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Manifesto di Ventotene

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

Meloni, il Manifesto di Ventotene e il trolling di governo

Volendo trattare la condizione dello Stato di diritto in Italia, oltre a prendere le dovute misure è utile anche valutare il livello delle conversazioni sul tema. Un po’ come se attorno al paziente-Italia, tra un’analisi e l’altra, valutassimo le discussioni dei medici, per capire se hanno il polso della situazione. 

Solo entro quest’ottica è possibile inquadrare episodi come quello di ieri in Parlamento, che ha visto la Presidente del Consiglio attaccare il Manifesto di Ventotene, considerato storicamente come uno dei testi fondativi della futura Unione Europea, e bollato da Meloni al grido di “non è la mia Europa”. 

Una vera e propria trollata di governo, che palesa una contraddizione micidiale: se è vero che di fronte ai troll l’antico adagio prescrive di non dar loro attenzione, la faccenda si complica quando il troll in questione non agisce su una tutto sommato irrilevante bacheca Facebook, ma dai banchi di un governo. Quel trolling diventa allora una questione di Stato.

Ma procediamo con ordine, evidenziando prima di tutto il contesto in cui arrivano le frasi di Meloni, con tutta una serie di questioni politiche per cui lei o la sua maggioranza potrebbero e dovrebbero essere chiamate in causa, a vario titolo.

Nelle ultime settimane il mondo si è trovato a fronteggiare un precipitare di eventi che prefigurano scenari da Terza Guerra Mondiale. Un’espressione tanto catastrofica quanto ormai sempre più d’uso, mentre gli analisti provano a tracciare una linea che colleghi molteplici teatri di guerra con l’ascesa dei fascismi globali e i nuovi assetti delle relazioni internazionali. Da Putin che a suon di bombardamenti fa sapere cosa pensa di possibili cessate il fuoco, a Netanyahu che riprende gli attacchi su larga scala a Gaza.

In Serbia, Ungheria e Romania le piazze si riempiono, maree di protesta che si alzano per sfidare le lune di autocrati o aspiranti tali. Ancora in Ungheria, Orbán ha bandito le marce del Pride, appellandosi a una legge del 2021 che dovrebbe tutelare i minori, ma è di fatto una legge anti-LGBTQIA+ in linea con la Costituzione ungherese.

Sempre a marzo l’Italia è stata inserita nella lista di monitoraggio di Civicus, ONG internazionale che si occupa di tutelare nel mondo le società civili e gli spazi democratici. L’Italia è in compagnia di Stati Uniti, che sotto l’amministrazione Trump stanno subendo una devastante accelerazione autoritaria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e Serbia.

Preoccupa per l’Italia il DDL Sicurezza, che ormai anche all’estero viene definito “anti-Gandhi”, e che è stato criticato anche da Human Rights Watch e Consiglio d’Europa. Piuttosto in sordina, la maggioranza ha aggiunto di recente un emendamento che mette a repentaglio la segretezza delle fonti giornalistiche, fornendo enormi poteri ai servizi segreti. Senza mezzi termini, scandali come il caso Paragon, che ha visto giornalisti e attivisti spiati attraverso uno spyware, diventerebbero un pallido ricordo del passato.   

Lunedì è stato invece pubblicato il rapporto di Civil Liberties Union for Europe sullo Stato di diritto nei paesi dell’Unione Europea. L’Italia è inserita in un gruppo di cui fanno parte Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia per i loro “sforzi deliberati e sistematici nell’indebolire lo Stato di diritto”. Le aree osservate comprendono giustizia, lotta alla corruzione, libertà dei media, spazi democratici e diritti umani.

Rapporti di questo tipo e giudizi tutt’altro che benevoli non sono una novità. Su Valigia Blu avevamo parlato la scorsa estate della Relazione sullo Stato di diritto curata dalla Commissione Europea e sul rapporto dell’ONG Media Freedom Rapid Response. Diverse metodologie, diversi responsabili, ma preoccupazioni analoghe per quanto riguarda la libertà di espressione e di informazione, oltre agli spazi democratici di dissenso. 

Nell’occasione evidenziavamo come una delle strategie messe in atto dall’attuale maggioranza per gestire questo tipo di critiche fosse quella di creare polemiche a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, attaccando la “faziosità” degli esperti ascoltati e di tratteggiare l’Italia come vittima di chi vuole danneggiarne l’immagine oltreconfine, pur di colpire il governo. 

Un vittimismo rancoroso che va di pari passo con l’uso delle querele contro giornalisti, scrittori e intellettuali, da parte di Meloni stessa o di esponenti della sua maggioranza. Da quelle lanciate mentre era nei banchi dell’opposizione, e non ritirate una volta al governo, fino a quelle fatte da quando è a Palazzo Chigi. 

Un elenco che va via via ingrossandosi sia quantitativamente che qualitativamente: Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare (querelata dal ministro Lollobrigida), il giornale Domani insieme al direttore Emiliano Fittipaldi e al suo predecessore Stefano Feltri. Nel primo caso si è arrivati a una multa di 1000 euro, per Di Cesare invece il giudice ha deciso il non luogo a procedere. Verso Canfora e i giornalisti di Domani, Meloni ha invece optato per ritirare le querele.

Ultimi nomi di questa inquietante cronaca giudiziaria sono il cantante dei Placebo Brian Molko, rinviato a giudizio per le parole rivolte a Meloni durante un concerto, e il comico Daniele Fabbri. Il quale nei giorni scorsi ha annunciato di aver ricevuto da Meloni e i suoi avvocati una richiesta di risarcimento da 20mila euro, dopo essersi costituita parte civile nel processo per diffamazione nei suoi confronti. Il vittimismo, insomma, va di pari passo con il risentimento come premessa per un’azione di carattere distruttivo.

La logica di queste querele intimidatorie, oltre ad alimentare un clima in cui chi deve dissentire conta fino a 10 prima di pubblicare un qualunque giudizio critico, sta nel giustificare un risentimento vittimista. 

Un mondo parallelo dove gli esponenti del governo sono assediati da nemici, e perciò costretti a difendersi e tutelarsi attraverso lo strumento della querela e delle richieste di risarcimento. Dove quindi non esistono strumenti intermedi, come il lavoro di uffici stampa, addetti alla comunicazione o, nei casi più gravi, le richieste di rettifica ai giornali o le diffide. 

Così siamo passati dal ragionare se si possano usare parole come “bastardi” senza passare il segno, come per la denuncia a Saviano, a discutere di parole come “caccolosa” o “puzzona” nel caso di Fabbri, come moviole linguistiche dove qualcuno puntualmente grida “vedi che c’è il fallo?”. Aumenta il livello generale di repressione di pari passo con l’infantilizzazione del dibattito su di essa. Se qualcuno per portare a casa la pagnotta vuole difendere le ragioni di una premier che querela un comico, si accomodi pure al tavolo della dignità perduta. Restano ancora molti posti liberi.

C’è infine stato il voto di Bruxelles della scorsa settimana sul riarmo e il sostegno all’Ucraina. Ci si è concentrati molto su come quell’occasione abbia coinciso con una spaccatura interna al Partito Democratico; spaccatura che viene da lontano, essendo stata l’Ucraina sempre il tallone d’Achille di Elly Schlein.

Ma quel voto ha fatto emergere anche le lacerazioni nella maggioranza, con una Lega da sempre vicina a posizioni Pro-Cremlino, e Fratelli d’Italia in bilico tra l’atlantismo di governo e le antiche passioni filo-trumpiane di quando si era ai banchi dell’opposizione. Ora che però Trump ha deciso di rompere l’alleanza atlantica in favore di un “mafia imperialism”, persino disposto a compiacere Putin in nome del business as usual, sono saltati gli equilibri su cui Meloni si reggeva in politica estera per consolidare la sua leadership. E così sono iniziate a manifestarsi crepe con la Lega, tra indiscrezioni, smentite, e annunci di opposizione all’ipotesi del riarmo. 

