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Genere e femminismi

Donne in rete contro la violenza

Riceviamo e pubblichiamo da ‘Donne in rete contro la violenza’, Rete nazionale antiviolenza e che si compone di 89 organizzazioni dislocate sul territorio nazionale, che gestiscono Centri antiviolenza e Case rifugio, affiancando oltre 20.000 donne ogni anno.

D.i.Re e le organizzazioni socie sono attive politicamente per determinare il cambiamento culturale necessario per l’eliminazione della violenza maschile alle donne.

“D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza prende atto dell’ennesima condanna per l’Italia in un
caso di violenza domestica da parte della CEDU (Convenzione per i diritti dell’uomo).

Questa volta, a essere violato è l’articolo 3 della Convenzione per i diritti dell’uomo: “Nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti”.

“È sconfortante constatare che le mancanze del sistema continuino a provocare danni” –
dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza.

Questa recente condanna è stata emessa per inerzia: nel riconoscere la violenza, sanzionarla e
fermarla.

Qualcuno si scuserà con questa donna?
Che cosa pensano di fare i rappresentanti delle istituzioni che non l’hanno in alcun modo protetta?

I centri antiviolenza della Rete D.i.Re accolgono migliaia di donne ogni anno e, quando leggiamo
che il rischio è la connivenza dello Stato con il maltrattante, sappiamo bene di cosa parla la
CEDU.

Il ricorso è stato presentato dalla donna che aveva subito la violenza, Patrizia Pagliarone.

Il caso oggetto della sentenza ebbe una discreta eco, dato che coinvolse Andrea Buscemi, candidato con la Lega e nominato assessore nel Comune di Pisa proprio mentre era a processo per stalking.

Le attiviste della Casa delle Donne di Pisa organizzarono manifestazioni, sit-in,lanciando anche una petizione per la revoca dell’incarico all’assessore (poi dimesso dal sindaco).

Queste proteste portarono alla querela della presidente della Casa delle Donne, in un goffo tentativo di silenziare chi evidenzia la violenza, anziché fermare chi la agisce.

“O le cose cambiano radicalmente, con un’azione sistemi di formazione di operatori e operatrici della giustizia per il riconoscimento della violenza alle donne e del rischio ad essa correlato, o ci dovremo abituare a essere tra i paesi che collezionano condanne CEDU per l’incapacità di vedere la violenza alle donne nei percorsi giudiziari che la trattano” conclude Veltri.

Redazione Italia

Il Presidio di pace delle donne a Palermo compie tre anni

24 FEBBRAIO 2022 – 24 FEBBRAIO 2025: tre anni di guerra in Europa

Il Presidio di Pace delle donne inizia nel 2022 subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
Noi, donne di diverse associazioni – progressiste, democratiche, antifasciste, femministe, nonviolente -abbiamo preso l’impegno da allora di testimoniare il nostro NO alla guerra e all’invio di armi con un presidio settimanale in piazza Vittorio Veneto a Palermo.

In questa piazza si trova il monumento dedicato ai martiri eroi della prima guerra mondiale. Abbiamo quindi scelto un luogo simbolico per significare che non vogliamo più né eroi né martiri. Prima di tutto la vita!

La scritta del nostro striscione, “Fuori la guerra dalla storia”, lanciata da Bertha von Suttner, pacifista austriaca, più di un secolo fa, rappresenta bene il nostro pensiero.

Siamo convinte che la guerra non sia necessaria e inevitabile, ma l’apice orrendo della logica della forza e del dominio del sistema patriarcale. Idealmente ci collochiamo in una tradizione di donne autorevoli che si sono spese per la pace e abbiamo portato in piazza le loro parole CONTRO TUTTE LE GUERRE e la militarizzazione della società e delle coscienze.

Da marzo 2023 il Presidio ha luogo ogni 24 del mese in piazza Vittorio Veneto, ma si sposta occasionalmente in altri luoghi o in altre date significative.
Il 24 novembre 2023, in rete e in piena condivisione con quello di Palermo, è nato un presidio anche a Caltanissetta.

I dati più recenti sono allarmanti: negli ultimi cinque anni il numero dei conflitti nel mondo è raddoppiato, nel solo 2024 gli episodi di violenza politica sono aumentati del 25% rispetto all’anno precedente e una persona su otto nel mondo è stata coinvolta in situazioni di conflitto. Sono dati che forniscono un quadro terribile di un mondo che diventa sempre più pericoloso, di un mondo dipendente dalla guerra.

