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Internazionale

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

I centri per migranti in Albania: un fallimento senza vergogna

I lavoratori, assunti a seguito dell’accordo tra Italia e Albania, sono stati licenziati nei giorni scorsi per “manifesta inutilità”. Assistiamo all’ennesimo fallimento delle politiche migratorie, peraltro in questo caso sbandierato come un grande successo da parte del nostro governo.

Gli accordi tra Italia e Albania per la creazione dei centri di trattenimento dei migranti si sono rivelati un completo insuccesso. Questo è evidente poiché tutti i migranti trasferiti dall’Italia a questi centri sono stati rapidamente rimandati indietro. Il fallimento è ulteriormente confermato dal licenziamento del personale impiegato per la gestione dei centri.

Il primo a riportare il licenziamento è stato il quotidiano “Domani“, che ha ottenuto la comunicazione con cui la cooperativa Medihospes ha terminato il contratto con i lavoratori impiegati nei centri in Albania.

La Medihospes è una cooperativa italiana specializzata in assistenza sociale e sanitaria, con sede a Roma. Opera in diverse strutture nel Lazio, in Puglia e in Basilicata. Dallo scorso ottobre, Medihospes è attiva anche in Albania dove, dopo aver vinto un bando di 134 milioni di euro indetto dal Ministero dell’Interno, gestisce i centri di Shengjin e Gjader, sebbene queste strutture non siano indicate sul loro sito.

Per questo progetto, la cooperativa ha reclutato mediatori culturali, autisti, medici, consulenti legali, addetti alle pulizie, psicologi, personale amministrativo, esperti informatici e altre figure professionali.

Il licenziamento, in vigore dal 15 febbraio, coinvolge la maggior parte dei dipendenti. Soltanto il personale essenziale resterà in servizio, tra cui alcuni medici, addetti alle pulizie e agenti di sicurezza.

L’accordo tra Italia e Albania

Il progetto stabilito dall’accordo tra Italia e Albania prevede la realizzazione di due centri: il primo a Shengjin, lungo la costa, dove attraccano le navi italiane che trasportano i migranti dall’Italia all’Albania. A Shengjin si svolge lo sbarco e l’identificazione dei migranti, un processo che è stato ripetuto più volte, incluso al momento dell’imbarco in Italia. Dopo lo sbarco e l’identificazione, i migranti vengono trasferiti al secondo centro, situato a Gjader, nell’entroterra albanese.

Nei centri vengono trasferite persone che, dopo una valutazione preliminare e senza garanzie, sembrano non soddisfare i criteri per ricevere asilo. In base all’accordo, i migranti rimangono in questi centri in attesa della decisione finale, che può essere di due tipi: l’accoglimento della richiesta di asilo, che consentirebbe loro di tornare in Italia, o il rigetto della richiesta, con conseguente espulsione. I migranti portati in Albania sono quelli soccorsi in mare dalla Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza Italiana, escludendo quelli salvati dalle ONG, evidenziando una discriminazione ulteriore.

I trasferimenti, secondo quanto stabilito dall’accordo, sono gestiti dalle autorità albanesi. Invece, l’Italia è responsabile della gestione interna dei centri, inclusa la cura delle persone durante la loro permanenza. Questo accordo comporta un trasferimento non solo di persone, ma anche di responsabilità e competenze, presentando numerose criticità logistiche e potenziali conflitti con le norme costituzionali.

Un progetto fallimentare ha portato al licenziamento del personale, poiché, dopo circa cinque mesi dall’apertura, nessuno è presente nelle strutture. Ogni volta che i migranti sono stati trasferiti in Albania, i giudici italiani non hanno mai convalidato la loro detenzione in questi centri, ordinandone il ritorno in Italia. Le convalide non sono avvenute perché in alcuni casi si trattava di minorenni o persone vulnerabili, con problemi di salute mentale o fisica. In generale, i giudici non hanno convalidato i fermi perché questo tipo di gestione viola le norme europee sulla gestione dei migranti.

L’accordo tra i due Paesi prevede l’invio di migranti provenienti da nazioni considerate sicure. Tuttavia, la questione dei Paesi sicuri è complessa, poiché l’Italia ritiene sicuri alcuni Stati che l’Unione Europea non considera tali, come la Tunisia, nota per la tratta di esseri umani, o la Nigeria. Inoltre, in Albania sono state trasferite persone provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, dove l’omosessualità è illegale e punibile con il carcere.

Questo elemento dell’omosessualità non dovrebbe essere trascurato nell’interpretazione giuridica, poiché per l’Unione Europea ogni individuo deve sentirsi completamente al sicuro nel proprio Paese di origine, senza dover rivelare le proprie preferenze sessuali o altri dettagli personali. Il prossimo 25 febbraio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dovrebbe chiarire l’interpretazione delle norme sui “Paesi di origine sicuri”.

Il fallimento del progetto dei centri in Albania è evidente, tanto che il governo sta considerando un cambio di destinazione d’uso. Tra le possibilità c’è quella di trasformare queste strutture in CPR, centri permanenti per il rimpatrio, simili a quelli già esistenti in Italia. Tuttavia, i CPR sono anche criticati per la cattiva gestione e le condizioni disumane in cui si trovano.

Tutto ciò evidenzia la determinazione politica italiana, principalmente di questo governo ma non esclusivamente, nel proseguire su una gestione inumana dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente stringendo accordi con Paesi come Libia e Tunisia, noti per violazioni sistematiche dei diritti umani, complicità in violenze, torture e tratta di esseri umani. Gestione disumana che ha dato origine a luoghi crudeli come i CPR, noti per le comprovate violazioni dei diritti umani, culminando infine nella creazione di questi centri in Albania.

Un gioco politico e di potere svolto a scapito di persone trattate come merce da trasferire da uno Stato all’altro, rinchiuse in centri di vario tipo, spesso senza giustificazione e considerate come se fossero sacrificabili. Figure di potere che sembrano ignorare l’impatto delle loro decisioni sugli esseri umani, indifferenti alle conseguenze che tale disumanità può avere sul cuore, sulla mente e sull’anima di queste persone.

 

Heraldo

Oltre 230 organizzazioni globali chiedono ai governi che producono i caccia F-35 di smettere di armare Israele

Oltre 230 organizzazioni della società civile globale hanno chiesto con una lettera congiunta ai governi che fanno parte del programma del cacciabombardiere Joint Strike Fighter di interrompere immediatamente tutti i trasferimenti di armi a Israele, inclusi i caccia F-35. Organizzazioni della società civile di tutto il mondo hanno intrapreso azioni legali per mettere i propri governi di fronte alle proprie responsabilità sul programma F-35 e sulla complicità nei crimini di Israele a Gaza.

Negli ultimi mesi, le Forze Armate di Israele (IDF) hanno utilizzato caccia F-35 per effettuare bombardamenti sui civili palestinesi di Gaza. Tra i vari episodi, è stato accertato come nel luglio 2024 un F-35 sia stato utilizzato per sganciare tre bombe da 2.000 libbre in un attacco alla cosiddetta “zona sicura” di Al-Mawasi a Khan Younis, uccidendo 90 palestinesi.

Nonostante tutti i Paesi partner del programma Joint Strike Fighter abbiano l’obbligo legale di fermare le esportazioni di armi verso Israele, i governi di tali Stati continuano a consentire il trasferimento di parti dei cacciabombardieri F-35. Gli esecutivi hanno assunto posizioni incoerenti, affermando ad esempio che le licenze di armamento verso Israele siano state sospese, ma consentendo al contempo i trasferimenti nell’ambito delle licenze esistenti o la fornitura “indiretta” attraverso gli Stati Uniti d’America o altri partner dell’F-35. Un movimento globale di cause legali intraprese dalla società civile è dunque cresciuto in tutti i Paesi che partecipano al programma F-35, per evidenziare le responsabilità dei decisori politici (e amministrativi) al riguardo del trasferimento di caccia e componenti F-35 a Israele.

Il programma dei caccia F-35 è emblematico della complicità dell’Occidente nei crimini di Israele contro i Palestinesi“, sottolinea Katie Fallon, responsabile advocacy della Campaign Against Arms Trade che ha coordinato il lavoro sulla lettera congiunta. “Questi jet sono stati determinanti nei 466 giorni di bombardamenti israeliani su Gaza e in violazioni che includono crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Dopo il cessate il fuoco limitato recentemente raggiunto il governo degli Stati Uniti d’America, partner principale del programma F-35, ha minacciato Gaza di una pulizia etnica di massa e di uno sfollamento forzato. Questo programma d’armamento fornisce il consenso materiale e politico di tutti i partner occidentali affinché questi crimini continuino”.

Le organizzazioni firmatarie della lettera congiunta, pur accogliendo con favore il limitato cessate il fuoco temporaneo, sottolineano come gli ultimi 15 mesi abbiano dimostrato con devastante chiarezza che Israele non si impegna a rispettare il diritto internazionale. È quindi imperdonabile che i nostri governi continuino a fornire trasferimenti di armi a Israele, implicandosi potenzialmente in crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel dicembre 2024 un’indagine di Amnesty International ha concluso che Israele ha commesso e sta commettendo un genocidio contro i palestinesi di Gaza, mentre Human Rights Watch ha riferito che “le autorità israeliane sono responsabili del crimine contro l’umanità di sterminio e di atti di genocidio”.

“Il ruolo dell’Italia come partner di secondo livello nel programma Joint Strike Fighter (e come unico Paese in Europa a ospitare sul proprio territorio un impianto di assemblaggio finale del caccia F-35) desta grande preoccupazione nella società civile italiana impegnata per la Pace. C’è infatti il fondato timore che la presenza della FACO (Final Assembly and Check Out) a Cameri (Nord Italia) possa configurare vari livelli di coinvolgimento nella fornitura di parti di ricambio e attività di manutenzione dell’F-35 a Israele” evidenzia Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace Disarmo. “C’è quindi il rischio che l’Italia svolga un ruolo di complicità o di facilitazione nei confronti di Israele e delle sue strutture militari rispetto alle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario in atto a Gaza e in Cisgiordania. Inoltre, ciò smentirebbe e vanificherebbe la decisione presa dal Governo italiano nell’ottobre 2023 di interrompere le forniture militari a Israele.”

Di seguito il testo della lettera congiunta inviata alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale Antonio Tajani e al Ministro della Difesa Guido Crosetto.

Lettera congiunta di organizzazioni della società civile internazionale sull’invio di armamenti ad Israele, in particolare per quanto riguarda il Programma JSF del Cacciabombardiere F-35

Vi scriviamo come gruppo di organizzazioni dei Paesi partner del programma globale del cacciabombardiere F-35 – insieme ad altre organizzazioni che sostengono questa nostra presa di posizione – per chiedere ai nostri governi di fermare immediatamente tutti i trasferimenti di armi, diretti e indiretti, a Israele compresi quelli relativi agli aerei da combattimento F-35, i loro componenti e le loro parti di ricambio.

Dopo 466 giorni di offensiva militare israeliana a Gaza, accogliamo con favore il cessate il fuoco limitato entrato in vigore il 19 gennaio e chiediamo ai nostri governi di sostenere ogni sforzo per porre fine in modo permanente alle atrocità in corso. Gli ultimi 15 mesi hanno dimostrato con devastante chiarezza che Israele non si impegna a rispettare il diritto internazionale. La fragilità del cessate il fuoco a Gaza evidenzia il rischio di ulteriori violazioni e dunque la necessità di interrompere le esportazioni di armi verso Israele, compresi gli F-35. Ciò è sottolineato anche dal continuo uso illegale da parte di Israele di aerei da combattimento militari nella Cisgiordania occupata, in particolare a Jenin.

I Paesi partner del programma F-35 non sono riusciti, individualmente e collettivamente, a impedire che questi aerei venissero utilizzati per commettere gravi violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, in particolare con evidente chiarezza nei Territori Palestinesi occupati, compresi crimini internazionali, nonostante le prove schiaccianti a riguardo. Gli Stati non sono stati disposti a rispettare i loro obblighi legali internazionali e/o hanno sostenuto che la struttura del programma F-35 implica l’impossibilità di applicare controlli nei confronti di qualsiasi utente finale, rendendo così l’intero programma incompatibile con il diritto internazionale.