Sul Corriere, Paola Di Caro ha parlato di “effetto Trump”, facendo notare non solo il voto contrario della Lega a Bruxelles, ma l’astensione di Fratelli d’Italia nel voto sulla risoluzione a sostegno dell’Ucraina. Mentre il Sole 24 Ore ha evidenziato che Meloni “ha rotto per la prima volta il fronte europeo”. Il governo va al Consiglio Europeo senza avere davvero un mandato da parte della sua stessa maggioranza. 

In un simile contesto diventa più lineare la logica dietro l’attacco in aula al Manifesto di Ventotene, polemica preceduta sui social dai soliti noti della destra di governo. Meloni l’ha buttata in caciara attaccando un simbolo in grado di triggerare e allo stesso tempo dividere il campo avversario, su cui già si stava discutendo perché evocato dal palco della manifestazione per l’Europa di sabato scorso. In ciò ha sfruttato la sua indubbia intelligenza tattica.

Al tempo stesso, quell’attacco lancia un messaggio identitario ben preciso, che ammicca a Washington e al nuovo corso della Casa Bianca, nella misura in cui da quelle parti si ha voglia di tendere le orecchie verso Roma. Pochi giorni fa il vicepresidente JD Vance, intervistato a Fox News, parlava di un’Europa incamminata “verso il suicidio”. 

Rinnegare quindi un testo fondamentale come il Manifesto, rinnegare una delle radice antifasciste dell’Unione Europea si inserisce in quel sistema di rinforzi simbolici reciproci che l’estrema destra sta portando avanti nei paesi in cui è in posizione di potere. Sistema in cui l’indebolimento dello Stato di diritto, se non l’aggressione diretta e senza quartiere, non è l’effetto delle leggi adottate, ma la conseguenza di una posta in palio per sua natura al rialzo. Dove certi messaggi che rimandano al fascismo vengono intesi anche come “prima non si poteva dire, ora sì”. Da questo punto di vista, del Manifesto di Ventotene va ricordato che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi lo scrissero durante il confino. È prima di tutto l’opera di oppositori del regime, cui contribuì anche Eugenio Colorni, che dai fascisti fu ucciso nel 1944, l’anno della pubblicazione del Manifesto.

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Proprio per questo l’attacco di Meloni ha subito scatenato polemiche, tra cui la reazione ferma e indignata di Federico Fornaro, deputato del Partito Democratico. Ma il principale effetto di queste polemiche è di aver fatto passare in secondo piano ogni punto di discussione critico, facendo slittare l’agenda mediatica su dei surrogati di questioni politiche.

È una dinamica molto complessa e subdola, poiché abbandonare lo spazio simbolico, laddove quei simboli condensano le fondamenta di un ordine sociale, apre le porte a una ridefinizione dello stesso. Un po’ come i saluti nazisti di Elon Musk e Steve Bannon: gesti che arrivano per imporre il potere di reclamare, attaccare, ridefinire i simboli, normalizzare l’orrore, e al tempo stesso per deviare il dibattito dagli effetti distruttivi dell’amministrazione Trump.

Occorre quindi prima di tutto capire come contrastare simili stratagemmi senza perdere di vista i temi politici più propriamente detti, e senza prestare il fianco ai tentativi di dominare lo spazio simbolico. Un esempio lo fornisce proprio il caso di Musk. Nel Regno Unito il gruppo Everybody Hate Elon (“Tutti odiano Elon”) ha lanciato la campagna “Don’t buy a swasticar”, per colpire Musk dove fa più male: nel portafogli. “Da 0 a 1939 in 3 secondi”, recitano i catelloni in giro per Londra, mostrando Musk mentre sbuca da una Tesla facendo il saluto nazista.

Non saranno certo campagne di questo tipo a fermare la deriva autoritaria negli Stati Uniti. Ma rappresentano tuttavia una forma di comunicazione e di azione politica che produce un impatto effettivo, che sottrae ad attori come Musk il controllo sui simboli e sulla loro interpretazione. 

Tornando al contesto italiano, c’è un altro problema in relazione al trolling governativo, e non è legato tanto alla scarsa fantasia comunicativa, quanto a una debolezza politica di fondo. Attualmente in Italia anche il principale partito di opposizione manca di una linea forte e credibile in politica estera; quella del Movimento 5 Stelle oscilla invece tra ambiguità e il desiderio di abbracciare l’asse Mosca-Washington. E quindi, sotto sotto, la polemica sul Manifesto di Ventotene conviene a tutti e due gli schieramenti. Se la sostanza di cui sono fatti gli slogan è vacua, chi ha più potere mantiene il suo vantaggio, in attesa della prossima polemica a costo zero.

(Immagine anteprima via YouTube)

 

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

Meloni, il Manifesto di Ventotene e il trolling di governo

Volendo trattare la condizione dello Stato di diritto in Italia, oltre a prendere le dovute misure è utile anche valutare il livello delle conversazioni sul tema. Un po’ come se attorno al paziente-Italia, tra un’analisi e l’altra, valutassimo le discussioni dei medici, per capire se hanno il polso della situazione. 

Solo entro quest’ottica è possibile inquadrare episodi come quello di ieri in Parlamento, che ha visto la Presidente del Consiglio attaccare il Manifesto di Ventotene, considerato storicamente come uno dei testi fondativi della futura Unione Europea, e bollato da Meloni al grido di “non è la mia Europa”. 

Una vera e propria trollata di governo, che palesa una contraddizione micidiale: se è vero che di fronte ai troll l’antico adagio prescrive di non dar loro attenzione, la faccenda si complica quando il troll in questione non agisce su una tutto sommato irrilevante bacheca Facebook, ma dai banchi di un governo. Quel trolling diventa allora una questione di Stato.

Ma procediamo con ordine, evidenziando prima di tutto il contesto in cui arrivano le frasi di Meloni, con tutta una serie di questioni politiche per cui lei o la sua maggioranza potrebbero e dovrebbero essere chiamate in causa, a vario titolo.

Nelle ultime settimane il mondo si è trovato a fronteggiare un precipitare di eventi che prefigurano scenari da Terza Guerra Mondiale. Un’espressione tanto catastrofica quanto ormai sempre più d’uso, mentre gli analisti provano a tracciare una linea che colleghi molteplici teatri di guerra con l’ascesa dei fascismi globali e i nuovi assetti delle relazioni internazionali. Da Putin che a suon di bombardamenti fa sapere cosa pensa di possibili cessate il fuoco, a Netanyahu che riprende gli attacchi su larga scala a Gaza.

In Serbia, Ungheria e Romania le piazze si riempiono, maree di protesta che si alzano per sfidare le lune di autocrati o aspiranti tali. Ancora in Ungheria, Orbán ha bandito le marce del Pride, appellandosi a una legge del 2021 che dovrebbe tutelare i minori, ma è di fatto una legge anti-LGBTQIA+ in linea con la Costituzione ungherese.

Sempre a marzo l’Italia è stata inserita nella lista di monitoraggio di Civicus, ONG internazionale che si occupa di tutelare nel mondo le società civili e gli spazi democratici. L’Italia è in compagnia di Stati Uniti, che sotto l’amministrazione Trump stanno subendo una devastante accelerazione autoritaria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e Serbia.

Preoccupa per l’Italia il DDL Sicurezza, che ormai anche all’estero viene definito “anti-Gandhi”, e che è stato criticato anche da Human Rights Watch e Consiglio d’Europa. Piuttosto in sordina, la maggioranza ha aggiunto di recente un emendamento che mette a repentaglio la segretezza delle fonti giornalistiche, fornendo enormi poteri ai servizi segreti. Senza mezzi termini, scandali come il caso Paragon, che ha visto giornalisti e attivisti spiati attraverso uno spyware, diventerebbero un pallido ricordo del passato.   