Questo mese vogliamo ricordare, tra le decine di conflitti in corso, oltre a quelli a noi più vicini (Ucraina, Palestina), anche i più dimenticati (Kurdistan, Congo…) o ignorati (Sudan) dove le donne sono oggetto di violenze particolari, nonché i luoghi dove sono loro ferocemente negati i diritti primari (Iran, Afghanistan…).
Il presidio, nato dalle donne, è aperto a tutti/e coloro che condividano le nostre PAROLE di PACE.

Il 24 febbraio 2025 dalle ore 17.00 alle 19.00 siamo a piazza Ruggero Settimo (Politeama).

UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Governo di Lei – CIF – Le Onde – Arcilesbica – Donne della Comunità dell’Arca – Donne del Movimento nonviolento – Donne del Circolo Laudato si’

Redazione Palermo

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

Bentornata, Dacia!

Ritorna a Palermo, Dacia Maraini, dopo poco più di un anno, per presentare il suo ultimo libro, Diario degli anni difficili edito da Solferino. Ritorna al cinema De Seta ospite della libreria Modusvivendi che ne ha promosso e curato l’evento.

Mentre il pubblico si appresta a riempire la sala, lei è già lì, in attesa di salire sul palco insieme alla stessa squadra di allora. Con lei ci saranno come un anno fa, infatti, Felice Cavallaro, editorialista del Corriere della Sera e l’attrice Valentina Todaro.

Basta leggere il sottotitolo, Con le donne ieri, oggi e domani, per sapere che anche stavolta sarà una lettura interessante della storia attraverso gli occhi e le parole di una donna che parla di donne e attraverso loro e la violenza subita dal sistema patriarcale, affronta non solo i fatti ma anche le contraddizioni e i misfatti di quelli che lei riconosce come anni difficili non solo del nostro recente passato ma, ahimè, soprattutto del nostro presente e, come si chiede e ci chiede Felice Cavallaro, probabilmente anche del nostro futuro.

Con la puntuale attenzione che gli è propria il giornalista avvia quella che sarà una conversazione impreziosita dalla lettura di alcuni brani dalla raccolta di articoli, con diversa datazione, in cui l’autrice dà voce alle donne e ai deboli, riscatto del silenzio della sua Marianna Ucria, in un mondo in cui il linguaggio si fa sempre più povero e stereotipizzato soprattutto nel definire il bene e il male, e così facendo semplifica la complessità del reale.

È così per la democrazia e il suo contrario, dove per la prima il bene non corrisponde alla sua definizione e l’esito di una votazione può essere un inganno e il male di una dittatura è il prodotto di un amore tossico, quando un popolo intero “sbaglia innamorato”, dando il proprio consenso a chi si presenta come un salvatore e invece è un criminale. E qui il riferimento passa dalla Germania di Hitler all’America di Trump e al voto dei latinos che hanno contribuito a decretarne la vittoria.
E, nella conversazione, i temi si rincorrono e si intrecciano, proprio come le singole storie delle donne nel farsi Storia.

Aborto e stupro.
Inevitabile il primo, come esito dello storico controllo del patriarcato sul corpo delle donne e delle loro scelte, unico modo di riappropriarsene in un mondo in cui solo da pochissimo e troppo spesso in modo conflittuale le donne hanno avuto accesso a quella che per Maraini è l’unica vera alternativa, la maternità responsabile attraverso la contraccezione.

E dalla storia si parte anche per affrontare il tema dello stupro, “lecita” azione di guerra in cui chi stupra agisce simbolicamente per assicurarsi futuro mettendo il proprio seme nel ventre del nemico. E nel riferirsi ai più recenti fatti di cronaca, dalle violenze del branco alla giovanissima uccisa e bruciata dal fidanzato, ci ricorda che la virilità identificata ancora col possesso fa “impazzire” soprattutto gli uomini più fragili, che non accettano i cambiamenti teorizzati dall’autonomia femminile.

Lo sguardo si allarga così al mondo laddove la violenza si abbatte sulle donne coraggiose in modo sistematico nel togliere loro la parola attraverso il carcere e la tortura quotidiana e delle quali non bisogna smettere di parlare, di scrivere, per evitare la rassegnazione anche della parola.
Parlare soprattutto ai ragazzi e alle ragazze, entrare nelle scuole, affrontare il loro scoraggiamento di cui la stessa Maraini è stata ed è testimone, reduce nella mattina da un incontro con studenti e studentesse di un liceo, e tante tappe ha ancora in programma anche nelle province.
Parlare e invitarli ad andare a votare. Questo è il compito degli intellettuali, dei giornalisti, degli insegnanti in questo tempo di crisi della democrazia: agire sul piano culturale.