Il bombardamento e la distruzione senza precedenti di Gaza da parte di Israele hanno portato a incommensurabili sofferenze umane, devastazioni ambientali e catastrofi umanitarie. La Corte internazionale di giustizia (CIG) ha ordinato a Israele misure provvisorie per prevenire il genocidio contro il popolo palestinese a Gaza nel gennaio 2024. Nel dicembre 2024, un’indagine di Amnesty International ha concluso che Israele ha commesso e sta commettendo un genocidio contro i palestinesi di Gaza e Human Rights Watch ha riferito che “le autorità israeliane sono responsabili del crimine contro l’umanità di sterminio e di atti di genocidio”.

Un cessate il fuoco temporaneo non significa la fine delle violazioni del Diritto internazionale da parte di Israele né annulla il rischio consolidato che i trasferimenti di armi a Israele possano essere utilizzati per commettere o facilitare tali violazioni. Ciò include, ma non si limita a, l’occupazione e l’annessione in corso di Israele dei territori palestinesi, che la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha già concluso essere illegale.

Israele ha ucciso più di 46.707 persone a Gaza e si stima che i resti di altre 10.000 persone siano ancora sotto le macerie. Almeno il 90% dei palestinesi di Gaza è stato sfollato con la forza, in condizioni inadatte alla sopravvivenza umana. Le forze israeliane hanno ripetutamente attaccato obiettivi civili, tra cui siti di distribuzione degli aiuti, tende, ospedali, scuole e mercati. Circa il 69% di tutte le strutture di Gaza sono state distrutte o danneggiate dai bombardamenti. Nonostante queste realtà devastanti e i crimini sul terreno, i nostri Governi hanno continuato a rifornire militarmente Israele attraverso il programma F-35.

IL PROGRAMMA F-35

I governi di alcuni Paesi partner del Programma F-35 – in particolare Canada, Danimarca, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito – hanno limitato alcune esportazioni di sistemi d’armamento verso Israele a causa del rischio che queste armi vengano utilizzate da Israele per commettere violazioni del diritto internazionale a Gaza. Nel settembre 2024, il governo britannico ha ritenuto di “non poter concludere altro che” per alcune esportazioni di armi del Regno Unito verso Israele, tra cui i caccia F-35, esiste un chiaro rischio che possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale a Gaza. È allarmante che, nonostante queste inconfutabili ammissioni, ci sia stato uno sforzo concertato per sostenere il trasferimento di componenti al programma F-35, consentendo un continuo trasferimento diretto e indiretto a Israele.

I Paesi partner dell’F-35 hanno presentato una serie di posizioni incoerenti che consentono di continuare a esportare parti e componenti dell’F-35 verso Israele, dichiarando tra l’altro che le licenze di esportazione di armi verso Israele sono state sospese e consentendo al contempo i trasferimenti nell’ambito delle licenze esistenti o la fornitura “indiretta” attraverso gli Stati Uniti o altri partner dell’F-35. Il Regno Unito ha sostenuto che, per ragioni di pace e sicurezza internazionale, ha disatteso i propri criteri di autorizzazione all’esportazione di armi e gli obblighi legali internazionali per continuare a esportare componenti per il programma F-35, consentendo il successivo trasferimento a Israele, sostenendo che si tratta di una “questione di tale gravità che avrebbe prevalso su qualsiasi […] ulteriore prova di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario”. In effetti, a questo punto si può ritenere che non sussistano circostanze per cui questa fornitura di componenti per l’F-35 verrebbe sospesa.

Questi cacciabombardieri hanno operato a Gaza armati di munizioni tra cui bombe da 2.000 libbre (esplosivi con un raggio letale fino a 365 metri, un’area equivalente a 58 campi da calcio). Nel giugno 2024, un rapporto delle Nazioni Unite ha identificato queste bombe come utilizzate in casi “emblematici” di attacchi indiscriminati e sproporzionati a Gaza che “hanno portato a un alto numero di vittime civili e a una diffusa distruzione di oggetti civili”.

Il 2 settembre 2024, proprio il giorno in cui il governo britannico ha annunciato un’esenzione per i componenti dell’F-35, l’ONG danese Danwatch ha rivelato che un F-35 è stato utilizzato a luglio per sganciare tre bombe da 2.000 libbre in un attacco contro una cosiddetta “zona sicura” ad Al-Mawasi, a Khan Younis, uccidendo 90 palestinesi. Questo bombardamento segue lo schema degli attacchi israeliani a Gaza in violazione del diritto umanitario internazionale.

OBBLIGHI LEGALI E FUTURI SVILUPPI

Tutti i partner del programma F-35 sono Stati parte del Trattato sul commercio di armi (ATT), ad eccezione degli Stati Uniti, che ne sono solamente firmatari. Gli Stati firmatari dell’ATT sono tenuti a prevenire i trasferimenti diretti e indiretti di attrezzature e tecnologie militari, comprese parti e componenti, qualora vi sia il rischio assoluto che tali attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto internazionale umanitario (DIU) o del diritto internazionale dei diritti umani.

Questi e altri obblighi vincolanti sono contenuti negli articoli 6 e 7 dell’ATT. Gli Stati sono inoltre vincolati dall’obbligo di garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario ai sensi dell’articolo comune 1 della Convenzione di Ginevra e del diritto internazionale umanitario consuetudinario, che impone agli Stati di “astenersi dal trasferire armi se si prevede, sulla base di fatti o della conoscenza di modelli passati, che tali armi saranno utilizzate per violare le Convenzioni”.

Tutti gli Stati partner del Programma F-35 hanno una legislazione aggiuntiva che rafforza questi obblighi internazionali a livello nazionale o europeo. I continui trasferimenti di armi al governo israeliano sono contrari alla legge statunitense, che ad esempio vieta il trasferimento di aiuti militari a governi che limitano la fornitura di assistenza umanitaria statunitense. Inoltre, tutti i partner dell’F-35 hanno ratificato o aderito alla Convenzione sul genocidio e si sono impegnati a “prevenire e punire” il crimine di genocidio.

Questi obblighi sono rafforzati dai pronunciamenti della Corte internazionale di giustizia, che nell’aprile 2024 ha ricordato agli Stati parte della Convenzione sul genocidio i loro obblighi internazionali in materia di trasferimento di armi alle parti di un conflitto armato, per evitare il rischio che tali armi possano essere utilizzate per violare la Convenzione (paragrafo 24). Nel luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia ha chiarito che gli Stati non devono aiutare o assistere Israele nella sua occupazione illegale del territorio palestinese occupato, anche attraverso rapporti economici o commerciali. La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel novembre 2024.

RISPOSTE LEGALI E POLITICHE

In tutte le giurisdizioni dei Paesi partner del Programma F-35, interventi legali e politici hanno cercato di far rispettare gli obblighi legali nazionali e internazionali dei governi per fermare le esportazioni di armi verso Israele, comprese le parti per i caccia F-35. Sono state avviate cause legali in Australia, Canada, Danimarca, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti.

Nel Regno Unito, Al-Haq e Global Legal Action Network stanno portando il governo britannico davanti alla Corte Suprema con un ricorso giudiziario che contesta la decisione di escludere i componenti per il programma globale F-35 dalla sospensione del settembre 2024 di circa 30 licenze di armi a Israele. Nel novembre 2024, la Corte Suprema dei Paesi Bassi è stata consigliata dal suo avvocato generale di confermare la sentenza della Corte d’Appello dell’Aia che ordinava al governo olandese di bloccare l’esportazione di parti dell’F-35 dai Paesi Bassi a Israele. La sentenza fa seguito a una causa intentata da Oxfam Novib, PAX e The Rights Forum.

In Australia, Al Haq, il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e il Centro Palestinese per i Diritti Umani, rappresentati dal Centro Australiano per la Giustizia Internazionale, hanno presentato un esposto chiedendo al Ministro della Difesa di revocare tutti i permessi di esportazione in corso o in essere verso Israele, anche attraverso gli Stati Uniti. Di conseguenza, il governo ha intrapreso una revisione che ha rivelato che l’Australia aveva fatto “decadere” o “modificare” 16 licenze di esportazione verso Israele. I gruppi continuano a essere preoccupati per l’assenza di trasparenza in relazione a questa revisione, compreso il fatto se le parti dell’F-35 siano state o meno prese in considerazione. Altri casi sono in corso nei Paesi partner dell’F-35 Canada e Danimarca, oltre che in Germania e Belgio.

CONCLUSIONI

L’incapacità di tutte le nazioni partner del programma di armamento JSF per il caccia F-35 di applicare i propri obblighi legali nazionali, regionali o internazionali interrompendo la fornitura di parti e componenti dell’F-35 a Israele ha portato a danni devastanti e irreparabili per i palestinesi di Gaza. Questo fallimento indica che le nazioni partner non sono effettivamente in grado o non sono disposte ad applicare i loro presunti regimi di controllo delle esportazioni di armi, oppure che hanno scelto di applicare la legge in modo selettivo, escludendo i palestinesi dalla propria  protezione.

Chiediamo a tutti gli Stati partner del programma F-35 di fare tutto ciò che è in loro potere per allineare il programma Joint Strike Fighter agli opportuno obblighi legali e di interrompere immediatamente il trasferimento diretto e indiretto di parti e componenti di F-35 a Israele.

LISTA COMPLETA DELLE ORGANIZZAZIONI FIRMATARIE

Australia (Partner del Programma F-35)

  1. Amnesty International Australia
  2. AusRelief
  3. Australian Centre for International Justice
  4. Australia Palestine Advocacy Network (APAN)
  5. Australian Social Workers for Palestine
  6. Canberra Palestine and Climate Justice
  7. Central West New South Wales for Palestine & We Vote for Palestine
  8. Coalition for Justice and Peace in Palestine
  9. Disrupt Wars
  10. Free Gaza Australia
  11. Free Palestine Melbourne
  12. Independent and Peaceful Australia Network (IPAN)
  13. Independent & Peaceful Australia Network (IPAN) Geelong & Vic Southwest
  14. Inner West for Palestine
  15. Institute of non-violence
  16. Jewish Council of Australia
  17. Jews Against the Occupation ’48
  18. Just Peace
  19. Knitting Nannas, Central Coast and Midcoast
  20. Medical Association for Prevention of War
  21. Mums for Palestine
  22. Neptune’s Pirates
  23. No Weapons for Genocide
  24. Northern Rivers Friends of Palestine
  25. Palestine Action Group Muloobinba
  26. Palestine Network Shining Waters Region (PalNet SW), The United Church of Canada
  27. People’s Climate Assembly
  28. Rising Tide
  29. Settlement Services Australia
  30. Social and Ecological Justice Commission (United Church of Canada)
  31. Sydney Peace Foundation
  32. Quakers Australia
  33. Wage Peace

Austria

  1. Yante – Youth, Art, and Levante

Belgio 

  1. Al-Haq Europe
  2. Vredesactie 

Canada (Partner del Programma F-35)

  1. Al Huda Institute Canada
  2. Amnesty International Canadian Section
  3. Arab Left Forum
  4. Bathurst Street United Church
  5. The Canadian BDS Coalition & International BDS Allies
  6. Canadian Foreign Policy Institute
  7. Canadian Lawyers for International Human Rights
  8. Canadian Muslim Healthcare Network
  9. Canadians for Justice and Peace in the Middle East
  10. Canadians for Justice and Peace in the Middle East Saskatoon Chapter (CJPME Sask chapter)
  11. Collectif de Québec pour la paix / Quebec City Collective for Peace
  12. Health Workers Alliance for Palestine
  13. Independent Jewish Voices Canada
  14. IslamicFamily
  15. Just Peace Advocates/Mouvement Pour Une Paix Juste
  16. Justice For All Canada
  17. Labour Against the Arms Trade
  18. Manitoba Healthcare Workers for Palestine
  19. Mennonite Church Manitoba Palestine Israel Network
  20. Ontario Palestinian Rights Association (OPRA)
  21. Oxfam-Québec
  22. Palestinian and Jewish Unity (PAJU)
  23. Project of Heart
  24. Project Ploughshares
  25. Solidarité Sherbrooke-Gaza
  26. RightonCanada
  27. United Network for Justice and Peace in Palestine and Israel (UNJPPI)