Lunedì è stato invece pubblicato il rapporto di Civil Liberties Union for Europe sullo Stato di diritto nei paesi dell’Unione Europea. L’Italia è inserita in un gruppo di cui fanno parte Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia per i loro “sforzi deliberati e sistematici nell’indebolire lo Stato di diritto”. Le aree osservate comprendono giustizia, lotta alla corruzione, libertà dei media, spazi democratici e diritti umani.

Rapporti di questo tipo e giudizi tutt’altro che benevoli non sono una novità. Su Valigia Blu avevamo parlato la scorsa estate della Relazione sullo Stato di diritto curata dalla Commissione Europea e sul rapporto dell’ONG Media Freedom Rapid Response. Diverse metodologie, diversi responsabili, ma preoccupazioni analoghe per quanto riguarda la libertà di espressione e di informazione, oltre agli spazi democratici di dissenso. 

Nell’occasione evidenziavamo come una delle strategie messe in atto dall’attuale maggioranza per gestire questo tipo di critiche fosse quella di creare polemiche a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, attaccando la “faziosità” degli esperti ascoltati e di tratteggiare l’Italia come vittima di chi vuole danneggiarne l’immagine oltreconfine, pur di colpire il governo. 

Un vittimismo rancoroso che va di pari passo con l’uso delle querele contro giornalisti, scrittori e intellettuali, da parte di Meloni stessa o di esponenti della sua maggioranza. Da quelle lanciate mentre era nei banchi dell’opposizione, e non ritirate una volta al governo, fino a quelle fatte da quando è a Palazzo Chigi. 

Un elenco che va via via ingrossandosi sia quantitativamente che qualitativamente: Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare (querelata dal ministro Lollobrigida), il giornale Domani insieme al direttore Emiliano Fittipaldi e al suo predecessore Stefano Feltri. Nel primo caso si è arrivati a una multa di 1000 euro, per Di Cesare invece il giudice ha deciso il non luogo a procedere. Verso Canfora e i giornalisti di Domani, Meloni ha invece optato per ritirare le querele.

Ultimi nomi di questa inquietante cronaca giudiziaria sono il cantante dei Placebo Brian Molko, rinviato a giudizio per le parole rivolte a Meloni durante un concerto, e il comico Daniele Fabbri. Il quale nei giorni scorsi ha annunciato di aver ricevuto da Meloni e i suoi avvocati una richiesta di risarcimento da 20mila euro, dopo essersi costituita parte civile nel processo per diffamazione nei suoi confronti. Il vittimismo, insomma, va di pari passo con il risentimento come premessa per un’azione di carattere distruttivo.

La logica di queste querele intimidatorie, oltre ad alimentare un clima in cui chi deve dissentire conta fino a 10 prima di pubblicare un qualunque giudizio critico, sta nel giustificare un risentimento vittimista. 

Un mondo parallelo dove gli esponenti del governo sono assediati da nemici, e perciò costretti a difendersi e tutelarsi attraverso lo strumento della querela e delle richieste di risarcimento. Dove quindi non esistono strumenti intermedi, come il lavoro di uffici stampa, addetti alla comunicazione o, nei casi più gravi, le richieste di rettifica ai giornali o le diffide. 

Così siamo passati dal ragionare se si possano usare parole come “bastardi” senza passare il segno, come per la denuncia a Saviano, a discutere di parole come “caccolosa” o “puzzona” nel caso di Fabbri, come moviole linguistiche dove qualcuno puntualmente grida “vedi che c’è il fallo?”. Aumenta il livello generale di repressione di pari passo con l’infantilizzazione del dibattito su di essa. Se qualcuno per portare a casa la pagnotta vuole difendere le ragioni di una premier che querela un comico, si accomodi pure al tavolo della dignità perduta. Restano ancora molti posti liberi.

C’è infine stato il voto di Bruxelles della scorsa settimana sul riarmo e il sostegno all’Ucraina. Ci si è concentrati molto su come quell’occasione abbia coinciso con una spaccatura interna al Partito Democratico; spaccatura che viene da lontano, essendo stata l’Ucraina sempre il tallone d’Achille di Elly Schlein.

Ma quel voto ha fatto emergere anche le lacerazioni nella maggioranza, con una Lega da sempre vicina a posizioni Pro-Cremlino, e Fratelli d’Italia in bilico tra l’atlantismo di governo e le antiche passioni filo-trumpiane di quando si era ai banchi dell’opposizione. Ora che però Trump ha deciso di rompere l’alleanza atlantica in favore di un “mafia imperialism”, persino disposto a compiacere Putin in nome del business as usual, sono saltati gli equilibri su cui Meloni si reggeva in politica estera per consolidare la sua leadership. E così sono iniziate a manifestarsi crepe con la Lega, tra indiscrezioni, smentite, e annunci di opposizione all’ipotesi del riarmo. 

Sul Corriere, Paola Di Caro ha parlato di “effetto Trump”, facendo notare non solo il voto contrario della Lega a Bruxelles, ma l’astensione di Fratelli d’Italia nel voto sulla risoluzione a sostegno dell’Ucraina. Mentre il Sole 24 Ore ha evidenziato che Meloni “ha rotto per la prima volta il fronte europeo”. Il governo va al Consiglio Europeo senza avere davvero un mandato da parte della sua stessa maggioranza. 

In un simile contesto diventa più lineare la logica dietro l’attacco in aula al Manifesto di Ventotene, polemica preceduta sui social dai soliti noti della destra di governo. Meloni l’ha buttata in caciara attaccando un simbolo in grado di triggerare e allo stesso tempo dividere il campo avversario, su cui già si stava discutendo perché evocato dal palco della manifestazione per l’Europa di sabato scorso. In ciò ha sfruttato la sua indubbia intelligenza tattica.

Al tempo stesso, quell’attacco lancia un messaggio identitario ben preciso, che ammicca a Washington e al nuovo corso della Casa Bianca, nella misura in cui da quelle parti si ha voglia di tendere le orecchie verso Roma. Pochi giorni fa il vicepresidente JD Vance, intervistato a Fox News, parlava di un’Europa incamminata “verso il suicidio”. 

Rinnegare quindi un testo fondamentale come il Manifesto, rinnegare una delle radice antifasciste dell’Unione Europea si inserisce in quel sistema di rinforzi simbolici reciproci che l’estrema destra sta portando avanti nei paesi in cui è in posizione di potere. Sistema in cui l’indebolimento dello Stato di diritto, se non l’aggressione diretta e senza quartiere, non è l’effetto delle leggi adottate, ma la conseguenza di una posta in palio per sua natura al rialzo. Dove certi messaggi che rimandano al fascismo vengono intesi anche come “prima non si poteva dire, ora sì”. Da questo punto di vista, del Manifesto di Ventotene va ricordato che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi lo scrissero durante il confino. È prima di tutto l’opera di oppositori del regime, cui contribuì anche Eugenio Colorni, che dai fascisti fu ucciso nel 1944, l’anno della pubblicazione del Manifesto.

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Proprio per questo l’attacco di Meloni ha subito scatenato polemiche, tra cui la reazione ferma e indignata di Federico Fornaro, deputato del Partito Democratico. Ma il principale effetto di queste polemiche è di aver fatto passare in secondo piano ogni punto di discussione critico, facendo slittare l’agenda mediatica su dei surrogati di questioni politiche.

È una dinamica molto complessa e subdola, poiché abbandonare lo spazio simbolico, laddove quei simboli condensano le fondamenta di un ordine sociale, apre le porte a una ridefinizione dello stesso. Un po’ come i saluti nazisti di Elon Musk e Steve Bannon: gesti che arrivano per imporre il potere di reclamare, attaccare, ridefinire i simboli, normalizzare l’orrore, e al tempo stesso per deviare il dibattito dagli effetti distruttivi dell’amministrazione Trump.

