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Giovani

Scuola: crescono gli alunni ‘non italiani’

SCUOLA. ISMU: GLI ALUNNI ‘NON ITALIANI’ RIPRENDONO AD AUMENTARE
44% EUROPEI, UN QUARTO AFRICANI, MENTRE NEET SONO DOPPIO ITALIANI

(DIRE) Roma, 17 feb. –

La ricostruzione fatta da Fondazione Ismu Ets rivela che, dopo il rallentamento degli ultimi anni, nell’anno scolastico 2022/23 è ripreso a crescere il numero degli alunni con cittadinanza non italiana (Cni), nati all’estero e nati in Italia, toccando le 914.860 presenze.

Tale numero corrisponde all’11,2% sul totale degli iscritti nelle scuole italiane (8.158.138) dalle scuole dell’infanzia alle secondarie di secondo grado.

Per quanto riguarda la provenienza, gli studenti sono originari di circa 200 Paesi diversi.

In particolare, il 44% è di origine europea; più di un quarto è di origine africana; attorno al 20% asiatica e quasi l’8% dell’America Latina.

La cittadinanza più numerosa è rappresentata dalla Romania, con quasi 149mila studenti. Seguono: Albania (118mila presenze) e Marocco (114mila).

I dati del 2022/23 confermano poi che la maggioranza degli studenti con Cni è concentrata nelle regioni settentrionali, a seguire nel Centro e nel Mezzogiorno.

La Lombardia accoglie un quarto degli alunni con background migratorio (231.819 unità), seguita da Emilia-Romagna (111.811), Veneto (99.604), Lazio (83.716) e Piemonte (81.762).

In Emilia-Romagna gli studenti con cittadinanza non italiana rappresentano il 18,4% della popolazione scolastica regionale, il valore più elevato a livello nazionale.

Segue la Lombardia con il 17,1% di alunni con Cni ogni 100 iscritti nelle scuole di diverso ordine e grado.

La provincia italiana con il maggior numero di alunni con Cni rimane Milano (82.396), seguita da Roma (66.385), Torino (40.605) e Brescia (33.362).

Negli ultimi 30 anni poi è diminuita la percentuale di scuole senza allievi con Cni ed è aumentato il numero di istituti con percentuali rilevanti.

Dal 2002/03 al 2022/23 si è passati dal 43,1% del totale di istituti dove gli alunni con Cni erano assenti al 15,5%.

Nello stesso periodo di tempo, le scuole con una percentuale di alunni con background migratorio inferiore al 30% sono cresciute dal 56,9% al 73,3%.

Un aumento più contenuto ha riguardato le scuole con oltre il 30% di alunni con Cni, inesistenti nel 2002/03 e arrivate a rappresentare nel 2022/23 il 7,9% del totale delle scuole italiane.

Il Rapporto Ismu rivela che in 15 anni sono triplicati gli alunni con Cni nati in Italia da genitori immigrati, passando da 588.986 del 2020/21 a 598.745 nel 2022/23, quasi 10mila unità in più.

Dalla prima rilevazione dell’anno scolastico 2007/08 ad oggi, il gruppo è passato da circa 200mila a quasi 600mila e rappresenta il 65,4% degli alunni con Cni.

Cresce l’incidenza delle seconde generazioni: più dei due terzi degli alunni censiti come non italiani sono costituiti dalle cosiddette seconde generazioni.

L’incidenza percentuale di questo gruppo sul totale degli alunni con Cni cresce in tutti i livelli scolastici e ne costituisce attualmente la maggioranza: nelle scuole dell’infanzia, i nati in Italia ogni 100 alunni con background migratorio sono 81; 69 alla primaria, 63 alle secondarie di primo grado e 50 in quelle di secondo grado.

Permane il problema del ritardo scolastico.

Dai primi dati del 2005/06 si è ridotto progressivamente, ma nel complesso rimane ancora elevato, soprattutto nelle secondarie di secondo grado, dove quasi la metà degli studenti di origine immigrata è in ritardo di uno o più anni (48,0%).

Preoccupano anche la lontananza dal sistema di istruzione/formazione/lavoro e l’abbandono scolastico precoce.

Nel 2022 gli Elet (Early leaver from education and training) nati all’estero, cioè i giovani che si sono fermati alla scuola secondaria di primo grado, sono ancora il 28,7% dei 18-24enni stranieri, cioè il triplo degli autoctoni, che scendono al 9,7%.

I giovani in condizione di Neet (Not in Education, Employment or Training, cioè che non studiano né lavorano) tra i 15 e i 29 anni sono il 29% del totale, circa il doppio degli italiani (17,9%).

Agenzia DIRE

Cisgiordania, le ricadute del conflitto sulle scuole cristiane

La guerra ha duramente colpito il sistema educativo nei territori palestinesi, negli istituti dell’area risultano iscritti 22 mila allievi di cui 8 mila cristiani.
Lo scenario delineato durante un recente convegno a Il Cairo
(da Vatican news)

In una Terra Santa gravemente ferita le scuole cristiane, principali custodi della convivenza, sono le vittime collaterali del conflitto in atto nei territori palestinesi.

E’ uno degli aspetti emersi nel corso del convegno al Cairo delle scuole cristiane del Medio Oriente.

Nonostante le numerose difficoltà da superare per entrare e uscire dalla Cisgiordania, per le insegnanti e le direttrici scolastiche di Ramallah e Betlemme questo incontro cairota rappresenta una boccata d’aria fresca.

«Fa bene sentirsi sostenute, in rete», osserva Samia Alama, insegnante di matematica nella scuola femminile delle suore di San Giuseppe, a Betlemme.

E’ esausta, ma con una determinazione incrollabile nel voler sostenere le sue allieve in questo periodo di guerra.
La sua collega Tina Hazboun, docente dell’università di Betlemme, ammette: «Siamo costrette a sorridere, nonostante la tristezza».

