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Fuori da qui

Cosa vogliono Putin e Trump

Durante il tardo pomeriggio di martedì 18 marzo a Mosca, mentre Vladimir Putin era impegnato in una lunga conversazione telefonica con Donald Trump, sono state rimosse le lettere Z, V, O – simboli dell’invasione russa dell’Ucraina – piazzate da più di un anno e mezzo davanti all’ambasciata degli Stati Uniti. Una notizia simbolica, che immediatamente ha visto reazioni ironiche da un lato e di sdegno dall’altro, ma durata poco: nel corso della serata le lettere son tornate al proprio posto – ufficialmente erano state rimosse per esser ripulite - a ricordare più ai moscoviti che ai dipendenti (pochi, dopo le espulsioni reciproche) della rappresentanza diplomatica americana di come il Cremlino continui a essere sulle proprie posizioni.

Può sembrare un’esagerazione, ma ieri dalle 15:30 per circa due ore agenzie di stampa, corrispondenti, diplomatici, analisti e anche comuni cittadini in varie parti del mondo hanno atteso gli esiti del vertice telefonico, forse aspettandosi un passo in avanti verso l’apertura di trattative di pace o, in seconda battuta, verso la proposta di tregua di 30 giorni avanzata nell’incontro tra le delegazioni statunitense e ucraina a Gedda; l’esito del colloquio è stato però ben diverso, e anche nel leggere il comunicato del Cremlino, pubblicato dal sito ufficiale della presidenza russa, e le dichiarazioni alla stampa da parte americana, colpisce come, al di là dell’ottimismo e del trionfalismo (quest’ultimo tra i marchi di fabbrica di Trump), vi sia abbastanza poco per quanto riguarda la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina.

A essere dominante, leggendo le parole scelte nel comunicare (parzialmente) i contenuti della telefonata, è l’impressione che da parte russa non vi sia alcuna fretta nel sedersi al tavolo dei negoziati, e si prenda tempo, una sensazione rafforzata dalla lettura di alcuni passaggi del comunicato, a partire dal secondo paragrafo:

Ribadendo il principio della risoluzione pacifica del conflitto, il presidente russo si è dichiarato disponibile a un'analisi approfondita con i partner americani delle possibili vie di soluzione, che dovrebbero essere globali, sostenibili e a lungo termine. Ha sottolineato, inoltre, la necessità imprescindibile di affrontare le cause profonde della crisi e di garantire il rispetto degli interessi legittimi della Russia in materia di sicurezza.

Misure come l’analisi approfondita richiedono il lavoro di decine di funzionari, consiglieri, diplomatici e esperti, e in termini di durata vanno ben oltre la volontà, espressa chiaramente, della Casa Bianca di voler procedere quanto più in fretta possibile a una soluzione negoziale, ma per Vladimir Putin non vi è alcuna necessità di velocizzare il processo, anzi: sempre nel comunicato si annuncia la costituzione di commissioni bilaterali per l’elaborazione di proposte per proseguire negli sforzi di risoluzione, una misura che di per sé richiede dei tempi tecnici la cui durata appare difficile da pronosticare.

La dilazione, tattica scelta dal Cremlino, non è però mai netta, come anche il rifiuto sostanziale di un accordo con l’Ucraina, almeno in questo momento: dopo aver denunciato ancora una volta “l’inaffidabilità” del governo di Kyiv, ulteriore rimando alla volontà di rimuovere Volodymyr Zelensky, si accetta una proposta di sospensione per 30 giorni degli attacchi alle infrastrutture energetiche – centrali elettriche, raffinerie, gasdotti e così via – come primo passo, assieme a uno scambio di 175 prigionieri di guerra per 175, verso future prove tecniche di trattativa, che appaiono però sempre distanti all’orizzonte. Nel comunicato del Cremlino leggiamo, in un breve paragrafo, che “condizione chiave” è “la cessazione totale degli aiuti militari stranieri e del supporto di intelligence” a Kyiv, un passaggio poi smentito indirettamente da Donald Trump, il quale in un’intervista a Fox News poco dopo la telefonata ha sostenuto di non aver discusso del riarmo ucraino. 

Vladimir Putin ritiene di essere in vantaggio nel condurre la complessa partita con Donald Trump sugli equilibri globali, di cui l’Ucraina è una parte importante per la Russia ma appare (almeno adesso) esserlo molto meno per gli Stati Uniti, un elemento che appare presente indirettamente anche nel post su X della portavoce del presidente americano Karoline Leavitt, dove, a differenza del comunicato di Mosca, vi è un passaggio sulla sicurezza in Medio Oriente e sull’impegno dei due leader nell’evitare la “distruzione di Israele” da parte dell’Iran, parole che vengono dopo l’attacco statunitense alle basi degli Houthi in Yemen. Teheran, vicinissima alla Russia negli ultimi tre anni di guerra, attiva nei rifornimenti di missili e droni, potrebbe essere una pedina sacrificabile per Putin in cambio dell’Ucraina.

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Gli obiettivi del regime russo restano sempre gli stessi enunciati in queste settimane, e presenti sia nel comunicato che nell’intervento del presidente al congresso annuale dell’Unione degli industriali e degli imprenditori russi, avvenuto nella mattinata del 18 marzo: dopo aver ricordato ai presenti che vi sono 28.595 sanzioni nei confronti delle aziende e di esponenti russi e di dover per questo puntare allo sviluppo dell’economia nazionale solo sulle proprie forze, nel corso di una sessione chiusa al pubblico e rivolta a riferire di quali passi siano stati fatti nel corso dei contatti con gli americani, Putin e il suo consigliere economico Maksim Oreshkin avrebbero chiarito come per Mosca la situazione al fronte sia positiva, le truppe ucraina non riescono a “trincerarsi”, per cui  le condizioni avanzate restano quelle dichiarate, per far in modo come, secondo quanto riferito da alcune fonti al giornalista Andrei Kolesnikov:

Quanto ottenuto non possa esser tolto (alla Russia) e che si debbano riconoscere come parte della Russia la Crimea, Sebastopoli e i quattro territori già noti: le repubbliche di Luhansk e Donetsk, nonché le regioni di Kherson e Zaporizhya.
Se ciò dovesse accadere nel prossimo futuro, la Russia - mi hanno detto i partecipanti all’incontro - non rivendicherebbe Odessa né altri territori attualmente appartenenti all’Ucraina.
Tuttavia, anche questa posizione potrebbe cambiare, perché "non fanno in tempo a trincerarsi". (si riferiscono agli ucraini — GS)

Mosca ritiene, in questo momento, di poter ottenere – con la forza o con i negoziati, ma preferisce in questo momento la prima – i suoi obiettivi per poter dichiarare “vittoriosa” l’operazione speciale militare, e difficilmente Vladimir Putin cederà, perché si considera vicino alla meta; poco importa quali prezzi vi siano da pagare.

Nel corso della notte tra il 18 e il 19 marzo 57 droni ucraini, secondo il Ministero russo della Difesa, sarebbero stati abbattuti sui cieli delle regioni russe di Kursk, Orel, Tula, Bryansk e sul Mar d’Azov, mentre per il dicastero di Kyiv la Russia avrebbe attaccato con due missili Iskander, quattro C-300, e 145 droni, di cui 72 colpiti e 56 dispersi. Una raffineria nei pressi del villaggio di Kavkazskaya, nella regione di Krasnodar, è stata colpita dai droni ucraini, nella stessa notte a Kyiv per 6 ore c’è stata l’allerta aerea; la tregua e la pace, dai cieli di queste parti d’Europa, appaiono lontane, parole dette al telefono mentre il mondo attende, tra distruzioni e rovine.

Immagine in anteprima: frame video TG2000 via YouTube

Netanyahu spinge per un conflitto senza fine a Gaza

Israele ha ripreso gli attacchi su larga scala a Gaza con un'ondata di bombardamenti aerei e colpi di artiglieria su tutto il territorio già devastato. Secondo le autorità palestinesi, ci sono stati più di 400 morti e centinaia di feriti. Tra le vittime ci sarebbero alcuni alti funzionari di Hamas e molti civili, tra cui donne e bambini. Altre 58 persone sono state uccise in due attacchi successivi tra il 19 e il 20 marzo. Gli ospedali e le squadre di protezione civile dicono affermato di essere sopraffatti.

Israele ha anche emesso ordini di evacuazione per alcune parti della parte settentrionale e centrale di Gaza, facendo pensare anche a un attacco di terra. Centinaia, forse migliaia, di palestinesi nel territorio che solo di recente sono tornati alle loro case, spesso in rovina, sono di nuovo in movimento.

Erano settimane che il governo israeliano minacciava di lanciare un'offensiva. Le autorità israeliane hanno giustificato l’attacco dicendo che era loro obiettivo colpire la leadership di Hamas che secondo loro stava riprendendo il controllo di Gaza. Secondo loro, quest’azione favorirà il rilascio di altri ostaggi. Una supposizione contestata da molte famiglie di ostaggi israeliani. 

Più concretamente, ricostruisce un articolo del Guardian, Israele ha potuto attaccare perché dopo settimane di tregua ha reintegrato scorte, munizioni e armamenti, in parte grazie alle forniture statunitensi. Gli aerei e altre attrezzature sono stati riparati. Le truppe si sono riposate.