Danimarca (Partner del Programma F-35)

  1. ActionAid Denmark
  2. Amnesty International Danmark
  3. Oxfam Denmark

Francia

  1. Amnesty International France

Italia (Partner del Programma F-35)

  1. Rete Italiana Pace e Disarmo
  2. Accademia Apuana della Pace
  3. Amnesty International Italia
  4. ARCI-Italy
  5. Ass. Adl Zavidovici
  6. Associazione Percorsi di pace
  7. Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani aps
  8. AssoPacePalestina
  9. Beati i costruttori di pace (Blessed Are the Peacemakers)
  10. Center for Research and Elaboration on Democracy (CRED)
  11. Centro Studi Sereno Regis
  12. CIPAX Centro interconfessionale per la pace
  13. Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti (CNCA)
  14. COSPE NGO
  15. Diritto Diretto
  16. Emmaus Italia
  17. Fondazione Finanza Etica
  18. Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo
  19. MIR (Movimento internazionale della Riconciliazione)
  20. Movimento Nonviolento
  21. Scuola di Pace del Comune di Senigallia
  22. Un Ponte Per

India

  1. Gig Worker Association

Iraq

  1. Al-Taqwa Association for Women and Children’s Rights

Irlanda

  1. Anti Racism World Cup

Jamaica

  1. Kingston and St Andrew Action Forum

Giordania 

  1. Campaign Against Gaza Genocide

Libano

  1. Al-Jana Center
  2. KAFA (enough) Violence & Exploitation
  3. Permanent Peace Movement
  4. WILPF Lebanon

Marocco

  1. Association Mains Libres

Messico

  1. Centro de Estudios Ecuménicos

Nepal 

  1. Path
  2. Women for Peace and Democracy Nepal (WPD Nepal)

Paesi Bassi (Partner del Programma F-35)

  1. Amnesty International Netherlands
  2. Feminists of Maastricht
  3. Oxfam Novib
  4. PAX
  5. The Rights Forum
  6. Stop Wapenhandel
  7. Transnational Institute

Norvegia (Partner del Programma F-35)

  1. Amnesty International Norway
  2. The Association of Norwegian NGOs for Palestine
  3. Changemaker
  4. Fagforbundet – Norwegian Union of Municipal and General Employees
  5. Jødiske Stemmer for Rettferdig Fred  (Jewish Voices. – Norway)
  6. NTL OsloMet Metropolitan University (trade union)
  7. The Palestine Committee of Norway
  8. Palestinas Venner OsloMert
  9. Sosialistisk Venstreparti

Palestina

  1. Al-Haq
  2. Al Mezan Center for Human Rights
  3. International Committee to Support the Rights of the Palestinian People
  4. The Palestinian Initiative for the Promotion of Global Dialogue and Democracy-MIFTAH
  5. Palestinian Working Woman Society for Development PWWSD

Svizzera 

  1. Control Arms

Sri Lanka

  1. Forum on Disarmament and Development 

Turchia 

  1. Worldwide Lawyers Association

Regno Unito (Partner del Programma F-35)

  1. ActionAid UK
  2. Action For Humanity
  3. Action on Armed Violence
  4. Amnesty International UK
  5. Anglican Pacifist Fellowship
  6. Bahrain Institute for Rights and Democracy (BIRD)
  7. Bank Better
  8. Boycott Bloody Insurance
  9. British Arab Nursing and Midwifery Association
  10. British Palestinian Committee
  11. Cambridge Branch – Communist Party of Britain
  12. Cambridge Stop the War Coalition
  13. Cambridgeshire Keep Our NHS Public
  14. Campaign Against Arms Trade
  15. Campaign against Misrepresentation in Public Affairs, Information and the News (CAMPAIN)
  16. Campaign for Nuclear Disarmament
  17. Coal Action Network
  18. Common Wealth
  19. Conflict and Environment Observatory
  20. Council for Arab-British Understanding
  21. Cuba Solidarity Campaign
  22. Embrace the Middle East
  23. FairSquare
  24. ForcesWatch
  25. Gaza Genocide Emergency Committee (Glasgow)
  26. Glasgow Palestine Human Rights Campaign
  27. Global Justice Now
  28. Global Legal Action Network
  29. Health Workers 4 Palestine
  30. Independent Catholic News
  31. International Centre for Justice for Palestinians
  32. International Solidarity Movement Scotland
  33. The Iona Community
  34. Jewish Network for Palestine
  35. Merseyside Pax Christi
  36. National Justice and Peace Network, England and Wales
  37. Omega Research Foundation
  38. Palestine Action
  39. Palestine House
  40. Palestine Solidarity Campaign
  41. Pax Christi England and Wales
  42. The Peace and Justice Project
  43. Richmond & Kingston Palestine Solidarity Campaign
  44. Sabeel-Kairos UK
  45. Saferworld
  46. Scientists for Global Responsibility (SGR)
  47. Scotland Against Criminalising Communities
  48. Shadow World Investigations
  49. Thanet 4 Palestine
  50. Tipping Point UK
  51. War on Want
  52. United Tech and Allied Workers
  53. Women in Black Edinburgh
  54. Women in Black London
  55. Workers for a Free Palestine

Stati Uniti d’America (Capofila del Programma F-35)

  1. Action Corps
  2. American Friends Service Committee
  3. Amnesty International USA
  4. Art Forces
  5. Association for Investment in Popular Action Committees
  6. Austin For Palestine Coalition
  7. Center for Civilians in Conflict (CIVIC)
  8. Center for Constitutional Rights
  9. Doctors Against Genocide
  10. Episcopal Peace Fellowship Palestine Israel Network
  11. Fellowship of Reconciliation
  12. Friends of Sabeel North America (FOSNA)
  13. Global Centre for the Responsibility to Protect (GCR2P)
  14. Global Ministries of the Christian Church (Disciples of Christ) and United Church of Christ
  15. Green Mountain Solidarity With Palestine
  16. Green Mountain Veterans For Peace
  17. Honor the Earth
  18. Indiana Center for Middle East Peace
  19. KinderUSA
  20. Madison-Rafah Sister City Project
  21. The Middle East Children’s Alliance for Peace
  22. National Lawyers Guild- Palestine Sub Committee
  23. New Mexico Jews for a Free Palestine
  24. A New Policy
  25. Nonviolence International
  26. Palestine Justice Network of the Presbyterian Church (U.S.A.)
  27. Palestinian Youth Movement
  28. Peace Action
  29. People’s Arms Embargo
  30. RepresentUS New Mexico
  31. Safe Skies Clean Water Wisconsin
  32. Santa Fe Democratic Socialists of America
  33. Security in Context
  34. Showing Up for Racial Justice (SURJ) Northern New Mexico chapter
  35. Tech Justice Law Project
  36. USA Palestine Mental Health Network
  37. Vermont and New Hampshire Chapter of the National Lawyers Guild
  38. Will Miller Social Justice Lecture Series
  39. WESPAC Foundation, Inc.

Organizzazioni Internazionali

  1. Al-Haq Europe
  2. Cairo Institute for Human Rights Studies
  3. Center for Civilians in Conflict (CIVIC)
  4. Emergent Justice Collective
  5. Human Rights Watch
  6. International Coalition to Stop Genocide in Palestine
  7. Oxfam International
  8. Pax Christi International
  9. United Methodists for Kairos Response (UMKR)
  10. War Resisters’ International
  11. Women’s International League for Peace and Freedom
  12. World BEYOND War

 

 

Rete Italiana Pace e Disarmo

Prodotti fitosanitari: gli effetti sulla biodiversità sono più dannosi del previsto

I prodotti fitosanitari sono utilizzati principalmente in agricoltura per controllare la diffusione dei parassiti. Tuttavia, tali prodotti possono anche danneggiare molte specie di animali, piante e funghi non bersaglio utili. Quanto siano dannosi e finora sconosciuti gli effetti reali dei diversi pesticidi su una varietà di gruppi di organismi è stato dimostrato da un meta-studio internazionale realizzato con la partecipazione del Leibniz Institute for the Analysis of Biodiversity Change (LIB). La sintesi dei 1.705 lavori di ricerca sul tema è stata pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Gli autori dello studio precisano che, con la crescente domanda di cibo e l’aumentare della resistenza dei parassiti ai prodotti fitosanitari, è necessaria una migliore valutazione del rischio. I prodotti fitosanitari possono ora essere rilevati in quasi tutti gli ecosistemi in varie miscele e concentrazioni. Tuttavia, le conoscenze degli effetti sugli organismi non bersaglio non erano ancora disponibili in modo completo.

Per la realizzazione di questo meta-studio, ricercatori proveninenti da tutto il mondo hanno raccolto per oltre dieci anni 1.705 lavori scientifici basati su standard di raccolta e analisi dei dati trasversali. Lo studio fornisce un quadro completo sull’argomento ed è stato creato sotto la guida di scienziati cinesi dello Shanghai Key Laboratory of Chemical Biology, School of Pharmacy, East China University of Science and Technology, Shanghai, Cina. Infatti, gli autori sottolineano che le conoscenze, ottenibili dalla sintesi quantitativa dei lavori, sono indispensabili per creare un quadro nazionale e internazionale per la gestione critica dei prodotti fitosanitari.

I nuovi pesticidi sono più dannosi del previsto per tutti gli organismi

I ricercatori presentano una sintesi degli effetti di 471 diversi agenti pesticidi su 830 specie di organismi non bersaglio (piante, animali e microrganismi) a diversi livelli della catena alimentare. Di conseguenza, tutti gli organismi, compresi gli impollinatori, i pesci e gli anfibi, mostrano reazioni negative nella loro crescita, riproduzione, comportamento e sopravvivenza. Anche i funghi e le piante ne risentono.

Nelle analisi basate su esperimenti condotti in laboratorio e sul campo, l’effetto dei pesticidi di nuova generazione (quelli attualmente autorizzati nell’UE) era simile a quello dei pesticidi più vecchi. Secondo gli autori, sarebbe difficile trovare prove del fatto che lo sviluppo e l’approvazione di nuovi principi attivi ridurrebbero i rischi.

«La procedura di autorizzazione dei pesticidi è complessa e laboriosa, quindi è ancora più sorprendente che il nostro studio riconosca che gli effetti dei prodotti fitosanitari sono molto più ampi e profondi di quanto si pensasse in precedenza», afferma Christoph Scherber, vicedirettore del LIB e direttore del Centro per il monitoraggio della biodiversità e la ricerca sulla preservazione della natura. «Ad esempio, gli erbicidi usati per combattere alcune piante hanno un effetto negativo sugli insetti e gli insetticidi hanno a loro volta effetti negativi sulla crescita delle piante».

L’agroecologia come soluzione alla crisi

«È doveroso mettere in discussione l’uso standard dei prodotti fitosanitari, visti i numerosi effetti collaterali. Ormai sappiamo da molti studi che la biodiversità in agricoltura può anche ridurre le infestazioni parassitarie senza dover accettare effetti collaterali indesiderati. La co-coltura di colture e animali domestici, ma anche la diversificazione dei sistemi di coltivazione agricola, come nella coltivazione mista, supportano la biodiversità. Le strisce fiorite, le aree incolte e le siepi offrono agli antagonisti naturali basi vitali e possono anche essere efficaci contro l’erosione del vento e dell’acqua», afferma Scherber.

«In questo modo, un’agricoltura diversificata può portare a un controllo più efficiente delle specie di parassiti erbivori e contribuire alla stabilità del raccolto», conclude Christoph Scherber.