E sullo stesso piano bisogna confrontarsi con le donne che arrivano velate, e il riferimento è ad una serie di articoli sul velo, sul linguaggio degli abiti e sulla moda. Moda anche intellettuale basata su idee che la gente assorbe inconsapevolmente come il ricorso al pensiero irrazionale e il rifiuto della scienza in un proliferare di santoni, indovini, veggenti. No vax e terrapiattismo. Può essere questo un modo perverso di reagire al consumismo?

E poi l’immancabile domanda sulla vita privata, presente negli articoli dedicati ad Alberto Moravia ed Elsa Morante e la sua risposta, che parla di amicizia e libertà a partire dallo sguardo di una donna che nel raccontare sembra rivivere con leggerezza e serenità i momenti più belli della sua vita e, passando dal racconto delle vite delle altre donne, Frida Kahlo e il suo amore per Rivera, continua a raccontare la storia degli uomini, Rivera e Trotzkj, del comunismo, dei suoi ideali di società di uguali e della sua fine in una dittatura burocratica e così, parlando di Georgia, Moldavia, Ucraina e Cecenia torna a parlare di donne disobbedienti e coraggiose come Anna Politkovskaja.

Nel rispondere alle domande, guerra e sentimento di sconfitta, fallimento e mancanza di empatia, ci dice che bisogna continuare a parlare, parlare e protestare, pacificamente è chiaro, scendere ancora in piazza e, nonostante tutto, nonostante la divisione della sinistra e le tre paure presenti oggi nel mondo, pandemia, crisi economica e cambiamento climatico, essere irrimediabilmente ottimisti.

Maria La Bianca

Donne in rete contro la violenza

Riceviamo e pubblichiamo da ‘Donne in rete contro la violenza’, Rete nazionale antiviolenza e che si compone di 89 organizzazioni dislocate sul territorio nazionale, che gestiscono Centri antiviolenza e Case rifugio, affiancando oltre 20.000 donne ogni anno.

D.i.Re e le organizzazioni socie sono attive politicamente per determinare il cambiamento culturale necessario per l’eliminazione della violenza maschile alle donne.

“D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza prende atto dell’ennesima condanna per l’Italia in un
caso di violenza domestica da parte della CEDU (Convenzione per i diritti dell’uomo).

Questa volta, a essere violato è l’articolo 3 della Convenzione per i diritti dell’uomo: “Nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti”.

“È sconfortante constatare che le mancanze del sistema continuino a provocare danni” –
dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza.

Questa recente condanna è stata emessa per inerzia: nel riconoscere la violenza, sanzionarla e
fermarla.

Qualcuno si scuserà con questa donna?
Che cosa pensano di fare i rappresentanti delle istituzioni che non l’hanno in alcun modo protetta?

I centri antiviolenza della Rete D.i.Re accolgono migliaia di donne ogni anno e, quando leggiamo
che il rischio è la connivenza dello Stato con il maltrattante, sappiamo bene di cosa parla la
CEDU.

Il ricorso è stato presentato dalla donna che aveva subito la violenza, Patrizia Pagliarone.

Il caso oggetto della sentenza ebbe una discreta eco, dato che coinvolse Andrea Buscemi, candidato con la Lega e nominato assessore nel Comune di Pisa proprio mentre era a processo per stalking.

Le attiviste della Casa delle Donne di Pisa organizzarono manifestazioni, sit-in,lanciando anche una petizione per la revoca dell’incarico all’assessore (poi dimesso dal sindaco).

Queste proteste portarono alla querela della presidente della Casa delle Donne, in un goffo tentativo di silenziare chi evidenzia la violenza, anziché fermare chi la agisce.

“O le cose cambiano radicalmente, con un’azione sistemi di formazione di operatori e operatrici della giustizia per il riconoscimento della violenza alle donne e del rischio ad essa correlato, o ci dovremo abituare a essere tra i paesi che collezionano condanne CEDU per l’incapacità di vedere la violenza alle donne nei percorsi giudiziari che la trattano” conclude Veltri.