Perché l’attacco è avvenuto proprio adesso? Secondo l’opinione di alcuni esperti, ci sono almeno tre motivazioni: la prima è che Netanyahu non ha mai avuto alcuna intenzione di passare alla seconda fase del cessate il fuoco, che avrebbe significato il ritiro delle forze israeliane da Gaza, lasciando di fatto Hamas come governatore de facto; poi, c’è il pieno sostegno dell'amministrazione Trump per rinnovare gli attacchi contro Hamas; infine, ci sono i fattori politici interni, considerato che Netanyahu aveva bisogno del sostegno degli alleati di destra per mantenere la sua leadership e questi alleati si erano fortemente opposti a una fine permanente delle ostilità a Gaza.

“Il governo israeliano non ha mai nascosto il suo desiderio di ricominciare la guerra”, scrive Dahlia Scheindlin su Haaretz. “Per mesi è stato chiaro che questo governo avrebbe alla fine chiesto agli israeliani di tornare a combattere, attraverso una vera e propria ripresa della guerra, per attuare i suoi piani di sgombero di Gaza o per eseguire l'occupazione di Gaza”, nonostante un sondaggio di fine febbraio da parte dell’Israel Democracy Institute aveva rilevato che quasi il 75% degli intervistati era a favore dell’avvio della seconda fase del cessate il fuoco concordato a gennaio, e solo un quarto (24%) era a favore di un ritorno a intensi combattimenti. “Netanyahu vuole una guerra infinita a Gaza che la maggior parte degli israeliani non vuole più combattere”, conclude Scheindlin.

Nei giorni scorsi un rapporto della Commissione d'inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est, presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha descritto in dettaglio la violenza sessuale e riproduttiva di Israele: come l'uccisione di donne incinte, lo stupro di detenuti maschi con oggetti che vanno dalle verdure ai manici di scopa, la distruzione di una clinica di fecondazione in vitro con i suoi 4.000 embrioni. La guerra alla capacità dei palestinesi di riprodursi è stata definita “atto di genocidio”.

Il rapporto descrive in dettaglio gli attacchi ai reparti di maternità e ad altre strutture sanitarie per le donne, la distruzione di una clinica di fecondazione in vitro e i controlli sull'ingresso di cibo e forniture mediche a Gaza. Queste azioni sono state equiparate a “due categorie di atti di genocidio nello statuto di Roma e nella convenzione sul genocidio, tra cui l'imposizione deliberata di condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica dei palestinesi e l'imposizione di misure volte a prevenire le nascite”, ha dichiarato il Consiglio per i diritti umani in un comunicato stampa sul rapporto.

Inoltre, secondo quanto riportato dal rapporto, le forze di sicurezza israeliane hanno costretto i palestinesi a spogliarsi forzatamente e a subire molestie comprese le minacce di stupro e le aggressioni sessuali. Il “modello di violenza sessuale” utilizzato dalle forze israeliane, compresi i casi di stupro e di tortura sessuale, costituisce un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità, ha rilevato la commissione che ha aggiunto: “La frequenza, la prevalenza e la gravità dei crimini sessuali e di genere perpetrati in tutto il Territorio Palestinese Occupato portano la commissione a concludere che la violenza sessuale e di genere è sempre più utilizzata come metodo di guerra da Israele per destabilizzare, dominare, opprimere e distruggere il popolo palestinese”.

E ora?

Questo attacco sembra aver compromesso ogni possibilità di fine delle ostilità iniziate a ottobre 2023. La nuova offensiva è arrivata 16 giorni dopo la fine delle prima delle tre fasi del cessate il fuoco concordato a gennaio. Le tre fasi avrebbero dovuto portare alla fine definitiva della guerra, al ritiro totale di Israele da Gaza e alla liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora tenuti prigionieri da Hamas dal suo attacco a sorpresa del 7 ottobre 2023 in Israele in cui sono state uccise 1.200 persone. L'offensiva israeliana, seguita a quell’attacco, ha ucciso più di 48.700 persone.

Hamas sostiene che Israele abbia rotto l'accordo non mantenendo l'impegno preso in precedenza di passare alla seconda fase. Israele ha invece proposto di prolungare la prima fase di 30-60 giorni, per consentire il rilascio di altri ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi. Hamas ha respinto la proposta. Il governo israeliano sostiene che Hamas abbia rotto il cessate il fuoco rifiutando il rilascio di nuovi ostaggi.

La triste realtà è che la fragile pausa di due mesi delle ostilità è ormai finita. Sembra molto improbabile che si possa raggiungere presto un accordo che ponga fine ai nuovi attacchi israeliani. Anzi, i funzionari israeliani hanno affermato che si tratta solo dell’inizio di un'offensiva potenzialmente molto più ampia che continuerà fino a quando Hamas non rilascerà i 59 ostaggi israeliani ancora trattenuti a Gaza, di cui si presume che più della metà siano morti. Ciò comporterebbe inevitabilmente un numero considerevole di vittime civili, ulteriori sfollamenti di massa e ancora più distruzione.

La crisi umanitaria a Gaza è stata solo in parte alleviata da un massiccio afflusso di aiuti durante il cessate il fuoco. Due settimane fa, Israele ha imposto un blocco totale sul territorio, sostenendo che Hamas stava sfruttando gli aiuti a proprio vantaggio e aveva violato l'accordo. Circostanza negata da Hamas. Secondo i funzionari umanitari, le agenzie umanitarie e i negozi a Gaza hanno attualmente scorte di generi di prima necessità che dureranno circa tre settimane, ma la nuova violenza renderà la distribuzione molto più difficile.

Se tutti coloro che tacciono sulla distruzione di Gaza parlassero

Nessun crimine è stato documentato come quelli commessi dagli israeliani a Gaza, scrive Owen Jones in un editoriale sul Guardian. Eppure in pochi stanno chiamando questo crimine così evidente per quello che è. Le generazioni future potrebbero chiedersi: “Come è stato possibile che un crimine così osceno sia stato facilitato per così tanto tempo?”

Lo hanno documentato gli esperti. Rapporto dopo rapporto, sappiamo che Israele ha distrutto infrastrutture civili: case, ospedali, scuole, università, moschee, chiese; ha distrutto l'83% di tutta la vita vegetale, oltre l'80% dei terreni agricoli, il 95% del bestiame, oltre l'80% delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Israele ha deliberatamente e sistematicamente reso Gaza inabitabile.

Grazie ai telefoni cellulari e a Internet, nessun crimine nella storia è stato documentato così bene dalle sue vittime mentre accadeva. Come hanno fatto per 529 giorni, i sopravvissuti di Gaza pubblicano le prove del loro sterminio sui social media, sperando, invano, che si risveglino abbastanza coscienze da porre fine al caos genocida. Un bambino morto in una tutina arcobaleno; un padre in lutto che gioca con la treccia di sua figlia per l'ultima volta; intere famiglie coperte di sudari, le loro linee di sangue cancellate dal registro civile.

E nessun crimine è stato confessato dai suoi autori come questo. Israele ha annunciato un blocco totale di tutti gli aiuti umanitari in arrivo a Gaza 17 giorni fa, una violazione incontrovertibile del diritto internazionale.

Da Amnesty International a studiosi come Omer Bartov, il professore israelo-americano di fama mondiale di studi sull'Olocausto e il genocidio, c'è un consenso tra gli specialisti del settore sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio. Nessuno nella politica occidentale o nei circoli mediatici può dire: “Non sapevo cosa stesse realmente accadendo”.

In un mondo razionale, i sostenitori di questo abominio sarebbero considerati mostri che non hanno posto nella vita pubblica. "Dopotutto, non si può giustificare il genocidio ruandese e aspettarsi qualcosa di diverso dall'essere considerati dei paria. Ma sono stati proprio coloro che si sono opposti alla depravazione di Israele a essere stati messi a tacere, censurati, licenziati, arrestati e, nel caso del laureato della Columbia Mahmoud Khalil, detenuti e potenzialmente deportati", scrive ancora Owen Jones.

"Capovolgendo tutto, l'attacco più sfacciato e sistematico alla libertà di parola in occidente dai tempi del maccartismo ha raggiunto il suo obiettivo principale: un silenzio diffuso su un crimine di proporzioni storiche tra coloro che hanno potere e influenza. Ci sono politici che hanno chiamato inequivocabilmente questo crimine per quello che è, ma sono emarginati e puniti".

Se tutti coloro che sono a conoscenza di quello che sta accadendo a Gaza si facessero sentire "i ministri si dimetterebbero dai governi, i giornali e i notiziari non solo darebbero risalto alle atrocità commesse da Israele, ma le definirebbero correttamente come crimini efferati, sottolineando con insistenza che bisogna fare qualcosa di drastico per fermarli. Le richieste di un embargo sulle armi e di sanzioni contro Israele diventerebbero impossibili da ignorare", osserva ancora Own Jones.

"Porre fine al silenzio non significa piangersi addosso e dire banalità su quanto si sia tristi per la morte dei civili: significa chiamare un crimine per quello che è e chiedere che chi lo ha facilitato ne risponda". 

Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube

L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.

La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.

Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.

Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.

Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti  i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.

La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.

Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.

Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.

Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.

Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.

Immagine in anteprima via groundup.org.za

La Turchia in piazza contro la deriva autoritaria di Erdogan e l’arresto del sindaco di Istanbul

In Turchia migliaia di persone stanno scendendo in strada per protestare contro la detenzione del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, arrestato pochi giorni prima delle primarie del Partito Repubblicano Popolare (CHP) che lo avrebbero candidato alle elezioni presidenziali del 2028. İmamoğlu era infatti l’unico contendente a essersi presentato alle primarie di domenica 23 marzo.

İmamoğlu, considerato uno dei pochi politici in grado di attirare il consenso di un ampio spettro di elettori, tra cui curdi, conservatori e laici, è ritenuto uno dei rivali più temibili di Erdoğan. Nel 2019 è diventato sindaco di Istanbul dopo aver sconfitto il candidato del presidente turco e l’anno scorso si è confermato portando per la prima volta il CHP a battere il partito di Erdoğan da quando è al potere.

