere narrazioni che negano il diritto all'esistenza dell'Ucraina. Al momento, i russofoni non hanno dei portavoce in grado di articolare la loro esperienza senza sfruttarla a fini politici. Se la Russia non sfruttasse la lingua e la cultura come strumenti di espansione, e se la presenza di una popolazione russofona non fosse stata usata per giustificare una dominazione politica e poi l'invasione militare, la coesistenza delle due lingue probabilmente porrebbe pochi problemi.

Allo stesso tempo, aggiungo, l'autoproclamata élite intellettuale ucraina si sta dimostrando particolarmente arretrata e francamente ridicola, perché costruisce l'identità nazionale secondo le ricette del XIX secolo. In realtà, è impossibile richiudere la popolazione ucraina contemporanea in uno dei due sistemi oscurantisti che le vengono proposti: il nazionalismo etnolinguistico ucraino da un lato, e il nazionalismo imperiale russo dall'altro.

Prima del 2022, esisteva ancora la possibilità di costruire in Ucraina una cultura russofona alternativa, non infettata dall'immaginario imperiale russo e indipendente dalle priorità politiche dello stato russo. L'invasione ha reso questo progetto completamente impossibile. 

Putin ne sarà probabilmente contento, perché il suo timore principale non è che l'Ucraina tagli tutti i legami con i russi, bensì che l'Ucraina condivida la loro lingua, ma che sviluppi un solido sistema politico democratico, “infettando” i russi con il virus della libertà.

L'Unione Europea è spesso percepita come “superata” nel migliore dei casi, se non “neoliberale” e “antidemocratica” dalla sinistra e dagli attivisti dell'Europa occidentale; in Europa orientale, invece, che si tratti di Moldova, Romania, Ucraina o Georgia, i cittadini si mobilitano dietro questa idea... Come si spiega questa differenza? Cosa rappresenta l'Ue nell'est del continente? E in particolare in Ucraina?

Dall'interno l'UE può essere vista come un progetto in cui le logiche di mercato hanno la precedenza sulla giustizia sociale, in cui le decisioni sono spesso prese a porte chiuse e in cui gli interessi di grandi potenze economiche come la Germania impongono le loro priorità. In questo contesto, non sorprende che alcuni vedano l'UE come un ostacolo di cui liberarsi.

Ma per i paesi europei non appartenenti all'UE, e in particolare per l'Ucraina, incarna qualcosa di diverso. “L'Europa” è soprattutto un'aspirazione, un'idea di futuro in cui prevalgono lo stato di diritto, le libertà individuali e un certo livello di prosperità. Quello non sempre chiaro in Europa occidentale, è che qui l'UE rappresenta un'alternativa a un modello autoritario e oppressivo, un modello che la Russia impone con la forza ai suoi vicini.

Per i cittadini dell'UE, l'Unione è innanzitutto un progetto economico. Per chi non ne fa parte, invece, è in primo luogo un progetto culturale e di civiltà. Che la ammirino o la odino, i suoi sostenitori e i suoi detrattori al di fuori dell'Unione la considerano una forza innanzitutto politica. La Russia, del resto, è esplicita da questo punto di vista: almeno dal 2013 tratta l'UE non come un concorrente economico, ma come un rivale geopolitico e ideologico.

Questa dimensione è diventata ancora più evidente nel 2014, con l’Euromaidan, quando gli ucraini hanno letteralmente dato la vita per difendere il futuro “europeo” del proprio paese. È stato un atto che molti europei non hanno compreso, o hanno addirittura guardato con condiscendenza o pena. Eppure, per questi manifestanti, “l’Europa” non era un'area economica, ma un simbolo di dignità e libertà.

Gli europei faticano a riconoscere che dietro l'idea di un'Europa politicamente unita c'è davvero della sostanza, perché appare screditata dalle sue politiche neoliberiste. Tuttavia, come ogni progetto nato dalla modernità, l'Unione Europea porta dentro di sé tendenze contraddittorie. Per usare le parole del filosofo ed economista Cornelius Castoriadis, essa porta in sé sia l'espansione illimitata del controllo razionale del mondo, che si manifesta nel neoliberismo, sia il potenziale di autonomia e apertura politica che assume la forma della democrazia.

Quale tendenza prevarrà? Dipende dalle forze politiche che investiranno in questo progetto. Certo è, però, che se, pur combattendo legittimamente le politiche neoliberiste dell'UE, abbandoniamo anche l'idea di un'Europa politicamente unita, buttiamo via il bambino con l'acqua sporca. Mentre l'Europa si cullava nel sogno di una pace post-nazionale, di una prosperità basata sugli idrocarburi russi e le merci cinesi, le élite di questi paesi accumulavano eserciti, risorse e, soprattutto, risentimento. 

E questo risentimento è rivolto proprio all'immaginario democratico dell'Europa, non al suo liberalismo economico.

Può sembrare paradossale...

Questo paradosso è tristemente logico: il potenziale democratico del progetto europeo sembra più evidente da fuori. È un po' come i vaccini: più sono efficaci, più vengono denigrati. In un paese dove i vaccini sono appena arrivati, dove è ancora alto il tasso di bambini che muoiono di poliomielite, un movimento anti-vaccinazione risulterebbe assurdo. Allo stesso modo, gli europei che abbandonano così facilmente l'idea dell'unità europea appaiono ingenui agli occhi di quanti stanno combattendo un esercito deciso a distruggerli.

Detto questo, gli attivisti ucraini di sinistra non si lasciano ingannare dalle realtà economiche dell'Europa. Hanno osservato attentamente ciò che è accaduto in Grecia, per esempio. Ma bisogna capire che l'Ucraina è già un paese fortemente neoliberista, con élite predatorie e un diritto del lavoro precario. 

In alcuni settori, la legislazione europea potrebbe effettivamente smantellare ciò che resta delle protezioni sociali. In altri, invece, potrebbe introdurre standard e regole inesistenti in questo capitalismo selvaggio. Non ci sono quindi risposte facili.

In ogni caso, per la stragrande maggioranza degli ucraini, i dettagli contano poco. “L’Europa” rappresenta una promessa di giustizia, democrazia ed emancipazione. Di fronte all'abisso dell'occupazione russa, gli ucraini – come i georgiani – si aggrappano all'unica alternativa di unità politica che offre il continente.

*Articolo pubblicato anche su voxeurop.ue, giornale online indipendente pensato e costruito intorno a una comunità di giornalisti e giornaliste, traduttori e traduttrici, media partner, e lettori, lettrici e membri di oltre 30 paesi.

Immagine in anteprima via pexels.com

“La lotta per la libertà in Ucraina è strettamente legata alla lotta globale contro il fascismo”

Hanna Perekhoda è una storica, ricercatrice dell'Università di Losanna (Istituto di studi politici e Centro di storia internazionale e studi politici sulla globalizzazione) e si è specializzata sul nazionalismo nel contesto della storia dell'Impero russo e dell'Unione sovietica. 

La ricerca di Perekhoda esamina le strategie politiche dei bolscevichi in Ucraina tra il 1917 e gli anni venti. Perekhoda si occupa anche dello sviluppo, dal punto di vista storico dell'immaginario politico russo, con particolare attenzione al ruolo dell'Ucraina nell'ideologia di stato russa. Perekhoda fa anche parte di Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”), un gruppo politico di sinistra fondato da militanti e sindacalisti sulla scia di Euromaidan, la rivolta del 2013-14 che ha portato alla destituzione del presidente filorusso Viktor Janukovyč.

Francesca Barca: Sono passati tre anni da quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell'Ucraina. Cosa pensa della situazione odierna?

Hanna Perekhoda: Con il ritorno di Donald Trump, dovrebbe essere ormai chiaro che l'impunità della Russia sta alimentando l'ascesa delle forze fasciste nei nostri paesi e viceversa. Queste forze stanno lavorando attivamente per smantellare ogni struttura internazionale che limiti le loro ambizioni. La lotta per la libertà in Ucraina è quindi intimamente legata alla lotta globale contro queste tendenze distruttive. Ma bisogna dirlo con chiarezza: le probabilità di una liberazione diminuiscono di minuto in minuto.

L'ascesa di forze che uniscono autoritarismo e libertarismo negli Stati Uniti e in Europa va presa molto sul serio. La razionalità capitalista, con il suo culto della crescita illimitata e del profitto, pone quest’ultimo al di sopra di tutto: dalla vita privata alla sicurezza collettiva. In questo mondo, se non si rompe questa dinamica, l'Ucraina non avrà futuro. Ma che sia chiaro: non ci sarà futuro per nessuno.

Parte del dibattito in Occidente, soprattutto a sinistra ma non solo, si è concentrata da un lato sul pacifismo e dall'altro sul pericolo rappresentato dalle forze di estrema destra – se non neonaziste – in Ucraina. Ci può dare il suo punto di vista?

Immaginate di affacciarvi alla finestra e di vedere una persona aggredita, picchiata e violentata. Questa persona si accorge di voi e vi implora di aiutarla. Avete gli strumenti necessari per permetterle di difendersi, ma scegliete di non fare nulla, lasciandola morire. Quando si tratta di una persona, è ovvio che non intervenire equivale a incoraggiare il crimine o ad aggravarne le conseguenze. Se qualcuno giustificasse la propria inazione dicendo di essere pacifista e contro ogni forma di violenza, questa argomentazione sarebbe considerata inappropriata, per non dire assurda.