In altre parole, i metodi agroecologici, come quelli utilizzati nell’agricoltura rigenerativa e nell’agricoltura biologica, offrono una via percorribile per uscire dalla crisi della biodiversità causata dalla monocoltura e dall’agroindustria.

Link allo studio “Pesticides have negative effects on non-target organisms” pubblicato su Nature Communications

Traduzione dal tedesco di Filomena Santoro. Revisione di Maria Sartori.

Pressenza Muenchen

Una delegazione di Kairos Palestine in Italia. L’ntervista al pastore Isaac Munther pubblicata su Chiesa luterana

È iniziata a Napoli, il 17 e 18 febbraio 2025, la visita in Italia della delegazione di Kairos Palestine, accompagnata dalla Campagna Ponti e non Muri di Pax Christi Italia.
È proseguita il 19 febbraio a Roma, in particolare con l’incontro alla Commissione Esteri della Camera.
Successivamente, il 20 febbraio a Firenze; il 21 febbraio a Bologna; il 22 febbraio a Padova e il 23 febbraio a Venezia (per il programma completo, vedi https://bocchescucite.org/kairos-palestina-in-italia-dal-17-al-23-febbraio-2025/).

«Un genocidio in corso a Gaza e nella Palestina, un grido di dolore da parte della popolazione locale vittima di un’occupazione e colonizzazione decennale delle sue terre e deprivata di ogni diritto; un appello accorato di preghiera e di impegno, “una parola di verità, fede, speranza e nonviolenza” raccolto e rilanciato da tredici confessioni cristiane di Terrasana che, nel 2009, hanno firmato lo storico appello “Kairos Palestine: A Moment of Truth”. La delegazione di Kairos Palestina è composta dal pastore e teologo cristiano palestinese Munther Isaac, Preside del Bethlehem Bible College e direttore del ciclo di conferenze Christ at the CheckpointRifat Kassis, attivista nella lotta nonviolenta palestinese, coautore del documento Kairos Palestine e coordinatore della coalizione Global Kairos for Justice e l’avvocata Sahar Francis, direttrice dell’associazione per i diritti umani dei prigionieri ADAMEER di Ramallah» (dal comunicato stampa, in https://bocchescucite.org/delegazione-di-kairos-in-italia-dal-18-al-23-febbraio-2025/).

L’intervista rilasciata dal pastore luterano Isaac Munther pubblicata originariamente su Chiesa luterana.

In questi giorni in Italia con Kairos Palestine

Isaac Munther (il cui nome deriva dall’arabo Mundhir, colui che gli altri seguono) è preside del Bethlehem Bible College in Palestina e direttore della conferenza Christ at the Checkpoint (che è anche il titolo di un suo libro). È pastore luterano della Chiesa Evangelica Luterana di Betlemme (Affiliata alla Federazione Luterana Mondiale). Sarà in Italia fino al 23 febbraio prossimo per una serie di conferenze assieme alla delegazione di Kairos Palestine.

Il pastore luterano Isaac Munther

Mentre era in viaggio lo abbiamo raggiunto per rivolgergli alcune domande sulla situazione globale e a Gaza.

Neutralità, equilibrio, rimanere in bilico?

D: Pastore Munther, il suo sermone di Natale del 2023 ha avuto una grande eco. A volte ci convinciamo che essere cristiani significa rimanere in bilico. Ma, per un luterano, ha senso e cosa significa equilibrio?

M: Per me è un falso presupposto che la pacificazione significhi neutralità. Nella pacificazione dobbiamo schierarci. Dobbiamo dire le cose per ciò che sono. Dobbiamo dire la verità: Dio si schiera. Si schiera con gli oppressi e gli emarginati. E ci chiama a dire la verità. Per questo motivo, non credo che la Chiesa possa essere neutrale, soprattutto quando c’è un genocidio che si sta svolgendo sotto gli occhi di tutto il mondo. Inoltre, per quanto riguarda l’equilibrio, qui in Palestina non c’è alcun conflitto. C’è occupazione, apartheid, colonialismo. Non si può pensare di avere un equilibrio tra l’occupante e l’occupato, l’oppressore e l’oppresso. Questo squilibrio di potere deve essere affrontato e i cristiani devono tenerne conto.

Siamo esseri umani uguali?

D: In uno dei passaggi della sua predicazione ha sottolineato la stanchezza di vedere, giorno dopo giorno, immagini di bambini e famiglie tirati fuori da sotto le macerie. Non riusciamo a capire come sia possibile che tutto questo vada bene. Che cosa è diventata questa stanchezza oggi?

M: L’impatto nell’osservare il genocidio giorno dopo giorno, la vita sulla terra, con il silenzio di molti nel mondo, ci ha convinto, come palestinesi, che molti nel mondo occidentale, specialmente i leader, politici e purtroppo in alcuni casi anche religiosi non ci vedono come uguali: non ci guardano come esseri umani uguali a loro. Altrimenti, sarebbero d’accordo con quel che accade? Tutto ciò ha avuto un forte impatto psicologico su di noi, ma allo stesso tempo ha reso più forte la nostra determinazione e la nostra fede in Dio, perché siamo convinti che Dio sia dalla parte degli oppressi. I leader della fede oggi devono alzare la voce e chiedere responsabilità. La posta in gioco oggi è molto alta.

D: La Chiesa Evangelica Luterana in Italia ha espresso preoccupazione per la sorte del popolo palestinese. Abbiamo spesso assistito che anche solo esprimerle porta alla strumentalizzate e talvolta a parlare di antisemitismo. Perché è oggi così difficile stare dalla parte di chi soffre, con il rischio di essere strumentalizzati?

M: Come umanità, abbiamo creato leggi, diritti umani, convenzioni internazionali per prevenire i genocidi, per evitare la pulizia etnica, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quindi, come leader della Chiesa, dobbiamo alzare la voce e dire che non ci sta bene un mondo di caos in cui i potenti e i ricchi fanno quello che vogliono senza alcuna responsabilità. Che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli se le persone commettono crimini di guerra senza essere ritenute responsabili? Purtroppo, per noi palestinesi, il diritto internazionale è sempre stato irrilevante, perché non è mai stato applicato, né con gli insediamenti né con l’apartheid che esiste nella nostra terra. Le organizzazioni per i diritti umani, gli esperti legali, hanno dichiarato che si tratta di apartheid, ma la Chiesa rimane in silenzio. E ora è chiaramente un genocidio. Se volete non prendete in considerazione le nostre parole ma, almeno, prendete in considerazione le parole degli esperti, degli storici, dei professori, della Corte di Giustizia Internazionale, dei rapporti speciali delle Nazioni Unite, di tutti coloro che conoscono il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra: sanno che si tratta di un genocidio. Perché le Chiese faticano a definirlo tale? Perché i leader religiosi non ne chiedono conto? Quello che Trump sta proponendo riguardo a Gaza è una pulizia etnica. Vuole spostare con la forza due milioni di palestinesi. Questa è la definizione di pulizia etnica.

Gaza tra Italia e USA

D: Il governo italiano sembra essere schierato con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Trump. Quest’ultimo che ritiene utile sostenere apertamente una soluzione che sia più favorevole al governo israeliano. Come valuta questa situazione?

M: La mia domanda al governo e ai leader italiani è: si schiereranno con la pulizia etnica, che è un crimine di guerra? È questo il loro credo? Devono rispondere. Dobbiamo denunciare il sionismo e denunciare che il sionismo per quello che è non ha nulla a che fare con l’ebraismo. Infatti, oggi i più forti oppositori del sionismo sono proprio gli ebrei di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e anche alcuni in Israele. Dobbiamo dire la verità e fare attenzione a non essere etichettati. Allo stesso tempo, dobbiamo controllare i nostri discorsi e il nostro linguaggio. Capisco perfettamente e sono d’accordo. L’antisemitismo esiste, è reale ed è malvagio. Ma allo stesso tempo, rendiamoci conto che l’antisemitismo ha origine in Europa. Perché i palestinesi devono pagare il prezzo dell’antisemitismo occidentale? E io, in quanto palestinese, rifiuto con tutto il cuore di parlare di giustizia per i palestinesi e dell’applicazione del diritto internazionale per poi essere etichettato come antisemita. Quello che mi viene chiesto di capire è che i palestinesi chiedono solo l’applicazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Spero che (i leader politici) se ne rendano conto e si uniscano a noi.

D: A breve sarà in Italia per diversi incontri e iniziative pubbliche. Perché questo viaggio in Italia e cosa si aspetta dalla società italiana?

M: Grazie a questa visita (in Italia), speriamo di mobilitare i leader religiosi e i politici a parlare di più. E vogliamo sollevare la questione del diritto internazionale e dei diritti umani. Perché la posta in gioco è molto alta. Se il mondo è d’accordo con la distruzione di un’intera civiltà come pulizia etnica e genocidio, allora abbiamo davvero bisogno di una legge internazionale? È ancora rilevante? E vogliamo davvero preparare la strada a un mondo di caos, colonialismo e dominio dei potenti? Vogliamo che tutti i cristiani si schierino semplicemente per la giustizia e la verità, per l’umanità.

Opinione pubblica e informazione

D: In Occidente, e in particolare in Italia, l’opinione pubblica è scossa dalle notizie che arrivano dalla Palestina. Dietro quelle notizie, le migliaia di morti, c’è la devastazione di vite già molto precarie: cosa può fare la fede di fronte a tanto smarrimento?

M: Quello che sta accadendo a Gaza è una catastrofe umana. Migliaia di persone sono state uccise, altre migliaia sono ancora sotto le macerie. Stiamo ancora implorando e lavorando per supplicare l’ingresso degli aiuti umanitari, gli ospedali sono stati distrutti, i medici sono stati arrestati. Dov’è la comunità internazionale e dov’è la voce dei leader religiosi, quando non viene rispettato lo stato di diritto, i diritti umani, il diritto internazionale? Se noi, come leader religiosi, non alziamo la voce e non chiediamo responsabilità, chi lo farà?

Speranza nella perseveranza

D: Come luterano, qual è la parola di speranza che, nonostante la terribile tragedia dei rifugiati e delle famiglie distrutte, può annunciare oggi ai suoi ascoltatori?

M: Come cristiani palestinesi, la nostra speranza è quella di sopravvivere. Adesso ci troviamo nel momento peggiore della nostra storia, forse uno dei momenti peggiori della nostra storia. Siamo molto preoccupati per la nostra fede qui in Cisgiordania. Israele ha imposto così tante restrizioni, chiusure, posti di blocco, ha già iniziato a compiere operazioni di forza e incursioni nel nord, che hanno avuto un impatto anche sulla comunità cristiana di Jenin. Hanno distrutto gran parte del campo profughi con almeno 40.000 sfollati in Cisgiordania. Quindi qui a Betlemme siamo preoccupati: sarà questa la nostra fede? Perciò è difficile parlare di speranza, ad essere onesti: adesso speriamo solo di sopravvivere. Allo stesso tempo, parliamo di resilienza. Questo è l’argomento di cui parlano i palestinesi. Resilienza, più che altro la parola araba che si riferisce a resilienza, ovvero perseveranza. Stiamo chiamando il nostro popolo a perseverare e a continuare la testimonianza in questa terra.

Come luterani, insieme a tutte le famiglie della chiesa qui in Palestina, siamo determinati a continuare non solo a esistere, ma a testimoniare. Nonostante tutto, le nostre chiese stanno servendo, le scuole, la diaconia, lo sportello donna, l’ambiente, siamo molto impegnati nel nostro contesto contro ogni probabilità. Nonostante i posti di blocco, a volte impieghiamo ore per raggiungere le nostre chiese solo per pregare o per guidare le funzioni religiose o per riunirci. Siamo molto resistenti e decisi a continuare la testimonianza e a portare avanti la testimonianza del Vangelo nel luogo in cui tutto è iniziato.

Intervista a cura del responsabile della comunicazione della CELI, Gianluca Fiusco

Redazione Italia

Il Ruanda alimenta la guerra in Congo

Il sostegno tedesco al Ruanda viene accolto con proteste a causa della guerra del Paese nel Congo orientale. In pratica, un accordo dell’UE sulle materie prime con il Ruanda favorisce anche l’importazione in Germania di “minerali insanguinati” rubati nel Congo orientale.