Redazione Italia

Il Presidio di pace delle donne a Palermo compie tre anni

24 FEBBRAIO 2022 – 24 FEBBRAIO 2025: tre anni di guerra in Europa

Il Presidio di Pace delle donne inizia nel 2022 subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
Noi, donne di diverse associazioni – progressiste, democratiche, antifasciste, femministe, nonviolente -abbiamo preso l’impegno da allora di testimoniare il nostro NO alla guerra e all’invio di armi con un presidio settimanale in piazza Vittorio Veneto a Palermo.

In questa piazza si trova il monumento dedicato ai martiri eroi della prima guerra mondiale. Abbiamo quindi scelto un luogo simbolico per significare che non vogliamo più né eroi né martiri. Prima di tutto la vita!

La scritta del nostro striscione, “Fuori la guerra dalla storia”, lanciata da Bertha von Suttner, pacifista austriaca, più di un secolo fa, rappresenta bene il nostro pensiero.

Siamo convinte che la guerra non sia necessaria e inevitabile, ma l’apice orrendo della logica della forza e del dominio del sistema patriarcale. Idealmente ci collochiamo in una tradizione di donne autorevoli che si sono spese per la pace e abbiamo portato in piazza le loro parole CONTRO TUTTE LE GUERRE e la militarizzazione della società e delle coscienze.

Da marzo 2023 il Presidio ha luogo ogni 24 del mese in piazza Vittorio Veneto, ma si sposta occasionalmente in altri luoghi o in altre date significative.
Il 24 novembre 2023, in rete e in piena condivisione con quello di Palermo, è nato un presidio anche a Caltanissetta.

I dati più recenti sono allarmanti: negli ultimi cinque anni il numero dei conflitti nel mondo è raddoppiato, nel solo 2024 gli episodi di violenza politica sono aumentati del 25% rispetto all’anno precedente e una persona su otto nel mondo è stata coinvolta in situazioni di conflitto. Sono dati che forniscono un quadro terribile di un mondo che diventa sempre più pericoloso, di un mondo dipendente dalla guerra.

Questo mese vogliamo ricordare, tra le decine di conflitti in corso, oltre a quelli a noi più vicini (Ucraina, Palestina), anche i più dimenticati (Kurdistan, Congo…) o ignorati (Sudan) dove le donne sono oggetto di violenze particolari, nonché i luoghi dove sono loro ferocemente negati i diritti primari (Iran, Afghanistan…).
Il presidio, nato dalle donne, è aperto a tutti/e coloro che condividano le nostre PAROLE di PACE.

Il 24 febbraio 2025 dalle ore 17.00 alle 19.00 siamo a piazza Ruggero Settimo (Politeama).

UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Governo di Lei – CIF – Le Onde – Arcilesbica – Donne della Comunità dell’Arca – Donne del Movimento nonviolento – Donne del Circolo Laudato si’

Redazione Palermo

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

Bentornata, Dacia!

Ritorna a Palermo, Dacia Maraini, dopo poco più di un anno, per presentare il suo ultimo libro, Diario degli anni difficili edito da Solferino. Ritorna al cinema De Seta ospite della libreria Modusvivendi che ne ha promosso e curato l’evento.

Mentre il pubblico si appresta a riempire la sala, lei è già lì, in attesa di salire sul palco insieme alla stessa squadra di allora. Con lei ci saranno come un anno fa, infatti, Felice Cavallaro, editorialista del Corriere della Sera e l’attrice Valentina Todaro.

Basta leggere il sottotitolo, Con le donne ieri, oggi e domani, per sapere che anche stavolta sarà una lettura interessante della storia attraverso gli occhi e le parole di una donna che parla di donne e attraverso loro e la violenza subita dal sistema patriarcale, affronta non solo i fatti ma anche le contraddizioni e i misfatti di quelli che lei riconosce come anni difficili non solo del nostro recente passato ma, ahimè, soprattutto del nostro presente e, come si chiede e ci chiede Felice Cavallaro, probabilmente anche del nostro futuro.

Con la puntuale attenzione che gli è propria il giornalista avvia quella che sarà una conversazione impreziosita dalla lettura di alcuni brani dalla raccolta di articoli, con diversa datazione, in cui l’autrice dà voce alle donne e ai deboli, riscatto del silenzio della sua Marianna Ucria, in un mondo in cui il linguaggio si fa sempre più povero e stereotipizzato soprattutto nel definire il bene e il male, e così facendo semplifica la complessità del reale.