Gli effetti della guerra sulle scuole

La guerra scoppiata il 7 ottobre 2023 non ha risparmiato il sistema educativo palestinese.

«Ci vuole molta pazienza», spiega suor Silouane, che coordina l’insegnamento del francese nelle 10 scuole latine dei Territori palestinesi.

Le scuole in Cisgiordania aprono e chiudono a seconda dei combattimenti, della frequenza delle incursioni o del numero di vittime.

Inoltre, se durante la notte le forze di occupazione israeliane istituiscono posti di blocco, alcuni studenti non possono più recarsi a scuola: «Un giorno c’è scuola, un giorno no, a volte all’appello mancano gli studenti, altre volte i professori», osserva suor Silouane.

Le scuole cristiane nei territori

Nelle 65 scuole cristiane dei territori palestinesi sono inscritti 22 mila allievi, di cui 8 mila cristiani.

Prima dell’offensiva israeliana, nella Striscia di Gaza c’erano quattro scuole cristiane, di cui due del Patriarcato latino di Gerusalemme.

Quella della Sacra Famiglia è stata parzialmente distrutta durante l’offensiva militare e tanti professori e genitori degli studenti sono stati uccisi, «anche alcuni studenti cristiani», dice sospirando la religiosa francese.

Nonostante il cessate il fuoco in vigore dal 15 gennaio, la guerra non è scomparsa dalla quotidianità degli alunni.

Lontano dai radar dei media, le incursioni israeliane e la chiusura di strade in Cisgiordania si sono addirittura moltiplicate.
«La guerra non finirà mai, c’è il boato dei missili, ci sono la paura e l’angoscia», racconta suor Silouane.

I traumi sui bambini

La guerra ha inevitabili conseguenze sulla salute mentale degli studenti.

«Stiamo vivendo una situazione critica per gli allievi e le loro famiglie», spiega Naela Rabah, direttrice della scuola greco-cattolica di Ramallah, un istituto misto del Patriarcato melchita di Gerusalemme.

«Non si tratta solo di fare lezione, noi cerchiamo di prenderci cura degli studenti anche a livello psicologico».

L’immensa stanchezza del vivere quotidiano è palpabile in Naela Rabah: «La depressione non colpisce solo gli studenti e le loro famiglie, ma anche i professori», confessa. Eppure l’energica direttrice non si risparmia per garantire il benessere dei suoi allievi.

Stessa considerazione per le due insegnanti e amiche della scuola delle suore di San Giuseppe a Betlemme: «Le ragazze ci chiedono: “Perché imparare quando non c’è futuro?”», dicono, commosse ma battagliere.

«Bisogna fare in modo che i bambini abbiano voglia di restare in Palestina», affermano.
Perciò Tina Hazboun ha creato un programma speciale per le donne nella filiera tecnologica, una garanzia di motivazione e di emancipazione nella loro terra.

I dati dell’Unicef

Secondo l’Unicef, i bambini scolarizzati in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono 782.000, ma secondo il ministero dell’Istruzione locale, da ottobre 2023, tra l’8 e il 20% delle scuole dei territori palestinesi occupati sono state chiuse.

Se la situazione politica resta ufficialmente fuori dalle aule, nell’orario scolastico sono previsti momenti di dialogo, individuali o in gruppo, a seconda dei bisogni dei bambini.

«Lavoriamo molto su come capire gli altri, su come comunicare con le persone che hanno opinioni diverse dalle nostre, su come accettare gli altri …», spiega Naela Rabah, direttrice dell’istituto di Ramallah che accoglie, come tutte le scuole cristiane, bambini di tutte le confessioni.

«In tutto il Medio Oriente, bisogna imparare a praticare la non violenza, cioè come reagire nei conflitti, a non cedere alla rabbia, a trovare soluzioni di pace, a dialogare, ad accompagnare l’altro», aggiunge suor Silouane.

Scuole di dialogo

A Betlemme, culla del cristianesimo ma anche della convivenza religiosa, l’istituto San Giuseppe accoglie 800 allieve, di cui 50% musulmane, e «non c’è nessun problema», spiega semplicemente Samia Alama, «i musulmani sono abituati a parlare con noi».

Le scuole non sono “zone protette” e non vengono quindi risparmiate dalle difficoltà economiche generate dalla guerra.

Soprattutto a Betlemme, da un giorno all’altro i pellegrini non sono più arrivati, e la maggior parte dei genitori degli alunni lavorava proprio nel settore del turismo o dei pellegrinaggi.

Alcuni non riescono più a pagare le rette scolastiche, già ridotte al minimo.

Questo clima economico sfavorevole grava sul morale dei genitori e di conseguenza su quello dei bambini e degli adolescenti.

Questi ultimi hanno tante aspirazioni, ma «sono realisti, vedono bene che molte porte sono chiuse» osserva rattristata suor Silouane, «bisognerà convivere con questa realtà».

Redazione Italia

Il liceo Rosa sciopera e scende in piazza

Partecipata la manifestazione sotto l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte contro il dimensionamento del Liceo Rosa con sedi a Susa e Bussoleno

CGIL e CUB hanno indetto al Rosa uno sciopero con una piattaforma che non lascia dubbi:
– L’esclusione, anche per gli anni futuri al 2025/2026, di ogni ipotesi di dimensionamento riguardanti l’Istituto
– La nomina di un Dirigente scolastico titolare dal 1° settembre 2025
– La tempestiva sostituzione del Dirigente reggente con l’affidamento della reggenza ad altro Dirigente scolastico

Massimiliano Rebuffo, segretario provinciale della CGIL-FLC, ha dichiarato che l’adesione allo sciopero è stata dell’80%.

