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numero_7

Un Nuovo Movimento Ambientalista?

L’Emilia-Romagna è sempre stata all’avanguardia, per ciò che riguarda i movimenti ambientalisti.

In Emilia si svilupparono, alla fine degli anni settanta del Novecento, vivaci lotte antinucleari con riferimento alla centrale di Caorso (PC) e, successivamente, a quella del Brasimone (BO). In Romagna furono molto attivi, in quel periodo, gruppi che, insieme ad altri (soprattutto veneti), diedero vita, a livello nazionale, all’esperienza dell’Arcipelago Verde, presto degenerata nel partito dei verdi. In tutta la regione vennero portate avanti, in tale contesto, lotte pionieristiche per indurre le amministrazioni comunali a praticare il riciclaggio dei rifiuti solidi urbani.

Negli anni seguenti, l’aziendalismo dominante, insieme alla deludente attività istituzionale dei verdi, frenò il movimento, che tuttavia continuò ad esistere e lottare, conseguendo anche qualche vittoria significativa, sia pure senza quella spinta che lo aveva caratterizzato inizialmente.

La bandiera dell’ambientalismo fu nuovamente sventolata, circa quindici anni fa, dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, sugli sviluppi del quale stendiamo un pietoso velo, e più tardi, nel 2018, dai seguaci di Greta Thunberg, un singolare personaggio salito agli onori delle cronache mondiali per aver marinato la scuola con cadenza settimanale (cosa che in Italia molti altri fanno, senza per questo essere ricevuti dal papa o ascoltati dall’assemblea dell’ONU).

Da tre anni a questa parte, proprio in Emilia-Romagna, persone di tutte le età, reduci dalle esperienze sopra elencate, stanno dando vita a qualcosa di nuovo, o così sembra. Molta importanza ha avuto, in tale processo, una piccola iniziativa: la marcia contro le opere inutili che, nel settembre del 2022, ha visto una quarantina di attivisti, autodefinitisi “Sollevamenti della Terra”, camminare ininterrottamente per dieci giorni. Partiti dalla pianura, e precisamente da Ponticelli di Malalbergo (dove era stata vinta un’importante vertenza contro la nascita di un polo logistico) sono arrivati in montagna, al Corno alle Scale (dove è prevista la costruzione di un inutile impianto di risalita). Le sinergie sviluppatesi nel corso della marcia hanno poi contribuito a ravvivare la preesistente lotta contro il “Passante di mezzo”, grande opera inutile consistente nel portare in alcuni punti, situati in prossimità di Bologna, la sede autostradale a ben 18 corsie.

La marcia successiva, nel settembre 2023, ha posto al centro dell’attenzione l’opposizione al Passante e, nuovamente, quella ai nuovi impianti di risalita, concludendosi a Cutigliano, in Toscana, e coinvolgendo anche gli ambientalisti locali. Pochi mesi dopo, del tutto inaspettatamente, è cresciuta a Bologna la lotta per la difesa delle scuole Besta, che il Comune intendeva demolire, e dell’adiacente parco Don Bosco, molto amato dagli abitanti del quartiere San Donato. Tutto è partito da una raccolta di firme finalizzata a salvare il parco. Il Comune ha tentato di procedere ugualmente. Gli ambientalisti hanno dato vita a un presidio, rinforzato da giovani accampati sugli alberi. La vertenza è proseguita, con alterne vicende, fino alla (parziale) vittoria: il parco ora è salvo; la scuola è ancora in piedi. Il Comitato Besta vuole che sia restaurata e restituita alla sua funzione.

L’intera vicenda ha avuto grande risonanza sui mezzi di comunicazione di massa e, negli ultimi mesi, in tutta l’Italia si sono sviluppate lotte analoghe, finalizzate alla salvaguardia delle zone verdi insidiate dalla speculazione edilizia.

Nell’ultima settimana dell’agosto 2024 si è tenuta la terza edizione della marcia contro le opere inutili. Questa volta i marciatori sono partiti dalla Toscana, per contestare la costruzione dell’ennesimo impianto di risalita; si sono poi trasferiti in prossimità della centrale nucleare del Brasimone che qualcuno, nel governo e non solo, vorrebbe mettere in funzione; hanno terminato la manifestazione all’interno del comune di Bologna, camminando dal parco Don Bosco, per arrivare in zona Bertalia-Lazzaretto, presso l’aeroporto, dove sono in corso ulteriori interventi di cementificazione.

Tutto ciò, ovviamente, per quanto importante, non ha alcun effetto significativo sul cambiamento climatico (sarebbe necessario ben altro!) e, nel frattempo, l’Emilia-Romagna è stata interessata da lunghi periodi di siccità, intervallati da rovinose alluvioni. L’ultima, in ordine di tempo, ha coinvolto proprio la città di Bologna, e si è verificata proprio pochi giorni prima della manifestazione ambientalista indetta da un’insolita compagnia formata da Comitato Besta, Legambiente, Parents For Future, Rete Emergenza Climatica e Ambientale, Un altro Appennino è possibile, Comitato contro ogni autonomia differenziata, Confederazione Cobas e, ovviamente, USI-CIT.

Tale compagnia, che ha incuriosito il mondo ambientalista per via della sua stranezza, e costituito un richiamo per molti comitati di lotta che hanno preso parte alla manifestazione, ha poi convocato un’assemblea regionale, pienamente riuscita, per il giorno 25 gennaio 2025.

Nonostante l’evidente diversità dei componenti, prosegue nel suo percorso.

Riuscirà a consolidare quell’alleanza tra generazioni che ha caratterizzato l’esperienza delle marce e si è rivelata vincente in quella del Comitato Besta?