Tra l’altro, Erdoğan non potrà candidarsi alle elezioni del 2028 perché è giunto al limite dei mandati consentiti dalla Costituzione. Per potersi ricandidare il presidente turco dovrebbe modificare la Costituzione – ma per farlo avrebbe bisogno del sostegno dell’opposizione per ottenere una maggioranza qualificata in Parlamento (ipotesi remota dopo l’arresto di İmamoğlu) – oppure dovrebbe indire elezioni anticipate prima della fine del suo mandato.

L'arresto del sindaco di Istanbul fa parte di una vasta repressione a livello nazionale che, negli ultimi mesi, ha preso di mira politici dell'opposizione, giornalisti e uomini d’affari. Sono state arrestate circa 100 persone. I pubblici ministeri hanno accusato İmamoğlu di estorsione e frode e di aver aiutato il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), considerato un gruppo terroristico in Turchia, Unione Europea, Regno Unito e Stati Uniti, e che ha recentemente annunciato la decisione di deporre le armi. 

L'ufficio del governatore di Istanbul ha imposto quattro giorni di restrizioni in città per fermare le manifestazioni di protesta. Molte strade di Istanbul sono state chiuse al traffico e alcune linee della metropolitana hanno sospeso il servizio. L'organizzazione britannica Netblocks, che monitora l'uso di Internet, ha dichiarato che è stato limitato l'accesso a X, YouTube, Instagram e TikTok. 

Il ministro dell'Interno, Ali Yerlikaya, ha comunicato che la polizia ha identificato 261 “gestori di account sospetti” online che avrebbero pubblicato contenuti “incitanti all'odio e a commettere un crimine". Trentasette persone sono state arrestate per post “provocatori” sui social e “si continua a lavorare per fermarne altre”, ha aggiunto il ministro.

Ma nonostante le restrizioni e gli arresti, le manifestazioni non si sono fermate. Migliaia di manifestanti hanno sfidato i divieti e sono scesi in strada, nei campus universitari, nelle stazioni della metropolitana, davanti al municipio, urlando slogan come: “Erdoğan, dittatore!”, “Fianco a fianco contro il fascismo” e “İmamoğlu, non sei solo!”. Una dimostrazione di rabbia pubblica che in Turchia non si vedeva da anni. 

Ci sono state segnalazioni di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. La polizia di Istanbul ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro i manifestanti e, come testimoniato dalle riprese della Reuters, ha fatto ricorso allo spray al peperoncino per disperdere la folla dall'università di Istanbul. 

In un video pubblicato sui social, İmamoğlu ha detto: “Siamo di fronte a una grande tirannia, ma voglio che sappiate che non mi tirerò indietro”. E in una nota scritta a mano pubblicata sul suo account X dopo l'arresto, ha detto che il popolo turco avrebbe risposto alle “bugie, alle cospirazioni e alle imboscate” contro di lui. “La volontà del popolo non può essere messa a tacere”.

Non è la prima volta che İmamoğlu deve affrontare delle indagini nei suoi confronti. Nel dicembre del 2022 gli è stato imposto il divieto di partecipare alla vita politica per presunte offese alla commissione elettorale della Turchia nel 2019, una sentenza contro la quale ha presentato ricorso e per la quale è ancora in attesa della sentenza definitiva. Inoltre, è stato oggetto di casi legati a presunte irregolarità nelle gare d'appalto durante il suo mandato come sindaco del distretto di Beylikduzu a Istanbul. Più recentemente, il 20 gennaio, è stato aperto un nuovo caso contro di lui per le sue critiche a un pubblico ministero.

Il CHP, ha condannato gli arresti definendoli “un colpo di Stato contro il nostro prossimo presidente”. In molti hanno chiesto all’opposizione di boicottare le prossime elezioni presidenziali, sostenendo che un voto equo e democratico non è più possibile.

La detenzione, tuttavia, non è il solo ostacolo alla candidatura di İmamoğlu. Il giorno prima del suo arresto l'università di Istanbul ha annullato la sua laurea a causa di presunte irregolarità. Questa decisione, se confermata, gli impedirebbe di candidarsi alle elezioni presidenziali, considerato che secondo la Costituzione turca, i presidenti devono aver completato l'istruzione superiore per ricoprire la carica. Secondo alcuni esperti legali, İmamoğlu potrebbe addirittura dover prestare nuovamente il servizio militare, perché l’annullamento della laurea porterebbe anche alla cancellazione del servizio di leva obbligatorio già sostenuto. İmamoğlu ha definito questa decisione “priva di fondamento giuridico”, aggiungendo che le università “devono rimanere indipendenti, libere da interferenze politiche e dedicate alla conoscenza”.

Il ministro della Giustizia turco, Yılmaz Tunç, ha criticato chi collega Erdoğan agli arresti, definendo “estremamente pericolosa” l’evocazione del “colpo di Stato” da parte dell’opposizione e rimarcando l’indipendenza della magistratura nonostante il presidente turco, al potere da 22 anni, eserciti vasti poteri sulle istituzioni statali.

In passato altri rivali politici di Erdoğan sono finiti in carcere. La detenzione di İmamoğlu rappresenta però una nuova frontiera. Mai prima d'ora, infatti, Erdoğan si era mosso in modo così deciso contro l'opposizione tradizionale e la guida del partito più antico della Turchia, fondato da Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della moderna repubblica turca, osserva un articolo del Financial Times. “Ha varcato il Rubicone”, ha commentato Suat Kınıklıoğlu, ex parlamentare. “Da qui non si torna indietro”.

Secondo Galip Dalay di Chatham House, tutto questo potrebbe vanificare i risultati conseguiti negli ultimi 18 mesi dall’amministrazione turca: anni di rapporti tesi con l'Europa si stavano distendendo alla luce della svolta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump verso Mosca; l'inflazione galoppante stava rallentando e i tassi di interesse stavano finalmente scendendo. Agli occhi degli osservatori politici, spiega Dalay, l’arresto di İmamoğlu potrebbe essere interpretato come una pericolosa svolta autocratica anche per un paese come la Turchia abituato ad anni di strisciante autoritarismo sotto il governo Erdoğan.

Il Consiglio d'Europa ha affermato in una nota che la detenzione di İmamoğlu “porta tutti i segni della pressione su una figura politica considerata uno dei principali candidati alle prossime elezioni presidenziali”. I funzionari dell’UE, francesi e tedeschi hanno tutti condannato gli arresti. È impossibile “ignorare la Turchia” per rafforzare la difesa dell’Europa, ha dichiarato un funzionario tedesco. Ma sta a lei “facilitare i dialoghi con l’UE. E le ultime 24 ore suggeriscono che sta andando in un’altra direzione”.

Immagine in anteprima: frame video AFP via YouTube

Serbia e Bosnia, le manifestazioni studentesche e una polveriera pronta a esplodere

Il 15 marzo scorso a Belgrado quando centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo serbo e il presidente Aleksandar Vučić, non è stato il “dan D” ovvero il giorno della svolta dopo il quale nulla sarà più lo stesso in Serbia. Sicuramente è stata la più grande manifestazione pacifica nella storia del paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone che hanno riempito le piazze della capitale. Dalla Grande Serbia, Belgrado è rimasta troppo piccola per poter ospitare cittadini provenienti da ogni parte del paese, per sostenere gli studenti e manifestare contro il presidente serbo, al potere da 12 anni e che da oltre quattro mesi, da quando sono iniziate le proteste studentesche, continua a ignorare la crisi politica. Una crisi che i media occidentali hanno definito la più grave dai tempi della caduta del governo di Slobodan Milošević nel 2000.

Gli organizzatori avevano promesso che sarebbe stato un raduno pacifico, concentrato davanti alla sede del parlamento. Molti cittadini si aspettavano che il governo di Vučić cadesse dopo le manifestazioni, mentre altri erano pronti a provocare scontri e violenze, finendo per favorire il presidente serbo. Coloro che sono realmente caduti a terra nelle strade non erano agitatori, ma manifestanti pacifici che sono stati colti di sorpresa da un suono assordante, descritto dai presenti come simile a un'esplosione o al rumore di un proiettile o di una caduta aerea, mentre stavano commemorando in silenzio per 15 minuti le vittime della stazione di Novi Sad. Nonostante i video diffusi sui social media mostrassero la folla disperdersi impaurita, un dettaglio che, secondo molti analisti militari, potrebbe suggerire l'uso di un presunto “cannone sonoro” a disposizione delle forze di sicurezza serbe, sia il presidente Aleksandar Vučić che il ministro degli Interni Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo e successore politico di Slobodan Milošević, hanno negato non solo l'impiego di tale arma, ma persino la sua esistenza, affermando che la polizia serba non ne sarebbe mai stata in possesso.

Una cosa assolutamente non vera, come ha dimostra l’immagine presentata il giorno dopo la manifestazione dai leader di opposizione e del partito “La Libertà e Giustizia”, Marinika Tepić, in cui si vede chiaramente un cannone sonoro, ovvero un dispositivo acustico a lungo raggio (LRAD) del marchio Vortex, il cui impiego è vietato dalla legge serba, parcheggiato dietro il Parlamento. Dopo la diffusione di quell'immagine, il ministro Dačić ha ammesso che lo Stato possiede un'arma di quel tipo, ma ha negato che sia stata utilizzata contro i manifestanti. Il presidente Vučić, invece, ha detto che se emergeranno prove che è stato utilizzato un cannone sonico, non sarà più il presidente.

