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marxismo

TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

L'articolo TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO proviene da .

TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

L'articolo TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO proviene da .

TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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