Pur non ricadendo nel penale, un simile atteggiamento di solito viene considerato profondamente immorale. Allora mi chiedo: perché questo stesso atteggiamento tutto a un tratto diventa accettabile quando la situazione passa dal livello di un individuo aggredito a quello di una società sotto attacco? Come per miracolo, il rifiuto di prestare soccorso diventa pacifismo e trova una legittimazione morale.

La realtà è che quando manca il sostegno alle vittime, gli aggressori si sentono incoraggiati. È chiaro nelle relazioni personali, all'interno delle famiglie, dei gruppi di lavoro o di qualsiasi istituzione sociale. Ma vale anche nella politica internazionale. Abbandonare al loro destino le vittime di aggressioni militari è come dire a tutti gli psicopatici in posizione di potere che ora sono liberi di ricorrere alle guerre per risolvere i loro problemi di legittimità.

L'impunità concessa a chi sostiene la legge del più forte sulla scena internazionale alimenta inevitabilmente l'ascesa di forze che difendono gli stessi principi in patria. Forze come Alternative für Deutschland (Afd) in Germania, il Rassemblement National in Francia, Donald Trump negli Stati Uniti e Vladimir Putin in Russia condividono lo stesso culto della forza bruta: in altre parole, del fascismo. In definitiva, qualsiasi aggressione, per quanto lontana, se normalizzata, ha implicazioni che prima o poi si ripercuotono su tutti noi.

L'argomentazione secondo cui la presenza dell'estrema destra in Ucraina giustificherebbe il rifiuto di inviare armi si basa su un errore di logica piuttosto lampante. Rifiutarsi di aiutare un popolo con questo pretesto significa punire un'intera società per una realtà che esiste ovunque. Sì, in Ucraina ci sono gruppi di estrema destra, come in molti altri paesi. Nelle elezioni precedenti a quelle del 2022, questi gruppi hanno ottenuto percentuali marginali e non sono riusciti a entrare in parlamento. In Francia e in Germania ci sono movimenti di estrema destra infinitamente più influenti che in Ucraina, eppure nessuno metterebbe in dubbio il loro diritto all'autodifesa in caso di aggressione. Questo atteggiamento non è piuttosto frutto del pregiudiziooccidentale di un “Est” reazionario e retrogrado, che persiste anche quando le società occidentali stesse sono alle prese con una fascistizzazione contro cui la sinistra di questi paesi sembra del tutto impotente?

Questo argomento è tanto più ipocrita se si considera che molte di queste stesse voci  non esitano a sostenere movimenti di resistenza che includono attori più che problematici. Perché pretendere dall'Ucraina sotto attacco una purezza che nessun'altra società è tenuta a mostrare quando si tratta di difendersi?

È innegabile che la guerra, che dura da più di dieci anni, abbia già contribuito a rafforzare e banalizzare simboli e discorsi nazionalisti che prima non erano così rilevanti. Le guerre non rendono migliore nessuna società. 

Tuttavia, il rapporto tra l'invio di armi e il rafforzamento dell'estrema destra in Ucraina è inversamente proporzionale. Le armi servono innanzitutto a difendere la società nel suo complesso da un esercito invasore. La vittoria dell'Ucraina garantisce l'esistenza stessa di uno stato in cui i cittadini possono scegliere il proprio futuro in modo democratico. Al contrario, nulla rafforza i movimenti di estrema destra o le organizzazioni terroristiche più dell'occupazione militare e dell'oppressione sistematica che ne consegue.

Infatti, se l'Ucraina ottiene la pace alle condizioni russe – la pace delle tombe – è più che probabile che i gruppi radicali, che capitalizzeranno la frustrazione e il senso di ingiustizia, si rafforzeranno rapidamente a scapito degli attori moderati.

Il ruolo delle lingue (ucraino e russo) è molto importante per comprendere i dibattiti (spesso artificiali) e le polemiche. Puo’ aiutarci a meglio definire la questione?

È effettivamente utile collocare la questione nel suo contesto storico. Fin dal XIX secolo, lo Stato russo ha cercato di emarginare la lingua ucraina presentandola come una forma inferiore di russo. Le élite russe ritenevano che il riconoscimento di una lingua ucraina a sé stante minacciasse l'unità del loro stato nazionale in costruzione. Sotto l'Unione Sovietica, il russo era stato imposto come l'unica lingua legittima della modernità e del progresso. Dopo l'indipendenza ucraina [nel 1991], questa gerarchia linguistica è rimasta.

Fino al 2014, parlare ucraino nelle grandi città era malvisto, mentre il russo continuava a essere ammantato di un prestigio superiore. Per gli ucraini, quindi, la promozione dell'ucraino nello spazio pubblico non è un attacco ai russofoni, ma un tentativo di correggere secoli di emarginazione. Considerare tutto ciò come prova di un nazionalismo aggressivo significa ignorare il contesto (post-)imperiale che sottende queste dinamiche, un contesto spesso invisibile a chi appartiene a nazioni storicamente imperialiste e non a gruppi culturalmente oppressi.

Quindi la questione della lingua è strumentalizzata?

Sì, ciò che è importante considerare è il modo in cui la Russia ha usato la questione linguistica per legittimare la sua aggressione contro l'Ucraina. Nel 2014, al momento dell'annessione della Crimea e dell'inizio della guerra nel Donbass, il Cremlino ha giustificato le sue azioni sostenendo di voler proteggere la popolazione russofona, presunta vittima di un “genocidio linguistico”. Se prima, nel quotidiano, l’ucraino e il russo coesistevano in modo abbastanza pacifico, l'uso delle questioni linguistiche come arma di manipolazione politica ha esacerbato le divisioni.

È fondamentale ricordare che parlare russo in Ucraina non significa essere filo-russi o appoggiare il Cremlino. Dovremmo evitare di ripetere pedissequamente la narrativa della propaganda russa, che fa di tutto per legittimare l'attacco alla sovranità degli stati democratici vicini. 

Solo con l'aggressione russa del 2014 lo Stato ucraino ha rotto lo status quo di relativo non intervento nelle questioni linguistiche. Nel 2018, il Parlamento ha approvato una legge che impone l'uso dell'ucraino nella maggior parte degli aspetti della vita pubblica, obbligando i funzionari pubblici e le persone che lavorano nella sfera pubblica a conoscerlo e a usarlo nelle loro comunicazioni. 

L'ucraino è diventato obbligatorio nelle scuole. Questo non ha necessariamente portato a cambiamenti radicali: molte persone utilizzavano sia l'ucraino che il russo nella loro vita quotidiana, per non parlare di chi parlava un misto dei due. La realtà dell'Ucraina è quella della porosità linguistica.

La guerra e le atrocità commesse dai russi hanno portato molti ucraini a parlare solamente ucraino e a guardare con sospetto chi continua a parlare “la lingua dell'occupante”. Non è raro che i sopravvissuti russofoni ai bombardamenti siano accusati di mancanza di patriottismo dai residenti di lingua ucraina delle città lontane dai combattimenti. Il rifiuto radicale della lingua russa, inesistente nel 2014 ma brandito da Putin per legittimare l'aggressione militare, a distanza di dieci anni è diventato una profezia che si è autoavverata.

Per i russofoni d’Ucraina, il problema è che lo Stato che dice di voler proteggere la loro lingua la usa per diffondere narrazioni che negano il diritto all'esistenza dell'Ucraina. Al momento, i russofoni non hanno dei portavoce in grado di articolare la loro esperienza senza sfruttarla a fini politici. Se la Russia non sfruttasse la lingua e la cultura come strumenti di espansione, e se la presenza di una popolazione russofona non fosse stata usata per giustificare una dominazione politica e poi l'invasione militare, la coesistenza delle due lingue probabilmente porrebbe pochi problemi.

Allo stesso tempo, aggiungo, l'autoproclamata élite intellettuale ucraina si sta dimostrando particolarmente arretrata e francamente ridicola, perché costruisce l'identità nazionale secondo le ricette del XIX secolo. In realtà, è impossibile richiudere la popolazione ucraina contemporanea in uno dei due sistemi oscurantisti che le vengono proposti: il nazionalismo etnolinguistico ucraino da un lato, e il nazionalismo imperiale russo dall'altro.

Prima del 2022, esisteva ancora la possibilità di costruire in Ucraina una cultura russofona alternativa, non infettata dall'immaginario imperiale russo e indipendente dalle priorità politiche dello stato russo. L'invasione ha reso questo progetto completamente impossibile. 

Putin ne sarà probabilmente contento, perché il suo timore principale non è che l'Ucraina tagli tutti i legami con i russi, bensì che l'Ucraina condivida la loro lingua, ma che sviluppi un solido sistema politico democratico, “infettando” i russi con il virus della libertà.