Parole poco credibili, soprattutto perché, quello stesso giorno, Vučić ha annunciato l'intenzione di formare un nuovo governo entro il 15 aprile. Ha aggiunto che, nel caso non ci riuscisse, indirebbe nuove elezioni a giugno, escludendo però categoricamente la possibilità di un governo di transizione. Ha poi dichiarato che non lascerà il paese "in mano ai terroristi", come ha definito i leader dell’opposizione.

"Finché sono vivo, non accetterò nessun governo di transizione. Se vogliono sostituirmi, devono uccidermi", ha dichiarato Vučić al suo rientro da Bruxelles, dove il 19 marzo ha incontrato il segretario generale della NATO, Mark Rutte. Durante il colloquio, hanno discusso della situazione in Kosovo, ma anche delle tensioni in Bosnia ed Erzegovina, ma così alte dai tempi della guerra degli anni ’90. La situazione è precipitata dopo l’emissione del mandato di arresto per il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’intensificarsi delle manovre dei rappresentanti serbi per ottenere la secessione da Sarajevo, nella speranza di ricevere il sostegno non solo da Putin, ma anche da Trump.

Il sostegno al regime di Vučić non è più la garanzia per la stabilità regionale

Le proteste in Serbia, così come le tensioni in Bosnia ed Erzegovina, hanno inevitabilmente attirato l’attenzione della politica internazionale. Dopo mesi di silenzio sulla rivolta studentesca e cittadina, alcuni politici occidentali hanno finalmente preso posizione. Oltre a ribadire il loro sostegno all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, hanno commentato con cautela anche l’ondata di malcontento che sta attraversando le strade serbe.

Sembra ormai evidente che il sostegno alla "stabilocrazia" di Aleksandar Vučić non rappresenti una garanzia assoluta per la stabilità regionale. Di conseguenza, gli incontri diretti tra alcuni funzionari internazionali e il presidente serbo sono diventati sempre più frequenti.

Tuttavia, la commissaria europea per l'allargamento, Marta Kos, ha definito "costruttivo" l'incontro a Bruxelles con Vučić, spiegando che si è discusso di passi concreti nel percorso della Serbia verso l'UE e dell'attuazione del piano di crescita per i Balcani occidentali. Ha anche sottolineato “l'importanza della società civile e dei media indipendenti in questo processo", dimenticando, però, che in Serbia da quattro mesi la società civile è impegnata in manifestazioni contro il presidente serbo, mentre molti media pro-governativi, inclusa la radiotelevisione del servizio pubblico, svolgono un ruolo da portavoce del presidente stesso. Secondo un'indagine non-governativa CRTA, durante lo scorso anno, il presidente serbo ha partecipato 330 volte alle trasmissioni televisive.

Come spiega per Valigia Blu Dušan Janjić, del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, la situazione in Serbia è al limite e il comportamento delle autorità serbe contribuisce a questo processo, attirando l'attenzione anche della NATO, data l'importanza regionale del paese.

Per quanto riguarda la situazione tesa in Bosnia ed Erzegovina, Janjić ritiene che Vučić abbia ricevuto un avvertimento diplomatico, sottolineando che il tempo è scaduto e che non c'è più spazio per i cosiddetti "doppi giochi" di sostegno o mancato sostegno a figure come Milorad Dodik.

L’arresto di Dodik potrebbe essere il test per l’equilibrio istituzionale in Bosnia

La Bosnia ed Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine della guerra degli anni '90, con il crescente rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska e il governo centrale è esplosa dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, avvenuta il 27 febbraio scorso, accusato di minare l'ordine costituzionale. In risposta, le autorità della Republika Srpska hanno respinto la sentenza e ordinato il ritiro della polizia di Stato dal territorio a maggioranza serba, mentre il leader serbo-bosniaco ha detto “che la Bosnia non esisterà più”.

Questa escalation ha spinto la comunità internazionale a rafforzare le forze di peacekeeping, ma la situazione resta critica, soprattutto nella parte interna della Republika Srpska, dove lo stesso Dodik non ha più il sostegno dei cittadini. 

L'aspirazione di Dodik verso una maggiore autonomia, se non addirittura la secessione, è sempre stata forte, ma ora è più che mai pronunciata. Se le autorità dovessero tentare di arrestarlo, i rischi di violenza potrebbero diventare concreti, con gravi conseguenze per la stabilità non solo della Bosnia, ma dell'intera regione.

Chi può calmare le tensioni?

Nonostante, in questo momento, il presidente serbo Vučić stia affrontando una crisi politica grave, sicuramente proverà a spostare l'attenzione da quello che succede in Serbia, beneficiando dell’instabilità nella Bosnia-Erzegovina. Anche se dovesse formare un governo, il problema resterebbe che sempre meno membri della comunità internazionale si fidano di lui.

“Questo scetticismo persisterà finché non verrà avviata un'indagine internazionale sugli eventi del 15 marzo a Belgrado”, spiega ancora Janjić.

In sostanza, Bosnia e Serbia tornano al centro dello scenario internazionale, dove le alleanze geopolitiche giocano un ruolo fondamentale. Mentre Russia e Ungheria sostengono Dodik e Vučić, l'Unione Europea li condanna, ma solo ora, dopo un lungo periodo in cui ha agito da semplice osservatrice sulla situazione che perdura da mesi in Serbia.

Il ruolo cruciale potrebbe spettare agli Stati Uniti, in particolare sotto l'amministrazione Trump, che potrebbe essere decisiva nel fermare un conflitto potenzialmente in grado di oltrepassare i confini della regione. Tuttavia, la domanda resta, se il presidente americano rispetterà il diritto internazionale che tutela la sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina.

Immagine in anteprima: frame video Guardian

Perché ho firmato l’appello “No alla pulizia etnica”

Il 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.

Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Times pubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”). Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.

L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato

L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.

Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia. 

Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.

L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”. 

Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto.   C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore. 

L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili. 

Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.

Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi

Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.

Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.

Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.

Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).

La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi

L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”. 

Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.

Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.

In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.

Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.

Nato come parodia dell'annunciata Gaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.

È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretz che ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.

Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.

Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.

La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.

Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.

(Immagine in anteprima via Flick)

 

Il futuro incerto della Siria a cento giorni dalla caduta del regime di Assad

Sono passati i primi cento giorni dalla caduta del regime degli Assad. Un periodo relativamente breve se si confronta con la dittatura, durata oltre mezzo secolo, che ha visto il governo della Siria passare in eredità dal padre Hafiz al figlio Bashar. Cento giorni particolarmente densi di accadimenti. Si è passati dall’abbattimento delle statue e delle gigantografie di Hafez, Bashar, Maher e Basel al Assad all’affissione, su monumenti rimasti illesi dalle violenze, delle foto dei mafqudin, le persone scomparse forzatamente di cui non si hanno notizie, in alcuni casi, anche da oltre trent’anni. 

Come se per la prima volta dopo decenni di assenza, i siriani tornassero ad avere un volto, un volto sofferente, che chiede verità e giustizia. Le voci degli oppressi hanno preso il posto di quelle degli oppressori. I siriani sono tornati a parlare, a manifestare e organizzare sit in, abbattendo la censura imposta con la forza. Dal cosiddetto ordine intimato con la repressione e le violenze durante i cinquantaquattro anni di nizam, il regime, e i quattordici di guerra, la Siria è passata a una fase nuova, che potrebbe essere definita liquida. Il temuto caos non è esploso, non nella maniera prevista da molti, e il paese mediorientale non è diventato il nuovo Afghanistan, né la nuova Libia. 

La Siria è rimasta la Siria, un paese devastato da bombardamenti indiscriminati, dimezzato della sua popolazione, impoverito, attraversato da violenze, ma dignitoso, fiero, consapevole del suo valore e della sua storia. Proprio ai valori e alla storia fanno appello i siriani oggi, per attraversare tutte le sfide che si trovano davanti, come una persona che dopo una lunga fase di coma deve iniziare la riabilitazione psico-motoria. Vanno ricostruiti il dialogo e il confronto politico dopo decenni di monopartitismo, la coesione sociale dopo anni di retorica settaria, la fiducia gli uni negli altri, il sistema giuridico e quello economico. 

Da dove si comincia, considerando anche lo scenario di devastazione e isolamento e lo smantellamento del sistema paese? Come riprendere il cammino nella storia? È come se i siriani si trovassero ora a dover inventare l’alfabeto ed è per questo che è importante prendere ispirazione da altri Stati che hanno vissuto esperienze simili, come è importante avere il sostegno di istituzioni e organismi internazionali. Uno degli slogan dei shabiha, letteralmente fantasmi, nome con cui venivano definiti i paramilitari al soldo del regime, responsabili di crimini aberranti, era “Assad, o bruciamo il paese”. Oggi è vero che la Siria è un paese bruciato, ma è anche vero che Assad è scappato in Russia.

A chi è andato, dunque, l’onore e l’onere di guidare nell’immediato la Siria, prima che sia possibile indire elezioni libere e democratiche? La storia ci insegna che questo ruolo, almeno nel primo periodo, va al “vincitore”, a chi militarmente ha sconfitto il regime. Dal 29 gennaio 2025 la Siria ha un presidente ad interim, Ahmad al Shara e un governo di transizione che controlla le forze armate e guida il confronto politico con le cancellerie e gli organismi internazionali. Al Sharee, chiamato fino all’8 dicembre 2024 al Jolani, col suo nome di battaglia, era a capo dell’HTS, il gruppo armato che ha guidato l’offensiva che ha portato alla caduta del regime. 