La Dirigente reggente alla quale si fa riferimento nelle rivendicazioni è la Giaccone, Dirigente dell’Istituto Ferrari di Susa che nel 2022 è stata nominata reggente del Rosa. Nel comunicato stampa la CGIL-FLC spiega chiaramente la motivazione: “si è incrinato il rapporto con la comunità educante”.

Piattaforma pienamente condivisa con il comitato di cittadini “Insieme per il Rosa” i cui esponenti ci hanno ribadito con forza le rivendicazioni espresse in questo loro comunicato, anch’esso estremamente esplicito.

Alla manifestazione hanno partecipato i lavoratori (docenti e non docenti) del Rosa, genitori, studenti, molti esponenti del comitato “Insieme per il Rosa”. Una delegazione ha chiesto di parlare con Stefano Suraniti, dirigente dell’USR, il quale ha risposto – secondo quanto dichiarato al microfono da Rebuffo – rendendosi disponibile a ricevere solo genitori, studenti e lavoratori non sindacalizzati, in sostanza si è rifiutato di ricevere i rappresentanti sindacali.

Il “divide et impera” non ha tuttavia funzionato (a meno che lo scopo non fosse in realtà quello di non confrontarsi): non è salito nessuno, il patto tra lavoratori, studenti, cittadini e sindacati ha tenuto.

I manifestanti hanno scandito alcuni slogan: “Fateci Fateci Fateci salire”, “Non chiude la bocca, il Norby (Norberto Rosa n.d.r.) non si tocca”, “Tout le monde déteste la Giaccone”, e sono stati apposti dei post-it sul portone della sede dell’USR con le richieste scritte dai ragazzi.

Fabrizio Maffioletti

Haidi Gaggio Giuliani: “non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue”

Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili.

Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.

La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si processa.

Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.

Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.

Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e tutti i giovani del mondo…

Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.

Non sono i nostri figli che si devono vergognareSono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”  (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di dirlo a voce alta.

Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.

Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.

Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima.

È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per noi”?!

In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.

Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).

Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta, agli industriali.

Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li persegue!

Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.

Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.

Haidi Gaggio Giuliani

 

“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it – https://www.facebook.com/mammeinpiazza

Centro Sereno Regis

Egitto, giustizia per l’attivista Alaa Abd El Fattah

Da quando c’è Al-Sisi al potere, finire in carcere in Egitto è fin troppo semplice se non si segue la linea dettata dalle autorità. Così, come è successo anche a Patrick Zaki, in prigione è finito Alaa Abd El Fattah, blogger e attivista egiziano-britannico, tra i punti di riferimento delle proteste di piazza Tahrir del 2011.

Negli ultimi 10 anni, Alaa ha fatto dentro e fuori dal carcere per via del suo impegno politico. Nel 2019 è stato nuovamente arrestato, lasciato per due anni in detenzione preventiva e nel 2021 condannato a cinque anni di carcere con l’assurda accusa di terrorismo e diffusione di notizie false. Per protestare contro questa ingiusta detenzione, nel 2022 Alaa ha messo in atto uno sciopero della fame, ma ha dovuto interromperlo quando, a causa del grave stato di deperimento, ha perso i sensi sotto la doccia.

In carcere ha continuato a scrivere e, tramite una rete di editor e giornalisti, i suoi messaggi sono stati raccolti in un libro uscito anche in Italia col titolo “Non siete stati ancora sconfitti”. Per la qualità e i contenuti dei suoi testi è chiamato “il Gramsci d’Egitto”.

Avrebbe dovuto essere rimesso in libertà lo scorso settembre, ma le autorità egiziane non hanno tenuto conto dei due anni passati in detenzione preventiva. Così Alaa si trova ancora in carcere, oltre il tempo dovuto e  senza una colpa.

Da cinque mesi sua mamma Leila è in sciopero della fame per chiedere che suo figlio venga scarcerato il prima possibile e riceva tutte le cure di cui ha bisogno.

 

Unisciti al coro di voci che chiede la libertà per Alaa:

https://www.amnesty.it/appelli/egitto-attivisti-condannati-dal-tribunale-di-emergenza/?utm_source=DEM&utm_medium=Email&utm_campaign=DEM11035

Amnesty International

UNICEF/UCRAINA: devastante impatto della guerra sui bambini ucraini

• A tre anni dall’inizio della guerra su larga scala, più di 2.520 bambini sono stati uccisi o feriti.
• Nessun luogo è sicuro. Scuole, reparti di maternità e ospedali pediatrici sono stati tutti colpiti da attacchi.
• Drammatici i risultati del sondaggio condotto dall’UNICEF su oltre 23.000 bambini.

Dichiarazione di Toby Fricker, Responsabile Advocacy e Comunicazione UNICEF Ucraina.

21 febbraio 2025 – “Un bambino su cinque in Ucraina ha dichiarato di aver perso un parente o un amico stretto dall’escalation della guerra di tre anni fa. Un bambino su tre ha riferito di sentirsi così disperato e triste da non poter svolgere le proprie attività abituali. Queste sono le risposte di oltre 23.000 bambini che hanno preso parte a un sondaggio condotto dall’UNICEF e pubblicato oggi, e ricordano senza mezzi termini la perdita e il dolore che pervadono l’infanzia in Ucraina.

A tre anni dall’inizio della guerra su larga scala, più di 2.520 bambini sono stati uccisi o feriti, secondo i dati verificati dalle Nazioni Unite – il numero reale è probabilmente molto più alto. La situazione sta peggiorando. Nel 2024 c’è stato un aumento del 50% delle vittime tra i bambini rispetto al 2023.
Nessun luogo è sicuro. Scuole, reparti di maternità e ospedali pediatrici sono stati tutti colpiti da attacchi. Complessivamente, secondo i dati verificati dalle Nazioni Unite, sono state danneggiate o distrutte circa 780 strutture sanitarie e più di 1.600 scuole.