L'Unione Europea è spesso percepita come “superata” nel migliore dei casi, se non “neoliberale” e “antidemocratica” dalla sinistra e dagli attivisti dell'Europa occidentale; in Europa orientale, invece, che si tratti di Moldova, Romania, Ucraina o Georgia, i cittadini si mobilitano dietro questa idea... Come si spiega questa differenza? Cosa rappresenta l'Ue nell'est del continente? E in particolare in Ucraina?

Dall'interno l'UE può essere vista come un progetto in cui le logiche di mercato hanno la precedenza sulla giustizia sociale, in cui le decisioni sono spesso prese a porte chiuse e in cui gli interessi di grandi potenze economiche come la Germania impongono le loro priorità. In questo contesto, non sorprende che alcuni vedano l'UE come un ostacolo di cui liberarsi.

Ma per i paesi europei non appartenenti all'UE, e in particolare per l'Ucraina, incarna qualcosa di diverso. “L'Europa” è soprattutto un'aspirazione, un'idea di futuro in cui prevalgono lo stato di diritto, le libertà individuali e un certo livello di prosperità. Quello non sempre chiaro in Europa occidentale, è che qui l'UE rappresenta un'alternativa a un modello autoritario e oppressivo, un modello che la Russia impone con la forza ai suoi vicini.

Per i cittadini dell'UE, l'Unione è innanzitutto un progetto economico. Per chi non ne fa parte, invece, è in primo luogo un progetto culturale e di civiltà. Che la ammirino o la odino, i suoi sostenitori e i suoi detrattori al di fuori dell'Unione la considerano una forza innanzitutto politica. La Russia, del resto, è esplicita da questo punto di vista: almeno dal 2013 tratta l'UE non come un concorrente economico, ma come un rivale geopolitico e ideologico.

Questa dimensione è diventata ancora più evidente nel 2014, con l’Euromaidan, quando gli ucraini hanno letteralmente dato la vita per difendere il futuro “europeo” del proprio paese. È stato un atto che molti europei non hanno compreso, o hanno addirittura guardato con condiscendenza o pena. Eppure, per questi manifestanti, “l’Europa” non era un'area economica, ma un simbolo di dignità e libertà.

Gli europei faticano a riconoscere che dietro l'idea di un'Europa politicamente unita c'è davvero della sostanza, perché appare screditata dalle sue politiche neoliberiste. Tuttavia, come ogni progetto nato dalla modernità, l'Unione Europea porta dentro di sé tendenze contraddittorie. Per usare le parole del filosofo ed economista Cornelius Castoriadis, essa porta in sé sia l'espansione illimitata del controllo razionale del mondo, che si manifesta nel neoliberismo, sia il potenziale di autonomia e apertura politica che assume la forma della democrazia.

Quale tendenza prevarrà? Dipende dalle forze politiche che investiranno in questo progetto. Certo è, però, che se, pur combattendo legittimamente le politiche neoliberiste dell'UE, abbandoniamo anche l'idea di un'Europa politicamente unita, buttiamo via il bambino con l'acqua sporca. Mentre l'Europa si cullava nel sogno di una pace post-nazionale, di una prosperità basata sugli idrocarburi russi e le merci cinesi, le élite di questi paesi accumulavano eserciti, risorse e, soprattutto, risentimento. 

E questo risentimento è rivolto proprio all'immaginario democratico dell'Europa, non al suo liberalismo economico.

Può sembrare paradossale...

Questo paradosso è tristemente logico: il potenziale democratico del progetto europeo sembra più evidente da fuori. È un po' come i vaccini: più sono efficaci, più vengono denigrati. In un paese dove i vaccini sono appena arrivati, dove è ancora alto il tasso di bambini che muoiono di poliomielite, un movimento anti-vaccinazione risulterebbe assurdo. Allo stesso modo, gli europei che abbandonano così facilmente l'idea dell'unità europea appaiono ingenui agli occhi di quanti stanno combattendo un esercito deciso a distruggerli.

Detto questo, gli attivisti ucraini di sinistra non si lasciano ingannare dalle realtà economiche dell'Europa. Hanno osservato attentamente ciò che è accaduto in Grecia, per esempio. Ma bisogna capire che l'Ucraina è già un paese fortemente neoliberista, con élite predatorie e un diritto del lavoro precario. 

In alcuni settori, la legislazione europea potrebbe effettivamente smantellare ciò che resta delle protezioni sociali. In altri, invece, potrebbe introdurre standard e regole inesistenti in questo capitalismo selvaggio. Non ci sono quindi risposte facili.

In ogni caso, per la stragrande maggioranza degli ucraini, i dettagli contano poco. “L’Europa” rappresenta una promessa di giustizia, democrazia ed emancipazione. Di fronte all'abisso dell'occupazione russa, gli ucraini – come i georgiani – si aggrappano all'unica alternativa di unità politica che offre il continente.

*Articolo pubblicato anche su voxeurop.ue, giornale online indipendente pensato e costruito intorno a una comunità di giornalisti e giornaliste, traduttori e traduttrici, media partner, e lettori, lettrici e membri di oltre 30 paesi.

Immagine in anteprima via pexels.com

“La lotta per la libertà in Ucraina è strettamente legata alla lotta globale contro il fascismo”

Hanna Perekhoda è una storica, ricercatrice dell'Università di Losanna (Istituto di studi politici e Centro di storia internazionale e studi politici sulla globalizzazione) e si è specializzata sul nazionalismo nel contesto della storia dell'Impero russo e dell'Unione sovietica. 

La ricerca di Perekhoda esamina le strategie politiche dei bolscevichi in Ucraina tra il 1917 e gli anni venti. Perekhoda si occupa anche dello sviluppo, dal punto di vista storico dell'immaginario politico russo, con particolare attenzione al ruolo dell'Ucraina nell'ideologia di stato russa. Perekhoda fa anche parte di Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”), un gruppo politico di sinistra fondato da militanti e sindacalisti sulla scia di Euromaidan, la rivolta del 2013-14 che ha portato alla destituzione del presidente filorusso Viktor Janukovyč.

Francesca Barca: Sono passati tre anni da quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell'Ucraina. Cosa pensa della situazione odierna?

Hanna Perekhoda: Con il ritorno di Donald Trump, dovrebbe essere ormai chiaro che l'impunità della Russia sta alimentando l'ascesa delle forze fasciste nei nostri paesi e viceversa. Queste forze stanno lavorando attivamente per smantellare ogni struttura internazionale che limiti le loro ambizioni. La lotta per la libertà in Ucraina è quindi intimamente legata alla lotta globale contro queste tendenze distruttive. Ma bisogna dirlo con chiarezza: le probabilità di una liberazione diminuiscono di minuto in minuto.

L'ascesa di forze che uniscono autoritarismo e libertarismo negli Stati Uniti e in Europa va presa molto sul serio. La razionalità capitalista, con il suo culto della crescita illimitata e del profitto, pone quest’ultimo al di sopra di tutto: dalla vita privata alla sicurezza collettiva. In questo mondo, se non si rompe questa dinamica, l'Ucraina non avrà futuro. Ma che sia chiaro: non ci sarà futuro per nessuno.

Parte del dibattito in Occidente, soprattutto a sinistra ma non solo, si è concentrata da un lato sul pacifismo e dall'altro sul pericolo rappresentato dalle forze di estrema destra – se non neonaziste – in Ucraina. Ci può dare il suo punto di vista?

Immaginate di affacciarvi alla finestra e di vedere una persona aggredita, picchiata e violentata. Questa persona si accorge di voi e vi implora di aiutarla. Avete gli strumenti necessari per permetterle di difendersi, ma scegliete di non fare nulla, lasciandola morire. Quando si tratta di una persona, è ovvio che non intervenire equivale a incoraggiare il crimine o ad aggravarne le conseguenze. Se qualcuno giustificasse la propria inazione dicendo di essere pacifista e contro ogni forma di violenza, questa argomentazione sarebbe considerata inappropriata, per non dire assurda.

Pur non ricadendo nel penale, un simile atteggiamento di solito viene considerato profondamente immorale. Allora mi chiedo: perché questo stesso atteggiamento tutto a un tratto diventa accettabile quando la situazione passa dal livello di un individuo aggredito a quello di una società sotto attacco? Come per miracolo, il rifiuto di prestare soccorso diventa pacifismo e trova una legittimazione morale.

La realtà è che quando manca il sostegno alle vittime, gli aggressori si sentono incoraggiati. È chiaro nelle relazioni personali, all'interno delle famiglie, dei gruppi di lavoro o di qualsiasi istituzione sociale. Ma vale anche nella politica internazionale. Abbandonare al loro destino le vittime di aggressioni militari è come dire a tutti gli psicopatici in posizione di potere che ora sono liberi di ricorrere alle guerre per risolvere i loro problemi di legittimità.

L'impunità concessa a chi sostiene la legge del più forte sulla scena internazionale alimenta inevitabilmente l'ascesa di forze che difendono gli stessi principi in patria. Forze come Alternative für Deutschland (Afd) in Germania, il Rassemblement National in Francia, Donald Trump negli Stati Uniti e Vladimir Putin in Russia condividono lo stesso culto della forza bruta: in altre parole, del fascismo. In definitiva, qualsiasi aggressione, per quanto lontana, se normalizzata, ha implicazioni che prima o poi si ripercuotono su tutti noi.