Occorre quindi prima di tutto capire come contrastare simili stratagemmi senza perdere di vista i temi politici più propriamente detti, e senza prestare il fianco ai tentativi di dominare lo spazio simbolico. Un esempio lo fornisce proprio il caso di Musk. Nel Regno Unito il gruppo Everybody Hate Elon (“Tutti odiano Elon”) ha lanciato la campagna “Don’t buy a swasticar”, per colpire Musk dove fa più male: nel portafogli. “Da 0 a 1939 in 3 secondi”, recitano i catelloni in giro per Londra, mostrando Musk mentre sbuca da una Tesla facendo il saluto nazista.

Non saranno certo campagne di questo tipo a fermare la deriva autoritaria negli Stati Uniti. Ma rappresentano tuttavia una forma di comunicazione e di azione politica che produce un impatto effettivo, che sottrae ad attori come Musk il controllo sui simboli e sulla loro interpretazione. 

Tornando al contesto italiano, c’è un altro problema in relazione al trolling governativo, e non è legato tanto alla scarsa fantasia comunicativa, quanto a una debolezza politica di fondo. Attualmente in Italia anche il principale partito di opposizione manca di una linea forte e credibile in politica estera; quella del Movimento 5 Stelle oscilla invece tra ambiguità e il desiderio di abbracciare l’asse Mosca-Washington. E quindi, sotto sotto, la polemica sul Manifesto di Ventotene conviene a tutti e due gli schieramenti. Se la sostanza di cui sono fatti gli slogan è vacua, chi ha più potere mantiene il suo vantaggio, in attesa della prossima polemica a costo zero.

(Immagine anteprima via YouTube)

 

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

Meloni, il Manifesto di Ventotene e il trolling di governo

Volendo trattare la condizione dello Stato di diritto in Italia, oltre a prendere le dovute misure è utile anche valutare il livello delle conversazioni sul tema. Un po’ come se attorno al paziente-Italia, tra un’analisi e l’altra, valutassimo le discussioni dei medici, per capire se hanno il polso della situazione. 

Solo entro quest’ottica è possibile inquadrare episodi come quello di ieri in Parlamento, che ha visto la Presidente del Consiglio attaccare il Manifesto di Ventotene, considerato storicamente come uno dei testi fondativi della futura Unione Europea, e bollato da Meloni al grido di “non è la mia Europa”. 

Una vera e propria trollata di governo, che palesa una contraddizione micidiale: se è vero che di fronte ai troll l’antico adagio prescrive di non dar loro attenzione, la faccenda si complica quando il troll in questione non agisce su una tutto sommato irrilevante bacheca Facebook, ma dai banchi di un governo. Quel trolling diventa allora una questione di Stato.

Ma procediamo con ordine, evidenziando prima di tutto il contesto in cui arrivano le frasi di Meloni, con tutta una serie di questioni politiche per cui lei o la sua maggioranza potrebbero e dovrebbero essere chiamate in causa, a vario titolo.

Nelle ultime settimane il mondo si è trovato a fronteggiare un precipitare di eventi che prefigurano scenari da Terza Guerra Mondiale. Un’espressione tanto catastrofica quanto ormai sempre più d’uso, mentre gli analisti provano a tracciare una linea che colleghi molteplici teatri di guerra con l’ascesa dei fascismi globali e i nuovi assetti delle relazioni internazionali. Da Putin che a suon di bombardamenti fa sapere cosa pensa di possibili cessate il fuoco, a Netanyahu che riprende gli attacchi su larga scala a Gaza.

In Serbia, Ungheria e Romania le piazze si riempiono, maree di protesta che si alzano per sfidare le lune di autocrati o aspiranti tali. Ancora in Ungheria, Orbán ha bandito le marce del Pride, appellandosi a una legge del 2021 che dovrebbe tutelare i minori, ma è di fatto una legge anti-LGBTQIA+ in linea con la Costituzione ungherese.

Sempre a marzo l’Italia è stata inserita nella lista di monitoraggio di Civicus, ONG internazionale che si occupa di tutelare nel mondo le società civili e gli spazi democratici. L’Italia è in compagnia di Stati Uniti, che sotto l’amministrazione Trump stanno subendo una devastante accelerazione autoritaria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e Serbia.

Preoccupa per l’Italia il DDL Sicurezza, che ormai anche all’estero viene definito “anti-Gandhi”, e che è stato criticato anche da Human Rights Watch e Consiglio d’Europa. Piuttosto in sordina, la maggioranza ha aggiunto di recente un emendamento che mette a repentaglio la segretezza delle fonti giornalistiche, fornendo enormi poteri ai servizi segreti. Senza mezzi termini, scandali come il caso Paragon, che ha visto giornalisti e attivisti spiati attraverso uno spyware, diventerebbero un pallido ricordo del passato.   

Lunedì è stato invece pubblicato il rapporto di Civil Liberties Union for Europe sullo Stato di diritto nei paesi dell’Unione Europea. L’Italia è inserita in un gruppo di cui fanno parte Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia per i loro “sforzi deliberati e sistematici nell’indebolire lo Stato di diritto”. Le aree osservate comprendono giustizia, lotta alla corruzione, libertà dei media, spazi democratici e diritti umani.

Rapporti di questo tipo e giudizi tutt’altro che benevoli non sono una novità. Su Valigia Blu avevamo parlato la scorsa estate della Relazione sullo Stato di diritto curata dalla Commissione Europea e sul rapporto dell’ONG Media Freedom Rapid Response. Diverse metodologie, diversi responsabili, ma preoccupazioni analoghe per quanto riguarda la libertà di espressione e di informazione, oltre agli spazi democratici di dissenso. 

Nell’occasione evidenziavamo come una delle strategie messe in atto dall’attuale maggioranza per gestire questo tipo di critiche fosse quella di creare polemiche a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, attaccando la “faziosità” degli esperti ascoltati e di tratteggiare l’Italia come vittima di chi vuole danneggiarne l’immagine oltreconfine, pur di colpire il governo. 

Un vittimismo rancoroso che va di pari passo con l’uso delle querele contro giornalisti, scrittori e intellettuali, da parte di Meloni stessa o di esponenti della sua maggioranza. Da quelle lanciate mentre era nei banchi dell’opposizione, e non ritirate una volta al governo, fino a quelle fatte da quando è a Palazzo Chigi. 

Un elenco che va via via ingrossandosi sia quantitativamente che qualitativamente: Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare (querelata dal ministro Lollobrigida), il giornale Domani insieme al direttore Emiliano Fittipaldi e al suo predecessore Stefano Feltri. Nel primo caso si è arrivati a una multa di 1000 euro, per Di Cesare invece il giudice ha deciso il non luogo a procedere. Verso Canfora e i giornalisti di Domani, Meloni ha invece optato per ritirare le querele.

Ultimi nomi di questa inquietante cronaca giudiziaria sono il cantante dei Placebo Brian Molko, rinviato a giudizio per le parole rivolte a Meloni durante un concerto, e il comico Daniele Fabbri. Il quale nei giorni scorsi ha annunciato di aver ricevuto da Meloni e i suoi avvocati una richiesta di risarcimento da 20mila euro, dopo essersi costituita parte civile nel processo per diffamazione nei suoi confronti. Il vittimismo, insomma, va di pari passo con il risentimento come premessa per un’azione di carattere distruttivo.

La logica di queste querele intimidatorie, oltre ad alimentare un clima in cui chi deve dissentire conta fino a 10 prima di pubblicare un qualunque giudizio critico, sta nel giustificare un risentimento vittimista. 

Un mondo parallelo dove gli esponenti del governo sono assediati da nemici, e perciò costretti a difendersi e tutelarsi attraverso lo strumento della querela e delle richieste di risarcimento. Dove quindi non esistono strumenti intermedi, come il lavoro di uffici stampa, addetti alla comunicazione o, nei casi più gravi, le richieste di rettifica ai giornali o le diffide. 