L’HTS era considerato un gruppo terroristico dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, ma oggi i suoi ex membri vengono ricevuti in rappresentanza della Siria e in Siria accolgono le delegazioni dei paesi e delle organizzazioni che hanno subito avviato un dialogo con le nuove istituzioni damascene. Il 2 marzo è stata annunciata una commissione composta da sette membri, tra cui due donne, a cui è stato dato il compito di redigere una Costituzione transitoria che sarà in vigore per cinque anni e che è stata promulgata il 13 marzo 2025. Il documento prende la legge islamica come fonte principale, a differenza della Carta precedente, dove l’islam rappresentava una delle diverse fonti. Questo ha sollevato le preoccupazioni delle cosiddette minoranze e degli attivisti per i diritti umani, che chiedono tutela per i diritti delle donne e delle diverse comunità etniche e religiose. Al Shara ha promesso una Siria inclusiva e rispettosa delle libertà, ma le prove da affrontare per il suo neonato governo sono molte.

I fatti avvenuti tra il 6 e il 10 marzo 2025 ne sono una prova. Secondo il Syrian Network for Human Rights (SNHR), una delle fonti più affidabili sui fatti siriani, un gruppo di sostenitori del vecchio regime ha ucciso, nella notte del 6 marzo, oltre 170 uomini della Sicurezza nazionale nella città costiera di Latakya, una delle roccaforti del regime, dove si sono rifugiati migliaia di lealisti dopo l’8 dicembre. Immediata è scattata la reazione delle Forze di sicurezza, che hanno raggiunto la zona dell’attacco da diverse città siriane, dando vita a una vera e propria punizione collettiva, provocando così la morte violenta di oltre 700 civili, compresi 39 bambini e 49 donne della comunità alawita, a cui appartengono la famiglia Assad e molti lealisti tra Latakya, Tartus, Hama e Homs. 

Secondo la stessa fonte, oltre alle forze che rispondono al nuovo ministero della Difesa siriano sarebbero intervenuti miliziani stranieri appartenenti ai diversi gruppi armati integralisti che ancora si trovano in Siria. La retorica settaria e i discorsi di odio che sono esplosi anche sui social dopo l’attacco alle Forze di sicurezza erano, purtroppo, prevedibili. Molti uomini alawiti sono responsabili dei crimini del regime, ma gli alawiti sono una comunità composta soprattutto da civili, una comunità eterogenea e non sono mai mancate voci di oppositori, come quella dell’attrice May Scaff, costretta all’esilio per il suo attivismo e diventata uno dei simboli della rivoluzione siriana. 

La mancanza di giustizia, che ha lasciato impuniti per mezzo secolo i lealisti responsabili di violenze e torture, si ripresenta oggi come uno dei problemi principali della Siria. Al Shara ha annunciato l’istituzione di una commissione indipendente per far luce sui fatti del 6-10 marzo, assicurando che verranno perseguiti i colpevoli di crimini contro i civili. 

Tra gli attivisti che si sono distinti nelle denunce contro il regime siriano, in molti hanno condannato il massacro degli Alawiti e i discorsi di odio, pubblicando sui propri profili le foto delle vittime e in particolare le foto delle madri in lacrime, sia quelle arabe, sia quelle alawite, affermando che quelle donne sono madri che stanno dalla stessa parte e non su fronti opposti. In tanti hanno condiviso i messaggi dell’attivista alawita anti-regime Hanadi Zahlout, una donna che nella strage ha perso numerosi familiari, ma che non ha mai smesso di lanciare appelli all’unità di tutti i siriani.

Proprio il 10 marzo il presidente ad interim Al Sharaa ha firmato uno storico accordo con Mazlum Abdi, il comandante curdo delle Syrian Democratin Forces, (SDF), un gruppo militare misto arabo-curdo, per l’inclusione di quest’ultimo nelle istituzioni statuarie siriane. Secondo le disposizioni dell'accordo, “la comunità curda è parte integrante dello stato siriano e lo stato garantisce il suo diritto alla cittadinanza e ai diritti costituzionali”. Un’iniziativa particolarmente importante, che apre a nuovi scenari e tenta di prevenire ulteriori fronti di tensione. L’area del nord-ovest del paese, dove vive la maggior parte dei Curdi e dove sono di istanza truppe statunitensi è considerata particolarmente sensibile. Il 16 marzo, nell’ultimo bombardamento turco sul villaggio di Barkh Butan, vicino alla città curdo-siriana di Kobane, sono rimaste uccise nove persone, di cui sette bambini. Tensioni si registrano anche alla frontiera tra Libano e Siria, con scontri che hanno provocato la morte di almeno sette cittadini libanesi, fino al raggiungimento di una tregua, siglata il 17 marzo.

Oltre ai numerosi problemi di sicurezza interni, la Siria deve affrontare diverse minacce esterne, in particolare quelle israeliane. Israele ha avviato una campagna di terra e una serie di bombardamenti nel sud della Siria, occupando militarmente il monte Hermon e altre zone del sud del paese, circa 450 chilometri quadrati di terra, arrivando a 40 chilometri dalla capitale. Nell’ultimo bombardamento su Daraa, la città dove ha avuto inizio la rivoluzione siriana, sono rimaste uccise almeno 19 persone, tra cui quattro bambini. Durante i funerali delle vittime alcuni manifestanti hanno mostrato cartelli con la scritta “Netanyahu e Assad, due facce della stessa medaglia”. Israele ha anche offerto una “protezione” non richiesta alla comunità drusa che abita principalmente nelle città frontaliere di Sweida e nelle zone limitrofe. I rappresentanti della comunità hanno dichiarato di non accettare. Al tempo stesso il capo spirituale della comunità drusa, Himkat al Hijri ha annunciato in un video di non voler fare accordi con quello che ha definito il governo radicale ad interim.

Nonostante le numerose minacce che attraversano la Siria, il ritorno in patria dei primi 300mila Siriani su un totale di 13 milioni di persone che non vivono più nelle loro case, tra sfollati interni e profughi, rappresenta un segnale positivo. Molti purtroppo, come la nuotatrice olimpica Yusra Mardini, trovano solo macerie e povertà al loro arrivo. Secondo l’Onu il 90% della popolazione vive ormai sotto la soglia della povertà e sono indispensabili gli aiuti umanitari. Il 24 febbraio scorso l’Unione Europea ha deciso di “sospendere le misure restrittive in alcuni settori economici chiave come energia e dei trasporti, oltre che ad agevolare le operazioni finanziarie e bancarie connesse a detti settori e quelle necessarie a fini umanitari e di ricostruzione.” Nel corso della Conferenza di Bruxelles i paesi donatori hanno stanziato 5,8 milioni di euro per la Siria tra donazioni e prestiti.

Tra i paesi che hanno subito attivato i canali diplomatici con il nuovo governo siriano c’è anche l’Italia. Il 10 marzo il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha incontrato a Damasco il suo omologo Asaad al Shibani e il presidente al Sharaa. Già lo scorso dicembre nell’ambasciata italiana a Damasco, riaperta a luglio 2024 per promuovere la normalizzazione con Assad, veniva issata la bandiera dell’indipendenza siriana, come a riconoscere le nuove autorità del paese mediorientale. In cinque mesi si è passati da una bandiera all’altra nella sede diplomatica. L’Italia sembra aver accolto il cambiamento epocale avvenuto in Siria e continua a proporsi come partner e interlocutore privilegiato. Miracoli della politica, che in questo momento però fanno bene alla Siria e ai siriani, che per arrivare a quel cambio di bandiera hanno attraversato un incubo durato mezzo secolo e subito una guerra di cui nessuno conosce il numero delle vittime. Tra le eredità lasciate dal nizam, infatti, ci sono immense fosse comuni in tutta la Siria. Anche qui bisognerà imparare dalle esperienze simili di altri paesi, oppure inventare un nuovo alfabeto e una nuova semantica della storia.

(Immagine in anteprima: frame via YouTube)

 

Cosa vogliono Putin e Trump

Durante il tardo pomeriggio di martedì 18 marzo a Mosca, mentre Vladimir Putin era impegnato in una lunga conversazione telefonica con Donald Trump, sono state rimosse le lettere Z, V, O – simboli dell’invasione russa dell’Ucraina – piazzate da più di un anno e mezzo davanti all’ambasciata degli Stati Uniti. Una notizia simbolica, che immediatamente ha visto reazioni ironiche da un lato e di sdegno dall’altro, ma durata poco: nel corso della serata le lettere son tornate al proprio posto – ufficialmente erano state rimosse per esser ripulite - a ricordare più ai moscoviti che ai dipendenti (pochi, dopo le espulsioni reciproche) della rappresentanza diplomatica americana di come il Cremlino continui a essere sulle proprie posizioni.

Può sembrare un’esagerazione, ma ieri dalle 15:30 per circa due ore agenzie di stampa, corrispondenti, diplomatici, analisti e anche comuni cittadini in varie parti del mondo hanno atteso gli esiti del vertice telefonico, forse aspettandosi un passo in avanti verso l’apertura di trattative di pace o, in seconda battuta, verso la proposta di tregua di 30 giorni avanzata nell’incontro tra le delegazioni statunitense e ucraina a Gedda; l’esito del colloquio è stato però ben diverso, e anche nel leggere il comunicato del Cremlino, pubblicato dal sito ufficiale della presidenza russa, e le dichiarazioni alla stampa da parte americana, colpisce come, al di là dell’ottimismo e del trionfalismo (quest’ultimo tra i marchi di fabbrica di Trump), vi sia abbastanza poco per quanto riguarda la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina.