È così per la democrazia e il suo contrario, dove per la prima il bene non corrisponde alla sua definizione e l’esito di una votazione può essere un inganno e il male di una dittatura è il prodotto di un amore tossico, quando un popolo intero “sbaglia innamorato”, dando il proprio consenso a chi si presenta come un salvatore e invece è un criminale. E qui il riferimento passa dalla Germania di Hitler all’America di Trump e al voto dei latinos che hanno contribuito a decretarne la vittoria.
E, nella conversazione, i temi si rincorrono e si intrecciano, proprio come le singole storie delle donne nel farsi Storia.

Aborto e stupro.
Inevitabile il primo, come esito dello storico controllo del patriarcato sul corpo delle donne e delle loro scelte, unico modo di riappropriarsene in un mondo in cui solo da pochissimo e troppo spesso in modo conflittuale le donne hanno avuto accesso a quella che per Maraini è l’unica vera alternativa, la maternità responsabile attraverso la contraccezione.

E dalla storia si parte anche per affrontare il tema dello stupro, “lecita” azione di guerra in cui chi stupra agisce simbolicamente per assicurarsi futuro mettendo il proprio seme nel ventre del nemico. E nel riferirsi ai più recenti fatti di cronaca, dalle violenze del branco alla giovanissima uccisa e bruciata dal fidanzato, ci ricorda che la virilità identificata ancora col possesso fa “impazzire” soprattutto gli uomini più fragili, che non accettano i cambiamenti teorizzati dall’autonomia femminile.

Lo sguardo si allarga così al mondo laddove la violenza si abbatte sulle donne coraggiose in modo sistematico nel togliere loro la parola attraverso il carcere e la tortura quotidiana e delle quali non bisogna smettere di parlare, di scrivere, per evitare la rassegnazione anche della parola.
Parlare soprattutto ai ragazzi e alle ragazze, entrare nelle scuole, affrontare il loro scoraggiamento di cui la stessa Maraini è stata ed è testimone, reduce nella mattina da un incontro con studenti e studentesse di un liceo, e tante tappe ha ancora in programma anche nelle province.
Parlare e invitarli ad andare a votare. Questo è il compito degli intellettuali, dei giornalisti, degli insegnanti in questo tempo di crisi della democrazia: agire sul piano culturale.

E sullo stesso piano bisogna confrontarsi con le donne che arrivano velate, e il riferimento è ad una serie di articoli sul velo, sul linguaggio degli abiti e sulla moda. Moda anche intellettuale basata su idee che la gente assorbe inconsapevolmente come il ricorso al pensiero irrazionale e il rifiuto della scienza in un proliferare di santoni, indovini, veggenti. No vax e terrapiattismo. Può essere questo un modo perverso di reagire al consumismo?

E poi l’immancabile domanda sulla vita privata, presente negli articoli dedicati ad Alberto Moravia ed Elsa Morante e la sua risposta, che parla di amicizia e libertà a partire dallo sguardo di una donna che nel raccontare sembra rivivere con leggerezza e serenità i momenti più belli della sua vita e, passando dal racconto delle vite delle altre donne, Frida Kahlo e il suo amore per Rivera, continua a raccontare la storia degli uomini, Rivera e Trotzkj, del comunismo, dei suoi ideali di società di uguali e della sua fine in una dittatura burocratica e così, parlando di Georgia, Moldavia, Ucraina e Cecenia torna a parlare di donne disobbedienti e coraggiose come Anna Politkovskaja.

Nel rispondere alle domande, guerra e sentimento di sconfitta, fallimento e mancanza di empatia, ci dice che bisogna continuare a parlare, parlare e protestare, pacificamente è chiaro, scendere ancora in piazza e, nonostante tutto, nonostante la divisione della sinistra e le tre paure presenti oggi nel mondo, pandemia, crisi economica e cambiamento climatico, essere irrimediabilmente ottimisti.

Maria La Bianca

Donne in rete contro la violenza

Riceviamo e pubblichiamo da ‘Donne in rete contro la violenza’, Rete nazionale antiviolenza e che si compone di 89 organizzazioni dislocate sul territorio nazionale, che gestiscono Centri antiviolenza e Case rifugio, affiancando oltre 20.000 donne ogni anno.

D.i.Re e le organizzazioni socie sono attive politicamente per determinare il cambiamento culturale necessario per l’eliminazione della violenza maschile alle donne.

“D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza prende atto dell’ennesima condanna per l’Italia in un
caso di violenza domestica da parte della CEDU (Convenzione per i diritti dell’uomo).

Questa volta, a essere violato è l’articolo 3 della Convenzione per i diritti dell’uomo: “Nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti”.