Luciano Nicolini’

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Trizio, Giorgia e Descalzi. Il nucleare civile passaggio obbligato per lo scudo atomico europeo

La pericolosità e la scarsa convenienza economica di riscaldare l’acqua con l’energia nucleare per produrre energia elettrica balza agli occhi: nessuno userebbe una bomba atomica per scaldare una pentola per la pasta. Ma al di là di queste considerazioni elementari, c’è uno stretto legame tra nucleare civile e nucleare militare.

Per causare una reazione di fissione che produrrà energia, viene utilizzato l’uranio 235 – “l’unico nucleo fissile che esiste nello stato naturale”. Quando l’uranio viene estratto, tuttavia, è composto solo dallo 0,7% di uranio 235. Il resto, cioè il 99,3% del materiale, è uranio 238. Così, per produrre energia, è necessario “arricchire l’uranio”, cioè aumentare la concentrazione di uranio 235. Per questo, la tecnica principale utilizzata è la centrifuga.

Per funzionare, una centrale nucleare deve utilizzare uranio a basso arricchimento (contenitori EnU235 superiori allo 0,71% e rigorosamente inferiore al 20%). Ciò richiede un uso significativo delle centrifughe, ma non è nulla in confronto al livello di uranio 235 necessario per utilizzare un reattore di ricerca nucleare. In questo caso, viene utilizzato uranio altamente arricchito, cioè con un contenuto di U 235 superiore o pari al 20%. Una volta raggiunto il 20% è possibile raggiungere il 90% molto rapidamente.

Così si esprimeva il Rapporto sulla situazione dell’industria nucleare nel mondo del 2018:

Gli stati dotati di armi nucleari rimangono i principali sostenitori dei programmi di energia nucleare. WNISR2018 offre un primo sguardo alla questione se gli interessi militari servano come uno dei fattori che spingono l’estensione della durata delle strutture esistenti e le nuove costruzioni in alcuni paesi. Perché l’energia nucleare si sta dimostrando sorprendentemente resistente, in particolari luoghi del mondo, al drastico cambiamento delle condizioni del mercato globale dell’energia e delle strutture per la fornitura di elettricità? In un contesto di declino dell’industria nucleare mondiale nel suo complesso, i piani per l’estensione della vita utile degli impianti e le nuove costruzioni nucleari rimangono le principali aree di investimento in alcuni paesi specifici. Persistono forti legami con progetti come Hinkley Point C nel Regno Unito, nonostante i costi si siano quintuplicati rispetto alle stime originali, una serie di difficoltà tecniche ancora irrisolte e le richieste di crescenti concessioni finanziarie e garanzie governative.

Stanno cominciando ad emergere prove in un certo numero di importanti stati nucleari militari per ulteriori significative interdipendenze industriali riguardo alle capacità di sostenere i programmi di propulsione nucleare navale. Con il declino dell’energia nucleare civile negli Stati Uniti, una serie di recenti rapporti ha sottolineato l’importanza per la “marina nucleare” di una continua base nazionale di ingegneria nucleare sostenuta da politiche per sostenere il settore nucleare civile. Il “Nuclear Sector Deal” del Nuclear Industry Council del Regno Unito afferma che “il settore si impegna ad aumentare le opportunità di trasferibilità tra le industrie civili e della difesa e ad aumentare in generale la mobilità per garantire che le risorse siano posizionate nei luoghi richiesti” e che il 18% delle lacune di competenze previste può essere colmato da “trasferibilità e mobilità”. In diversi paesi, può darsi che i fattori militari svolgano un ruolo significativo nella persistenza di quella che altrimenti è sempre più riconosciuta come la crescente obsolescenza dell’energia nucleare come tecnologia di generazione di elettricità a basse emissioni di carbonio”.

Così, un sito civile che produce energia può essere rapidamente trasformato in un’installazione militare sotto falso nome.

È in questo quadro che si inserisce la notizia che ENI e UKAEA (United Kingdom Atomic Energy Authority) l’autorità del Regno Unito responsabile per l’energia atomica, hanno siglato un accordo di collaborazione per condurre attività di ricerca e sviluppo nel campo dell’energia da fusione, che avvia in primo luogo la realizzazione dell’impianto più grande e avanzato al mondo per la gestione del ciclo del trizio, combustibile chiave nel processo di fusione, come si legge nel comunicato diffuso dalla multinazionale energetica italiana. Il comunicato poi si dilunga sui benefici che la produzione del trizio porterà alla generazione del combustibile nelle centrali a fusione, ancora di là da venire.

Ben più attuale, secondo il “World Nuclear Industry Status Report 2024”, è la produzione di trizio per usi militari, che attualmente rappresenta il principale contributo dei reattori civili alla produzione bellica. Le moderne armi termonucleari utilizzano il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno, per “aumentare” la resa nucleare del pozzo esplosivo di fissione, o “primario”, che genera l’intensa energia diretta ad accendere la fusione “secondaria”. L’emivita radioattiva del trizio è di 12,3 anni e ogni anno una data quantità di trizio diminuirà del 5,5%. Pertanto, per mantenere una data riserva di trizio per le armi, l’isotopo deve essere prodotto continuamente per sostituire il materiale perso a causa del decadimento radioattivo. Storicamente, questo è stato fatto dagli Stati Uniti, dalla Francia e da altri stati dotati di armi nucleari irradiando bersagli di litio in reattori militari dedicati e processando chimicamente i bersagli per estrarre il trizio.

Negli Stati Uniti, il trizio è stato prodotto nei reattori di proprietà del governo presso il sito di Savannah River nella Carolina del Sud fino a quando l’ultimo reattore operativo è stato chiuso nel 1988 per motivi di sicurezza. Dal 2003, gli Stati Uniti producono trizio per le armi utilizzando i neutroni generati dalle centrali nucleari civili, in particolare i due reattori di Watts Bar nello stato del Tennessee.