A Odessa, questa settimana, una clinica che fornisce assistenza a 40.000 bambini e un asilo che serve 250 bambini sono stati gravemente danneggiati in un attacco.

Quando un ospedale pediatrico viene colpito, una scuola bombardata o una rete elettrica distrutta, i bambini soffrono anche quando sopravvivono. Il loro benessere e il loro sviluppo ne risentono ancora una volta. Le scuole sono luoghi di apprendimento per i bambini e sono un’ancora di salvezza che fornisce un senso di sicurezza, normalità e speranza per il futuro. Eppure, quasi il 40% dei bambini in Ucraina studia solo online o attraverso un misto di lezioni in presenza e a distanza.

L’impatto sull’istruzione è stato immenso: Le valutazioni registrano una perdita media di apprendimento di due anni in alcune materie.

L’UNICEF ha sostenuto la riabilitazione dei rifugi per renderli il più sicuri possibile. Abbiamo formato gli insegnanti e istituito classi di recupero per aiutare i bambini a recuperare le perdite di apprendimento il più rapidamente possibile.

L’impatto sullo sviluppo e sulla salute mentale dei bambini è altrettanto preoccupante. Non dimentichiamo che i bambini e i giovani di tutto l’Est (del paese) hanno vissuto quasi 11 anni di guerra.
E ci sono ancora 3,7 milioni di sfollati interni e più di 6,8 milioni di persone che vivono fuori dal Paese. Nei Paesi ospitanti vicini, la metà dei bambini ucraini in età scolare non è iscritta ai sistemi scolastici nazionali.

Mentre i bambini e i giovani di tutte le età sono a rischio, quelli nati quando è iniziata l’escalation della guerra hanno ormai compiuto tre anni. Hanno trascorso i loro primi anni – quando il cervello si sviluppa più rapidamente e si gettano le basi per la vita – in mezzo a stress e perdite estreme. Questo li espone a un rischio maggiore di disturbi psicologici e a una salute fisica più cagionevole per la vita.

Le conseguenze possono essere anche intergenerazionali. Ecco perché un intervento tempestivo è così fondamentale. Come ad esempio, le squadre mobili sostenute dall’UNICEF che includono operatori che rispondono immediatamente dopo gli attacchi, e le visite a domicilio da parte di infermieri in prima linea e in altre aree del Paese, che forniscono assistenza sanitaria e olistica di vitale importanza, compresa l’identificazione delle sfide dello sviluppo e indicazioni per i genitori.

Stiamo collaborando con loro non solo per la nostra risposta umanitaria, ma anche per gli sforzi di sviluppo.

Sappiamo che quando si investe nella salute e nello sviluppo della prima infanzia, il ritorno dell’investimento a lungo termine è di 9 a 1. Migliorare l’accesso e la qualità dei servizi per la prima infanzia è un’ottima cosa. Migliorare l’accesso e la qualità di questi servizi contribuirà a creare un ambiente in cui le persone vorranno tornare.

Abbiamo visto come, nonostante le sfide estreme, i bambini, i giovani e le famiglie dell’Ucraina, così come gli straordinari operatori sociali, gli insegnanti e i tecnici dell’acqua, abbiano dimostrato un’incredibile determinazione. Stiamo lavorando insieme a loro non solo per la nostra risposta umanitaria, ma anche attraverso gli sforzi di sviluppo.

Il programma di formazione ‘Better Care’ – per garantire che ogni bambino cresca in una famiglia e non in un istituto – non si sta realizzando solo nell’Ucraina occidentale, ma anche qui, nelle zone di prima linea.

Investire nei bambini e nei giovani in Ucraina non è negoziabile, non solo perché è la cosa giusta da fare per la loro protezione e il loro benessere, ma anche per il futuro dell’Ucraina. Ciò che serve, in ultima analisi, è una pace reale e duratura in cui ogni bambino possa realizzare i propri diritti.

FOTO E VIDEO: https://weshare.unicef.org/Package/2AM4080FDL1J

UNICEF

Petizione Novara-Pellai: “Stop smartphone e social sotto i 16 e 14 anni: ogni tecnologia ha il suo giusto tempo”.

Il pedagogista Daniele Novara e lo psicoterapeuta Alberto Pellai, il 10 settembre 2024, hanno lanciato nei sulla piattaforma Change.org una raccolta firme molto importante dal titolo “Stop smartphone e social sotto i 16 e 14 anni: ogni tecnologia ha il suo giusto tempo”. La motivazione, secondo i promotori, è che la popolazione si sta avviando sempre più verso un uso precoce se non precocissimo all’uso dello smartphone e dei social. “Essere sempre connessi – secondo i promotori – danneggia il sonno, i rapporti sociali, l’attenzione, e può dare dipendenza”. Come ha dichiarato Pellai (che sull’argomento ha scritto più di un libro, l’ultimo è “Allenare alla vita”) in un’intervista a La Repubblica :«Non possiamo più rimanere in silenzio. Nessuno ha niente contro la tecnologia, il tema è l’autogestione del minore. I dati ci dicono che non ha l’abilità per difendersi dalla tecnologia, torniamo ai vecchi cellulari usati solo per comunicare» – aggiungendo «Tra gli 11 e i 14 anni, il funzionamento della parte emotiva del cervello di un adolescente è potentissimo. Si vede bene nel film Inside out 2: si schiaccia il bottone della pubertà e il cervello emotivo diventa esplosivo. È affamato di divertimento, di eccitazione, di dopamina. Tra i dieci e i 14 anni si ha la massima vulnerabilità nei confronti dell’ingaggio dopaminergico, che è tanto presente nell’online. Il cervello cognitivo matura più tardi». Sui social «Non vengono proposti soltanto documentari, ma una serie di esperienze. E da un’architettura che non parla al cervello che pensa, ma a quello che sente» – incalcava Pellai – «A partire dal 2012, gli indicatori di salute mentale in età evolutiva sono sempre andati peggiorando proprio quando i cellulari sono diventati smartphone. Prima avevamo uno strumento di comunicazione», mentre ora abbiamo avuto in mano strumenti di connessione che ci tengono attivi tutto il giorno. Nella vita online vengono fortemente sviluppati quattro aspetti: la deprivazione di sonno, la deprivazione sociale, la frammentazione dell’attenzione, la stimolazione a fare sempre più cose nella vita virtuale senza riuscire a smettere. Questo è un male nell’età evolutiva perché il cervello per svilupparsi e strutturarsi ha bisogno di stare di più nella vita reale.
Nella petizione si chiede di proibire i social media prima dei 16 anni poiché, prima di questa età, sviluppa un’ansia performativa, una riduzione dell’autostima e un senso di inadeguatezza rispetto alla propria immagine. Affermava Pellai: «Non possiamo più non dire che i social media non rappresentano un fattore di rischio per la salute degli adolescenti. Non è un’opinione». Per questi motivi, vista la poca risonanza mediatica che continua ad avere questa petizione, ci sembra giusto rilanciarla affinchè raggiunga più adesioni possibile. Riportiamo qui di seguito il testo:

Se è vero che spesso le tecnologie migliorano la qualità della vita, questo non accade quando si parla di educazione nella prima infanzia e nella scuola primaria. I bambini e le bambine che utilizzano strumenti tecnologici e interagiscono con gli schermi subiscono due danni:
– Uno diretto, legato alla dipendenza.
– Uno indiretto, perché l’interazione con gli schermi impedisce di vivere nella vita reale le esperienze fondamentali per un corretto allenamento alla vita.
È ormai chiaro che prima dei 14 anni avere uno smartphone personale possa essere molto dannoso così come aprire, prima dei 16 anni, un proprio profilo personale sui social media.
La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale.
Simili comportamenti in età prescolare portano ad alterazioni della materia bianca in quelle aree cerebrali fondamentali per sostenere l’apprendimento della letto-scrittura.
I fatti lo dimostrano: nelle scuole dove lo smartphone non è ammesso, gli studenti socializzano e apprendono meglio. Prima dei 14-15 anni, il cervello emotivo dei minori è molto vulnerabile all’ingaggio dopaminergico dei social media e dei videogiochi.
Anche nelle scuole bisogna essere coerenti con quello che ci dicono le neuroscienze. Smartphone e tablet devono essere usati solo dai docenti per arricchire le proposte didattiche senza prevedere, in classe o a casa e almeno fino ai 15 anni, alcun uso autonomo degli studenti.

APPELLO
Chiediamo quindi al Governo italiano di impegnarsi per far sì che nessuno dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possa possedere uno smartphone personale prima dei 14 anni e che non si possa avere un profilo sui social media prima dei 16. Aiutiamo le nuove generazioni.

Possibilità di sottoscrivere il testo al seguente link: https://www.change.org/p/stop-smartphone-e-social-sotto-i-14-e-16-anni-ogni-tecnologia-ha-il-suo-giusto-tempo

Primi Firmatari
Daniele Novara, pedagogista e counselor – direttore del CPPP
Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta
Manuela Andretta, magistrato Corte d’Appello di Milano
Laura Beltrami, pedagogista, formatrice e counselor
Lorella Boccalini, pedagogista, formatrice e counselor
Anna Boeri, formatrice, counselor, psicodrammatista
Silvia Bonino, psicologa e psicoterapeuta
Francesco Cappa, pedagogista, università Bicocca-Milano
Lorenza Comi, pedagogista, formatrice e counselor
Emanuela Cusimano, pedagogista e counselor
Cristina Dell’Acqua Grecista, grecista e insegnante
Teresa De Pascale, magistrato della Corte d’appello di Milano
Idor De Simone, medico optometrista
Roberto Farnè, pedagogista, università Bologna
Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’età evolutiva , università La Sapienza, Roma
Brunella Fiore, Università Bicocca-Milano
Michele Gagliano, educatore e formatore
Secondo Giacobbi, psicoanalista
Antonella Gorrino, pedagogista e formatrice
Giovanni Grandi, filosofia morale, università di Trieste
Luca Grion, filosofia morale, università di Udine
Ivano Giuseppe Gamelli, pedagogista, università Bicocca-Milano
Natalia Imarisio, magistrato della Corte d’Appello di Milano
Simone Lanza, insegnante
Fabrizio Lertora, esperto di processi organizzativi e collaborativi
Ivo Lizzola, pedagogista, università Bicocca-Milano
Federica Lucchesini, direttrice rivista “Gli Asini”
Massimo Lussignoli, pedagogista, formatore e counselor
Luigi Luzi, magistrato della Procura della Repubblica di Milano
Raffaele Mantegazza, pedagogista università Bicocca-Milano
Luca Milani, magistrato del Tribunale di Milano
Monica Minciu, università di Torino
Diego Miscioscia, psicologo e psicoterapeuta
Pietro Moscianese, magistrato della Procura della Repubblica per i minori di Milano
Paola Nicolini, psicologa dello sviluppo e dell’educazione, università di Macerata
Alberto Oliverio, neurobiologo, università La Sapienza, Roma
Paolo Orio, Associazione italiana elettrosensibili
Vanja Paltrinieri, pedagogista, formatrice e counselor
Francesca Parola, magistrato della Procura della Repubblica di Busto Arsizio
Elena Passerini, formatrice e psicogrammista
Eva Pattis, analista junghiana
Elisabetta Romoli, insegnante
Maria Teresa Pepe, pedagogista, formatrice e counselor
Laura Petrini, formatrice e consulente educativa
Filippo Sani, formatore, sociologo, pedagogista e counselor
Donatella Savio, pedagogista
Barbara Tamborini, psicopedagogista
Bruno Tognolini, scrittore
Sergio Tramma, pedagogista, università Bicocca-Milano
Silvia Vegetti Finzi, psicologa e scrittrice, università di Pavia
Marta Versiglia, pedagogista
Michele Zappella, neuropsichiatra infantile
Luigi Zoja, psicoanalista

UNITA – Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.