Così siamo passati dal ragionare se si possano usare parole come “bastardi” senza passare il segno, come per la denuncia a Saviano, a discutere di parole come “caccolosa” o “puzzona” nel caso di Fabbri, come moviole linguistiche dove qualcuno puntualmente grida “vedi che c’è il fallo?”. Aumenta il livello generale di repressione di pari passo con l’infantilizzazione del dibattito su di essa. Se qualcuno per portare a casa la pagnotta vuole difendere le ragioni di una premier che querela un comico, si accomodi pure al tavolo della dignità perduta. Restano ancora molti posti liberi.

C’è infine stato il voto di Bruxelles della scorsa settimana sul riarmo e il sostegno all’Ucraina. Ci si è concentrati molto su come quell’occasione abbia coinciso con una spaccatura interna al Partito Democratico; spaccatura che viene da lontano, essendo stata l’Ucraina sempre il tallone d’Achille di Elly Schlein.

Ma quel voto ha fatto emergere anche le lacerazioni nella maggioranza, con una Lega da sempre vicina a posizioni Pro-Cremlino, e Fratelli d’Italia in bilico tra l’atlantismo di governo e le antiche passioni filo-trumpiane di quando si era ai banchi dell’opposizione. Ora che però Trump ha deciso di rompere l’alleanza atlantica in favore di un “mafia imperialism”, persino disposto a compiacere Putin in nome del business as usual, sono saltati gli equilibri su cui Meloni si reggeva in politica estera per consolidare la sua leadership. E così sono iniziate a manifestarsi crepe con la Lega, tra indiscrezioni, smentite, e annunci di opposizione all’ipotesi del riarmo. 

Sul Corriere, Paola Di Caro ha parlato di “effetto Trump”, facendo notare non solo il voto contrario della Lega a Bruxelles, ma l’astensione di Fratelli d’Italia nel voto sulla risoluzione a sostegno dell’Ucraina. Mentre il Sole 24 Ore ha evidenziato che Meloni “ha rotto per la prima volta il fronte europeo”. Il governo va al Consiglio Europeo senza avere davvero un mandato da parte della sua stessa maggioranza. 

In un simile contesto diventa più lineare la logica dietro l’attacco in aula al Manifesto di Ventotene, polemica preceduta sui social dai soliti noti della destra di governo. Meloni l’ha buttata in caciara attaccando un simbolo in grado di triggerare e allo stesso tempo dividere il campo avversario, su cui già si stava discutendo perché evocato dal palco della manifestazione per l’Europa di sabato scorso. In ciò ha sfruttato la sua indubbia intelligenza tattica.

Al tempo stesso, quell’attacco lancia un messaggio identitario ben preciso, che ammicca a Washington e al nuovo corso della Casa Bianca, nella misura in cui da quelle parti si ha voglia di tendere le orecchie verso Roma. Pochi giorni fa il vicepresidente JD Vance, intervistato a Fox News, parlava di un’Europa incamminata “verso il suicidio”. 

Rinnegare quindi un testo fondamentale come il Manifesto, rinnegare una delle radice antifasciste dell’Unione Europea si inserisce in quel sistema di rinforzi simbolici reciproci che l’estrema destra sta portando avanti nei paesi in cui è in posizione di potere. Sistema in cui l’indebolimento dello Stato di diritto, se non l’aggressione diretta e senza quartiere, non è l’effetto delle leggi adottate, ma la conseguenza di una posta in palio per sua natura al rialzo. Dove certi messaggi che rimandano al fascismo vengono intesi anche come “prima non si poteva dire, ora sì”. Da questo punto di vista, del Manifesto di Ventotene va ricordato che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi lo scrissero durante il confino. È prima di tutto l’opera di oppositori del regime, cui contribuì anche Eugenio Colorni, che dai fascisti fu ucciso nel 1944, l’anno della pubblicazione del Manifesto.

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Proprio per questo l’attacco di Meloni ha subito scatenato polemiche, tra cui la reazione ferma e indignata di Federico Fornaro, deputato del Partito Democratico. Ma il principale effetto di queste polemiche è di aver fatto passare in secondo piano ogni punto di discussione critico, facendo slittare l’agenda mediatica su dei surrogati di questioni politiche.

È una dinamica molto complessa e subdola, poiché abbandonare lo spazio simbolico, laddove quei simboli condensano le fondamenta di un ordine sociale, apre le porte a una ridefinizione dello stesso. Un po’ come i saluti nazisti di Elon Musk e Steve Bannon: gesti che arrivano per imporre il potere di reclamare, attaccare, ridefinire i simboli, normalizzare l’orrore, e al tempo stesso per deviare il dibattito dagli effetti distruttivi dell’amministrazione Trump.

Occorre quindi prima di tutto capire come contrastare simili stratagemmi senza perdere di vista i temi politici più propriamente detti, e senza prestare il fianco ai tentativi di dominare lo spazio simbolico. Un esempio lo fornisce proprio il caso di Musk. Nel Regno Unito il gruppo Everybody Hate Elon (“Tutti odiano Elon”) ha lanciato la campagna “Don’t buy a swasticar”, per colpire Musk dove fa più male: nel portafogli. “Da 0 a 1939 in 3 secondi”, recitano i catelloni in giro per Londra, mostrando Musk mentre sbuca da una Tesla facendo il saluto nazista.

Non saranno certo campagne di questo tipo a fermare la deriva autoritaria negli Stati Uniti. Ma rappresentano tuttavia una forma di comunicazione e di azione politica che produce un impatto effettivo, che sottrae ad attori come Musk il controllo sui simboli e sulla loro interpretazione. 

Tornando al contesto italiano, c’è un altro problema in relazione al trolling governativo, e non è legato tanto alla scarsa fantasia comunicativa, quanto a una debolezza politica di fondo. Attualmente in Italia anche il principale partito di opposizione manca di una linea forte e credibile in politica estera; quella del Movimento 5 Stelle oscilla invece tra ambiguità e il desiderio di abbracciare l’asse Mosca-Washington. E quindi, sotto sotto, la polemica sul Manifesto di Ventotene conviene a tutti e due gli schieramenti. Se la sostanza di cui sono fatti gli slogan è vacua, chi ha più potere mantiene il suo vantaggio, in attesa della prossima polemica a costo zero.

(Immagine anteprima via YouTube)

 

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

Meloni, il Manifesto di Ventotene e il trolling di governo

Volendo trattare la condizione dello Stato di diritto in Italia, oltre a prendere le dovute misure è utile anche valutare il livello delle conversazioni sul tema. Un po’ come se attorno al paziente-Italia, tra un’analisi e l’altra, valutassimo le discussioni dei medici, per capire se hanno il polso della situazione. 

Solo entro quest’ottica è possibile inquadrare episodi come quello di ieri in Parlamento, che ha visto la Presidente del Consiglio attaccare il Manifesto di Ventotene, considerato storicamente come uno dei testi fondativi della futura Unione Europea, e bollato da Meloni al grido di “non è la mia Europa”. 

Una vera e propria trollata di governo, che palesa una contraddizione micidiale: se è vero che di fronte ai troll l’antico adagio prescrive di non dar loro attenzione, la faccenda si complica quando il troll in questione non agisce su una tutto sommato irrilevante bacheca Facebook, ma dai banchi di un governo. Quel trolling diventa allora una questione di Stato.

Ma procediamo con ordine, evidenziando prima di tutto il contesto in cui arrivano le frasi di Meloni, con tutta una serie di questioni politiche per cui lei o la sua maggioranza potrebbero e dovrebbero essere chiamate in causa, a vario titolo.