Nel marzo 2024, il governo francese ha annunciato che, dopo la chiusura dei propri reattori di produzione di trizio, stava collaborando con il gigante dell’energia EDF per produrre trizio per il suo programma di armi nucleari presso la centrale nucleare a doppio reattore di Civaux. Il programma non è stato ancora approvato dalle autorità francesi per la sicurezza nucleare. EDF dovrebbe presentare un fascicolo tecnico nell’autunno del 2024 con un primo test previsto per il 2025.

Nelle armi termo nucleari il trizio viene usato per l’innesco della reazione, quando una miscela di trizio e deuterio viene iniettata nella camera di scoppio, successivamente viene compressa e subisce reazioni di fusione, rilasciando neutroni ad alta energia. Questo processo migliora notevolmente l’efficienza del combustibile primario (plutonio e/o uranio altamente arricchito) che subisce la fissione. Ciò consente una riduzione della massa del combustibile e degli altri componenti primari (riflettore, esplosivo ad alto potenziale) necessari per generare una resa sufficientemente elevata (dell’ordine di dieci chilotoni) per accendere il secondario. Il trizio rende anche le armi nucleari a fissione “a prova di predetonazione”, consentendo l’utilizzo di materiali fissili con tassi di neutroni di fondo spontanei più elevati (come il plutonio per reattori) senza alcuna riduzione della resa prevista. Stime indipendenti del fabbisogno storico di trizio per le armi termonucleari variano in media da due a quattro grammi per testata. Alcune armi (note come “dial-a-yield”) possono utilizzare quantità variabili di trizio per regolare la loro potenza esplosiva. Tuttavia, nel complesso, la domanda di trizio è aumentata negli ultimi anni per le scorte statunitensi, presumibilmente per aumentare i margini di performance.

Il governo italiano, di qualsiasi colore sia, è sempre disponibile ad assecondare le mire di sfruttamento dell’ENI, ed ecco a tempo di record varata un disegno di legge delega che permetterebbe anche allo Stato italiano, in barba alle conquiste ottenute dal movimento antinucleare con l’azione diretta, di partecipare alla torta del nucleare militare, gabellandolo per civile.

Ancora una volta il governo si rivela il peggior nemico della società.

Avis Everhard

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M – il figlio del secolo

Adesso che il clamore si è un po’ sopito, ci sembra il momento di spendere due parole sulla serie che nelle scorse settimane ha attirato l’attenzione del pubblico, della critica e, marginalmente, del mondo politico.

Stiamo parlando di M – Il figlio del secolo, prodotta da Sky e tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati.

M – Il figlio del secolo è probabilmente, nel suo genere, l’opera più interessante che sia stata proposta negli ultimi anni in Italia al grande pubblico.

C’erano tutte le condizioni per sbagliare, se così si può dire. Si trattava di raccontare una storia complicata ed evidentemente mai del tutto risolta nel nostro paese: quella di Benito Mussolini e della sua ascesa al potere.

Chiariamo, prima di tutto, un concetto: M – Il figlio del secolo non è e non vuole essere un documentario. È una fiction ispirata a un romanzo. Storico, sì, ma pur sempre un romanzo. Gli spettatori politicizzati o semplicemente più ferrati sull’argomento troveranno senz’altro imprecisioni o lacune ma, in realtà, non si tratta mai di mancanze troppo gravi, perché, fondamentalmente, è stato detto e descritto tutto ciò che era essenziale per la comprensione degli eventi.

Di solito, quando si parla del fascismo, della sua origine e della sua evoluzione, lo si fa con gli strumenti e con le griglie interpretative della storiografia, della politica, della sociologia. In questo caso, invece, i fatti vengono narrati con un approccio drammaturgico e dei linguaggi a dir poco inaspettati.

Quello che davvero colpisce, infatti, è il modo con il quale viene raccontata la storia personale di Mussolini, una storia che si intreccia inevitabilmente con quella del paese, una dimensione privata e politica allo stesso tempo.

Intanto, partiamo dalla regia. Joe Wright, che nella sua carriera ha diretto – tra le altre cose – Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, L’ora più buia e, per quanto riguarda la televisione, Carlo II il potere della passione e un episodio di Black Mirror, ha svecchiato il racconto del fascismo con un montaggio dai ritmi frenetici, una fotografia cupa che a volte richiama atmosfere da fumetto e un’ambientazione sempre claustrofobica. La sceneggiatura, curata da Stefano Bises e Davide Serino, è ricchissima di spunti e descrizioni che servono a delineare i profili psicologici dei tanti personaggi che animano la serie. Per le musiche non ci si è limitati al repertorio d’epoca o a qualcosa che richiamasse le sonorità dei primi del Novecento. Tutt’altro. Per quanto assurdo possa sembrare, in una serie che parla del fascismo, hanno affidato a Tom Rowlands dei Chemical Brothers il compito di accompagnare con la musica elettronica lo sviluppo narrativo nei suoi momenti più surreali e grotteschi con l’eccellente risultato di rendere il tutto incredibilmente fresco e moderno.

Dell’immenso Luca Marinelli si è detto molto. Lui stesso ha confessato, nel dichiararsi orgogliosamente antifascista, di aver provato un enorme disagio nel vestire i panni di Mussolini. Gli crediamo, e di certo non lo sfottiamo come ha fatto qualche giornalista di destra e, soprattutto, a corto di argomenti. Marinelli non lo sfottiamo perché è stato semplicemente bravissimo nel rendere credibile un personaggio così complesso. Una caricatura che non deforma ma che, al contrario, sottolinea i tratti più autentici del duce del fascismo. Tutto il cast, a dire il vero, è stato all’altezza: una menzione particolare la meritano, tra gli altri, Benedetta Cimatti che ha interpretato Rachele Mussolini e Francesco Russo nel ruolo di Cesare Rossi.