Stefano Accorsi, attore *
Silvia Avallone, scrittrice e poetessa
Marco Bonini, attore *
Valeria Bruni Tedeschi, attrice e regista *
Francesca De Martino, attrice *
Paolo Calabresi, attore e conduttore *
Maria Pia Calzone, attrice *
Paola Cortellesi, attrice e regista *
Pierfrancesco Favino, attore *
Anna Foglietta, attrice *
Claudia Gerini, attrice *
Valeria Golino, attrice e regista *
Edoardo Leo, attore e regista *
Valentina Lodovini, attrice *
Giorgio Marchesi, attore *
Vinicio Marchioni, attore *
Paola Minaccioni, attrice e conduttrice radiofonica *
Carlotta Natoli, attrice *
Claudia Pandolfi, attrice *
Vittoria Puccini, attrice *
Luisa Ranieri, attrice e conduttrice televisiva *
Alba Rohrwacher, attrice *
Francesco Bolo Rossini, attore e regista *
Fabrizia Sacchi, attrice *
Vanessa Scalerà, attrice *
Greta Scarano, attrice *
Stefano Scherini, attore *
Francesco Scianna, attore *
Pietro Sermonti, attore *
Tiberio Timperi, giornalista e conduttore
Thomas Trabacchi, attore *
Luca Zingaretti, attore *

(*) Fanno parte di UNITA – Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.

Presentazione dell’appello dei pedagogisti – smartphone fuori legge prima dei 14 anni https://www.youtube.com/live/P2n6bTcR6mA
Presentazione in Senato della petizione “Stop smartphone e social sotto i 16 e 14 anni” https://www.youtube.com/watch?v=K59SYPgS5Fg

Ulteriori approfondimenti
https://www.orizzontescuola.it/stop-ai-cellulari-in-classe-mercoledi-al-senato-la-presentazione-della-petizione-con-novara-e-pellai/
https://www.agensir.it/italia/2024/09/13/no-smartphone-agli-under-14-alberto-pellai-puo-diventare-una-trappola-che-crea-dipendenza/

 

Redazione Italia

In nome e per conto di tutti i Luca Rossi

Ci sono a volte dei corto circuiti emotivi che consentono dei collegamenti, delle connessioni che offrono sprazzi di lucidità.

Ieri sera ero a una partecipatissima serata organizzata da Hope Club e da Biella antifascista nella cittadina ai piedi del Mucrone.

Ascoltavo Perla Allegri di Antigone e Gianluca Vitale, avvocato, descrivere i dispositivi contenuti nel famigerato DDL Sicurezza, in corso di approvazione in Parlamento.

Sarà stata la stessa emozione che ha portato Perla Allegri ad aprire il suo intervento dicendo che normalmente si sente sola a trattare questi temi scomodi e invece, data la folta partecipazione, “vedere questa sala piena di persone stasera mi riempie il cuore”

Vi è stata poi, certo, una ampia e fattuale spiegazione di come questo Decreto “Sicurezza”, qualora venisse approvato, ci renderà ancora più insicuri, e di quanto sia calibrato per attaccare e rendere penalmente perseguibili i giovani, i migranti e i detenuti. E di questo scriveremo ancora nei prossimi giorni e mesi.

Eppure quella che sento viva, la mattina dopo, è ancora la parte emotiva. Ieri guardavo Perla e mi veniva da piangere di rabbia. Il perché l’ho spiegato nel breve intervento che ho fatto appena conclusi quelli dei relatori.

39 anni fa, a Milano, esattamente il 23 febbraio del 1986 morì un ragazzo a cui, pur non avendolo conosciuto, sono molto legato. Si chiamava Luca Rossi.

E’ la sera del 23 Febbraio 1986. Luca ed un amico, giovani militanti e studenti universitari non ancora ventenni, stanno correndo per prendere la filovia in Piazzale Lugano, quartiere Bovisa di Milano. In un altro punto della stessa piazza, alcune persone discutono prima con calma e poi sempre più animatamente e scoppia una rissa. Una delle persone coinvolte è un agente fuori servizio in forza alla Digos. La rissa è un susseguirsi di pestaggi e discussioni e dopo oltre quindici minuti finisce senza che l’agente chiami rinforzi. Due delle persone coinvolte fuggono in auto ed il poliziotto incapace di affrontare la situazione con la ragione e l’autorità richieste, estrae la sua pistola d’ordinanza ed in posizione di tiro, facendo arbitrariamente e illegittimamente uso delle armi, spara ad altezza d’uomo per colpire i fuggitivi. Uno dei proiettili ferisce a morte Luca che si trovava a passare per caso in quel luogo e in quel momento. Ma non è un “caso” che consente al poliziotto di sparare. E’ una legge, la cosiddetta “Legge Reale” che conta al suo attivo negli anni decine e decine di vittime “per sbaglio”. La successiva sentenza definitiva, che chiude il processo voluto dai familiari per ricerca di verità e giustizia e non certo per vendetta, riconosce l’agente colpevole di omicidio colposo aggravato.

Queste le parole che descrivono la storia di Luca sul sito dei suoi amici e compagni, che poi sono anche i miei compagni e amici.