Decenni di sostegno al Ruanda da parte della Germania e dell’UE stanno suscitando sempre più proteste per il ruolo assunto dalla Repubblica federale tedesca nella guerra nel Congo orientale. Per decenni, il governo ruandese di Kigali ha sostenuto ogni tipo di milizia nelle vicine province del Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, che saccheggia le materie prime su larga scala e le contrabbanda in Ruanda. Kigali ne ricava miliardi, mentre le milizie del Congo orientale continuano la guerra. Negli ultimi mesi e settimane, la milizia M23 (Movimento 23 Marzo di etnia tutsi N.d.T) ha conquistato ampie zone delle province del Kivu con il sostegno diretto in prima linea dei soldati delle forze armate ruandesi causando l’attuale fuga di tantissimi congolesi.

La Germania collabora da tempo a stretto contatto con il Ruanda, ex colonia del Reich tedesco, Paese che assunto ultimamente una certa rilevanza per Berlino anche come luogo di esternalizzazione delle domande di asilo in zone remote del mondo. Inoltre, l’anno scorso, l’UE ha concluso un accordo con Kigali che prevede la fornitura di materie prime fondamentali. Gli osservatori ipotizzano che grazie a questo accordo anche i “minerali insanguinati” provenienti dalla guerra nel Congo orientale raggiungeranno l’Europa.

L’interesse per il Ruanda

La Germania, insieme ad altri Paesi occidentali e all’Unione Europea collabora da anni con il Ruanda, considerando il suo passato da ex colonia dell’Impero tedesco dal 1884 al 1916. Berlino versa a Kigali ingenti somme dal suo bilancio per lo sviluppo; di recente, nell’ottobre 2022, ha promesso una somma di 93,6 milioni di euro per un periodo di tre anni, due terzi dei quali sono stati destinati alla cosiddetta “cooperazione finanziaria” per la promozione degli investimenti [1]. Il Ruanda è uno dei Paesi che la Germania ha incluso nel progetto Compact with Africa, che mira a migliorare le condizioni quadro per gli investimenti stranieri nei Paesi africani partecipanti. Inoltre, a Kigali è stato istituito un Business Desk tedesco per la promozione degli investimenti.

Inoltre, nel 2019 il Ministero federale tedesco per la cooperazione e lo sviluppo economico ha inaugurato un centro digitale che, secondo le informazioni ufficiali, è destinato a “fare da ponte” tra le aziende e gli istituti di ricerca tedeschi e ruandesi [2]. Volkswagen ha uno stabilimento a Kigali dal 2018 e anche il produttore tedesco di vaccini BioNTech vi è rappresentato dal 2023. Il Ruanda è ovviamente noto in Europa soprattutto come potenziale partner di cooperazione per i piani di trasferimento dei richiedenti asilo in Paesi lontani; l’opzione è stata presa in considerazione anche a Berlino [3].

Fornitore di materie prime

Tuttavia, il Ruanda riveste un’importanza cruciale come fornitore di materie prime. Da decenni gli osservatori sottolineano che il Paese esporta quantità significativamente superiori a quelle prodotte sul proprio territorio. Gran parte delle esportazioni di materie prime del Ruanda provengono proprio dalle zone limitrofe della Repubblica Democratica del Congo, in particolare dalle province congolesi orientali del Nord e del Sud Kivu, che ne sono estremamente ricche. Dall’inizio della grande guerra nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo nel 1996, Kigali ha sostenuto le milizie, in particolare nel Nord Kivu, che trasportano illegalmente una parte significativa delle risorse minerarie attraverso il confine con il Ruanda. Ciò significa che Kinshasa sta perdendo ingenti somme di denaro; nel 2023, il ministro delle Finanze della RDC, Nicolas Kazadi, ha stimato l’importo in un miliardo di dollari USA all’anno [4].

In questo contesto appare evidente che il ruolo delle milizie sostenute dal Ruanda è quello di assicurare il proseguimento della guerra nel Congo orientale – sponsorizzata da Kigali. Due decenni fa, le organizzazioni per i diritti umani hanno richiamato l’attenzione sulle conseguenze del coltan – il minerale, utilizzato ad esempio per la produzione di telefoni cellulari- che viene estratto nel Nord Kivu, spesso nelle peggiori condizioni di lavoro, contrabbandato in Ruanda e da lì esportato. Kigali incassa i profitti, mentre nel Congo orientale permangono guerra e miseria.

Minerali insanguinati

Anni di campagne contro l’approvvigionamento di “minerali insanguinati” dal Congo orientale attraverso il Ruanda sono semplicemente fallite perché gli Stati occidentali – ben riforniti di materie prime – collaborano strettamente con Kigali, coprendo così efficacemente il contrabbando e la furia delle milizie sostenute dal Ruanda nel Congo orientale. Nel febbraio dello scorso anno, l’UE ha persino concluso un memorandum d’intesa con il governo ruandese, che prevede una stretta cooperazione nell’estrazione e nella lavorazione delle risorse naturali. L’attenzione è rivolta alle cosiddette materie prime critiche, indispensabili per le tecnologie della transizione energetica. La Commissione UE sottolinea esplicitamente che il Ruanda esporta quantità particolarmente elevate di tantalio [5], estratto tra l’altro dal coltan. Le organizzazioni per i diritti umani avvertono che c’è un alto rischio di ingresso nell’UE di “minerali insanguinati” sulla base del Memorandum d’intesa [6]. Sebbene Bruxelles sostenga di avere meccanismi di controllo per garantire che questo non si verifichi, gli esperti denunciano che tali meccanismi siano stati a lungo aggirati con ogni tipo di mezzo nel contrabbando quotidiano dal Congo orientale al Ruanda, rendendoli sostanzialmente inefficaci.

Guerra di conquista

Nel 2021, il Ruanda ha riattivato la milizia M23, fondata originariamente nel 2012, per assicurarsi l’accesso alle materie prime del Congo orientale. Nel 2022, gli esperti delle Nazioni Unite hanno dichiarato di avere le prove che l’M23 non solo disponeva di armi insolitamente moderne, ma era anche sostenuto da truppe delle forze armate ruandesi direttamente sul territorio della RDC. Con il loro aiuto, l’M23 ha preso il controllo di aree in crescita, compresi nuovi depositi di materie prime. Questo è continuato anche dopo la conclusione formale di un cessate il fuoco tra la RDC e il Ruanda nel luglio 2024. Inoltre, secondo gli esperti delle Nazioni Unite all’inizio del 2025 nel Nord Kivu sono stati dispiegati da 3.000 a 4.000 soldati delle forze armate ufficiali ruandesi e si ritiene che siano state coinvolte anche nell’offensiva della milizia dell’M23 [7]. Alla fine di gennaio, queste forze sono riuscite a conquistare insieme la capitale del Nord Kivu, Goma. Dopo un breve cessate il fuoco, le milizie hanno continuato i loro attacchi martedì [8] e da allora innumerevoli persone hanno perso la vita. La scorsa settimana è stato riferito che più di 2.000 persone sono state bruciate a Goma dopo l’invasione dell’M23. Secondo l’UNHCR, il numero di rifugiati costretti a vivere nelle province del Kivu, in particolare in condizioni di estrema miseria, si avvicina a cinque milioni [9].

Il corridoio verde

L’offensiva del Ruanda e l’occupazione di gran parte delle province del Kivu avvengono in un momento in cui la RDC sta offrendo all’UE la possibilità di cooperare per le riserve di materie prime del Congo orientale, come sottolinea Kambale Musavuli del Centro di ricerca sul Congo-Kinshasa. In occasione del World Economic Forum di quest’anno (20-24 gennaio) a Davos, il presidente della RDC, Félix Tshisekedi, ha promosso la sua nuova iniziativa del corridoio verde [10], che prevede numerose misure di sviluppo in un’enorme striscia di terra lungo il fiume Congo, che vanno dalla produzione di energie rinnovabili alla promozione dell’agricoltura e alla creazione di infrastrutture di trasporto. Il corridoio verde è un progetto a lungo termine destinato a collegare le province orientali congolesi del Kivu con la capitale Kinshasa [11].

Come riferisce Kambale Musavuli, il corridoio è in grado di competere con la tradizionale rotta di trasporto e contrabbando che dalle province del Kivu conduce in Kenya attraverso il Ruanda e l’Uganda. La Commissione europea ha recentemente confermato di voler sostenere la creazione del corridoio verde – e la relativa costruzione di infrastrutture di trasporto [12]. In definitiva, attraverso questo corridoio si potrebbero trasportare fino a un milione di tonnellate di prodotti agricoli dalle province del Kivu a Kinshasa ogni anno, materie prime comprese.

La protesta

Nel frattempo si stanno moltiplicando le proteste contro la guerra nelle province del Kivu, contro l’occupazione di ampie zone della regione da parte delle milizie dell’M23 e delle truppe ruandesi e contro l’approvazione delle azioni omicide da parte degli Stati occidentali. Alla fine di gennaio, manifestanti infuriati a Kinshasa hanno attaccato le ambasciate del Ruanda, degli Stati Uniti, della Francia e del Belgio, tra gli altri [13]. Da allora si sono svolte proteste anche in altre città della RDC e anche in Germania gli attivisti contestano l’approvazione implicita della Germania della guerra ruandese nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo.

Fonti

  • [1], [2] Ruanda. bmz.de.
  • [3] Judith Kohlenberger: Das Ruanda-Modell ist gescheitert – das sollte man endlich auch in Berlin verstehen. spiegel.de 17.07.2024. Vedi anche Die “Option Ruanda”.
  • [4] Lorraine Mallinder: ‘Blood minerals’: What are the hidden costs of the EU-Rwanda supply deal? aljazeera.com 02.05.2024.
  • [5] EU and Rwanda sign a Memorandum of Understanding on Sustainable Raw Materials Value Chains. ec.europa.eu 19.02.2024.
  • [6] Lorraine Mallinder: ‘Blood minerals’: What are the hidden costs of the EU-Rwanda supply deal? aljazeera.com 02.05.2024.
  • [7] Romain Chanson: RDC, Rwanda et M23 : ce que contient le dernier rapport de l’ONU. jeuneafrique.com 08.01.2025.
  • [8] Amid DR Congo ceasefire, Goma residents race to bury 2,000 bodies. aljazeera.com 05.02.2025. Rwanda-backed M23 fighters resume attacks in DR Congo after two-day pause. aljazeera.com 11.02.2025.
  • [9] UNHCR gravely concerned by worsening violence and humanitarian crisis in eastern DR Congo. unhcr.org 24.01.2025.
  • [10] Kambale Musavuli: Congolese General Cirimwami assassinated in North Kivu, escalating the region’s crisis. peoplesdispatch.org 25.01.2025.
  • [11] Gill Einhorn, Emmanuel de Merode: The Democratic Republic of Congo to create the Earth’s largest protected tropical forest reserve. weforum.org 22.01.2025.
  • [12] Global Gateway: A Green Corridor preserving the last lungs of the earth through green economic growth. international-partnerships.ec.europa.eu 22.01.2025.
  • [13] Protesters attack French, US, Rwandan embassies in DRC. aljazeera.com 28.01.2025.

Traduzione dal tedesco di Maria Sartori. Revisione di Barbara Segato

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com

La Corte Penale Internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

Il procuratore capo della CPI Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane.

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della CPI è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+.

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la CPI abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di Giustizia Internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della CPI a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della CPI ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla CPI rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio, ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento, perciò la CPI non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la CPI. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La CPI sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

 

altreconomia

I centri per migranti in Albania: un fallimento senza vergogna

I lavoratori, assunti a seguito dell’accordo tra Italia e Albania, sono stati licenziati nei giorni scorsi per “manifesta inutilità”. Assistiamo all’ennesimo fallimento delle politiche migratorie, peraltro in questo caso sbandierato come un grande successo da parte del nostro governo.