Un linguaggio moderno e credibile, dicevamo, a partire dalla scelta di mantenere le cadenze regionali con inserti di vero e proprio dialetto in alcuni dialoghi, così come la frequentissima rottura della quarta parete con la quale Marinelli-Mussolini si rivolge al pubblico per chiarire i suoi pensieri, svelare il suo doppiogiochismo, commentare quello che gli succede. Guardare questa serie è sorprendente e, in più occasioni, disturbante. Mussolini è un istrione, una maschera tragica e comica allo stesso tempo, e quasi ci sentiamo in colpa – di tanto in tanto – quando questa maschera ci strappa addirittura un sorriso. Ed è un senso di colpa legato non tanto alla conoscenza che ciascuno di noi può avere del personaggio o della storia, quanto a quello che ci viene continuamente proposto con brutale efficacia: una violenza feroce e parossistica restituita dalla concretezza di scene ai limiti dello splatter o da immagini oniriche che però non perdono mai il contatto con la realtà.

Uno dei meriti di M – Il figlio del secolo è che il fascismo viene finalmente riportato alla sua essenza: un movimento violento, nato dalla violenza e imposto con la violenza. Al di là di tutte le considerazioni e le analisi storiche, sociali e politiche che sono state fatte e che si continueranno a fare, sul perché – a un certo punto – l’Italia si consegnò a Mussolini, con questa serie viene demolita quella falsa credenza secondo la quale, dopo tutto, i fascisti non erano poi così cattivi (meno che mai paragonabili ai nazisti) o che Mussolini altro non era che una specie di innocuo pagliaccio.

Ebbene, questo “pagliaccio” era un opportunista, era disposto a tutto pur di prendere il potere, era un narcisista, un invidioso, un maschio tossico che trattava malissimo le donne (a partire da sua moglie); era un insicuro, un bugiardo, un individuo senza alcun senso dell’onore. Ma non era uno stupido e seppe fiutare l’aria: «Sono come le bestie, sento il tempo che viene». Quando si prepara a riscuotere gli onori di un teatro gremito, poco prima di recarsi a Roma per ricevere dal re l’incarico di primo ministro, Marinelli-Mussolini ci spiega chi davvero sono i “pagliacci” in politica. Sono quelli che noi non capiamo ma questo è irrilevante: sguardo fisso in camera, pollice su, e una frase che suona tanto famigliare quanto sinistra: «Make Italy Great Again».

Qui sta il grande pregio di questa serie: nel raccontarci l’incubo del fascismo con un linguaggio comprensibile, M – Il figlio del secolo ci parla di noi, della società di oggi, delle dinamiche e dei protagonisti che – mutatis mutandis – si ripropongono e si attualizzano, così uguali e così diversi, in Italia e nel mondo.

C’è una cosa che dovremmo imparare dal Mussolini protagonista della serie: la capacità di sentire il tempo che viene e agire di conseguenza. Per smascherare i pagliacci e fermare le bestie.

Alberto La Via

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Professionisti dello spettacolo

Politica e spettacolo hanno sicuramente dei punti in comune, ma una delle cose che distingue i due ambiti è il fatto che il primo dovrebbe occuparsi del reale e il secondo non solo di quello. Ci sono però dei confini che, quando vengono superati, potrebbero causare dei “cortocircuiti” a livello della comunicazione. Se a questo aggiungiamo la possibilità che personaggi dello spettacolo intervengano in modo significativo nell’ambito politico (e viceversa) e/o che vengano mischiati i linguaggi e le tecniche di comunicazione caratteristici dei due settori, i problemi iniziano a diventare seri.

Prendiamo, ad esempio, quello che è successo a fine febbraio scorso nello Studio Ovale della Casa Bianca e il prevedibile diluvio di commenti a seguire. In pochi hanno tenuto in debito conto che in quella occasione si sono trovati faccia a faccia, davanti a telecamere e giornalisti, due personaggi che hanno alle spalle una storia non occasionale nel settore dell’intrattenimento. Eppure non dovrebbe sorprendere il comportamento di una persona che, dopo aver frequentato per anni il mondo dello spettacolo, poi applichi quello che ha imparato anche quando fa un altro lavoro.

Trump è un personaggio mediatico da più di trent’anni e un politico da meno di dieci. Forse la sua prima apparizione sul grande schermo data a “I fantasmi non possono farlo” (1989), seguita da “Mamma ho riperso l’aereo” (1992), “Piccole canaglie” (1994), “Across the Sea of Time” (1995), “Zoolander” (2001), “Due settimane per innamorarsi” (2002) e “Wall Street – Il denaro non dorme mai” (2010). Comparsate in note serie televisive: “Il Principe di Bel-Air” (1994), “Sex and the City” (1999) e “Days of Our Lives” (2005). A queste si dovrebbero aggiungere le numerose apparizioni nel “Saturday Night Live”. E forse manca qualcosa in questo elenco. Ma significativo per la sua carriera è il 2004 quando inizia a condurre un reality show che è durato ben undici anni: “The Apprentice (2004-2015)” e “The Celebrity Apprentice” (2008-2015) che lo accompagneranno fino alla data della sua prima elezione.

Da parte sua anche Zelens’kyj ha passato più di vent’anni nel mondo dello spettacolo. Ha iniziato a fare il comico nel 1997, ha esperienza nella regia e nella produzione di prodotti di intrattenimento e ha raggiunto la vetta della popolarità quando è diventato protagonista di una serie chiamata “Servitore del popolo” (2015), nella quale interpretava un professore di liceo che diventa presidente dell’Ucraina (toh!). Una differenza con Trump è che gli spettacoli della televisione ucraina non hanno la stessa diffusione a livello mondiale di quelli statunitensi.