Nelle ultime settimane il mondo si è trovato a fronteggiare un precipitare di eventi che prefigurano scenari da Terza Guerra Mondiale. Un’espressione tanto catastrofica quanto ormai sempre più d’uso, mentre gli analisti provano a tracciare una linea che colleghi molteplici teatri di guerra con l’ascesa dei fascismi globali e i nuovi assetti delle relazioni internazionali. Da Putin che a suon di bombardamenti fa sapere cosa pensa di possibili cessate il fuoco, a Netanyahu che riprende gli attacchi su larga scala a Gaza.

In Serbia, Ungheria e Romania le piazze si riempiono, maree di protesta che si alzano per sfidare le lune di autocrati o aspiranti tali. Ancora in Ungheria, Orbán ha bandito le marce del Pride, appellandosi a una legge del 2021 che dovrebbe tutelare i minori, ma è di fatto una legge anti-LGBTQIA+ in linea con la Costituzione ungherese.

Sempre a marzo l’Italia è stata inserita nella lista di monitoraggio di Civicus, ONG internazionale che si occupa di tutelare nel mondo le società civili e gli spazi democratici. L’Italia è in compagnia di Stati Uniti, che sotto l’amministrazione Trump stanno subendo una devastante accelerazione autoritaria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e Serbia.

Preoccupa per l’Italia il DDL Sicurezza, che ormai anche all’estero viene definito “anti-Gandhi”, e che è stato criticato anche da Human Rights Watch e Consiglio d’Europa. Piuttosto in sordina, la maggioranza ha aggiunto di recente un emendamento che mette a repentaglio la segretezza delle fonti giornalistiche, fornendo enormi poteri ai servizi segreti. Senza mezzi termini, scandali come il caso Paragon, che ha visto giornalisti e attivisti spiati attraverso uno spyware, diventerebbero un pallido ricordo del passato.   

Lunedì è stato invece pubblicato il rapporto di Civil Liberties Union for Europe sullo Stato di diritto nei paesi dell’Unione Europea. L’Italia è inserita in un gruppo di cui fanno parte Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia per i loro “sforzi deliberati e sistematici nell’indebolire lo Stato di diritto”. Le aree osservate comprendono giustizia, lotta alla corruzione, libertà dei media, spazi democratici e diritti umani.

Rapporti di questo tipo e giudizi tutt’altro che benevoli non sono una novità. Su Valigia Blu avevamo parlato la scorsa estate della Relazione sullo Stato di diritto curata dalla Commissione Europea e sul rapporto dell’ONG Media Freedom Rapid Response. Diverse metodologie, diversi responsabili, ma preoccupazioni analoghe per quanto riguarda la libertà di espressione e di informazione, oltre agli spazi democratici di dissenso. 

Nell’occasione evidenziavamo come una delle strategie messe in atto dall’attuale maggioranza per gestire questo tipo di critiche fosse quella di creare polemiche a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, attaccando la “faziosità” degli esperti ascoltati e di tratteggiare l’Italia come vittima di chi vuole danneggiarne l’immagine oltreconfine, pur di colpire il governo. 

Un vittimismo rancoroso che va di pari passo con l’uso delle querele contro giornalisti, scrittori e intellettuali, da parte di Meloni stessa o di esponenti della sua maggioranza. Da quelle lanciate mentre era nei banchi dell’opposizione, e non ritirate una volta al governo, fino a quelle fatte da quando è a Palazzo Chigi. 

Un elenco che va via via ingrossandosi sia quantitativamente che qualitativamente: Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare (querelata dal ministro Lollobrigida), il giornale Domani insieme al direttore Emiliano Fittipaldi e al suo predecessore Stefano Feltri. Nel primo caso si è arrivati a una multa di 1000 euro, per Di Cesare invece il giudice ha deciso il non luogo a procedere. Verso Canfora e i giornalisti di Domani, Meloni ha invece optato per ritirare le querele.

Ultimi nomi di questa inquietante cronaca giudiziaria sono il cantante dei Placebo Brian Molko, rinviato a giudizio per le parole rivolte a Meloni durante un concerto, e il comico Daniele Fabbri. Il quale nei giorni scorsi ha annunciato di aver ricevuto da Meloni e i suoi avvocati una richiesta di risarcimento da 20mila euro, dopo essersi costituita parte civile nel processo per diffamazione nei suoi confronti. Il vittimismo, insomma, va di pari passo con il risentimento come premessa per un’azione di carattere distruttivo.

La logica di queste querele intimidatorie, oltre ad alimentare un clima in cui chi deve dissentire conta fino a 10 prima di pubblicare un qualunque giudizio critico, sta nel giustificare un risentimento vittimista. 

Un mondo parallelo dove gli esponenti del governo sono assediati da nemici, e perciò costretti a difendersi e tutelarsi attraverso lo strumento della querela e delle richieste di risarcimento. Dove quindi non esistono strumenti intermedi, come il lavoro di uffici stampa, addetti alla comunicazione o, nei casi più gravi, le richieste di rettifica ai giornali o le diffide. 

Così siamo passati dal ragionare se si possano usare parole come “bastardi” senza passare il segno, come per la denuncia a Saviano, a discutere di parole come “caccolosa” o “puzzona” nel caso di Fabbri, come moviole linguistiche dove qualcuno puntualmente grida “vedi che c’è il fallo?”. Aumenta il livello generale di repressione di pari passo con l’infantilizzazione del dibattito su di essa. Se qualcuno per portare a casa la pagnotta vuole difendere le ragioni di una premier che querela un comico, si accomodi pure al tavolo della dignità perduta. Restano ancora molti posti liberi.

C’è infine stato il voto di Bruxelles della scorsa settimana sul riarmo e il sostegno all’Ucraina. Ci si è concentrati molto su come quell’occasione abbia coinciso con una spaccatura interna al Partito Democratico; spaccatura che viene da lontano, essendo stata l’Ucraina sempre il tallone d’Achille di Elly Schlein.

Ma quel voto ha fatto emergere anche le lacerazioni nella maggioranza, con una Lega da sempre vicina a posizioni Pro-Cremlino, e Fratelli d’Italia in bilico tra l’atlantismo di governo e le antiche passioni filo-trumpiane di quando si era ai banchi dell’opposizione. Ora che però Trump ha deciso di rompere l’alleanza atlantica in favore di un “mafia imperialism”, persino disposto a compiacere Putin in nome del business as usual, sono saltati gli equilibri su cui Meloni si reggeva in politica estera per consolidare la sua leadership. E così sono iniziate a manifestarsi crepe con la Lega, tra indiscrezioni, smentite, e annunci di opposizione all’ipotesi del riarmo. 

Sul Corriere, Paola Di Caro ha parlato di “effetto Trump”, facendo notare non solo il voto contrario della Lega a Bruxelles, ma l’astensione di Fratelli d’Italia nel voto sulla risoluzione a sostegno dell’Ucraina. Mentre il Sole 24 Ore ha evidenziato che Meloni “ha rotto per la prima volta il fronte europeo”. Il governo va al Consiglio Europeo senza avere davvero un mandato da parte della sua stessa maggioranza. 

In un simile contesto diventa più lineare la logica dietro l’attacco in aula al Manifesto di Ventotene, polemica preceduta sui social dai soliti noti della destra di governo. Meloni l’ha buttata in caciara attaccando un simbolo in grado di triggerare e allo stesso tempo dividere il campo avversario, su cui già si stava discutendo perché evocato dal palco della manifestazione per l’Europa di sabato scorso. In ciò ha sfruttato la sua indubbia intelligenza tattica.

Al tempo stesso, quell’attacco lancia un messaggio identitario ben preciso, che ammicca a Washington e al nuovo corso della Casa Bianca, nella misura in cui da quelle parti si ha voglia di tendere le orecchie verso Roma. Pochi giorni fa il vicepresidente JD Vance, intervistato a Fox News, parlava di un’Europa incamminata “verso il suicidio”. 