L'argomentazione secondo cui la presenza dell'estrema destra in Ucraina giustificherebbe il rifiuto di inviare armi si basa su un errore di logica piuttosto lampante. Rifiutarsi di aiutare un popolo con questo pretesto significa punire un'intera società per una realtà che esiste ovunque. Sì, in Ucraina ci sono gruppi di estrema destra, come in molti altri paesi. Nelle elezioni precedenti a quelle del 2022, questi gruppi hanno ottenuto percentuali marginali e non sono riusciti a entrare in parlamento. In Francia e in Germania ci sono movimenti di estrema destra infinitamente più influenti che in Ucraina, eppure nessuno metterebbe in dubbio il loro diritto all'autodifesa in caso di aggressione. Questo atteggiamento non è piuttosto frutto del pregiudiziooccidentale di un “Est” reazionario e retrogrado, che persiste anche quando le società occidentali stesse sono alle prese con una fascistizzazione contro cui la sinistra di questi paesi sembra del tutto impotente?

Questo argomento è tanto più ipocrita se si considera che molte di queste stesse voci  non esitano a sostenere movimenti di resistenza che includono attori più che problematici. Perché pretendere dall'Ucraina sotto attacco una purezza che nessun'altra società è tenuta a mostrare quando si tratta di difendersi?

È innegabile che la guerra, che dura da più di dieci anni, abbia già contribuito a rafforzare e banalizzare simboli e discorsi nazionalisti che prima non erano così rilevanti. Le guerre non rendono migliore nessuna società. 

Tuttavia, il rapporto tra l'invio di armi e il rafforzamento dell'estrema destra in Ucraina è inversamente proporzionale. Le armi servono innanzitutto a difendere la società nel suo complesso da un esercito invasore. La vittoria dell'Ucraina garantisce l'esistenza stessa di uno stato in cui i cittadini possono scegliere il proprio futuro in modo democratico. Al contrario, nulla rafforza i movimenti di estrema destra o le organizzazioni terroristiche più dell'occupazione militare e dell'oppressione sistematica che ne consegue.

Infatti, se l'Ucraina ottiene la pace alle condizioni russe – la pace delle tombe – è più che probabile che i gruppi radicali, che capitalizzeranno la frustrazione e il senso di ingiustizia, si rafforzeranno rapidamente a scapito degli attori moderati.

Il ruolo delle lingue (ucraino e russo) è molto importante per comprendere i dibattiti (spesso artificiali) e le polemiche. Puo’ aiutarci a meglio definire la questione?

È effettivamente utile collocare la questione nel suo contesto storico. Fin dal XIX secolo, lo Stato russo ha cercato di emarginare la lingua ucraina presentandola come una forma inferiore di russo. Le élite russe ritenevano che il riconoscimento di una lingua ucraina a sé stante minacciasse l'unità del loro stato nazionale in costruzione. Sotto l'Unione Sovietica, il russo era stato imposto come l'unica lingua legittima della modernità e del progresso. Dopo l'indipendenza ucraina [nel 1991], questa gerarchia linguistica è rimasta.

Fino al 2014, parlare ucraino nelle grandi città era malvisto, mentre il russo continuava a essere ammantato di un prestigio superiore. Per gli ucraini, quindi, la promozione dell'ucraino nello spazio pubblico non è un attacco ai russofoni, ma un tentativo di correggere secoli di emarginazione. Considerare tutto ciò come prova di un nazionalismo aggressivo significa ignorare il contesto (post-)imperiale che sottende queste dinamiche, un contesto spesso invisibile a chi appartiene a nazioni storicamente imperialiste e non a gruppi culturalmente oppressi.

Quindi la questione della lingua è strumentalizzata?

Sì, ciò che è importante considerare è il modo in cui la Russia ha usato la questione linguistica per legittimare la sua aggressione contro l'Ucraina. Nel 2014, al momento dell'annessione della Crimea e dell'inizio della guerra nel Donbass, il Cremlino ha giustificato le sue azioni sostenendo di voler proteggere la popolazione russofona, presunta vittima di un “genocidio linguistico”. Se prima, nel quotidiano, l’ucraino e il russo coesistevano in modo abbastanza pacifico, l'uso delle questioni linguistiche come arma di manipolazione politica ha esacerbato le divisioni.

È fondamentale ricordare che parlare russo in Ucraina non significa essere filo-russi o appoggiare il Cremlino. Dovremmo evitare di ripetere pedissequamente la narrativa della propaganda russa, che fa di tutto per legittimare l'attacco alla sovranità degli stati democratici vicini. 

Solo con l'aggressione russa del 2014 lo Stato ucraino ha rotto lo status quo di relativo non intervento nelle questioni linguistiche. Nel 2018, il Parlamento ha approvato una legge che impone l'uso dell'ucraino nella maggior parte degli aspetti della vita pubblica, obbligando i funzionari pubblici e le persone che lavorano nella sfera pubblica a conoscerlo e a usarlo nelle loro comunicazioni. 

L'ucraino è diventato obbligatorio nelle scuole. Questo non ha necessariamente portato a cambiamenti radicali: molte persone utilizzavano sia l'ucraino che il russo nella loro vita quotidiana, per non parlare di chi parlava un misto dei due. La realtà dell'Ucraina è quella della porosità linguistica.

La guerra e le atrocità commesse dai russi hanno portato molti ucraini a parlare solamente ucraino e a guardare con sospetto chi continua a parlare “la lingua dell'occupante”. Non è raro che i sopravvissuti russofoni ai bombardamenti siano accusati di mancanza di patriottismo dai residenti di lingua ucraina delle città lontane dai combattimenti. Il rifiuto radicale della lingua russa, inesistente nel 2014 ma brandito da Putin per legittimare l'aggressione militare, a distanza di dieci anni è diventato una profezia che si è autoavverata.

Per i russofoni d’Ucraina, il problema è che lo Stato che dice di voler proteggere la loro lingua la usa per diffondere narrazioni che negano il diritto all'esistenza dell'Ucraina. Al momento, i russofoni non hanno dei portavoce in grado di articolare la loro esperienza senza sfruttarla a fini politici. Se la Russia non sfruttasse la lingua e la cultura come strumenti di espansione, e se la presenza di una popolazione russofona non fosse stata usata per giustificare una dominazione politica e poi l'invasione militare, la coesistenza delle due lingue probabilmente porrebbe pochi problemi.

Allo stesso tempo, aggiungo, l'autoproclamata élite intellettuale ucraina si sta dimostrando particolarmente arretrata e francamente ridicola, perché costruisce l'identità nazionale secondo le ricette del XIX secolo. In realtà, è impossibile richiudere la popolazione ucraina contemporanea in uno dei due sistemi oscurantisti che le vengono proposti: il nazionalismo etnolinguistico ucraino da un lato, e il nazionalismo imperiale russo dall'altro.

Prima del 2022, esisteva ancora la possibilità di costruire in Ucraina una cultura russofona alternativa, non infettata dall'immaginario imperiale russo e indipendente dalle priorità politiche dello stato russo. L'invasione ha reso questo progetto completamente impossibile. 

Putin ne sarà probabilmente contento, perché il suo timore principale non è che l'Ucraina tagli tutti i legami con i russi, bensì che l'Ucraina condivida la loro lingua, ma che sviluppi un solido sistema politico democratico, “infettando” i russi con il virus della libertà.

L'Unione Europea è spesso percepita come “superata” nel migliore dei casi, se non “neoliberale” e “antidemocratica” dalla sinistra e dagli attivisti dell'Europa occidentale; in Europa orientale, invece, che si tratti di Moldova, Romania, Ucraina o Georgia, i cittadini si mobilitano dietro questa idea... Come si spiega questa differenza? Cosa rappresenta l'Ue nell'est del continente? E in particolare in Ucraina?

Dall'interno l'UE può essere vista come un progetto in cui le logiche di mercato hanno la precedenza sulla giustizia sociale, in cui le decisioni sono spesso prese a porte chiuse e in cui gli interessi di grandi potenze economiche come la Germania impongono le loro priorità. In questo contesto, non sorprende che alcuni vedano l'UE come un ostacolo di cui liberarsi.

Ma per i paesi europei non appartenenti all'UE, e in particolare per l'Ucraina, incarna qualcosa di diverso. “L'Europa” è soprattutto un'aspirazione, un'idea di futuro in cui prevalgono lo stato di diritto, le libertà individuali e un certo livello di prosperità. Quello non sempre chiaro in Europa occidentale, è che qui l'UE rappresenta un'alternativa a un modello autoritario e oppressivo, un modello che la Russia impone con la forza ai suoi vicini.

Per i cittadini dell'UE, l'Unione è innanzitutto un progetto economico. Per chi non ne fa parte, invece, è in primo luogo un progetto culturale e di civiltà. Che la ammirino o la odino, i suoi sostenitori e i suoi detrattori al di fuori dell'Unione la considerano una forza innanzitutto politica. La Russia, del resto, è esplicita da questo punto di vista: almeno dal 2013 tratta l'UE non come un concorrente economico, ma come un rivale geopolitico e ideologico.