Carriere del genere sono qualcosa che mette in grado anche persone che non brillano per le loro capacità intellettuali o politiche di gestire in modo professionale determinati contesti pubblici, come ad esempio una discussione davanti a un pubblico e delle telecamere.

Eppure c’è ancora chi continua a stupirsi del comportamento del Presidente degli USA, sia quando ripubblica su Internet un video di pessimo gusto, sia quando scrive o dice cose che sono buone solo per ricavarci un titolo di giornale. Questa sorpresa può portare a interpretare in modo sbagliato quello che accade.

Tornando a quello che è avvenuto alla Casa Bianca, molti dei commenti a caldo suscitati dalla visione di quella chiacchierata sono stati di indignazione per il trattamento ricevuto dal Presidente ucraino e per la prepotenza e la violenza verbale del Presidente statunitense e del suo vice. L’accaduto è stato spesso riassunto così: “Trump e Vance hanno teso un’imboscata a Zelens’kyj e lo hanno maltrattato facendo i loro interessi e il gioco di Putin”. Ma questa narrazione se non completamente errata è sicuramente molto discutibile, soprattutto se fatta senza aver tenuto conto dell’intero video. Il filmato integrale (supponendo che lo sia) dura circa 50 minuti e mostra un classico talk-show paragonabile – nei suoi meccanismi di comunicazione – a uno dei tanti che infestano le TV di tutto il mondo. Una discussione portata avanti con uno stile di comunicazione che di politico aveva ben poco tra due personaggi del genere, e una presunta violenza del confronto che è stata, rispetto a quella che si è vista sul piccolo schermo italiano, davvero risibile. Molto più hanno detto, in alcuni momenti, le smorfie, i gesti e i movimenti del corpo dei protagonisti.

Una lettura diversa di quanto si è visto infatti potrebbe essere questa: “Trump ha detto a Zelens’kyj che, se vuol far finire la guerra, qualcosa deve cedere, sia agli USA che a Putin. Ma il Presidente ucraino ha mantenuto fermo il suo punto di vista.” Il che può essere considerato sia come un ricatto che come un consiglio pragmatico, o magari entrambe le cose. In pratica l’interpretazione dei contenuti in certi contesti e con certi protagonisti diventa davvero complicata. Specialmente se non si valuta nemmeno la battuta finale di Trump che segnalava a chi aveva seguito l’incontro che si era trattato di “un bel pezzo di televisione” (sic!).

La tragedia era che i protagonisti dello show avevano chiacchierato, comodamente seduti, di una guerra che va avanti da tre anni e che ha causato, secondo alcune fonti, quasi novecentomila morti e relative distruzioni.

Quanto scritto sopra non significa che lo spettacolo della politica cambia quando due attori scadenti usano il linguaggio che conoscono meglio, ma piuttosto che è più difficile comprenderne il reale contenuto. Il che è confermato dagli avvenimenti successivi: Trump che dichiara una cosa e il giorno dopo il contrario e Zelens’kyj che ha cambiato (forse) la ferma posizione che aveva tenuto a Washington.

Visto come vanno le cose dovremo abituarci non tanto a una massiccia invasione dei professionisti dello spettacolo nella politica attiva, ma piuttosto ai tentativi di quelli che hanno una formazione politica di imitare le abilità dei performer. Questa non è una novità assoluta. Si vedano ad esempio “le facce che fa” la Presidente del Consiglio italiana quando è a favore di telecamera, elemento che costituisce la sua personale forma di comunicazione diretta al grande pubblico.

Una volta, i confini che esistevano tra l’ambito e il linguaggio della comunicazione politica e quello dell’intrattenimento venivano superati solo occasionalmente, mentre oggi sembrano spariti del tutto, relegando le persone sempre più al ruolo di semplici spettatori che si limitano a trovare uno sfogo sui loro social preferiti piuttosto che con la protesta nel mondo reale.

 

Pepsy

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Disfarsi delle superstizioni. L’educazione antidogmatica base della libertà di pensiero

Il Rappresentante Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite e le altre Organizzazioni Internazionali a Ginevra, l’ambasciatore Vincenzo Grassi, è intervenuto il 5 marzo 2025 nell’ambito del dialogo interattivo con la Relatrice Speciale sulla libertà di fede nel quadro della 55ma sessione del Consiglio Diritti Umani. Grassi ha ribadito il sostegno dell’Italia per il mandato della Relatrice Speciale sulla libertà di religione o di credo, Nazila Ghanea, affermando che l’Italia condivide l’invito da lei rivolto a tutti gli Stati a “compiere maggiori sforzi per promuovere la libertà di religione o di credo, favorire il dialogo interreligioso e interculturale, proteggere le minoranze religiose e di credo e combattere i discorsi di odio, sempre nel rispetto di tutti i diritti umani”.

Quello su cui mi sono interrogato è se, oggi come oggi, nel mondo la libertà di scelta individuale possa indirizzarsi davvero verso una scelta di rispetto dei diritti umani, soprattutto nei confronti di se stessi: nonostante la libertà di pensiero sia una delle conquiste più fragili e preziose della storia umana, la realtà dimostra come, ancora oggi, l’individuo si trovi spesso incatenato da imposizioni dogmatiche che ne limitano la capacità di autodeterminazione. Religione, Stato, società, famiglia, ecc., sono tutti elementi che contribuiscono, direttamente o indirettamente, a influenzare le scelte intime e personali, spesso senza che l’individuo ne sia pienamente consapevole.