Il riconoscimento di colpevolezza dell’agente che usò impropriamente la sua arma di servizio e che colpì Luca che correva per prendere il filobus, nel quadro normativo del DDL Sicurezza, non sarebbe più possibile, o sarebbe molto più difficile; in quanto il decreto prevede la possibilità, per il personale di polizia, di avere la propria arma personale in qualunque momento e di poterla utilizzare anche non in servizio.

Ripeto quello che ho detto ieri sera: questa norma è espressione di una ideologia autoritaria che vuole negare tutto ciò che c’è di umano non solo nelle nostre Leggi, ma proprio nelle nostre vite. E’ il caso di non rimanere ulteriormente divisi e isolati. Quello che dobbiamo fare è unirci e combattere. Per restare umani

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento,
perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto,
perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi.
Ma poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente,
perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

 

Ettore Macchieraldo

Scuola: crescono gli alunni ‘non italiani’

SCUOLA. ISMU: GLI ALUNNI ‘NON ITALIANI’ RIPRENDONO AD AUMENTARE
44% EUROPEI, UN QUARTO AFRICANI, MENTRE NEET SONO DOPPIO ITALIANI

(DIRE) Roma, 17 feb. –

La ricostruzione fatta da Fondazione Ismu Ets rivela che, dopo il rallentamento degli ultimi anni, nell’anno scolastico 2022/23 è ripreso a crescere il numero degli alunni con cittadinanza non italiana (Cni), nati all’estero e nati in Italia, toccando le 914.860 presenze.

Tale numero corrisponde all’11,2% sul totale degli iscritti nelle scuole italiane (8.158.138) dalle scuole dell’infanzia alle secondarie di secondo grado.

Per quanto riguarda la provenienza, gli studenti sono originari di circa 200 Paesi diversi.

In particolare, il 44% è di origine europea; più di un quarto è di origine africana; attorno al 20% asiatica e quasi l’8% dell’America Latina.

La cittadinanza più numerosa è rappresentata dalla Romania, con quasi 149mila studenti. Seguono: Albania (118mila presenze) e Marocco (114mila).

I dati del 2022/23 confermano poi che la maggioranza degli studenti con Cni è concentrata nelle regioni settentrionali, a seguire nel Centro e nel Mezzogiorno.

La Lombardia accoglie un quarto degli alunni con background migratorio (231.819 unità), seguita da Emilia-Romagna (111.811), Veneto (99.604), Lazio (83.716) e Piemonte (81.762).

In Emilia-Romagna gli studenti con cittadinanza non italiana rappresentano il 18,4% della popolazione scolastica regionale, il valore più elevato a livello nazionale.

Segue la Lombardia con il 17,1% di alunni con Cni ogni 100 iscritti nelle scuole di diverso ordine e grado.

La provincia italiana con il maggior numero di alunni con Cni rimane Milano (82.396), seguita da Roma (66.385), Torino (40.605) e Brescia (33.362).

Negli ultimi 30 anni poi è diminuita la percentuale di scuole senza allievi con Cni ed è aumentato il numero di istituti con percentuali rilevanti.

Dal 2002/03 al 2022/23 si è passati dal 43,1% del totale di istituti dove gli alunni con Cni erano assenti al 15,5%.

Nello stesso periodo di tempo, le scuole con una percentuale di alunni con background migratorio inferiore al 30% sono cresciute dal 56,9% al 73,3%.

Un aumento più contenuto ha riguardato le scuole con oltre il 30% di alunni con Cni, inesistenti nel 2002/03 e arrivate a rappresentare nel 2022/23 il 7,9% del totale delle scuole italiane.

Il Rapporto Ismu rivela che in 15 anni sono triplicati gli alunni con Cni nati in Italia da genitori immigrati, passando da 588.986 del 2020/21 a 598.745 nel 2022/23, quasi 10mila unità in più.

Dalla prima rilevazione dell’anno scolastico 2007/08 ad oggi, il gruppo è passato da circa 200mila a quasi 600mila e rappresenta il 65,4% degli alunni con Cni.

Cresce l’incidenza delle seconde generazioni: più dei due terzi degli alunni censiti come non italiani sono costituiti dalle cosiddette seconde generazioni.

L’incidenza percentuale di questo gruppo sul totale degli alunni con Cni cresce in tutti i livelli scolastici e ne costituisce attualmente la maggioranza: nelle scuole dell’infanzia, i nati in Italia ogni 100 alunni con background migratorio sono 81; 69 alla primaria, 63 alle secondarie di primo grado e 50 in quelle di secondo grado.

Permane il problema del ritardo scolastico.

Dai primi dati del 2005/06 si è ridotto progressivamente, ma nel complesso rimane ancora elevato, soprattutto nelle secondarie di secondo grado, dove quasi la metà degli studenti di origine immigrata è in ritardo di uno o più anni (48,0%).

Preoccupano anche la lontananza dal sistema di istruzione/formazione/lavoro e l’abbandono scolastico precoce.

Nel 2022 gli Elet (Early leaver from education and training) nati all’estero, cioè i giovani che si sono fermati alla scuola secondaria di primo grado, sono ancora il 28,7% dei 18-24enni stranieri, cioè il triplo degli autoctoni, che scendono al 9,7%.

I giovani in condizione di Neet (Not in Education, Employment or Training, cioè che non studiano né lavorano) tra i 15 e i 29 anni sono il 29% del totale, circa il doppio degli italiani (17,9%).

Agenzia DIRE

Cisgiordania, le ricadute del conflitto sulle scuole cristiane

La guerra ha duramente colpito il sistema educativo nei territori palestinesi, negli istituti dell’area risultano iscritti 22 mila allievi di cui 8 mila cristiani.
Lo scenario delineato durante un recente convegno a Il Cairo
(da Vatican news)

In una Terra Santa gravemente ferita le scuole cristiane, principali custodi della convivenza, sono le vittime collaterali del conflitto in atto nei territori palestinesi.