Questa dimensione è diventata ancora più evidente nel 2014, con l’Euromaidan, quando gli ucraini hanno letteralmente dato la vita per difendere il futuro “europeo” del proprio paese. È stato un atto che molti europei non hanno compreso, o hanno addirittura guardato con condiscendenza o pena. Eppure, per questi manifestanti, “l’Europa” non era un'area economica, ma un simbolo di dignità e libertà.

Gli europei faticano a riconoscere che dietro l'idea di un'Europa politicamente unita c'è davvero della sostanza, perché appare screditata dalle sue politiche neoliberiste. Tuttavia, come ogni progetto nato dalla modernità, l'Unione Europea porta dentro di sé tendenze contraddittorie. Per usare le parole del filosofo ed economista Cornelius Castoriadis, essa porta in sé sia l'espansione illimitata del controllo razionale del mondo, che si manifesta nel neoliberismo, sia il potenziale di autonomia e apertura politica che assume la forma della democrazia.

Quale tendenza prevarrà? Dipende dalle forze politiche che investiranno in questo progetto. Certo è, però, che se, pur combattendo legittimamente le politiche neoliberiste dell'UE, abbandoniamo anche l'idea di un'Europa politicamente unita, buttiamo via il bambino con l'acqua sporca. Mentre l'Europa si cullava nel sogno di una pace post-nazionale, di una prosperità basata sugli idrocarburi russi e le merci cinesi, le élite di questi paesi accumulavano eserciti, risorse e, soprattutto, risentimento. 

E questo risentimento è rivolto proprio all'immaginario democratico dell'Europa, non al suo liberalismo economico.

Può sembrare paradossale...

Questo paradosso è tristemente logico: il potenziale democratico del progetto europeo sembra più evidente da fuori. È un po' come i vaccini: più sono efficaci, più vengono denigrati. In un paese dove i vaccini sono appena arrivati, dove è ancora alto il tasso di bambini che muoiono di poliomielite, un movimento anti-vaccinazione risulterebbe assurdo. Allo stesso modo, gli europei che abbandonano così facilmente l'idea dell'unità europea appaiono ingenui agli occhi di quanti stanno combattendo un esercito deciso a distruggerli.

Detto questo, gli attivisti ucraini di sinistra non si lasciano ingannare dalle realtà economiche dell'Europa. Hanno osservato attentamente ciò che è accaduto in Grecia, per esempio. Ma bisogna capire che l'Ucraina è già un paese fortemente neoliberista, con élite predatorie e un diritto del lavoro precario. 

In alcuni settori, la legislazione europea potrebbe effettivamente smantellare ciò che resta delle protezioni sociali. In altri, invece, potrebbe introdurre standard e regole inesistenti in questo capitalismo selvaggio. Non ci sono quindi risposte facili.

In ogni caso, per la stragrande maggioranza degli ucraini, i dettagli contano poco. “L’Europa” rappresenta una promessa di giustizia, democrazia ed emancipazione. Di fronte all'abisso dell'occupazione russa, gli ucraini – come i georgiani – si aggrappano all'unica alternativa di unità politica che offre il continente.

*Articolo pubblicato anche su voxeurop.ue, giornale online indipendente pensato e costruito intorno a una comunità di giornalisti e giornaliste, traduttori e traduttrici, media partner, e lettori, lettrici e membri di oltre 30 paesi.

Immagine in anteprima via pexels.com

“La lotta per la libertà in Ucraina è strettamente legata alla lotta globale contro il fascismo”

Hanna Perekhoda è una storica, ricercatrice dell'Università di Losanna (Istituto di studi politici e Centro di storia internazionale e studi politici sulla globalizzazione) e si è specializzata sul nazionalismo nel contesto della storia dell'Impero russo e dell'Unione sovietica. 

La ricerca di Perekhoda esamina le strategie politiche dei bolscevichi in Ucraina tra il 1917 e gli anni venti. Perekhoda si occupa anche dello sviluppo, dal punto di vista storico dell'immaginario politico russo, con particolare attenzione al ruolo dell'Ucraina nell'ideologia di stato russa. Perekhoda fa anche parte di Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”), un gruppo politico di sinistra fondato da militanti e sindacalisti sulla scia di Euromaidan, la rivolta del 2013-14 che ha portato alla destituzione del presidente filorusso Viktor Janukovyč.

Francesca Barca: Sono passati tre anni da quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell'Ucraina. Cosa pensa della situazione odierna?

Hanna Perekhoda: Con il ritorno di Donald Trump, dovrebbe essere ormai chiaro che l'impunità della Russia sta alimentando l'ascesa delle forze fasciste nei nostri paesi e viceversa. Queste forze stanno lavorando attivamente per smantellare ogni struttura internazionale che limiti le loro ambizioni. La lotta per la libertà in Ucraina è quindi intimamente legata alla lotta globale contro queste tendenze distruttive. Ma bisogna dirlo con chiarezza: le probabilità di una liberazione diminuiscono di minuto in minuto.

L'ascesa di forze che uniscono autoritarismo e libertarismo negli Stati Uniti e in Europa va presa molto sul serio. La razionalità capitalista, con il suo culto della crescita illimitata e del profitto, pone quest’ultimo al di sopra di tutto: dalla vita privata alla sicurezza collettiva. In questo mondo, se non si rompe questa dinamica, l'Ucraina non avrà futuro. Ma che sia chiaro: non ci sarà futuro per nessuno.

Parte del dibattito in Occidente, soprattutto a sinistra ma non solo, si è concentrata da un lato sul pacifismo e dall'altro sul pericolo rappresentato dalle forze di estrema destra – se non neonaziste – in Ucraina. Ci può dare il suo punto di vista?

Immaginate di affacciarvi alla finestra e di vedere una persona aggredita, picchiata e violentata. Questa persona si accorge di voi e vi implora di aiutarla. Avete gli strumenti necessari per permetterle di difendersi, ma scegliete di non fare nulla, lasciandola morire. Quando si tratta di una persona, è ovvio che non intervenire equivale a incoraggiare il crimine o ad aggravarne le conseguenze. Se qualcuno giustificasse la propria inazione dicendo di essere pacifista e contro ogni forma di violenza, questa argomentazione sarebbe considerata inappropriata, per non dire assurda.

Pur non ricadendo nel penale, un simile atteggiamento di solito viene considerato profondamente immorale. Allora mi chiedo: perché questo stesso atteggiamento tutto a un tratto diventa accettabile quando la situazione passa dal livello di un individuo aggredito a quello di una società sotto attacco? Come per miracolo, il rifiuto di prestare soccorso diventa pacifismo e trova una legittimazione morale.

La realtà è che quando manca il sostegno alle vittime, gli aggressori si sentono incoraggiati. È chiaro nelle relazioni personali, all'interno delle famiglie, dei gruppi di lavoro o di qualsiasi istituzione sociale. Ma vale anche nella politica internazionale. Abbandonare al loro destino le vittime di aggressioni militari è come dire a tutti gli psicopatici in posizione di potere che ora sono liberi di ricorrere alle guerre per risolvere i loro problemi di legittimità.

L'impunità concessa a chi sostiene la legge del più forte sulla scena internazionale alimenta inevitabilmente l'ascesa di forze che difendono gli stessi principi in patria. Forze come Alternative für Deutschland (Afd) in Germania, il Rassemblement National in Francia, Donald Trump negli Stati Uniti e Vladimir Putin in Russia condividono lo stesso culto della forza bruta: in altre parole, del fascismo. In definitiva, qualsiasi aggressione, per quanto lontana, se normalizzata, ha implicazioni che prima o poi si ripercuotono su tutti noi.

L'argomentazione secondo cui la presenza dell'estrema destra in Ucraina giustificherebbe il rifiuto di inviare armi si basa su un errore di logica piuttosto lampante. Rifiutarsi di aiutare un popolo con questo pretesto significa punire un'intera società per una realtà che esiste ovunque. Sì, in Ucraina ci sono gruppi di estrema destra, come in molti altri paesi. Nelle elezioni precedenti a quelle del 2022, questi gruppi hanno ottenuto percentuali marginali e non sono riusciti a entrare in parlamento. In Francia e in Germania ci sono movimenti di estrema destra infinitamente più influenti che in Ucraina, eppure nessuno metterebbe in dubbio il loro diritto all'autodifesa in caso di aggressione. Questo atteggiamento non è piuttosto frutto del pregiudiziooccidentale di un “Est” reazionario e retrogrado, che persiste anche quando le società occidentali stesse sono alle prese con una fascistizzazione contro cui la sinistra di questi paesi sembra del tutto impotente?

Questo argomento è tanto più ipocrita se si considera che molte di queste stesse voci  non esitano a sostenere movimenti di resistenza che includono attori più che problematici. Perché pretendere dall'Ucraina sotto attacco una purezza che nessun'altra società è tenuta a mostrare quando si tratta di difendersi?

È innegabile che la guerra, che dura da più di dieci anni, abbia già contribuito a rafforzare e banalizzare simboli e discorsi nazionalisti che prima non erano così rilevanti. Le guerre non rendono migliore nessuna società. 