“In linea con le priorità consolidate della politica estera italiana, sosteniamo con convinzione la promozione e la tutela della libertà di religione o di credo e dei diritti delle persone appartenenti a minoranze etniche e religiose nelle nostre relazioni bilaterali e in tutte le sedi multilaterali pertinenti, anche attraverso la Revisione Periodica Universale”, ha incalzato Grassi, ricordando che l’Italia promuove queste priorità anche attraverso programmi di cooperazione allo sviluppo, tra cui il “Fondo per il sostegno diretto alle minoranze cristiane perseguitate in aree di crisi”.

Sembrerebbe, a prima vista, una tutela alla libertà di chi subisce oppressioni; ma quando si parla di libertà, si tende a immaginarla come una condizione garantita, in primis, dal diritto naturale, eppoi dal diritto internazionale e dalla democrazia… e che, spezzate le catene dell’oppressione esterna, porti l’individualità a ragionare secondo logiche collettive libere. Tuttavia, queste supposte libertà vengono spesso filtrate attraverso una serie di condizionamenti culturali e religiosi che ne svuotano il significato. Fin dalla nascita, la società assegna ruoli, impone paure, inculca regole morali che, più che educare, programmano l’individuo a conformarsi.

Il paradosso è che, anche se tecnicamente liberi di scegliere, molte persone finiscono per optare proprio per l’oppressione. Un’oppressione che diventa accettata, interiorizzata e, spesso, difesa. La religione, attraverso la famiglia e le istituzioni, instilla dogmi che diventano così radicati da sembrare verità assolute. Così, la libertà di imporsi dei limiti diventa la giustificazione per volerli imporre alle altre individualità, negando la vera essenza della libertà stessa.

Mettere in discussione l’educazione dogmatica prima ancora che tutelare le libertà religiose, è lo strumento base per interrompere il ciclo dell’imposizione e della sottomissione. Un’educazione laica, critica e antidogmatica è indispensabile per permettere a ogni individualità di sviluppare una coscienza libera da paure imposte e condizionamenti sociali.

L’educazione prescolastica riveste un ruolo cruciale in questo processo. È nei primi anni di vita che si formano le basi del pensiero critico e della capacità di discernere tra imposizione e scelta consapevole. Se invece l’infanzia viene modellata su dogmi religiosi, paure e sensi di colpa, anche l’adulto che ne emergerà difficilmente riuscirà a svincolarsi dal peso di questi condizionamenti. L’apparente libertà di scelta si riduce, quindi, a un percorso già tracciato, in cui l’autodeterminazione è solo un’illusione.

Nel condannare con fermezza tutte le forme di intolleranza e discriminazione, e in particolare gli attacchi violenti contro le persone, basati sulla religione o sul credo, l’Italia continuerà a promuovere il dialogo e la cooperazione tra i diversi leader religiosi e comunità religiose, con l’obiettivo di favorire la comprensione reciproca, prevenire i conflitti e costruire società pacifiche, giuste e inclusive, in linea con l’Agenda 2030”, ha concluso in pompa magna il Rappresentante Permanente dell’Italia.

Ma, nonostante la retorica sulla libertà individuale, la politica mondiale, Italia in primis, evita accuratamente di mettere in discussione l’imprinting reazionario e religioso della famiglia, che diventano lo strumento demagogico più feroce dei leader religiosi. Soprattutto quando questi sono riconosciuti e venerati dai leader politici; la religione che, teoricamente, non dovrebbe essere di Stato, di fatto lo è: permea le leggi, influenza i costumi e determina le scelte sociali.

La laicità viene spesso attaccata, non tanto in nome della libertà di religione, ma come pretesto per riaffermare valori conservatori che ostacolano la crescita individuale e collettiva. L’educazione al pensiero critico viene vista come una minaccia, mentre concetti come “Dio, Patria e Famiglia” vengono riproposti come valori assoluti, funzionali a mantenere lo status quo.

Rivendicare la libertà di pensiero significa riconoscere e contrastare le strutture che, attraverso la religione e la tradizione, limitano la capacità di autodeterminazione. Questo non significa negare la possibilità di credere, ma impedire che il credo diventi uno strumento di controllo e oppressione. Una società veramente libera non è quella che difende il diritto di imporre dogmi, ma quella che garantisce a chiunque la possibilità di crescere senza condizionamenti, nel pieno rispetto della propria individualità. Solo attraverso un’educazione antidogmatica, fin dalla prima infanzia, ci si potrà disfare delle superstizioni, permettendo alle nuove generazioni di sviluppare una consapevolezza autentica, libera da paure e imposizioni.

La libertà non è accettare passivamente ciò che ci viene trasmesso, ma avere il coraggio di metterlo in discussione.

 

‘Gnazio

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Da Berna al Matese: Difetti e pregi della propaganda col fatto

Fu la Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori a chiarire pubblicamente, per la prima volta, la strategia della propaganda col fatto. Dopo la conclusione del congresso di Berna, sul Bollettino della Federazione del Giura apparve uno scritto di Errico Malatesta e Carlo Cafiero, dove si legge che la Federazione Italiana riteneva l’atto insurrezionale, destinato ad affermare i principi socialisti con l’azione, il mezzo di propaganda più efficace e il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, potesse penetrare negli strati sociali più profondi e attirare le forze vive dell’umanità nella lotta sostenuta dall’Internazionale.