Rinnegare quindi un testo fondamentale come il Manifesto, rinnegare una delle radice antifasciste dell’Unione Europea si inserisce in quel sistema di rinforzi simbolici reciproci che l’estrema destra sta portando avanti nei paesi in cui è in posizione di potere. Sistema in cui l’indebolimento dello Stato di diritto, se non l’aggressione diretta e senza quartiere, non è l’effetto delle leggi adottate, ma la conseguenza di una posta in palio per sua natura al rialzo. Dove certi messaggi che rimandano al fascismo vengono intesi anche come “prima non si poteva dire, ora sì”. Da questo punto di vista, del Manifesto di Ventotene va ricordato che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi lo scrissero durante il confino. È prima di tutto l’opera di oppositori del regime, cui contribuì anche Eugenio Colorni, che dai fascisti fu ucciso nel 1944, l’anno della pubblicazione del Manifesto.

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Proprio per questo l’attacco di Meloni ha subito scatenato polemiche, tra cui la reazione ferma e indignata di Federico Fornaro, deputato del Partito Democratico. Ma il principale effetto di queste polemiche è di aver fatto passare in secondo piano ogni punto di discussione critico, facendo slittare l’agenda mediatica su dei surrogati di questioni politiche.

È una dinamica molto complessa e subdola, poiché abbandonare lo spazio simbolico, laddove quei simboli condensano le fondamenta di un ordine sociale, apre le porte a una ridefinizione dello stesso. Un po’ come i saluti nazisti di Elon Musk e Steve Bannon: gesti che arrivano per imporre il potere di reclamare, attaccare, ridefinire i simboli, normalizzare l’orrore, e al tempo stesso per deviare il dibattito dagli effetti distruttivi dell’amministrazione Trump.

Occorre quindi prima di tutto capire come contrastare simili stratagemmi senza perdere di vista i temi politici più propriamente detti, e senza prestare il fianco ai tentativi di dominare lo spazio simbolico. Un esempio lo fornisce proprio il caso di Musk. Nel Regno Unito il gruppo Everybody Hate Elon (“Tutti odiano Elon”) ha lanciato la campagna “Don’t buy a swasticar”, per colpire Musk dove fa più male: nel portafogli. “Da 0 a 1939 in 3 secondi”, recitano i catelloni in giro per Londra, mostrando Musk mentre sbuca da una Tesla facendo il saluto nazista.

Non saranno certo campagne di questo tipo a fermare la deriva autoritaria negli Stati Uniti. Ma rappresentano tuttavia una forma di comunicazione e di azione politica che produce un impatto effettivo, che sottrae ad attori come Musk il controllo sui simboli e sulla loro interpretazione. 

Tornando al contesto italiano, c’è un altro problema in relazione al trolling governativo, e non è legato tanto alla scarsa fantasia comunicativa, quanto a una debolezza politica di fondo. Attualmente in Italia anche il principale partito di opposizione manca di una linea forte e credibile in politica estera; quella del Movimento 5 Stelle oscilla invece tra ambiguità e il desiderio di abbracciare l’asse Mosca-Washington. E quindi, sotto sotto, la polemica sul Manifesto di Ventotene conviene a tutti e due gli schieramenti. Se la sostanza di cui sono fatti gli slogan è vacua, chi ha più potere mantiene il suo vantaggio, in attesa della prossima polemica a costo zero.

(Immagine anteprima via YouTube)

 

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

Meloni, il Manifesto di Ventotene e il trolling di governo

Volendo trattare la condizione dello Stato di diritto in Italia, oltre a prendere le dovute misure è utile anche valutare il livello delle conversazioni sul tema. Un po’ come se attorno al paziente-Italia, tra un’analisi e l’altra, valutassimo le discussioni dei medici, per capire se hanno il polso della situazione. 

Solo entro quest’ottica è possibile inquadrare episodi come quello di ieri in Parlamento, che ha visto la Presidente del Consiglio attaccare il Manifesto di Ventotene, considerato storicamente come uno dei testi fondativi della futura Unione Europea, e bollato da Meloni al grido di “non è la mia Europa”. 

Una vera e propria trollata di governo, che palesa una contraddizione micidiale: se è vero che di fronte ai troll l’antico adagio prescrive di non dar loro attenzione, la faccenda si complica quando il troll in questione non agisce su una tutto sommato irrilevante bacheca Facebook, ma dai banchi di un governo. Quel trolling diventa allora una questione di Stato.

Ma procediamo con ordine, evidenziando prima di tutto il contesto in cui arrivano le frasi di Meloni, con tutta una serie di questioni politiche per cui lei o la sua maggioranza potrebbero e dovrebbero essere chiamate in causa, a vario titolo.

Nelle ultime settimane il mondo si è trovato a fronteggiare un precipitare di eventi che prefigurano scenari da Terza Guerra Mondiale. Un’espressione tanto catastrofica quanto ormai sempre più d’uso, mentre gli analisti provano a tracciare una linea che colleghi molteplici teatri di guerra con l’ascesa dei fascismi globali e i nuovi assetti delle relazioni internazionali. Da Putin che a suon di bombardamenti fa sapere cosa pensa di possibili cessate il fuoco, a Netanyahu che riprende gli attacchi su larga scala a Gaza.

In Serbia, Ungheria e Romania le piazze si riempiono, maree di protesta che si alzano per sfidare le lune di autocrati o aspiranti tali. Ancora in Ungheria, Orbán ha bandito le marce del Pride, appellandosi a una legge del 2021 che dovrebbe tutelare i minori, ma è di fatto una legge anti-LGBTQIA+ in linea con la Costituzione ungherese.

Sempre a marzo l’Italia è stata inserita nella lista di monitoraggio di Civicus, ONG internazionale che si occupa di tutelare nel mondo le società civili e gli spazi democratici. L’Italia è in compagnia di Stati Uniti, che sotto l’amministrazione Trump stanno subendo una devastante accelerazione autoritaria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e Serbia.

Preoccupa per l’Italia il DDL Sicurezza, che ormai anche all’estero viene definito “anti-Gandhi”, e che è stato criticato anche da Human Rights Watch e Consiglio d’Europa. Piuttosto in sordina, la maggioranza ha aggiunto di recente un emendamento che mette a repentaglio la segretezza delle fonti giornalistiche, fornendo enormi poteri ai servizi segreti. Senza mezzi termini, scandali come il caso Paragon, che ha visto giornalisti e attivisti spiati attraverso uno spyware, diventerebbero un pallido ricordo del passato.   

Lunedì è stato invece pubblicato il rapporto di Civil Liberties Union for Europe sullo Stato di diritto nei paesi dell’Unione Europea. L’Italia è inserita in un gruppo di cui fanno parte Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia per i loro “sforzi deliberati e sistematici nell’indebolire lo Stato di diritto”. Le aree osservate comprendono giustizia, lotta alla corruzione, libertà dei media, spazi democratici e diritti umani.

Rapporti di questo tipo e giudizi tutt’altro che benevoli non sono una novità. Su Valigia Blu avevamo parlato la scorsa estate della Relazione sullo Stato di diritto curata dalla Commissione Europea e sul rapporto dell’ONG Media Freedom Rapid Response. Diverse metodologie, diversi responsabili, ma preoccupazioni analoghe per quanto riguarda la libertà di espressione e di informazione, oltre agli spazi democratici di dissenso. 

Nell’occasione evidenziavamo come una delle strategie messe in atto dall’attuale maggioranza per gestire questo tipo di critiche fosse quella di creare polemiche a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, attaccando la “faziosità” degli esperti ascoltati e di tratteggiare l’Italia come vittima di chi vuole danneggiarne l’immagine oltreconfine, pur di colpire il governo. 

Un vittimismo rancoroso che va di pari passo con l’uso delle querele contro giornalisti, scrittori e intellettuali, da parte di Meloni stessa o di esponenti della sua maggioranza. Da quelle lanciate mentre era nei banchi dell’opposizione, e non ritirate una volta al governo, fino a quelle fatte da quando è a Palazzo Chigi. 