Gli accordi tra Italia e Albania per la creazione dei centri di trattenimento dei migranti si sono rivelati un completo insuccesso. Questo è evidente poiché tutti i migranti trasferiti dall’Italia a questi centri sono stati rapidamente rimandati indietro. Il fallimento è ulteriormente confermato dal licenziamento del personale impiegato per la gestione dei centri.

Il primo a riportare il licenziamento è stato il quotidiano “Domani“, che ha ottenuto la comunicazione con cui la cooperativa Medihospes ha terminato il contratto con i lavoratori impiegati nei centri in Albania.

La Medihospes è una cooperativa italiana specializzata in assistenza sociale e sanitaria, con sede a Roma. Opera in diverse strutture nel Lazio, in Puglia e in Basilicata. Dallo scorso ottobre, Medihospes è attiva anche in Albania dove, dopo aver vinto un bando di 134 milioni di euro indetto dal Ministero dell’Interno, gestisce i centri di Shengjin e Gjader, sebbene queste strutture non siano indicate sul loro sito.

Per questo progetto, la cooperativa ha reclutato mediatori culturali, autisti, medici, consulenti legali, addetti alle pulizie, psicologi, personale amministrativo, esperti informatici e altre figure professionali.

Il licenziamento, in vigore dal 15 febbraio, coinvolge la maggior parte dei dipendenti. Soltanto il personale essenziale resterà in servizio, tra cui alcuni medici, addetti alle pulizie e agenti di sicurezza.

L’accordo tra Italia e Albania

Il progetto stabilito dall’accordo tra Italia e Albania prevede la realizzazione di due centri: il primo a Shengjin, lungo la costa, dove attraccano le navi italiane che trasportano i migranti dall’Italia all’Albania. A Shengjin si svolge lo sbarco e l’identificazione dei migranti, un processo che è stato ripetuto più volte, incluso al momento dell’imbarco in Italia. Dopo lo sbarco e l’identificazione, i migranti vengono trasferiti al secondo centro, situato a Gjader, nell’entroterra albanese.

Nei centri vengono trasferite persone che, dopo una valutazione preliminare e senza garanzie, sembrano non soddisfare i criteri per ricevere asilo. In base all’accordo, i migranti rimangono in questi centri in attesa della decisione finale, che può essere di due tipi: l’accoglimento della richiesta di asilo, che consentirebbe loro di tornare in Italia, o il rigetto della richiesta, con conseguente espulsione. I migranti portati in Albania sono quelli soccorsi in mare dalla Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza Italiana, escludendo quelli salvati dalle ONG, evidenziando una discriminazione ulteriore.

I trasferimenti, secondo quanto stabilito dall’accordo, sono gestiti dalle autorità albanesi. Invece, l’Italia è responsabile della gestione interna dei centri, inclusa la cura delle persone durante la loro permanenza. Questo accordo comporta un trasferimento non solo di persone, ma anche di responsabilità e competenze, presentando numerose criticità logistiche e potenziali conflitti con le norme costituzionali.

Un progetto fallimentare ha portato al licenziamento del personale, poiché, dopo circa cinque mesi dall’apertura, nessuno è presente nelle strutture. Ogni volta che i migranti sono stati trasferiti in Albania, i giudici italiani non hanno mai convalidato la loro detenzione in questi centri, ordinandone il ritorno in Italia. Le convalide non sono avvenute perché in alcuni casi si trattava di minorenni o persone vulnerabili, con problemi di salute mentale o fisica. In generale, i giudici non hanno convalidato i fermi perché questo tipo di gestione viola le norme europee sulla gestione dei migranti.

L’accordo tra i due Paesi prevede l’invio di migranti provenienti da nazioni considerate sicure. Tuttavia, la questione dei Paesi sicuri è complessa, poiché l’Italia ritiene sicuri alcuni Stati che l’Unione Europea non considera tali, come la Tunisia, nota per la tratta di esseri umani, o la Nigeria. Inoltre, in Albania sono state trasferite persone provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, dove l’omosessualità è illegale e punibile con il carcere.

Questo elemento dell’omosessualità non dovrebbe essere trascurato nell’interpretazione giuridica, poiché per l’Unione Europea ogni individuo deve sentirsi completamente al sicuro nel proprio Paese di origine, senza dover rivelare le proprie preferenze sessuali o altri dettagli personali. Il prossimo 25 febbraio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dovrebbe chiarire l’interpretazione delle norme sui “Paesi di origine sicuri”.

Il fallimento del progetto dei centri in Albania è evidente, tanto che il governo sta considerando un cambio di destinazione d’uso. Tra le possibilità c’è quella di trasformare queste strutture in CPR, centri permanenti per il rimpatrio, simili a quelli già esistenti in Italia. Tuttavia, i CPR sono anche criticati per la cattiva gestione e le condizioni disumane in cui si trovano.

Tutto ciò evidenzia la determinazione politica italiana, principalmente di questo governo ma non esclusivamente, nel proseguire su una gestione inumana dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente stringendo accordi con Paesi come Libia e Tunisia, noti per violazioni sistematiche dei diritti umani, complicità in violenze, torture e tratta di esseri umani. Gestione disumana che ha dato origine a luoghi crudeli come i CPR, noti per le comprovate violazioni dei diritti umani, culminando infine nella creazione di questi centri in Albania.

Un gioco politico e di potere svolto a scapito di persone trattate come merce da trasferire da uno Stato all’altro, rinchiuse in centri di vario tipo, spesso senza giustificazione e considerate come se fossero sacrificabili. Figure di potere che sembrano ignorare l’impatto delle loro decisioni sugli esseri umani, indifferenti alle conseguenze che tale disumanità può avere sul cuore, sulla mente e sull’anima di queste persone.

 

Heraldo

Oltre 230 organizzazioni globali chiedono ai governi che producono i caccia F-35 di smettere di armare Israele

Oltre 230 organizzazioni della società civile globale hanno chiesto con una lettera congiunta ai governi che fanno parte del programma del cacciabombardiere Joint Strike Fighter di interrompere immediatamente tutti i trasferimenti di armi a Israele, inclusi i caccia F-35. Organizzazioni della società civile di tutto il mondo hanno intrapreso azioni legali per mettere i propri governi di fronte alle proprie responsabilità sul programma F-35 e sulla complicità nei crimini di Israele a Gaza.

Negli ultimi mesi, le Forze Armate di Israele (IDF) hanno utilizzato caccia F-35 per effettuare bombardamenti sui civili palestinesi di Gaza. Tra i vari episodi, è stato accertato come nel luglio 2024 un F-35 sia stato utilizzato per sganciare tre bombe da 2.000 libbre in un attacco alla cosiddetta “zona sicura” di Al-Mawasi a Khan Younis, uccidendo 90 palestinesi.

Nonostante tutti i Paesi partner del programma Joint Strike Fighter abbiano l’obbligo legale di fermare le esportazioni di armi verso Israele, i governi di tali Stati continuano a consentire il trasferimento di parti dei cacciabombardieri F-35. Gli esecutivi hanno assunto posizioni incoerenti, affermando ad esempio che le licenze di armamento verso Israele siano state sospese, ma consentendo al contempo i trasferimenti nell’ambito delle licenze esistenti o la fornitura “indiretta” attraverso gli Stati Uniti d’America o altri partner dell’F-35. Un movimento globale di cause legali intraprese dalla società civile è dunque cresciuto in tutti i Paesi che partecipano al programma F-35, per evidenziare le responsabilità dei decisori politici (e amministrativi) al riguardo del trasferimento di caccia e componenti F-35 a Israele.

Il programma dei caccia F-35 è emblematico della complicità dell’Occidente nei crimini di Israele contro i Palestinesi“, sottolinea Katie Fallon, responsabile advocacy della Campaign Against Arms Trade che ha coordinato il lavoro sulla lettera congiunta. “Questi jet sono stati determinanti nei 466 giorni di bombardamenti israeliani su Gaza e in violazioni che includono crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Dopo il cessate il fuoco limitato recentemente raggiunto il governo degli Stati Uniti d’America, partner principale del programma F-35, ha minacciato Gaza di una pulizia etnica di massa e di uno sfollamento forzato. Questo programma d’armamento fornisce il consenso materiale e politico di tutti i partner occidentali affinché questi crimini continuino”.

Le organizzazioni firmatarie della lettera congiunta, pur accogliendo con favore il limitato cessate il fuoco temporaneo, sottolineano come gli ultimi 15 mesi abbiano dimostrato con devastante chiarezza che Israele non si impegna a rispettare il diritto internazionale. È quindi imperdonabile che i nostri governi continuino a fornire trasferimenti di armi a Israele, implicandosi potenzialmente in crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel dicembre 2024 un’indagine di Amnesty International ha concluso che Israele ha commesso e sta commettendo un genocidio contro i palestinesi di Gaza, mentre Human Rights Watch ha riferito che “le autorità israeliane sono responsabili del crimine contro l’umanità di sterminio e di atti di genocidio”.

“Il ruolo dell’Italia come partner di secondo livello nel programma Joint Strike Fighter (e come unico Paese in Europa a ospitare sul proprio territorio un impianto di assemblaggio finale del caccia F-35) desta grande preoccupazione nella società civile italiana impegnata per la Pace. C’è infatti il fondato timore che la presenza della FACO (Final Assembly and Check Out) a Cameri (Nord Italia) possa configurare vari livelli di coinvolgimento nella fornitura di parti di ricambio e attività di manutenzione dell’F-35 a Israele” evidenzia Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace Disarmo. “C’è quindi il rischio che l’Italia svolga un ruolo di complicità o di facilitazione nei confronti di Israele e delle sue strutture militari rispetto alle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario in atto a Gaza e in Cisgiordania. Inoltre, ciò smentirebbe e vanificherebbe la decisione presa dal Governo italiano nell’ottobre 2023 di interrompere le forniture militari a Israele.”

Di seguito il testo della lettera congiunta inviata alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale Antonio Tajani e al Ministro della Difesa Guido Crosetto.

Lettera congiunta di organizzazioni della società civile internazionale sull’invio di armamenti ad Israele, in particolare per quanto riguarda il Programma JSF del Cacciabombardiere F-35

Vi scriviamo come gruppo di organizzazioni dei Paesi partner del programma globale del cacciabombardiere F-35 – insieme ad altre organizzazioni che sostengono questa nostra presa di posizione – per chiedere ai nostri governi di fermare immediatamente tutti i trasferimenti di armi, diretti e indiretti, a Israele compresi quelli relativi agli aerei da combattimento F-35, i loro componenti e le loro parti di ricambio.

Dopo 466 giorni di offensiva militare israeliana a Gaza, accogliamo con favore il cessate il fuoco limitato entrato in vigore il 19 gennaio e chiediamo ai nostri governi di sostenere ogni sforzo per porre fine in modo permanente alle atrocità in corso. Gli ultimi 15 mesi hanno dimostrato con devastante chiarezza che Israele non si impegna a rispettare il diritto internazionale. La fragilità del cessate il fuoco a Gaza evidenzia il rischio di ulteriori violazioni e dunque la necessità di interrompere le esportazioni di armi verso Israele, compresi gli F-35. Ciò è sottolineato anche dal continuo uso illegale da parte di Israele di aerei da combattimento militari nella Cisgiordania occupata, in particolare a Jenin.

I Paesi partner del programma F-35 non sono riusciti, individualmente e collettivamente, a impedire che questi aerei venissero utilizzati per commettere gravi violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, in particolare con evidente chiarezza nei Territori Palestinesi occupati, compresi crimini internazionali, nonostante le prove schiaccianti a riguardo. Gli Stati non sono stati disposti a rispettare i loro obblighi legali internazionali e/o hanno sostenuto che la struttura del programma F-35 implica l’impossibilità di applicare controlli nei confronti di qualsiasi utente finale, rendendo così l’intero programma incompatibile con il diritto internazionale.