“È sconfortante constatare che le mancanze del sistema continuino a provocare danni” –
dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza.

Questa recente condanna è stata emessa per inerzia: nel riconoscere la violenza, sanzionarla e
fermarla.

Qualcuno si scuserà con questa donna?
Che cosa pensano di fare i rappresentanti delle istituzioni che non l’hanno in alcun modo protetta?

I centri antiviolenza della Rete D.i.Re accolgono migliaia di donne ogni anno e, quando leggiamo
che il rischio è la connivenza dello Stato con il maltrattante, sappiamo bene di cosa parla la
CEDU.

Il ricorso è stato presentato dalla donna che aveva subito la violenza, Patrizia Pagliarone.

Il caso oggetto della sentenza ebbe una discreta eco, dato che coinvolse Andrea Buscemi, candidato con la Lega e nominato assessore nel Comune di Pisa proprio mentre era a processo per stalking.

Le attiviste della Casa delle Donne di Pisa organizzarono manifestazioni, sit-in,lanciando anche una petizione per la revoca dell’incarico all’assessore (poi dimesso dal sindaco).

Queste proteste portarono alla querela della presidente della Casa delle Donne, in un goffo tentativo di silenziare chi evidenzia la violenza, anziché fermare chi la agisce.

“O le cose cambiano radicalmente, con un’azione sistemi di formazione di operatori e operatrici della giustizia per il riconoscimento della violenza alle donne e del rischio ad essa correlato, o ci dovremo abituare a essere tra i paesi che collezionano condanne CEDU per l’incapacità di vedere la violenza alle donne nei percorsi giudiziari che la trattano” conclude Veltri.

Redazione Italia

Il Presidio di pace delle donne a Palermo compie tre anni

24 FEBBRAIO 2022 – 24 FEBBRAIO 2025: tre anni di guerra in Europa

Il Presidio di Pace delle donne inizia nel 2022 subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
Noi, donne di diverse associazioni – progressiste, democratiche, antifasciste, femministe, nonviolente -abbiamo preso l’impegno da allora di testimoniare il nostro NO alla guerra e all’invio di armi con un presidio settimanale in piazza Vittorio Veneto a Palermo.

In questa piazza si trova il monumento dedicato ai martiri eroi della prima guerra mondiale. Abbiamo quindi scelto un luogo simbolico per significare che non vogliamo più né eroi né martiri. Prima di tutto la vita!

La scritta del nostro striscione, “Fuori la guerra dalla storia”, lanciata da Bertha von Suttner, pacifista austriaca, più di un secolo fa, rappresenta bene il nostro pensiero.

Siamo convinte che la guerra non sia necessaria e inevitabile, ma l’apice orrendo della logica della forza e del dominio del sistema patriarcale. Idealmente ci collochiamo in una tradizione di donne autorevoli che si sono spese per la pace e abbiamo portato in piazza le loro parole CONTRO TUTTE LE GUERRE e la militarizzazione della società e delle coscienze.

Da marzo 2023 il Presidio ha luogo ogni 24 del mese in piazza Vittorio Veneto, ma si sposta occasionalmente in altri luoghi o in altre date significative.
Il 24 novembre 2023, in rete e in piena condivisione con quello di Palermo, è nato un presidio anche a Caltanissetta.

I dati più recenti sono allarmanti: negli ultimi cinque anni il numero dei conflitti nel mondo è raddoppiato, nel solo 2024 gli episodi di violenza politica sono aumentati del 25% rispetto all’anno precedente e una persona su otto nel mondo è stata coinvolta in situazioni di conflitto. Sono dati che forniscono un quadro terribile di un mondo che diventa sempre più pericoloso, di un mondo dipendente dalla guerra.

Questo mese vogliamo ricordare, tra le decine di conflitti in corso, oltre a quelli a noi più vicini (Ucraina, Palestina), anche i più dimenticati (Kurdistan, Congo…) o ignorati (Sudan) dove le donne sono oggetto di violenze particolari, nonché i luoghi dove sono loro ferocemente negati i diritti primari (Iran, Afghanistan…).
Il presidio, nato dalle donne, è aperto a tutti/e coloro che condividano le nostre PAROLE di PACE.

Il 24 febbraio 2025 dalle ore 17.00 alle 19.00 siamo a piazza Ruggero Settimo (Politeama).

UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Governo di Lei – CIF – Le Onde – Arcilesbica – Donne della Comunità dell’Arca – Donne del Movimento nonviolento – Donne del Circolo Laudato si’

Redazione Palermo