A essere dominante, leggendo le parole scelte nel comunicare (parzialmente) i contenuti della telefonata, è l’impressione che da parte russa non vi sia alcuna fretta nel sedersi al tavolo dei negoziati, e si prenda tempo, una sensazione rafforzata dalla lettura di alcuni passaggi del comunicato, a partire dal secondo paragrafo:

Ribadendo il principio della risoluzione pacifica del conflitto, il presidente russo si è dichiarato disponibile a un'analisi approfondita con i partner americani delle possibili vie di soluzione, che dovrebbero essere globali, sostenibili e a lungo termine. Ha sottolineato, inoltre, la necessità imprescindibile di affrontare le cause profonde della crisi e di garantire il rispetto degli interessi legittimi della Russia in materia di sicurezza.

Misure come l’analisi approfondita richiedono il lavoro di decine di funzionari, consiglieri, diplomatici e esperti, e in termini di durata vanno ben oltre la volontà, espressa chiaramente, della Casa Bianca di voler procedere quanto più in fretta possibile a una soluzione negoziale, ma per Vladimir Putin non vi è alcuna necessità di velocizzare il processo, anzi: sempre nel comunicato si annuncia la costituzione di commissioni bilaterali per l’elaborazione di proposte per proseguire negli sforzi di risoluzione, una misura che di per sé richiede dei tempi tecnici la cui durata appare difficile da pronosticare.

La dilazione, tattica scelta dal Cremlino, non è però mai netta, come anche il rifiuto sostanziale di un accordo con l’Ucraina, almeno in questo momento: dopo aver denunciato ancora una volta “l’inaffidabilità” del governo di Kyiv, ulteriore rimando alla volontà di rimuovere Volodymyr Zelensky, si accetta una proposta di sospensione per 30 giorni degli attacchi alle infrastrutture energetiche – centrali elettriche, raffinerie, gasdotti e così via – come primo passo, assieme a uno scambio di 175 prigionieri di guerra per 175, verso future prove tecniche di trattativa, che appaiono però sempre distanti all’orizzonte. Nel comunicato del Cremlino leggiamo, in un breve paragrafo, che “condizione chiave” è “la cessazione totale degli aiuti militari stranieri e del supporto di intelligence” a Kyiv, un passaggio poi smentito indirettamente da Donald Trump, il quale in un’intervista a Fox News poco dopo la telefonata ha sostenuto di non aver discusso del riarmo ucraino. 

Vladimir Putin ritiene di essere in vantaggio nel condurre la complessa partita con Donald Trump sugli equilibri globali, di cui l’Ucraina è una parte importante per la Russia ma appare (almeno adesso) esserlo molto meno per gli Stati Uniti, un elemento che appare presente indirettamente anche nel post su X della portavoce del presidente americano Karoline Leavitt, dove, a differenza del comunicato di Mosca, vi è un passaggio sulla sicurezza in Medio Oriente e sull’impegno dei due leader nell’evitare la “distruzione di Israele” da parte dell’Iran, parole che vengono dopo l’attacco statunitense alle basi degli Houthi in Yemen. Teheran, vicinissima alla Russia negli ultimi tre anni di guerra, attiva nei rifornimenti di missili e droni, potrebbe essere una pedina sacrificabile per Putin in cambio dell’Ucraina.

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Gli obiettivi del regime russo restano sempre gli stessi enunciati in queste settimane, e presenti sia nel comunicato che nell’intervento del presidente al congresso annuale dell’Unione degli industriali e degli imprenditori russi, avvenuto nella mattinata del 18 marzo: dopo aver ricordato ai presenti che vi sono 28.595 sanzioni nei confronti delle aziende e di esponenti russi e di dover per questo puntare allo sviluppo dell’economia nazionale solo sulle proprie forze, nel corso di una sessione chiusa al pubblico e rivolta a riferire di quali passi siano stati fatti nel corso dei contatti con gli americani, Putin e il suo consigliere economico Maksim Oreshkin avrebbero chiarito come per Mosca la situazione al fronte sia positiva, le truppe ucraina non riescono a “trincerarsi”, per cui  le condizioni avanzate restano quelle dichiarate, per far in modo come, secondo quanto riferito da alcune fonti al giornalista Andrei Kolesnikov:

Quanto ottenuto non possa esser tolto (alla Russia) e che si debbano riconoscere come parte della Russia la Crimea, Sebastopoli e i quattro territori già noti: le repubbliche di Luhansk e Donetsk, nonché le regioni di Kherson e Zaporizhya.
Se ciò dovesse accadere nel prossimo futuro, la Russia - mi hanno detto i partecipanti all’incontro - non rivendicherebbe Odessa né altri territori attualmente appartenenti all’Ucraina.
Tuttavia, anche questa posizione potrebbe cambiare, perché "non fanno in tempo a trincerarsi". (si riferiscono agli ucraini — GS)

Mosca ritiene, in questo momento, di poter ottenere – con la forza o con i negoziati, ma preferisce in questo momento la prima – i suoi obiettivi per poter dichiarare “vittoriosa” l’operazione speciale militare, e difficilmente Vladimir Putin cederà, perché si considera vicino alla meta; poco importa quali prezzi vi siano da pagare.

Nel corso della notte tra il 18 e il 19 marzo 57 droni ucraini, secondo il Ministero russo della Difesa, sarebbero stati abbattuti sui cieli delle regioni russe di Kursk, Orel, Tula, Bryansk e sul Mar d’Azov, mentre per il dicastero di Kyiv la Russia avrebbe attaccato con due missili Iskander, quattro C-300, e 145 droni, di cui 72 colpiti e 56 dispersi. Una raffineria nei pressi del villaggio di Kavkazskaya, nella regione di Krasnodar, è stata colpita dai droni ucraini, nella stessa notte a Kyiv per 6 ore c’è stata l’allerta aerea; la tregua e la pace, dai cieli di queste parti d’Europa, appaiono lontane, parole dette al telefono mentre il mondo attende, tra distruzioni e rovine.

Immagine in anteprima: frame video TG2000 via YouTube

Netanyahu spinge per un conflitto senza fine a Gaza

Israele ha ripreso gli attacchi su larga scala a Gaza con un'ondata di bombardamenti aerei e colpi di artiglieria su tutto il territorio già devastato. Secondo le autorità palestinesi, ci sono stati più di 400 morti e centinaia di feriti. Tra le vittime ci sarebbero alcuni alti funzionari di Hamas e molti civili, tra cui donne e bambini. Altre 58 persone sono state uccise in due attacchi successivi tra il 19 e il 20 marzo. Gli ospedali e le squadre di protezione civile dicono affermato di essere sopraffatti.

Israele ha anche emesso ordini di evacuazione per alcune parti della parte settentrionale e centrale di Gaza, facendo pensare anche a un attacco di terra. Centinaia, forse migliaia, di palestinesi nel territorio che solo di recente sono tornati alle loro case, spesso in rovina, sono di nuovo in movimento.

Erano settimane che il governo israeliano minacciava di lanciare un'offensiva. Le autorità israeliane hanno giustificato l’attacco dicendo che era loro obiettivo colpire la leadership di Hamas che secondo loro stava riprendendo il controllo di Gaza. Secondo loro, quest’azione favorirà il rilascio di altri ostaggi. Una supposizione contestata da molte famiglie di ostaggi israeliani. 

Più concretamente, ricostruisce un articolo del Guardian, Israele ha potuto attaccare perché dopo settimane di tregua ha reintegrato scorte, munizioni e armamenti, in parte grazie alle forniture statunitensi. Gli aerei e altre attrezzature sono stati riparati. Le truppe si sono riposate.

Perché l’attacco è avvenuto proprio adesso? Secondo l’opinione di alcuni esperti, ci sono almeno tre motivazioni: la prima è che Netanyahu non ha mai avuto alcuna intenzione di passare alla seconda fase del cessate il fuoco, che avrebbe significato il ritiro delle forze israeliane da Gaza, lasciando di fatto Hamas come governatore de facto; poi, c’è il pieno sostegno dell'amministrazione Trump per rinnovare gli attacchi contro Hamas; infine, ci sono i fattori politici interni, considerato che Netanyahu aveva bisogno del sostegno degli alleati di destra per mantenere la sua leadership e questi alleati si erano fortemente opposti a una fine permanente delle ostilità a Gaza.

“Il governo israeliano non ha mai nascosto il suo desiderio di ricominciare la guerra”, scrive Dahlia Scheindlin su Haaretz. “Per mesi è stato chiaro che questo governo avrebbe alla fine chiesto agli israeliani di tornare a combattere, attraverso una vera e propria ripresa della guerra, per attuare i suoi piani di sgombero di Gaza o per eseguire l'occupazione di Gaza”, nonostante un sondaggio di fine febbraio da parte dell’Israel Democracy Institute aveva rilevato che quasi il 75% degli intervistati era a favore dell’avvio della seconda fase del cessate il fuoco concordato a gennaio, e solo un quarto (24%) era a favore di un ritorno a intensi combattimenti. “Netanyahu vuole una guerra infinita a Gaza che la maggior parte degli israeliani non vuole più combattere”, conclude Scheindlin.

Nei giorni scorsi un rapporto della Commissione d'inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est, presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha descritto in dettaglio la violenza sessuale e riproduttiva di Israele: come l'uccisione di donne incinte, lo stupro di detenuti maschi con oggetti che vanno dalle verdure ai manici di scopa, la distruzione di una clinica di fecondazione in vitro con i suoi 4.000 embrioni. La guerra alla capacità dei palestinesi di riprodursi è stata definita “atto di genocidio”.