L’Internazionale che si riunì a Berna dal 26 al 29 ottobre 1876 era profondamente diversa da quella del Congresso di Saint-Imier (1872) e da quella del Congresso di Ginevra (1873). Le tendenze antiautoritarie, tenute insieme solo dalla loro comune opposizione alle mire centralizzatrici di Marx ed Engels, erano divise da profonde contrapposizioni sia sul piano teorico che su quello strategico. Di queste contrapposizioni troviamo un’eco nelle memorie di James Guillaume, allora esponente della Federazione del Giura, e di Errico Malatesta, che ancora nel 1926 così si esprimeva riguardo al dibattito nel movimento socialista: “il sentimento socialista fece respingere il Proudhonismo che, specie per i proudhoniani dopo la morte di Proudhon (gennaio 1865), era diventato un sistema anodino di mutuo scambio” e più sotto “questa idea collettivista rivoluzionaria fu sola dinanzi agli operai di molti paesi dove i pochi Proudhoniani. Blanquisti e Marxisti, Fourieristi ed altri contavano ben poco”. Nel 1876 si poté verificare che questi dibattiti avevano provocato un accentuarsi delle spinte centrifughe, cosicché all’interno dell’Internazionale Antiautoritaria delle tendenze socialiste non marxiste era rimasta in pratica solo quella anarchica.

La Federazione Italiana rappresentava la tendenza più intransigente dell’Internazionale e i suoi delegati fecero del Congresso di Berna una tribuna pubblica per esporre i principi condivisi dalla medesima organizzazione; fra gli altri temi trattati, Errico Malatesta, relativamente all’organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e alle tattiche del movimento operaio, riporta la stretta ortodossia della Federazione italiana, che rifiutava di limitare l’adesione all’Internazionale ai solo operai. “L’obiettivo della rivoluzione sociale”, dichiarò, “non è solo l’emancipazione della classe operaia, ma l’emancipazione dell’intera umanità; e l’Internazionale, che è l’esercito della rivoluzione, deve raggruppare sotto la sua bandiera tutti i rivoluzionari, senza distinzione di classe”. Malatesta inoltre, definendo il sindacalismo di modello britannico “istituzione reazionaria”, respinge l’idea che esso possa ottenere risultati positivi in Italia: “le condizioni economiche dell’Italia e il temperamento dei lavoratori italiani vi si oppongono”.

Nel 1877 il movimento anarchico era più che mai impegnato nella propaganda col fatto attraverso la guerriglia, con strategie già articolate e praticate da una lunga serie di rivoluzionari durante il Risorgimento. Sia l’insegnamento di Mikhail Bakunin sia la tradizione rivoluzionaria autoctona confluivano ad orientare le scelte dell’Internazionale, anche se la sua ispirazione immediata era senza dubbio il Testamento politico di Pisacane.

La decisione di intraprendere una nuova insurrezione armata era stata presa da un ristretto cerchio di militanti; gli anarchici erano coscienti che poche decine di insorti male equipaggiati non avrebbero potuto prevalere contro reggimenti di fanteria e cavalleria armati con armi moderne. La loro campagna aveva lo scopo di provocare la rivoluzione, facendo un atto di propaganda.

La strategia prevedeva che la banda vagasse per le campagne il più a lungo possibile, predicando la guerra di classe, incitando al brigantaggio sociale, occupando le piccole città e lasciandole dopo aver compiuto qualche atto rivoluzionario, per dirigersi verso quella zona dove la nostra presenza sarebbe stata più utile. Questa azione passerà alla storia come la Banda del Matese.

La Banda del Matese non provocò una rivolta contadina. Tuttavia, catturando l’attenzione naziominale per diverse settimane, attirò una notevole curiosità verso l’Internazionale e il suo programma socialista. Nel corso dell’anno e mezzo successivo, inoltre, la Federazione italiana acquisì molti nuovi aderenti. Sebbene questa espansione non possa essere attribuita con certezza al valore propagandistico dell’insurrezione, le imprese della Banda del Matese – contrariamente a quanto si pensa – non diminuirono l’attrattiva del socialismo anarchico per gli operai italiani, e senza dubbio la rafforzarono agli occhi di alcuni. E per gli stessi anarchici, ad eccezione di alcuni dissidenti come Costa, l’insurrezionalismo sarebbe rimasto la pietra angolare della loro strategia rivoluzionaria nonostante il suo apparente fallimento.

L’impegno costante degli anarchici italiani nei confronti dell’insurrezionalismo potrebbe apparire sconsiderato a posteriori, ma era comunque coerente con gli insegnamenti bakuninisti. Oltre a ciò, c’era l’esempio dei mazziniani che li avevano preceduti, che avevano perseverato di fronte alle ripetute sconfitte e al martirio. Come eredi di questa eroica tradizione rivoluzionaria, gli anarchici non avrebbero abbandonato l’insurrezionalismo dopo due sole sconfitte. Inoltre, la loro determinazione a persistere era ulteriormente rafforzata dalla convinzione che la missione fosse fallita a causa di problemi pratici, dovuti soprattutto alla necessità di iniziare l’azione prematuramente. Ma forse nulla confermò la fiducia degli anarchici nell’insurrezionalismo più della reazione del governo italiano. Se le autorità ritenevano impossibile che gli anarchici potessero scatenare una rivolta contadina nell’Italia meridionale, perché avrebbero schierato dodicimila uomini in tutto il Matese? Sicuramente questo piccolo esercito era destinato a intimidire – o se necessario a reprimere – i contadini locali, piuttosto che a scovare ventisei anarchici.

Più tardi, naturalmente, anche i più convinti insurrezionisti anarchici si resero conto che la loro fiducia negli istinti rivoluzionari e libertari delle masse era mal riposta. Tuttavia, in ultima analisi, il fallimento delle tattiche insurrezionali non può sminuire l’incredibile audacia e lo spirito esibito dalla Banda del Matese.