Il bombardamento e la distruzione senza precedenti di Gaza da parte di Israele hanno portato a incommensurabili sofferenze umane, devastazioni ambientali e catastrofi umanitarie. La Corte internazionale di giustizia (CIG) ha ordinato a Israele misure provvisorie per prevenire il genocidio contro il popolo palestinese a Gaza nel gennaio 2024. Nel dicembre 2024, un’indagine di Amnesty International ha concluso che Israele ha commesso e sta commettendo un genocidio contro i palestinesi di Gaza e Human Rights Watch ha riferito che “le autorità israeliane sono responsabili del crimine contro l’umanità di sterminio e di atti di genocidio”.

Un cessate il fuoco temporaneo non significa la fine delle violazioni del Diritto internazionale da parte di Israele né annulla il rischio consolidato che i trasferimenti di armi a Israele possano essere utilizzati per commettere o facilitare tali violazioni. Ciò include, ma non si limita a, l’occupazione e l’annessione in corso di Israele dei territori palestinesi, che la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha già concluso essere illegale.

Israele ha ucciso più di 46.707 persone a Gaza e si stima che i resti di altre 10.000 persone siano ancora sotto le macerie. Almeno il 90% dei palestinesi di Gaza è stato sfollato con la forza, in condizioni inadatte alla sopravvivenza umana. Le forze israeliane hanno ripetutamente attaccato obiettivi civili, tra cui siti di distribuzione degli aiuti, tende, ospedali, scuole e mercati. Circa il 69% di tutte le strutture di Gaza sono state distrutte o danneggiate dai bombardamenti. Nonostante queste realtà devastanti e i crimini sul terreno, i nostri Governi hanno continuato a rifornire militarmente Israele attraverso il programma F-35.

IL PROGRAMMA F-35

I governi di alcuni Paesi partner del Programma F-35 – in particolare Canada, Danimarca, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito – hanno limitato alcune esportazioni di sistemi d’armamento verso Israele a causa del rischio che queste armi vengano utilizzate da Israele per commettere violazioni del diritto internazionale a Gaza. Nel settembre 2024, il governo britannico ha ritenuto di “non poter concludere altro che” per alcune esportazioni di armi del Regno Unito verso Israele, tra cui i caccia F-35, esiste un chiaro rischio che possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale a Gaza. È allarmante che, nonostante queste inconfutabili ammissioni, ci sia stato uno sforzo concertato per sostenere il trasferimento di componenti al programma F-35, consentendo un continuo trasferimento diretto e indiretto a Israele.

I Paesi partner dell’F-35 hanno presentato una serie di posizioni incoerenti che consentono di continuare a esportare parti e componenti dell’F-35 verso Israele, dichiarando tra l’altro che le licenze di esportazione di armi verso Israele sono state sospese e consentendo al contempo i trasferimenti nell’ambito delle licenze esistenti o la fornitura “indiretta” attraverso gli Stati Uniti o altri partner dell’F-35. Il Regno Unito ha sostenuto che, per ragioni di pace e sicurezza internazionale, ha disatteso i propri criteri di autorizzazione all’esportazione di armi e gli obblighi legali internazionali per continuare a esportare componenti per il programma F-35, consentendo il successivo trasferimento a Israele, sostenendo che si tratta di una “questione di tale gravità che avrebbe prevalso su qualsiasi […] ulteriore prova di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario”. In effetti, a questo punto si può ritenere che non sussistano circostanze per cui questa fornitura di componenti per l’F-35 verrebbe sospesa.

Questi cacciabombardieri hanno operato a Gaza armati di munizioni tra cui bombe da 2.000 libbre (esplosivi con un raggio letale fino a 365 metri, un’area equivalente a 58 campi da calcio). Nel giugno 2024, un rapporto delle Nazioni Unite ha identificato queste bombe come utilizzate in casi “emblematici” di attacchi indiscriminati e sproporzionati a Gaza che “hanno portato a un alto numero di vittime civili e a una diffusa distruzione di oggetti civili”.

Il 2 settembre 2024, proprio il giorno in cui il governo britannico ha annunciato un’esenzione per i componenti dell’F-35, l’ONG danese Danwatch ha rivelato che un F-35 è stato utilizzato a luglio per sganciare tre bombe da 2.000 libbre in un attacco contro una cosiddetta “zona sicura” ad Al-Mawasi, a Khan Younis, uccidendo 90 palestinesi. Questo bombardamento segue lo schema degli attacchi israeliani a Gaza in violazione del diritto umanitario internazionale.

OBBLIGHI LEGALI E FUTURI SVILUPPI

Tutti i partner del programma F-35 sono Stati parte del Trattato sul commercio di armi (ATT), ad eccezione degli Stati Uniti, che ne sono solamente firmatari. Gli Stati firmatari dell’ATT sono tenuti a prevenire i trasferimenti diretti e indiretti di attrezzature e tecnologie militari, comprese parti e componenti, qualora vi sia il rischio assoluto che tali attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto internazionale umanitario (DIU) o del diritto internazionale dei diritti umani.

Questi e altri obblighi vincolanti sono contenuti negli articoli 6 e 7 dell’ATT. Gli Stati sono inoltre vincolati dall’obbligo di garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario ai sensi dell’articolo comune 1 della Convenzione di Ginevra e del diritto internazionale umanitario consuetudinario, che impone agli Stati di “astenersi dal trasferire armi se si prevede, sulla base di fatti o della conoscenza di modelli passati, che tali armi saranno utilizzate per violare le Convenzioni”.

Tutti gli Stati partner del Programma F-35 hanno una legislazione aggiuntiva che rafforza questi obblighi internazionali a livello nazionale o europeo. I continui trasferimenti di armi al governo israeliano sono contrari alla legge statunitense, che ad esempio vieta il trasferimento di aiuti militari a governi che limitano la fornitura di assistenza umanitaria statunitense. Inoltre, tutti i partner dell’F-35 hanno ratificato o aderito alla Convenzione sul genocidio e si sono impegnati a “prevenire e punire” il crimine di genocidio.

Questi obblighi sono rafforzati dai pronunciamenti della Corte internazionale di giustizia, che nell’aprile 2024 ha ricordato agli Stati parte della Convenzione sul genocidio i loro obblighi internazionali in materia di trasferimento di armi alle parti di un conflitto armato, per evitare il rischio che tali armi possano essere utilizzate per violare la Convenzione (paragrafo 24). Nel luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia ha chiarito che gli Stati non devono aiutare o assistere Israele nella sua occupazione illegale del territorio palestinese occupato, anche attraverso rapporti economici o commerciali. La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel novembre 2024.

RISPOSTE LEGALI E POLITICHE

In tutte le giurisdizioni dei Paesi partner del Programma F-35, interventi legali e politici hanno cercato di far rispettare gli obblighi legali nazionali e internazionali dei governi per fermare le esportazioni di armi verso Israele, comprese le parti per i caccia F-35. Sono state avviate cause legali in Australia, Canada, Danimarca, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti.

Nel Regno Unito, Al-Haq e Global Legal Action Network stanno portando il governo britannico davanti alla Corte Suprema con un ricorso giudiziario che contesta la decisione di escludere i componenti per il programma globale F-35 dalla sospensione del settembre 2024 di circa 30 licenze di armi a Israele. Nel novembre 2024, la Corte Suprema dei Paesi Bassi è stata consigliata dal suo avvocato generale di confermare la sentenza della Corte d’Appello dell’Aia che ordinava al governo olandese di bloccare l’esportazione di parti dell’F-35 dai Paesi Bassi a Israele. La sentenza fa seguito a una causa intentata da Oxfam Novib, PAX e The Rights Forum.

In Australia, Al Haq, il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e il Centro Palestinese per i Diritti Umani, rappresentati dal Centro Australiano per la Giustizia Internazionale, hanno presentato un esposto chiedendo al Ministro della Difesa di revocare tutti i permessi di esportazione in corso o in essere verso Israele, anche attraverso gli Stati Uniti. Di conseguenza, il governo ha intrapreso una revisione che ha rivelato che l’Australia aveva fatto “decadere” o “modificare” 16 licenze di esportazione verso Israele. I gruppi continuano a essere preoccupati per l’assenza di trasparenza in relazione a questa revisione, compreso il fatto se le parti dell’F-35 siano state o meno prese in considerazione. Altri casi sono in corso nei Paesi partner dell’F-35 Canada e Danimarca, oltre che in Germania e Belgio.

CONCLUSIONI

L’incapacità di tutte le nazioni partner del programma di armamento JSF per il caccia F-35 di applicare i propri obblighi legali nazionali, regionali o internazionali interrompendo la fornitura di parti e componenti dell’F-35 a Israele ha portato a danni devastanti e irreparabili per i palestinesi di Gaza. Questo fallimento indica che le nazioni partner non sono effettivamente in grado o non sono disposte ad applicare i loro presunti regimi di controllo delle esportazioni di armi, oppure che hanno scelto di applicare la legge in modo selettivo, escludendo i palestinesi dalla propria  protezione.

Chiediamo a tutti gli Stati partner del programma F-35 di fare tutto ciò che è in loro potere per allineare il programma Joint Strike Fighter agli opportuno obblighi legali e di interrompere immediatamente il trasferimento diretto e indiretto di parti e componenti di F-35 a Israele.

LISTA COMPLETA DELLE ORGANIZZAZIONI FIRMATARIE

Australia (Partner del Programma F-35)

  1. Amnesty International Australia
  2. AusRelief
  3. Australian Centre for International Justice
  4. Australia Palestine Advocacy Network (APAN)
  5. Australian Social Workers for Palestine
  6. Canberra Palestine and Climate Justice
  7. Central West New South Wales for Palestine & We Vote for Palestine
  8. Coalition for Justice and Peace in Palestine
  9. Disrupt Wars
  10. Free Gaza Australia
  11. Free Palestine Melbourne
  12. Independent and Peaceful Australia Network (IPAN)
  13. Independent & Peaceful Australia Network (IPAN) Geelong & Vic Southwest
  14. Inner West for Palestine
  15. Institute of non-violence
  16. Jewish Council of Australia
  17. Jews Against the Occupation ’48
  18. Just Peace
  19. Knitting Nannas, Central Coast and Midcoast
  20. Medical Association for Prevention of War
  21. Mums for Palestine
  22. Neptune’s Pirates
  23. No Weapons for Genocide
  24. Northern Rivers Friends of Palestine
  25. Palestine Action Group Muloobinba
  26. Palestine Network Shining Waters Region (PalNet SW), The United Church of Canada
  27. People’s Climate Assembly
  28. Rising Tide
  29. Settlement Services Australia
  30. Social and Ecological Justice Commission (United Church of Canada)
  31. Sydney Peace Foundation
  32. Quakers Australia
  33. Wage Peace

Austria

  1. Yante – Youth, Art, and Levante

Belgio 

  1. Al-Haq Europe
  2. Vredesactie 

Canada (Partner del Programma F-35)

  1. Al Huda Institute Canada
  2. Amnesty International Canadian Section
  3. Arab Left Forum
  4. Bathurst Street United Church
  5. The Canadian BDS Coalition & International BDS Allies
  6. Canadian Foreign Policy Institute
  7. Canadian Lawyers for International Human Rights
  8. Canadian Muslim Healthcare Network
  9. Canadians for Justice and Peace in the Middle East
  10. Canadians for Justice and Peace in the Middle East Saskatoon Chapter (CJPME Sask chapter)
  11. Collectif de Québec pour la paix / Quebec City Collective for Peace
  12. Health Workers Alliance for Palestine
  13. Independent Jewish Voices Canada
  14. IslamicFamily
  15. Just Peace Advocates/Mouvement Pour Une Paix Juste
  16. Justice For All Canada
  17. Labour Against the Arms Trade
  18. Manitoba Healthcare Workers for Palestine
  19. Mennonite Church Manitoba Palestine Israel Network
  20. Ontario Palestinian Rights Association (OPRA)
  21. Oxfam-Québec
  22. Palestinian and Jewish Unity (PAJU)
  23. Project of Heart
  24. Project Ploughshares
  25. Solidarité Sherbrooke-Gaza
  26. RightonCanada
  27. United Network for Justice and Peace in Palestine and Israel (UNJPPI)