Tuttavia, il rapporto tra l'invio di armi e il rafforzamento dell'estrema destra in Ucraina è inversamente proporzionale. Le armi servono innanzitutto a difendere la società nel suo complesso da un esercito invasore. La vittoria dell'Ucraina garantisce l'esistenza stessa di uno stato in cui i cittadini possono scegliere il proprio futuro in modo democratico. Al contrario, nulla rafforza i movimenti di estrema destra o le organizzazioni terroristiche più dell'occupazione militare e dell'oppressione sistematica che ne consegue.

Infatti, se l'Ucraina ottiene la pace alle condizioni russe – la pace delle tombe – è più che probabile che i gruppi radicali, che capitalizzeranno la frustrazione e il senso di ingiustizia, si rafforzeranno rapidamente a scapito degli attori moderati.

Il ruolo delle lingue (ucraino e russo) è molto importante per comprendere i dibattiti (spesso artificiali) e le polemiche. Puo’ aiutarci a meglio definire la questione?

È effettivamente utile collocare la questione nel suo contesto storico. Fin dal XIX secolo, lo Stato russo ha cercato di emarginare la lingua ucraina presentandola come una forma inferiore di russo. Le élite russe ritenevano che il riconoscimento di una lingua ucraina a sé stante minacciasse l'unità del loro stato nazionale in costruzione. Sotto l'Unione Sovietica, il russo era stato imposto come l'unica lingua legittima della modernità e del progresso. Dopo l'indipendenza ucraina [nel 1991], questa gerarchia linguistica è rimasta.

Fino al 2014, parlare ucraino nelle grandi città era malvisto, mentre il russo continuava a essere ammantato di un prestigio superiore. Per gli ucraini, quindi, la promozione dell'ucraino nello spazio pubblico non è un attacco ai russofoni, ma un tentativo di correggere secoli di emarginazione. Considerare tutto ciò come prova di un nazionalismo aggressivo significa ignorare il contesto (post-)imperiale che sottende queste dinamiche, un contesto spesso invisibile a chi appartiene a nazioni storicamente imperialiste e non a gruppi culturalmente oppressi.

Quindi la questione della lingua è strumentalizzata?

Sì, ciò che è importante considerare è il modo in cui la Russia ha usato la questione linguistica per legittimare la sua aggressione contro l'Ucraina. Nel 2014, al momento dell'annessione della Crimea e dell'inizio della guerra nel Donbass, il Cremlino ha giustificato le sue azioni sostenendo di voler proteggere la popolazione russofona, presunta vittima di un “genocidio linguistico”. Se prima, nel quotidiano, l’ucraino e il russo coesistevano in modo abbastanza pacifico, l'uso delle questioni linguistiche come arma di manipolazione politica ha esacerbato le divisioni.

È fondamentale ricordare che parlare russo in Ucraina non significa essere filo-russi o appoggiare il Cremlino. Dovremmo evitare di ripetere pedissequamente la narrativa della propaganda russa, che fa di tutto per legittimare l'attacco alla sovranità degli stati democratici vicini. 

Solo con l'aggressione russa del 2014 lo Stato ucraino ha rotto lo status quo di relativo non intervento nelle questioni linguistiche. Nel 2018, il Parlamento ha approvato una legge che impone l'uso dell'ucraino nella maggior parte degli aspetti della vita pubblica, obbligando i funzionari pubblici e le persone che lavorano nella sfera pubblica a conoscerlo e a usarlo nelle loro comunicazioni. 

L'ucraino è diventato obbligatorio nelle scuole. Questo non ha necessariamente portato a cambiamenti radicali: molte persone utilizzavano sia l'ucraino che il russo nella loro vita quotidiana, per non parlare di chi parlava un misto dei due. La realtà dell'Ucraina è quella della porosità linguistica.

La guerra e le atrocità commesse dai russi hanno portato molti ucraini a parlare solamente ucraino e a guardare con sospetto chi continua a parlare “la lingua dell'occupante”. Non è raro che i sopravvissuti russofoni ai bombardamenti siano accusati di mancanza di patriottismo dai residenti di lingua ucraina delle città lontane dai combattimenti. Il rifiuto radicale della lingua russa, inesistente nel 2014 ma brandito da Putin per legittimare l'aggressione militare, a distanza di dieci anni è diventato una profezia che si è autoavverata.

Per i russofoni d’Ucraina, il problema è che lo Stato che dice di voler proteggere la loro lingua la usa per diffondere narrazioni che negano il diritto all'esistenza dell'Ucraina. Al momento, i russofoni non hanno dei portavoce in grado di articolare la loro esperienza senza sfruttarla a fini politici. Se la Russia non sfruttasse la lingua e la cultura come strumenti di espansione, e se la presenza di una popolazione russofona non fosse stata usata per giustificare una dominazione politica e poi l'invasione militare, la coesistenza delle due lingue probabilmente porrebbe pochi problemi.

Allo stesso tempo, aggiungo, l'autoproclamata élite intellettuale ucraina si sta dimostrando particolarmente arretrata e francamente ridicola, perché costruisce l'identità nazionale secondo le ricette del XIX secolo. In realtà, è impossibile richiudere la popolazione ucraina contemporanea in uno dei due sistemi oscurantisti che le vengono proposti: il nazionalismo etnolinguistico ucraino da un lato, e il nazionalismo imperiale russo dall'altro.

Prima del 2022, esisteva ancora la possibilità di costruire in Ucraina una cultura russofona alternativa, non infettata dall'immaginario imperiale russo e indipendente dalle priorità politiche dello stato russo. L'invasione ha reso questo progetto completamente impossibile. 

Putin ne sarà probabilmente contento, perché il suo timore principale non è che l'Ucraina tagli tutti i legami con i russi, bensì che l'Ucraina condivida la loro lingua, ma che sviluppi un solido sistema politico democratico, “infettando” i russi con il virus della libertà.

L'Unione Europea è spesso percepita come “superata” nel migliore dei casi, se non “neoliberale” e “antidemocratica” dalla sinistra e dagli attivisti dell'Europa occidentale; in Europa orientale, invece, che si tratti di Moldova, Romania, Ucraina o Georgia, i cittadini si mobilitano dietro questa idea... Come si spiega questa differenza? Cosa rappresenta l'Ue nell'est del continente? E in particolare in Ucraina?

Dall'interno l'UE può essere vista come un progetto in cui le logiche di mercato hanno la precedenza sulla giustizia sociale, in cui le decisioni sono spesso prese a porte chiuse e in cui gli interessi di grandi potenze economiche come la Germania impongono le loro priorità. In questo contesto, non sorprende che alcuni vedano l'UE come un ostacolo di cui liberarsi.

Ma per i paesi europei non appartenenti all'UE, e in particolare per l'Ucraina, incarna qualcosa di diverso. “L'Europa” è soprattutto un'aspirazione, un'idea di futuro in cui prevalgono lo stato di diritto, le libertà individuali e un certo livello di prosperità. Quello non sempre chiaro in Europa occidentale, è che qui l'UE rappresenta un'alternativa a un modello autoritario e oppressivo, un modello che la Russia impone con la forza ai suoi vicini.

Per i cittadini dell'UE, l'Unione è innanzitutto un progetto economico. Per chi non ne fa parte, invece, è in primo luogo un progetto culturale e di civiltà. Che la ammirino o la odino, i suoi sostenitori e i suoi detrattori al di fuori dell'Unione la considerano una forza innanzitutto politica. La Russia, del resto, è esplicita da questo punto di vista: almeno dal 2013 tratta l'UE non come un concorrente economico, ma come un rivale geopolitico e ideologico.

Questa dimensione è diventata ancora più evidente nel 2014, con l’Euromaidan, quando gli ucraini hanno letteralmente dato la vita per difendere il futuro “europeo” del proprio paese. È stato un atto che molti europei non hanno compreso, o hanno addirittura guardato con condiscendenza o pena. Eppure, per questi manifestanti, “l’Europa” non era un'area economica, ma un simbolo di dignità e libertà.

Gli europei faticano a riconoscere che dietro l'idea di un'Europa politicamente unita c'è davvero della sostanza, perché appare screditata dalle sue politiche neoliberiste. Tuttavia, come ogni progetto nato dalla modernità, l'Unione Europea porta dentro di sé tendenze contraddittorie. Per usare le parole del filosofo ed economista Cornelius Castoriadis, essa porta in sé sia l'espansione illimitata del controllo razionale del mondo, che si manifesta nel neoliberismo, sia il potenziale di autonomia e apertura politica che assume la forma della democrazia.

Quale tendenza prevarrà? Dipende dalle forze politiche che investiranno in questo progetto. Certo è, però, che se, pur combattendo legittimamente le politiche neoliberiste dell'UE, abbandoniamo anche l'idea di un'Europa politicamente unita, buttiamo via il bambino con l'acqua sporca. Mentre l'Europa si cullava nel sogno di una pace post-nazionale, di una prosperità basata sugli idrocarburi russi e le merci cinesi, le élite di questi paesi accumulavano eserciti, risorse e, soprattutto, risentimento. 

E questo risentimento è rivolto proprio all'immaginario democratico dell'Europa, non al suo liberalismo economico.

Può sembrare paradossale...