Il rapporto descrive in dettaglio gli attacchi ai reparti di maternità e ad altre strutture sanitarie per le donne, la distruzione di una clinica di fecondazione in vitro e i controlli sull'ingresso di cibo e forniture mediche a Gaza. Queste azioni sono state equiparate a “due categorie di atti di genocidio nello statuto di Roma e nella convenzione sul genocidio, tra cui l'imposizione deliberata di condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica dei palestinesi e l'imposizione di misure volte a prevenire le nascite”, ha dichiarato il Consiglio per i diritti umani in un comunicato stampa sul rapporto.

Inoltre, secondo quanto riportato dal rapporto, le forze di sicurezza israeliane hanno costretto i palestinesi a spogliarsi forzatamente e a subire molestie comprese le minacce di stupro e le aggressioni sessuali. Il “modello di violenza sessuale” utilizzato dalle forze israeliane, compresi i casi di stupro e di tortura sessuale, costituisce un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità, ha rilevato la commissione che ha aggiunto: “La frequenza, la prevalenza e la gravità dei crimini sessuali e di genere perpetrati in tutto il Territorio Palestinese Occupato portano la commissione a concludere che la violenza sessuale e di genere è sempre più utilizzata come metodo di guerra da Israele per destabilizzare, dominare, opprimere e distruggere il popolo palestinese”.

E ora?

Questo attacco sembra aver compromesso ogni possibilità di fine delle ostilità iniziate a ottobre 2023. La nuova offensiva è arrivata 16 giorni dopo la fine delle prima delle tre fasi del cessate il fuoco concordato a gennaio. Le tre fasi avrebbero dovuto portare alla fine definitiva della guerra, al ritiro totale di Israele da Gaza e alla liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora tenuti prigionieri da Hamas dal suo attacco a sorpresa del 7 ottobre 2023 in Israele in cui sono state uccise 1.200 persone. L'offensiva israeliana, seguita a quell’attacco, ha ucciso più di 48.700 persone.

Hamas sostiene che Israele abbia rotto l'accordo non mantenendo l'impegno preso in precedenza di passare alla seconda fase. Israele ha invece proposto di prolungare la prima fase di 30-60 giorni, per consentire il rilascio di altri ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi. Hamas ha respinto la proposta. Il governo israeliano sostiene che Hamas abbia rotto il cessate il fuoco rifiutando il rilascio di nuovi ostaggi.

La triste realtà è che la fragile pausa di due mesi delle ostilità è ormai finita. Sembra molto improbabile che si possa raggiungere presto un accordo che ponga fine ai nuovi attacchi israeliani. Anzi, i funzionari israeliani hanno affermato che si tratta solo dell’inizio di un'offensiva potenzialmente molto più ampia che continuerà fino a quando Hamas non rilascerà i 59 ostaggi israeliani ancora trattenuti a Gaza, di cui si presume che più della metà siano morti. Ciò comporterebbe inevitabilmente un numero considerevole di vittime civili, ulteriori sfollamenti di massa e ancora più distruzione.

La crisi umanitaria a Gaza è stata solo in parte alleviata da un massiccio afflusso di aiuti durante il cessate il fuoco. Due settimane fa, Israele ha imposto un blocco totale sul territorio, sostenendo che Hamas stava sfruttando gli aiuti a proprio vantaggio e aveva violato l'accordo. Circostanza negata da Hamas. Secondo i funzionari umanitari, le agenzie umanitarie e i negozi a Gaza hanno attualmente scorte di generi di prima necessità che dureranno circa tre settimane, ma la nuova violenza renderà la distribuzione molto più difficile.

Se tutti coloro che tacciono sulla distruzione di Gaza parlassero

Nessun crimine è stato documentato come quelli commessi dagli israeliani a Gaza, scrive Owen Jones in un editoriale sul Guardian. Eppure in pochi stanno chiamando questo crimine così evidente per quello che è. Le generazioni future potrebbero chiedersi: “Come è stato possibile che un crimine così osceno sia stato facilitato per così tanto tempo?”

Lo hanno documentato gli esperti. Rapporto dopo rapporto, sappiamo che Israele ha distrutto infrastrutture civili: case, ospedali, scuole, università, moschee, chiese; ha distrutto l'83% di tutta la vita vegetale, oltre l'80% dei terreni agricoli, il 95% del bestiame, oltre l'80% delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Israele ha deliberatamente e sistematicamente reso Gaza inabitabile.

Grazie ai telefoni cellulari e a Internet, nessun crimine nella storia è stato documentato così bene dalle sue vittime mentre accadeva. Come hanno fatto per 529 giorni, i sopravvissuti di Gaza pubblicano le prove del loro sterminio sui social media, sperando, invano, che si risveglino abbastanza coscienze da porre fine al caos genocida. Un bambino morto in una tutina arcobaleno; un padre in lutto che gioca con la treccia di sua figlia per l'ultima volta; intere famiglie coperte di sudari, le loro linee di sangue cancellate dal registro civile.

E nessun crimine è stato confessato dai suoi autori come questo. Israele ha annunciato un blocco totale di tutti gli aiuti umanitari in arrivo a Gaza 17 giorni fa, una violazione incontrovertibile del diritto internazionale.

Da Amnesty International a studiosi come Omer Bartov, il professore israelo-americano di fama mondiale di studi sull'Olocausto e il genocidio, c'è un consenso tra gli specialisti del settore sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio. Nessuno nella politica occidentale o nei circoli mediatici può dire: “Non sapevo cosa stesse realmente accadendo”.

In un mondo razionale, i sostenitori di questo abominio sarebbero considerati mostri che non hanno posto nella vita pubblica. "Dopotutto, non si può giustificare il genocidio ruandese e aspettarsi qualcosa di diverso dall'essere considerati dei paria. Ma sono stati proprio coloro che si sono opposti alla depravazione di Israele a essere stati messi a tacere, censurati, licenziati, arrestati e, nel caso del laureato della Columbia Mahmoud Khalil, detenuti e potenzialmente deportati", scrive ancora Owen Jones.

"Capovolgendo tutto, l'attacco più sfacciato e sistematico alla libertà di parola in occidente dai tempi del maccartismo ha raggiunto il suo obiettivo principale: un silenzio diffuso su un crimine di proporzioni storiche tra coloro che hanno potere e influenza. Ci sono politici che hanno chiamato inequivocabilmente questo crimine per quello che è, ma sono emarginati e puniti".

Se tutti coloro che sono a conoscenza di quello che sta accadendo a Gaza si facessero sentire "i ministri si dimetterebbero dai governi, i giornali e i notiziari non solo darebbero risalto alle atrocità commesse da Israele, ma le definirebbero correttamente come crimini efferati, sottolineando con insistenza che bisogna fare qualcosa di drastico per fermarli. Le richieste di un embargo sulle armi e di sanzioni contro Israele diventerebbero impossibili da ignorare", osserva ancora Own Jones.

"Porre fine al silenzio non significa piangersi addosso e dire banalità su quanto si sia tristi per la morte dei civili: significa chiamare un crimine per quello che è e chiedere che chi lo ha facilitato ne risponda". 

Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube

L’America di Trump è ormai nel pieno di una crisi costituzionale e democratica

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Questo è il testo completo del Primo emendamento alla Costituzione statunitense, sempre più ignorato dall’amministrazione in carica. Gli attacchi alla stampa, agli immigrati, compresi quelli con regolare visto, alla precedente amministrazione, al potere giudiziario, assumono nuove forme, violano sempre più dettami e si giustificano con le leggi più controverse mai approvate dal Congresso, quasi tutte varate in tempo di guerra e non pensate per essere applicate in situazioni pacifiche. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente ha affermato di voler restaurare la libertà di parola in America, a suo dire distrutta dalle battaglie cosiddette “woke”. La realtà è che i diritti fondamentali sono in crisi e in molti casi, soprattutto nelle categorie svantaggiate, la libertà di parola è garantita soltanto se si è favorevoli alle politiche dell’amministrazione.

La battaglia contro la stampa, di cui abbiamo approfonditamente tenuto conto nei mesi precedenti, è proseguita con lo svuotamento di una nuova agenzia federale: la US Agency for Global Media, che controlla l’emittente radiofonica Voice of America (VoA), nata durante la Seconda guerra mondiale per controbilanciare la propaganda nazista. In virtù di questo riuscito esperimento, a VoA sono state incorporate nel tempo altre radio che hanno portato il pensiero americano in paesi piegati dalle dittature: tra queste, Radio Free Europe, fondata durante la Guerra Fredda e rivolta ai paesi del blocco sovietico, e Radio Free Asia, nata nel 1996 per fornire reportage accurati dove fino a quel momento arrivava principalmente la propaganda del regime comunista cinese. Un’operazione di soft power, che garantiva a cittadini di regimi dittatoriali la qualità editoriale del giornalismo americano e generava in chi riusciva a riceverne le trasmissioni un sentimento positivo nei confronti degli Stati Uniti. Non è un caso che la chiusura di queste emittenti, dovuta alla negazione di fondi da parte dell’amministrazione, abbia generato il plauso del governo cinese: il Global Times, giornale in inglese espressione delle posizioni della leadership di Pechino, ha parlato di Radio Free Asia come di una “fabbrica di bugie”.

Il motivo per cui Trump ha cancellato qualsiasi tipo di sovvenzione a questa agenzia federale, definita “la più corrotta degli Stati Uniti”, è il fatto che ritiene faccia propaganda di sinistra radicale: nei fatti, pur essendo pubblica, non è un’emittente allineata al pensiero della Casa Bianca. I giornalisti assunti sono stati tutti mandati in aspettativa fino a nuovo ordine e i collaboratori prontamente licenziati. Come per altri enti statali, Trump non ha il potere di chiuderli, che rimane in capo al Congresso, ma può cancellare tutti i fondi, costringendoli di fatto al silenzio.