E’ uno degli aspetti emersi nel corso del convegno al Cairo delle scuole cristiane del Medio Oriente.

Nonostante le numerose difficoltà da superare per entrare e uscire dalla Cisgiordania, per le insegnanti e le direttrici scolastiche di Ramallah e Betlemme questo incontro cairota rappresenta una boccata d’aria fresca.

«Fa bene sentirsi sostenute, in rete», osserva Samia Alama, insegnante di matematica nella scuola femminile delle suore di San Giuseppe, a Betlemme.

E’ esausta, ma con una determinazione incrollabile nel voler sostenere le sue allieve in questo periodo di guerra.
La sua collega Tina Hazboun, docente dell’università di Betlemme, ammette: «Siamo costrette a sorridere, nonostante la tristezza».

Gli effetti della guerra sulle scuole

La guerra scoppiata il 7 ottobre 2023 non ha risparmiato il sistema educativo palestinese.

«Ci vuole molta pazienza», spiega suor Silouane, che coordina l’insegnamento del francese nelle 10 scuole latine dei Territori palestinesi.

Le scuole in Cisgiordania aprono e chiudono a seconda dei combattimenti, della frequenza delle incursioni o del numero di vittime.

Inoltre, se durante la notte le forze di occupazione israeliane istituiscono posti di blocco, alcuni studenti non possono più recarsi a scuola: «Un giorno c’è scuola, un giorno no, a volte all’appello mancano gli studenti, altre volte i professori», osserva suor Silouane.

Le scuole cristiane nei territori

Nelle 65 scuole cristiane dei territori palestinesi sono inscritti 22 mila allievi, di cui 8 mila cristiani.

Prima dell’offensiva israeliana, nella Striscia di Gaza c’erano quattro scuole cristiane, di cui due del Patriarcato latino di Gerusalemme.

Quella della Sacra Famiglia è stata parzialmente distrutta durante l’offensiva militare e tanti professori e genitori degli studenti sono stati uccisi, «anche alcuni studenti cristiani», dice sospirando la religiosa francese.

Nonostante il cessate il fuoco in vigore dal 15 gennaio, la guerra non è scomparsa dalla quotidianità degli alunni.

Lontano dai radar dei media, le incursioni israeliane e la chiusura di strade in Cisgiordania si sono addirittura moltiplicate.
«La guerra non finirà mai, c’è il boato dei missili, ci sono la paura e l’angoscia», racconta suor Silouane.

I traumi sui bambini

La guerra ha inevitabili conseguenze sulla salute mentale degli studenti.

«Stiamo vivendo una situazione critica per gli allievi e le loro famiglie», spiega Naela Rabah, direttrice della scuola greco-cattolica di Ramallah, un istituto misto del Patriarcato melchita di Gerusalemme.

«Non si tratta solo di fare lezione, noi cerchiamo di prenderci cura degli studenti anche a livello psicologico».

L’immensa stanchezza del vivere quotidiano è palpabile in Naela Rabah: «La depressione non colpisce solo gli studenti e le loro famiglie, ma anche i professori», confessa. Eppure l’energica direttrice non si risparmia per garantire il benessere dei suoi allievi.

Stessa considerazione per le due insegnanti e amiche della scuola delle suore di San Giuseppe a Betlemme: «Le ragazze ci chiedono: “Perché imparare quando non c’è futuro?”», dicono, commosse ma battagliere.

«Bisogna fare in modo che i bambini abbiano voglia di restare in Palestina», affermano.
Perciò Tina Hazboun ha creato un programma speciale per le donne nella filiera tecnologica, una garanzia di motivazione e di emancipazione nella loro terra.

I dati dell’Unicef

Secondo l’Unicef, i bambini scolarizzati in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono 782.000, ma secondo il ministero dell’Istruzione locale, da ottobre 2023, tra l’8 e il 20% delle scuole dei territori palestinesi occupati sono state chiuse.

Se la situazione politica resta ufficialmente fuori dalle aule, nell’orario scolastico sono previsti momenti di dialogo, individuali o in gruppo, a seconda dei bisogni dei bambini.

«Lavoriamo molto su come capire gli altri, su come comunicare con le persone che hanno opinioni diverse dalle nostre, su come accettare gli altri …», spiega Naela Rabah, direttrice dell’istituto di Ramallah che accoglie, come tutte le scuole cristiane, bambini di tutte le confessioni.

«In tutto il Medio Oriente, bisogna imparare a praticare la non violenza, cioè come reagire nei conflitti, a non cedere alla rabbia, a trovare soluzioni di pace, a dialogare, ad accompagnare l’altro», aggiunge suor Silouane.

Scuole di dialogo

A Betlemme, culla del cristianesimo ma anche della convivenza religiosa, l’istituto San Giuseppe accoglie 800 allieve, di cui 50% musulmane, e «non c’è nessun problema», spiega semplicemente Samia Alama, «i musulmani sono abituati a parlare con noi».

Le scuole non sono “zone protette” e non vengono quindi risparmiate dalle difficoltà economiche generate dalla guerra.

Soprattutto a Betlemme, da un giorno all’altro i pellegrini non sono più arrivati, e la maggior parte dei genitori degli alunni lavorava proprio nel settore del turismo o dei pellegrinaggi.

Alcuni non riescono più a pagare le rette scolastiche, già ridotte al minimo.

Questo clima economico sfavorevole grava sul morale dei genitori e di conseguenza su quello dei bambini e degli adolescenti.

Questi ultimi hanno tante aspirazioni, ma «sono realisti, vedono bene che molte porte sono chiuse» osserva rattristata suor Silouane, «bisognerà convivere con questa realtà».

Redazione Italia