Questo paradosso è tristemente logico: il potenziale democratico del progetto europeo sembra più evidente da fuori. È un po' come i vaccini: più sono efficaci, più vengono denigrati. In un paese dove i vaccini sono appena arrivati, dove è ancora alto il tasso di bambini che muoiono di poliomielite, un movimento anti-vaccinazione risulterebbe assurdo. Allo stesso modo, gli europei che abbandonano così facilmente l'idea dell'unità europea appaiono ingenui agli occhi di quanti stanno combattendo un esercito deciso a distruggerli.

Detto questo, gli attivisti ucraini di sinistra non si lasciano ingannare dalle realtà economiche dell'Europa. Hanno osservato attentamente ciò che è accaduto in Grecia, per esempio. Ma bisogna capire che l'Ucraina è già un paese fortemente neoliberista, con élite predatorie e un diritto del lavoro precario. 

In alcuni settori, la legislazione europea potrebbe effettivamente smantellare ciò che resta delle protezioni sociali. In altri, invece, potrebbe introdurre standard e regole inesistenti in questo capitalismo selvaggio. Non ci sono quindi risposte facili.

In ogni caso, per la stragrande maggioranza degli ucraini, i dettagli contano poco. “L’Europa” rappresenta una promessa di giustizia, democrazia ed emancipazione. Di fronte all'abisso dell'occupazione russa, gli ucraini – come i georgiani – si aggrappano all'unica alternativa di unità politica che offre il continente.

*Articolo pubblicato anche su voxeurop.ue, giornale online indipendente pensato e costruito intorno a una comunità di giornalisti e giornaliste, traduttori e traduttrici, media partner, e lettori, lettrici e membri di oltre 30 paesi.

Immagine in anteprima via pexels.com

“La lotta per la libertà in Ucraina è strettamente legata alla lotta globale contro il fascismo”

Hanna Perekhoda è una storica, ricercatrice dell'Università di Losanna (Istituto di studi politici e Centro di storia internazionale e studi politici sulla globalizzazione) e si è specializzata sul nazionalismo nel contesto della storia dell'Impero russo e dell'Unione sovietica. 

La ricerca di Perekhoda esamina le strategie politiche dei bolscevichi in Ucraina tra il 1917 e gli anni venti. Perekhoda si occupa anche dello sviluppo, dal punto di vista storico dell'immaginario politico russo, con particolare attenzione al ruolo dell'Ucraina nell'ideologia di stato russa. Perekhoda fa anche parte di Sotsialnyi Rukh (“Movimento sociale”), un gruppo politico di sinistra fondato da militanti e sindacalisti sulla scia di Euromaidan, la rivolta del 2013-14 che ha portato alla destituzione del presidente filorusso Viktor Janukovyč.

Francesca Barca: Sono passati tre anni da quando la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell'Ucraina. Cosa pensa della situazione odierna?

Hanna Perekhoda: Con il ritorno di Donald Trump, dovrebbe essere ormai chiaro che l'impunità della Russia sta alimentando l'ascesa delle forze fasciste nei nostri paesi e viceversa. Queste forze stanno lavorando attivamente per smantellare ogni struttura internazionale che limiti le loro ambizioni. La lotta per la libertà in Ucraina è quindi intimamente legata alla lotta globale contro queste tendenze distruttive. Ma bisogna dirlo con chiarezza: le probabilità di una liberazione diminuiscono di minuto in minuto.

L'ascesa di forze che uniscono autoritarismo e libertarismo negli Stati Uniti e in Europa va presa molto sul serio. La razionalità capitalista, con il suo culto della crescita illimitata e del profitto, pone quest’ultimo al di sopra di tutto: dalla vita privata alla sicurezza collettiva. In questo mondo, se non si rompe questa dinamica, l'Ucraina non avrà futuro. Ma che sia chiaro: non ci sarà futuro per nessuno.

Parte del dibattito in Occidente, soprattutto a sinistra ma non solo, si è concentrata da un lato sul pacifismo e dall'altro sul pericolo rappresentato dalle forze di estrema destra – se non neonaziste – in Ucraina. Ci può dare il suo punto di vista?

Immaginate di affacciarvi alla finestra e di vedere una persona aggredita, picchiata e violentata. Questa persona si accorge di voi e vi implora di aiutarla. Avete gli strumenti necessari per permetterle di difendersi, ma scegliete di non fare nulla, lasciandola morire. Quando si tratta di una persona, è ovvio che non intervenire equivale a incoraggiare il crimine o ad aggravarne le conseguenze. Se qualcuno giustificasse la propria inazione dicendo di essere pacifista e contro ogni forma di violenza, questa argomentazione sarebbe considerata inappropriata, per non dire assurda.

Pur non ricadendo nel penale, un simile atteggiamento di solito viene considerato profondamente immorale. Allora mi chiedo: perché questo stesso atteggiamento tutto a un tratto diventa accettabile quando la situazione passa dal livello di un individuo aggredito a quello di una società sotto attacco? Come per miracolo, il rifiuto di prestare soccorso diventa pacifismo e trova una legittimazione morale.

La realtà è che quando manca il sostegno alle vittime, gli aggressori si sentono incoraggiati. È chiaro nelle relazioni personali, all'interno delle famiglie, dei gruppi di lavoro o di qualsiasi istituzione sociale. Ma vale anche nella politica internazionale. Abbandonare al loro destino le vittime di aggressioni militari è come dire a tutti gli psicopatici in posizione di potere che ora sono liberi di ricorrere alle guerre per risolvere i loro problemi di legittimità.

L'impunità concessa a chi sostiene la legge del più forte sulla scena internazionale alimenta inevitabilmente l'ascesa di forze che difendono gli stessi principi in patria. Forze come Alternative für Deutschland (Afd) in Germania, il Rassemblement National in Francia, Donald Trump negli Stati Uniti e Vladimir Putin in Russia condividono lo stesso culto della forza bruta: in altre parole, del fascismo. In definitiva, qualsiasi aggressione, per quanto lontana, se normalizzata, ha implicazioni che prima o poi si ripercuotono su tutti noi.

L'argomentazione secondo cui la presenza dell'estrema destra in Ucraina giustificherebbe il rifiuto di inviare armi si basa su un errore di logica piuttosto lampante. Rifiutarsi di aiutare un popolo con questo pretesto significa punire un'intera società per una realtà che esiste ovunque. Sì, in Ucraina ci sono gruppi di estrema destra, come in molti altri paesi. Nelle elezioni precedenti a quelle del 2022, questi gruppi hanno ottenuto percentuali marginali e non sono riusciti a entrare in parlamento. In Francia e in Germania ci sono movimenti di estrema destra infinitamente più influenti che in Ucraina, eppure nessuno metterebbe in dubbio il loro diritto all'autodifesa in caso di aggressione. Questo atteggiamento non è piuttosto frutto del pregiudiziooccidentale di un “Est” reazionario e retrogrado, che persiste anche quando le società occidentali stesse sono alle prese con una fascistizzazione contro cui la sinistra di questi paesi sembra del tutto impotente?

Questo argomento è tanto più ipocrita se si considera che molte di queste stesse voci  non esitano a sostenere movimenti di resistenza che includono attori più che problematici. Perché pretendere dall'Ucraina sotto attacco una purezza che nessun'altra società è tenuta a mostrare quando si tratta di difendersi?

È innegabile che la guerra, che dura da più di dieci anni, abbia già contribuito a rafforzare e banalizzare simboli e discorsi nazionalisti che prima non erano così rilevanti. Le guerre non rendono migliore nessuna società. 

Tuttavia, il rapporto tra l'invio di armi e il rafforzamento dell'estrema destra in Ucraina è inversamente proporzionale. Le armi servono innanzitutto a difendere la società nel suo complesso da un esercito invasore. La vittoria dell'Ucraina garantisce l'esistenza stessa di uno stato in cui i cittadini possono scegliere il proprio futuro in modo democratico. Al contrario, nulla rafforza i movimenti di estrema destra o le organizzazioni terroristiche più dell'occupazione militare e dell'oppressione sistematica che ne consegue.

Infatti, se l'Ucraina ottiene la pace alle condizioni russe – la pace delle tombe – è più che probabile che i gruppi radicali, che capitalizzeranno la frustrazione e il senso di ingiustizia, si rafforzeranno rapidamente a scapito degli attori moderati.

Il ruolo delle lingue (ucraino e russo) è molto importante per comprendere i dibattiti (spesso artificiali) e le polemiche. Puo’ aiutarci a meglio definire la questione?

È effettivamente utile collocare la questione nel suo contesto storico. Fin dal XIX secolo, lo Stato russo ha cercato di emarginare la lingua ucraina presentandola come una forma inferiore di russo. Le élite russe ritenevano che il riconoscimento di una lingua ucraina a sé stante minacciasse l'unità del loro stato nazionale in costruzione. Sotto l'Unione Sovietica, il russo era stato imposto come l'unica lingua legittima della modernità e del progresso. Dopo l'indipendenza ucraina [nel 1991], questa gerarchia linguistica è rimasta.