Danimarca (Partner del Programma F-35)

  1. ActionAid Denmark
  2. Amnesty International Danmark
  3. Oxfam Denmark

Francia

  1. Amnesty International France

Italia (Partner del Programma F-35)

  1. Rete Italiana Pace e Disarmo
  2. Accademia Apuana della Pace
  3. Amnesty International Italia
  4. ARCI-Italy
  5. Ass. Adl Zavidovici
  6. Associazione Percorsi di pace
  7. Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani aps
  8. AssoPacePalestina
  9. Beati i costruttori di pace (Blessed Are the Peacemakers)
  10. Center for Research and Elaboration on Democracy (CRED)
  11. Centro Studi Sereno Regis
  12. CIPAX Centro interconfessionale per la pace
  13. Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti (CNCA)
  14. COSPE NGO
  15. Diritto Diretto
  16. Emmaus Italia
  17. Fondazione Finanza Etica
  18. Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo
  19. MIR (Movimento internazionale della Riconciliazione)
  20. Movimento Nonviolento
  21. Scuola di Pace del Comune di Senigallia
  22. Un Ponte Per

India

  1. Gig Worker Association

Iraq

  1. Al-Taqwa Association for Women and Children’s Rights

Irlanda

  1. Anti Racism World Cup

Jamaica

  1. Kingston and St Andrew Action Forum

Giordania 

  1. Campaign Against Gaza Genocide

Libano

  1. Al-Jana Center
  2. KAFA (enough) Violence & Exploitation
  3. Permanent Peace Movement
  4. WILPF Lebanon

Marocco

  1. Association Mains Libres

Messico

  1. Centro de Estudios Ecuménicos

Nepal 

  1. Path
  2. Women for Peace and Democracy Nepal (WPD Nepal)

Paesi Bassi (Partner del Programma F-35)

  1. Amnesty International Netherlands
  2. Feminists of Maastricht
  3. Oxfam Novib
  4. PAX
  5. The Rights Forum
  6. Stop Wapenhandel
  7. Transnational Institute

Norvegia (Partner del Programma F-35)

  1. Amnesty International Norway
  2. The Association of Norwegian NGOs for Palestine
  3. Changemaker
  4. Fagforbundet – Norwegian Union of Municipal and General Employees
  5. Jødiske Stemmer for Rettferdig Fred  (Jewish Voices. – Norway)
  6. NTL OsloMet Metropolitan University (trade union)
  7. The Palestine Committee of Norway
  8. Palestinas Venner OsloMert
  9. Sosialistisk Venstreparti

Palestina

  1. Al-Haq
  2. Al Mezan Center for Human Rights
  3. International Committee to Support the Rights of the Palestinian People
  4. The Palestinian Initiative for the Promotion of Global Dialogue and Democracy-MIFTAH
  5. Palestinian Working Woman Society for Development PWWSD

Svizzera 

  1. Control Arms

Sri Lanka

  1. Forum on Disarmament and Development 

Turchia 

  1. Worldwide Lawyers Association

Regno Unito (Partner del Programma F-35)

  1. ActionAid UK
  2. Action For Humanity
  3. Action on Armed Violence
  4. Amnesty International UK
  5. Anglican Pacifist Fellowship
  6. Bahrain Institute for Rights and Democracy (BIRD)
  7. Bank Better
  8. Boycott Bloody Insurance
  9. British Arab Nursing and Midwifery Association
  10. British Palestinian Committee
  11. Cambridge Branch – Communist Party of Britain
  12. Cambridge Stop the War Coalition
  13. Cambridgeshire Keep Our NHS Public
  14. Campaign Against Arms Trade
  15. Campaign against Misrepresentation in Public Affairs, Information and the News (CAMPAIN)
  16. Campaign for Nuclear Disarmament
  17. Coal Action Network
  18. Common Wealth
  19. Conflict and Environment Observatory
  20. Council for Arab-British Understanding
  21. Cuba Solidarity Campaign
  22. Embrace the Middle East
  23. FairSquare
  24. ForcesWatch
  25. Gaza Genocide Emergency Committee (Glasgow)
  26. Glasgow Palestine Human Rights Campaign
  27. Global Justice Now
  28. Global Legal Action Network
  29. Health Workers 4 Palestine
  30. Independent Catholic News
  31. International Centre for Justice for Palestinians
  32. International Solidarity Movement Scotland
  33. The Iona Community
  34. Jewish Network for Palestine
  35. Merseyside Pax Christi
  36. National Justice and Peace Network, England and Wales
  37. Omega Research Foundation
  38. Palestine Action
  39. Palestine House
  40. Palestine Solidarity Campaign
  41. Pax Christi England and Wales
  42. The Peace and Justice Project
  43. Richmond & Kingston Palestine Solidarity Campaign
  44. Sabeel-Kairos UK
  45. Saferworld
  46. Scientists for Global Responsibility (SGR)
  47. Scotland Against Criminalising Communities
  48. Shadow World Investigations
  49. Thanet 4 Palestine
  50. Tipping Point UK
  51. War on Want
  52. United Tech and Allied Workers
  53. Women in Black Edinburgh
  54. Women in Black London
  55. Workers for a Free Palestine

Stati Uniti d’America (Capofila del Programma F-35)

  1. Action Corps
  2. American Friends Service Committee
  3. Amnesty International USA
  4. Art Forces
  5. Association for Investment in Popular Action Committees
  6. Austin For Palestine Coalition
  7. Center for Civilians in Conflict (CIVIC)
  8. Center for Constitutional Rights
  9. Doctors Against Genocide
  10. Episcopal Peace Fellowship Palestine Israel Network
  11. Fellowship of Reconciliation
  12. Friends of Sabeel North America (FOSNA)
  13. Global Centre for the Responsibility to Protect (GCR2P)
  14. Global Ministries of the Christian Church (Disciples of Christ) and United Church of Christ
  15. Green Mountain Solidarity With Palestine
  16. Green Mountain Veterans For Peace
  17. Honor the Earth
  18. Indiana Center for Middle East Peace
  19. KinderUSA
  20. Madison-Rafah Sister City Project
  21. The Middle East Children’s Alliance for Peace
  22. National Lawyers Guild- Palestine Sub Committee
  23. New Mexico Jews for a Free Palestine
  24. A New Policy
  25. Nonviolence International
  26. Palestine Justice Network of the Presbyterian Church (U.S.A.)
  27. Palestinian Youth Movement
  28. Peace Action
  29. People’s Arms Embargo
  30. RepresentUS New Mexico
  31. Safe Skies Clean Water Wisconsin
  32. Santa Fe Democratic Socialists of America
  33. Security in Context
  34. Showing Up for Racial Justice (SURJ) Northern New Mexico chapter
  35. Tech Justice Law Project
  36. USA Palestine Mental Health Network
  37. Vermont and New Hampshire Chapter of the National Lawyers Guild
  38. Will Miller Social Justice Lecture Series
  39. WESPAC Foundation, Inc.

Organizzazioni Internazionali

  1. Al-Haq Europe
  2. Cairo Institute for Human Rights Studies
  3. Center for Civilians in Conflict (CIVIC)
  4. Emergent Justice Collective
  5. Human Rights Watch
  6. International Coalition to Stop Genocide in Palestine
  7. Oxfam International
  8. Pax Christi International
  9. United Methodists for Kairos Response (UMKR)
  10. War Resisters’ International
  11. Women’s International League for Peace and Freedom
  12. World BEYOND War

 

 

Rete Italiana Pace e Disarmo

Prodotti fitosanitari: gli effetti sulla biodiversità sono più dannosi del previsto

I prodotti fitosanitari sono utilizzati principalmente in agricoltura per controllare la diffusione dei parassiti. Tuttavia, tali prodotti possono anche danneggiare molte specie di animali, piante e funghi non bersaglio utili. Quanto siano dannosi e finora sconosciuti gli effetti reali dei diversi pesticidi su una varietà di gruppi di organismi è stato dimostrato da un meta-studio internazionale realizzato con la partecipazione del Leibniz Institute for the Analysis of Biodiversity Change (LIB). La sintesi dei 1.705 lavori di ricerca sul tema è stata pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Gli autori dello studio precisano che, con la crescente domanda di cibo e l’aumentare della resistenza dei parassiti ai prodotti fitosanitari, è necessaria una migliore valutazione del rischio. I prodotti fitosanitari possono ora essere rilevati in quasi tutti gli ecosistemi in varie miscele e concentrazioni. Tuttavia, le conoscenze degli effetti sugli organismi non bersaglio non erano ancora disponibili in modo completo.

Per la realizzazione di questo meta-studio, ricercatori proveninenti da tutto il mondo hanno raccolto per oltre dieci anni 1.705 lavori scientifici basati su standard di raccolta e analisi dei dati trasversali. Lo studio fornisce un quadro completo sull’argomento ed è stato creato sotto la guida di scienziati cinesi dello Shanghai Key Laboratory of Chemical Biology, School of Pharmacy, East China University of Science and Technology, Shanghai, Cina. Infatti, gli autori sottolineano che le conoscenze, ottenibili dalla sintesi quantitativa dei lavori, sono indispensabili per creare un quadro nazionale e internazionale per la gestione critica dei prodotti fitosanitari.

I nuovi pesticidi sono più dannosi del previsto per tutti gli organismi

I ricercatori presentano una sintesi degli effetti di 471 diversi agenti pesticidi su 830 specie di organismi non bersaglio (piante, animali e microrganismi) a diversi livelli della catena alimentare. Di conseguenza, tutti gli organismi, compresi gli impollinatori, i pesci e gli anfibi, mostrano reazioni negative nella loro crescita, riproduzione, comportamento e sopravvivenza. Anche i funghi e le piante ne risentono.

Nelle analisi basate su esperimenti condotti in laboratorio e sul campo, l’effetto dei pesticidi di nuova generazione (quelli attualmente autorizzati nell’UE) era simile a quello dei pesticidi più vecchi. Secondo gli autori, sarebbe difficile trovare prove del fatto che lo sviluppo e l’approvazione di nuovi principi attivi ridurrebbero i rischi.

«La procedura di autorizzazione dei pesticidi è complessa e laboriosa, quindi è ancora più sorprendente che il nostro studio riconosca che gli effetti dei prodotti fitosanitari sono molto più ampi e profondi di quanto si pensasse in precedenza», afferma Christoph Scherber, vicedirettore del LIB e direttore del Centro per il monitoraggio della biodiversità e la ricerca sulla preservazione della natura. «Ad esempio, gli erbicidi usati per combattere alcune piante hanno un effetto negativo sugli insetti e gli insetticidi hanno a loro volta effetti negativi sulla crescita delle piante».

L’agroecologia come soluzione alla crisi

«È doveroso mettere in discussione l’uso standard dei prodotti fitosanitari, visti i numerosi effetti collaterali. Ormai sappiamo da molti studi che la biodiversità in agricoltura può anche ridurre le infestazioni parassitarie senza dover accettare effetti collaterali indesiderati. La co-coltura di colture e animali domestici, ma anche la diversificazione dei sistemi di coltivazione agricola, come nella coltivazione mista, supportano la biodiversità. Le strisce fiorite, le aree incolte e le siepi offrono agli antagonisti naturali basi vitali e possono anche essere efficaci contro l’erosione del vento e dell’acqua», afferma Scherber.

«In questo modo, un’agricoltura diversificata può portare a un controllo più efficiente delle specie di parassiti erbivori e contribuire alla stabilità del raccolto», conclude Christoph Scherber.

In altre parole, i metodi agroecologici, come quelli utilizzati nell’agricoltura rigenerativa e nell’agricoltura biologica, offrono una via percorribile per uscire dalla crisi della biodiversità causata dalla monocoltura e dall’agroindustria.

Link allo studio “Pesticides have negative effects on non-target organisms” pubblicato su Nature Communications

Traduzione dal tedesco di Filomena Santoro. Revisione di Maria Sartori.

Pressenza Muenchen