Un elenco che va via via ingrossandosi sia quantitativamente che qualitativamente: Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare (querelata dal ministro Lollobrigida), il giornale Domani insieme al direttore Emiliano Fittipaldi e al suo predecessore Stefano Feltri. Nel primo caso si è arrivati a una multa di 1000 euro, per Di Cesare invece il giudice ha deciso il non luogo a procedere. Verso Canfora e i giornalisti di Domani, Meloni ha invece optato per ritirare le querele.

Ultimi nomi di questa inquietante cronaca giudiziaria sono il cantante dei Placebo Brian Molko, rinviato a giudizio per le parole rivolte a Meloni durante un concerto, e il comico Daniele Fabbri. Il quale nei giorni scorsi ha annunciato di aver ricevuto da Meloni e i suoi avvocati una richiesta di risarcimento da 20mila euro, dopo essersi costituita parte civile nel processo per diffamazione nei suoi confronti. Il vittimismo, insomma, va di pari passo con il risentimento come premessa per un’azione di carattere distruttivo.

La logica di queste querele intimidatorie, oltre ad alimentare un clima in cui chi deve dissentire conta fino a 10 prima di pubblicare un qualunque giudizio critico, sta nel giustificare un risentimento vittimista. 

Un mondo parallelo dove gli esponenti del governo sono assediati da nemici, e perciò costretti a difendersi e tutelarsi attraverso lo strumento della querela e delle richieste di risarcimento. Dove quindi non esistono strumenti intermedi, come il lavoro di uffici stampa, addetti alla comunicazione o, nei casi più gravi, le richieste di rettifica ai giornali o le diffide. 

Così siamo passati dal ragionare se si possano usare parole come “bastardi” senza passare il segno, come per la denuncia a Saviano, a discutere di parole come “caccolosa” o “puzzona” nel caso di Fabbri, come moviole linguistiche dove qualcuno puntualmente grida “vedi che c’è il fallo?”. Aumenta il livello generale di repressione di pari passo con l’infantilizzazione del dibattito su di essa. Se qualcuno per portare a casa la pagnotta vuole difendere le ragioni di una premier che querela un comico, si accomodi pure al tavolo della dignità perduta. Restano ancora molti posti liberi.

C’è infine stato il voto di Bruxelles della scorsa settimana sul riarmo e il sostegno all’Ucraina. Ci si è concentrati molto su come quell’occasione abbia coinciso con una spaccatura interna al Partito Democratico; spaccatura che viene da lontano, essendo stata l’Ucraina sempre il tallone d’Achille di Elly Schlein.

Ma quel voto ha fatto emergere anche le lacerazioni nella maggioranza, con una Lega da sempre vicina a posizioni Pro-Cremlino, e Fratelli d’Italia in bilico tra l’atlantismo di governo e le antiche passioni filo-trumpiane di quando si era ai banchi dell’opposizione. Ora che però Trump ha deciso di rompere l’alleanza atlantica in favore di un “mafia imperialism”, persino disposto a compiacere Putin in nome del business as usual, sono saltati gli equilibri su cui Meloni si reggeva in politica estera per consolidare la sua leadership. E così sono iniziate a manifestarsi crepe con la Lega, tra indiscrezioni, smentite, e annunci di opposizione all’ipotesi del riarmo. 

Sul Corriere, Paola Di Caro ha parlato di “effetto Trump”, facendo notare non solo il voto contrario della Lega a Bruxelles, ma l’astensione di Fratelli d’Italia nel voto sulla risoluzione a sostegno dell’Ucraina. Mentre il Sole 24 Ore ha evidenziato che Meloni “ha rotto per la prima volta il fronte europeo”. Il governo va al Consiglio Europeo senza avere davvero un mandato da parte della sua stessa maggioranza. 

In un simile contesto diventa più lineare la logica dietro l’attacco in aula al Manifesto di Ventotene, polemica preceduta sui social dai soliti noti della destra di governo. Meloni l’ha buttata in caciara attaccando un simbolo in grado di triggerare e allo stesso tempo dividere il campo avversario, su cui già si stava discutendo perché evocato dal palco della manifestazione per l’Europa di sabato scorso. In ciò ha sfruttato la sua indubbia intelligenza tattica.

Al tempo stesso, quell’attacco lancia un messaggio identitario ben preciso, che ammicca a Washington e al nuovo corso della Casa Bianca, nella misura in cui da quelle parti si ha voglia di tendere le orecchie verso Roma. Pochi giorni fa il vicepresidente JD Vance, intervistato a Fox News, parlava di un’Europa incamminata “verso il suicidio”. 

Rinnegare quindi un testo fondamentale come il Manifesto, rinnegare una delle radice antifasciste dell’Unione Europea si inserisce in quel sistema di rinforzi simbolici reciproci che l’estrema destra sta portando avanti nei paesi in cui è in posizione di potere. Sistema in cui l’indebolimento dello Stato di diritto, se non l’aggressione diretta e senza quartiere, non è l’effetto delle leggi adottate, ma la conseguenza di una posta in palio per sua natura al rialzo. Dove certi messaggi che rimandano al fascismo vengono intesi anche come “prima non si poteva dire, ora sì”. Da questo punto di vista, del Manifesto di Ventotene va ricordato che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi lo scrissero durante il confino. È prima di tutto l’opera di oppositori del regime, cui contribuì anche Eugenio Colorni, che dai fascisti fu ucciso nel 1944, l’anno della pubblicazione del Manifesto.

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Proprio per questo l’attacco di Meloni ha subito scatenato polemiche, tra cui la reazione ferma e indignata di Federico Fornaro, deputato del Partito Democratico. Ma il principale effetto di queste polemiche è di aver fatto passare in secondo piano ogni punto di discussione critico, facendo slittare l’agenda mediatica su dei surrogati di questioni politiche.

È una dinamica molto complessa e subdola, poiché abbandonare lo spazio simbolico, laddove quei simboli condensano le fondamenta di un ordine sociale, apre le porte a una ridefinizione dello stesso. Un po’ come i saluti nazisti di Elon Musk e Steve Bannon: gesti che arrivano per imporre il potere di reclamare, attaccare, ridefinire i simboli, normalizzare l’orrore, e al tempo stesso per deviare il dibattito dagli effetti distruttivi dell’amministrazione Trump.

Occorre quindi prima di tutto capire come contrastare simili stratagemmi senza perdere di vista i temi politici più propriamente detti, e senza prestare il fianco ai tentativi di dominare lo spazio simbolico. Un esempio lo fornisce proprio il caso di Musk. Nel Regno Unito il gruppo Everybody Hate Elon (“Tutti odiano Elon”) ha lanciato la campagna “Don’t buy a swasticar”, per colpire Musk dove fa più male: nel portafogli. “Da 0 a 1939 in 3 secondi”, recitano i catelloni in giro per Londra, mostrando Musk mentre sbuca da una Tesla facendo il saluto nazista.

Non saranno certo campagne di questo tipo a fermare la deriva autoritaria negli Stati Uniti. Ma rappresentano tuttavia una forma di comunicazione e di azione politica che produce un impatto effettivo, che sottrae ad attori come Musk il controllo sui simboli e sulla loro interpretazione. 

Tornando al contesto italiano, c’è un altro problema in relazione al trolling governativo, e non è legato tanto alla scarsa fantasia comunicativa, quanto a una debolezza politica di fondo. Attualmente in Italia anche il principale partito di opposizione manca di una linea forte e credibile in politica estera; quella del Movimento 5 Stelle oscilla invece tra ambiguità e il desiderio di abbracciare l’asse Mosca-Washington. E quindi, sotto sotto, la polemica sul Manifesto di Ventotene conviene a tutti e due gli schieramenti. Se la sostanza di cui sono fatti gli slogan è vacua, chi ha più potere mantiene il suo vantaggio, in attesa della prossima polemica a costo zero.

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