Fino al 2014, parlare ucraino nelle grandi città era malvisto, mentre il russo continuava a essere ammantato di un prestigio superiore. Per gli ucraini, quindi, la promozione dell'ucraino nello spazio pubblico non è un attacco ai russofoni, ma un tentativo di correggere secoli di emarginazione. Considerare tutto ciò come prova di un nazionalismo aggressivo significa ignorare il contesto (post-)imperiale che sottende queste dinamiche, un contesto spesso invisibile a chi appartiene a nazioni storicamente imperialiste e non a gruppi culturalmente oppressi.

Quindi la questione della lingua è strumentalizzata?

Sì, ciò che è importante considerare è il modo in cui la Russia ha usato la questione linguistica per legittimare la sua aggressione contro l'Ucraina. Nel 2014, al momento dell'annessione della Crimea e dell'inizio della guerra nel Donbass, il Cremlino ha giustificato le sue azioni sostenendo di voler proteggere la popolazione russofona, presunta vittima di un “genocidio linguistico”. Se prima, nel quotidiano, l’ucraino e il russo coesistevano in modo abbastanza pacifico, l'uso delle questioni linguistiche come arma di manipolazione politica ha esacerbato le divisioni.

È fondamentale ricordare che parlare russo in Ucraina non significa essere filo-russi o appoggiare il Cremlino. Dovremmo evitare di ripetere pedissequamente la narrativa della propaganda russa, che fa di tutto per legittimare l'attacco alla sovranità degli stati democratici vicini. 

Solo con l'aggressione russa del 2014 lo Stato ucraino ha rotto lo status quo di relativo non intervento nelle questioni linguistiche. Nel 2018, il Parlamento ha approvato una legge che impone l'uso dell'ucraino nella maggior parte degli aspetti della vita pubblica, obbligando i funzionari pubblici e le persone che lavorano nella sfera pubblica a conoscerlo e a usarlo nelle loro comunicazioni. 

L'ucraino è diventato obbligatorio nelle scuole. Questo non ha necessariamente portato a cambiamenti radicali: molte persone utilizzavano sia l'ucraino che il russo nella loro vita quotidiana, per non parlare di chi parlava un misto dei due. La realtà dell'Ucraina è quella della porosità linguistica.

La guerra e le atrocità commesse dai russi hanno portato molti ucraini a parlare solamente ucraino e a guardare con sospetto chi continua a parlare “la lingua dell'occupante”. Non è raro che i sopravvissuti russofoni ai bombardamenti siano accusati di mancanza di patriottismo dai residenti di lingua ucraina delle città lontane dai combattimenti. Il rifiuto radicale della lingua russa, inesistente nel 2014 ma brandito da Putin per legittimare l'aggressione militare, a distanza di dieci anni è diventato una profezia che si è autoavverata.

Per i russofoni d’Ucraina, il problema è che lo Stato che dice di voler proteggere la loro lingua la usa per diffondere narrazioni che negano il diritto all'esistenza dell'Ucraina. Al momento, i russofoni non hanno dei portavoce in grado di articolare la loro esperienza senza sfruttarla a fini politici. Se la Russia non sfruttasse la lingua e la cultura come strumenti di espansione, e se la presenza di una popolazione russofona non fosse stata usata per giustificare una dominazione politica e poi l'invasione militare, la coesistenza delle due lingue probabilmente porrebbe pochi problemi.

Allo stesso tempo, aggiungo, l'autoproclamata élite intellettuale ucraina si sta dimostrando particolarmente arretrata e francamente ridicola, perché costruisce l'identità nazionale secondo le ricette del XIX secolo. In realtà, è impossibile richiudere la popolazione ucraina contemporanea in uno dei due sistemi oscurantisti che le vengono proposti: il nazionalismo etnolinguistico ucraino da un lato, e il nazionalismo imperiale russo dall'altro.

Prima del 2022, esisteva ancora la possibilità di costruire in Ucraina una cultura russofona alternativa, non infettata dall'immaginario imperiale russo e indipendente dalle priorità politiche dello stato russo. L'invasione ha reso questo progetto completamente impossibile. 

Putin ne sarà probabilmente contento, perché il suo timore principale non è che l'Ucraina tagli tutti i legami con i russi, bensì che l'Ucraina condivida la loro lingua, ma che sviluppi un solido sistema politico democratico, “infettando” i russi con il virus della libertà.

L'Unione Europea è spesso percepita come “superata” nel migliore dei casi, se non “neoliberale” e “antidemocratica” dalla sinistra e dagli attivisti dell'Europa occidentale; in Europa orientale, invece, che si tratti di Moldova, Romania, Ucraina o Georgia, i cittadini si mobilitano dietro questa idea... Come si spiega questa differenza? Cosa rappresenta l'Ue nell'est del continente? E in particolare in Ucraina?

Dall'interno l'UE può essere vista come un progetto in cui le logiche di mercato hanno la precedenza sulla giustizia sociale, in cui le decisioni sono spesso prese a porte chiuse e in cui gli interessi di grandi potenze economiche come la Germania impongono le loro priorità. In questo contesto, non sorprende che alcuni vedano l'UE come un ostacolo di cui liberarsi.

Ma per i paesi europei non appartenenti all'UE, e in particolare per l'Ucraina, incarna qualcosa di diverso. “L'Europa” è soprattutto un'aspirazione, un'idea di futuro in cui prevalgono lo stato di diritto, le libertà individuali e un certo livello di prosperità. Quello non sempre chiaro in Europa occidentale, è che qui l'UE rappresenta un'alternativa a un modello autoritario e oppressivo, un modello che la Russia impone con la forza ai suoi vicini.

Per i cittadini dell'UE, l'Unione è innanzitutto un progetto economico. Per chi non ne fa parte, invece, è in primo luogo un progetto culturale e di civiltà. Che la ammirino o la odino, i suoi sostenitori e i suoi detrattori al di fuori dell'Unione la considerano una forza innanzitutto politica. La Russia, del resto, è esplicita da questo punto di vista: almeno dal 2013 tratta l'UE non come un concorrente economico, ma come un rivale geopolitico e ideologico.

Questa dimensione è diventata ancora più evidente nel 2014, con l’Euromaidan, quando gli ucraini hanno letteralmente dato la vita per difendere il futuro “europeo” del proprio paese. È stato un atto che molti europei non hanno compreso, o hanno addirittura guardato con condiscendenza o pena. Eppure, per questi manifestanti, “l’Europa” non era un'area economica, ma un simbolo di dignità e libertà.

Gli europei faticano a riconoscere che dietro l'idea di un'Europa politicamente unita c'è davvero della sostanza, perché appare screditata dalle sue politiche neoliberiste. Tuttavia, come ogni progetto nato dalla modernità, l'Unione Europea porta dentro di sé tendenze contraddittorie. Per usare le parole del filosofo ed economista Cornelius Castoriadis, essa porta in sé sia l'espansione illimitata del controllo razionale del mondo, che si manifesta nel neoliberismo, sia il potenziale di autonomia e apertura politica che assume la forma della democrazia.

Quale tendenza prevarrà? Dipende dalle forze politiche che investiranno in questo progetto. Certo è, però, che se, pur combattendo legittimamente le politiche neoliberiste dell'UE, abbandoniamo anche l'idea di un'Europa politicamente unita, buttiamo via il bambino con l'acqua sporca. Mentre l'Europa si cullava nel sogno di una pace post-nazionale, di una prosperità basata sugli idrocarburi russi e le merci cinesi, le élite di questi paesi accumulavano eserciti, risorse e, soprattutto, risentimento. 

E questo risentimento è rivolto proprio all'immaginario democratico dell'Europa, non al suo liberalismo economico.

Può sembrare paradossale...

Questo paradosso è tristemente logico: il potenziale democratico del progetto europeo sembra più evidente da fuori. È un po' come i vaccini: più sono efficaci, più vengono denigrati. In un paese dove i vaccini sono appena arrivati, dove è ancora alto il tasso di bambini che muoiono di poliomielite, un movimento anti-vaccinazione risulterebbe assurdo. Allo stesso modo, gli europei che abbandonano così facilmente l'idea dell'unità europea appaiono ingenui agli occhi di quanti stanno combattendo un esercito deciso a distruggerli.

Detto questo, gli attivisti ucraini di sinistra non si lasciano ingannare dalle realtà economiche dell'Europa. Hanno osservato attentamente ciò che è accaduto in Grecia, per esempio. Ma bisogna capire che l'Ucraina è già un paese fortemente neoliberista, con élite predatorie e un diritto del lavoro precario. 

In alcuni settori, la legislazione europea potrebbe effettivamente smantellare ciò che resta delle protezioni sociali. In altri, invece, potrebbe introdurre standard e regole inesistenti in questo capitalismo selvaggio. Non ci sono quindi risposte facili.

In ogni caso, per la stragrande maggioranza degli ucraini, i dettagli contano poco. “L’Europa” rappresenta una promessa di giustizia, democrazia ed emancipazione. Di fronte all'abisso dell'occupazione russa, gli ucraini – come i georgiani – si aggrappano all'unica alternativa di unità politica che offre il continente.

*Articolo pubblicato anche su voxeurop.ue, giornale online indipendente pensato e costruito intorno a una comunità di giornalisti e giornaliste, traduttori e traduttrici, media partner, e lettori, lettrici e membri di oltre 30 paesi.

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