Nel frattempo, è proseguito l’attacco diretto ai media indipendenti. Durante un discorso effettuato al Dipartimento di Giustizia, che ha fatto discutere anche perché nuovamente Trump si è scagliato contro i procuratori che lo avevano indagato nei vari procedimenti a suo carico, il presidente USA ha affermato che prodotti informativi come Washington Post, Wall Street Journal o MSNBC (da lui sprezzantemente chiamata MSDNC, per evidenziare una vicinanza tra la rete e le figure apicali del Partito democratico) sarebbero corrotti e pubblicherebbero notizie false per il 97,6 per cento; ha addirittura paventato che dovrebbero essere resi illegali. Sull’Atlantic Andras Petho, giornalista indipendente ungherese, ha apertamente parlato di come queste pressioni gli ricordino quelle di Orban sulla stampa libera, mentre nel frattempo creava una sua rete informativa di stretta aderenza governativa. Trump, quindi, non si affida al mondo del giornalismo per far risuonare il suo messaggio, ma sta creando una vera e propria informazione parallela che si alimenta sui feed dei social media. I giornalisti tradizionali non godono più di rilevanza nell’amministrazione e ricevono marginalmente notizie dirette: Steve Bannon, uno dei principali esponenti dell’alt-right, ha asserito che è la Casa Bianca stessa a dover diventare un produttore di contenuti, distribuendoli direttamente e contrastando quindi il presunto strapotere dell’apparato mediatico.

Non solo la stampa, anche entità private sono state attaccate. Trump ha deciso per l’eliminazione di tutti  i contratti in essere con lo studio legale Perkins Coie, accusato di aver cercato di modificare i risultati elettorali e di aver promosso politiche di diversità e inclusione. La colpa dello studio è aver rappresentato Hillary Clinton nel 2016 e aver prodotto il dossier che stabiliva un legame diretto tra la campagna Trump e la Russia. Una dinamica di vendetta che non può aver posto nello Stato di diritto: Vox ha infatti ricordato che durante la presidenza Bush un ufficiale del Pentagono aveva proposto punizioni simili per le entità legali che sceglievano di difendere i prigionieri di Guantanamo. Dopo un mese da questa esternazione, l’ufficiale venne licenziato.

La crisi delle libertà costituzionalmente garantite ha toccato, quindi, anche la libertà di pensiero in senso più ampio. Negli scorsi giorni si è dibattuto molto sul caso di Mahmoud Khalil, nato in Siria ma di origini palestinesi, che è stato uno dei volti delle proteste all’Università Columbia contro le politiche del primo ministro israeliano Netanyahu nella Striscia di Gaza. Khalil, durante la protesta delle tende, quando molti studenti occuparono l’università chiedendo di disinvestire dai progetti di ricerca congiunti con le università israeliane, è diventato uno dei volti dell’occupazione per i media; non tanto perché avesse un ruolo apicale nell’organizzazione, quanto perché non si copriva il volto. L’otto marzo il ragazzo è stato prelevato dalle autorità e portato in un centro di detenzione in Louisiana, da cui l’amministrazione vorrebbe procedere al rimpatrio immediato; un giudice ha però deciso che servirà un’udienza in New Jersey, come richiesto dalla difesa. Khalil è accusato – senza prove valide – di avere idee politiche vicine a quelle di Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, e di aver svolto attività a essa allineate: nonostante questo, non gli è stato fornito alcun capo d’accusa formale. Per di più, non si trova negli Stati Uniti con un semplice visto studentesco, ma con una green card, il certificato che permette a uno straniero di risiedere e lavorare nel paese per un periodo illimitato.

Per poterlo deportare annullando il suo permesso di residenza, la Casa Bianca ha deciso di utilizzare una legge che risale al periodo maccartista, il McCarran-Walter Act, che dà potere al Segretario di Stato di espellere rapidamente cittadini stranieri definiti minaccia per gli interessi americani; l’obiettivo con cui il provvedimento era nato consisteva nella deportazione immediata di chiunque si presumesse essere comunista e si inseriva in un nucleo di politiche lesive delle libertà personali. Attraverso questa legge, a cui il presidente Truman era contrario ma non potè nulla contro un Congresso compatto, vennero negati passaporti per l’estero a persone di alto valore sociale, come il leader afroamericano W.E.B Du Bois e il drammaturgo premio Pulitzer Arthur Miller. Una legge che non si usava da decenni, utilizzata per cercare di deportare un regolare residente per via di idee politiche opposte, senza nemmeno passare da un’udienza formale di fronte a un giudice: dovesse riuscire nell’intento, cosa che a oggi sembra difficile per come si è messo il caso, sarebbe un precedente importante nel modo di reprimere il dissenso.

Un caso analogo è quello di Rasha Alawieh, in possesso di un regolare visto di lavoro come professoressa alla Brown University, che è stata deportata in Libano perché ha partecipato al funerale del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e possedeva sue foto sul cellulare. Il punto focale in questo caso è il fatto che la donna è stata rimandata indietro, e il suo visto annullato, nonostante l’ordine di un giudice, che aveva fissato un’udienza per decidere se fosse o meno passibile di subire la deportazione. Una storia che denota un ampio solco tra le scelte dei giudici e la volontà dell’amministrazione di muoversi in aperta opposizione alle decisioni dei magistrati.

Dove questa spaccatura si è evidenziata di più è in un altro caso riguardante cittadini immigrati, probabilmente il più eclatante. Settimana scorsa Trump ha deportato 238 persone nel carcere di massima sicurezza di El Salvador, luogo in cui molteplici associazioni hanno evidenziato continue violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto grazie a un accordo con il presidente autoritario salvadoregno Bukele, che se ne è preso carico in cambio di sei milioni di dollari. Il presidente ha asserito che i deportati appartenevano a Tren de Aragua, un’organizzazione criminale venezuelana, definita terroristica dagli Stati Uniti subito dopo l’inizio della presidenza Trump, nata dieci anni fa nella prigione di Aragua, da cui porta il nome. Già il fatto che tutti appartengano a Tren de Aragua è un’affermazione contestata dagli avvocati: molte di queste persone non hanno casi criminali pendenti nelle corti americane, e sarebbero stati identificati come membri del clan solo per via di alcuni tatuaggi. Per di più, Trump ha potuto mandare a El Salvador i detenuti in virtù di una delle leggi più controverse della storia statunitense, l’Alien Enemies Act. Scritto nel 1798, permette di deportare immediatamente i cittadini di un Paese con cui gli Stati Uniti si trovano in guerra per motivi di sicurezza nazionale. È stato usato solo tre volte, l’ultima delle quali per giustificare la detenzione dei cittadini nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale, e nessuno aveva mai provato a farne uso in tempo di pace. Per attivarlo, Trump ha dichiarato di “essere in guerra con i criminali stranieri, e con i paesi che svuotano negli Stati Uniti le loro galere”. Una guerra non contro un nemico identificabile e votata dal Congresso, ma contro i migranti, che giustificherebbe misure di questo calibro.

Il giudice James Boasberg ha subito bloccato, in attesa di un’udienza, le deportazioni, che però sono avvenute lo stesso. La Casa Bianca ha ignorato la richiesta formulata oralmente dal giudice, e quando è arrivata quella scritta due dei tre aerei partiti per El Salvador avevano già oltrepassato lo spazio aereo americano; in una vera e propria prova di forza tutti e tre i velivoli hanno raggiunto lo Stato centroamericano, e Bukele se ne è bullato scrivendo su X “Oops… troppo tardi”. Per di più, oltre a non aver rispettato un ordine giudiziario, Trump ha scritto sul suo social network, Truth, che Boasberg avrebbe dovuto subire un impeachment. Per via di questo post, il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, ha difeso il suo collega, evidenziando come “non si può usare lo strumento dell’impeachment per controbattere a una discordia riguardo una decisione giudiziaria”.La mossa di Roberts arriva al termine di giorni complessi, in cui Trump ha attaccato il potere giudiziario su vari fronti: in un discorso tenuto nella sede del Dipartimento di Giustizia, ha parlato di un sistema corrotto e ha citato nomi e cognomi dei procuratori che hanno lavorato ad accuse contro di lui negli anni precedenti e ha parlato di rendere illegali le grazie firmate dall’ex-presidente Biden a favore dei suoi avversari politici, semplicemente perché firmate con un dispositivo automatico. Nonostante questo, durante un’intervista a Fox News ha cercato di abbassare i toni, asserendo di voler rispettare gli ordini dei giudici, nonostante quest’affermazione vada contro ogni mossa fatta negli ultimi dieci giorni. Va notato, però, che i media del conservatorismo classico, quelli di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, hanno attaccato le mosse di Trump e hanno richiesto di rispettare gli ordini giudiziari e di attendere le udienze prima di dare il via alle deportazioni. Se questa tardiva presa di coscienza del mondo conservatore basterà a riportare sui binari della costituzionalità le mosse del presidente è presto per dirlo: la realtà, però, è che la crisi costituzionale paventata da quasi due mesi è ormai davanti agli occhi di tutti. Nel frattempo, Trump ha completamente abbandonato qualsiasi pretesa di appartenere a una visione conservatrice tradizionale: le mosse di questi mesi lo pongono sempre più apertamente a capo di un movimento di destra radicale, che vuole riconsiderare le libertà costituzionali ed espandere il proprio credo negli altri paesi.

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