La crescita numerica e organizzativa della Federazione italiana fino alla prima metà del 1878 – avvenuta in un’atmosfera di crescente persecuzione – smentisce l’opinione comunemente diffusa che i fallimenti insurrezionali del 1874 e del 1877 avessero completamente screditato l’anarchismo e contribuito a ridurre l’Internazionale a poco più di “una piccola setta di cospiratori, perseguitati dalla polizia”, come ebbe a definirla lo storico marxista Gustavo Malacorda. Sebbene il numero degli iscritti potesse essere diminuito rispetto al 1874, la tendenza evidenzia un’espansione organizzativa, non una contrazione. Solo la repressione governativa travolgerà il movimento nei mesi successivi. Le tattiche insurrezionali potevano essere screditate agli occhi degli intellettuali borghesi legalitari, ma gli operai e gli artigiani continuavano a sognare una soluzione rivoluzionaria alla questione sociale. L’anarchismo, nonostante le sue carenze e i suoi travagli, era ancora la scuola dominante del socialismo italiano nell’estate del 1878.

Gli storici del socialismo italiano hanno considerato la spinta insurrezionale come un sintomo del declino del movimento, ma al contrario essa fu sostenuta dalla crescita e dalla riorganizzazione della Federazione Italiana.

La maggior parte di essi, inoltre, parte dal presupposto aprioristico che l’Internazionale italiana fosse destinata al fallimento perché i suoi principi guida e le sue tattiche erano anarchici piuttosto che marxisti. Tra gli storici marxisti, in particolare, le carenze e i fallimenti dell’Internazionale italiana sono stati sottolineati quasi escludendo qualsiasi considerazione sui suoi risultati, come se una valutazione positiva di tutto ciò che gli anarchici fecero costituisse un tradimento ideologico. Questo approccio è ingiusto e sbagliato.

Il movimento anarchico forse pose un’enfasi eccessiva sull’azione diretta immediata, una strategia destinata a fallire, data la realtà degli anni Settanta del XIX secolo. Questo atteggiamento si può comprendere se si pensa al malcontento popolare e alle agitazioni che avevano scosso il giovane regno d’Italia nei primi decenni dopo l’unità: le campagne meridionali erano scosse dallo scontro fra i contadini senza terra e i proprietari fondiari in merito alle terre e agli usi civici usurpati da questi ultimi, una problematica che si era trascinata senza soluzione dal regime borbonico a quello sabaudo. In realtà, contrariamente alle speranze degli anarchici e di Bakunin, l’agitazione nelle campagne si stava placando, e si dovette aspettare venti anni per una nuova agitazione generale, quella dei Fasci Siciliani degli anni 1893-94, questa volta però a guida socialdemocratica e concentrata soprattutto nella sola Sicilia. È bene ricordare inoltre che la Federazione Italiana si era costituita grazie alla disillusione creata dall’indifferenza dei partiti estremi, e in particolare dei mazziniani, verso i moti del 1868-69, aggravata dall’atteggiamento critico nei confronti della Comune di Parigi. In certo qual modo, l’anarchismo si presentava come continuatore dei moti risorgimentali, allargandone gli obiettivi al miglioramento delle condizioni delle masse attraverso l’abolizione della proprietà privata. È in questo incrocio che si inserisce l’insegnamento di Mikhail Bakunin, con il rifiuto della tattica elettorale e la fiducia nelle capacità rivoluzionarie del popolo. Nello stesso tempo, il movimento anarchico ignorò il potenziale del sindacalismo rivoluzionario, sebbene anche in questo caso vi fossero fattori oggettivi che – ai loro occhi – compromettevano la fattibilità di questa alternativa, in particolare la profonda debolezza del movimento operaio.

Resta il fatto che, a prescindere dai suoi numerosi fallimenti e inadeguatezze, il movimento anarchico diede un contributo significativo al futuro del socialismo e del movimento operaio italiano, e lo fece in circostanze incredibilmente avverse, fissando i principi che avrebbero caratterizzato l’anarchismo nei decenni a seguire: la coerenza tra mezzi e fini e l’emancipazione delle classi sfruttate come movimento autonomo delle stesse. Sono gli stessi principi che informano la propaganda col fatto fin dal suo apparire.

Alcuni storici hanno sostenuto che l’Internazionale – pur con la sua struttura decentrata, la sua segreteria ufficialmente priva di potere e la sua filosofia antipolitica – costituì il primo partito socialista italiano, forse il primo partito politico di qualsiasi tipo, perché possedeva caratteristiche più moderne di quelle delle contemporanee consorterie e organizzazioni dei democratici-repubblicani e dei liberal-conservatori. Come partito, l’Internazionale diffuse il socialismo anarchico in tutta la penisola, acquisendo, al suo apice, un numero di iscritti prevalentemente operaio, forse tra i venticinque e i trentamila, e un seguito ausiliario di simpatizzanti assai superiore. Pur non essendo un partito di massa secondo la concezione tipica del ventesimo secolo, l’Internazionale era sufficientemente imponente per militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano a distruggerla.

Data l’enfasi posta dagli anarchici sull’azione politica contro lo Stato piuttosto che sull’azione economica contro il capitalismo, il loro approccio anticlassista all’organizzazione rivoluzionaria e il loro antagonismo verso il sindacalismo convenzionale, l’Internazionale ebbe meno successo come organizzazione sindacale che come partito. Ciononostante, l’Internazionale fu la prima federazione di organizzazioni operaie in Italia ad abbracciare il concetto di emancipazione proletaria attraverso la lotta rivoluzionaria e la prima a tentare di organizzare i lavoratori per aumentare la loro efficacia negli scioperi contro i datori di lavoro. In quanto tale, l’Internazionale fu il legittimo antenato della Lega dei Figli del Lavoro, il braccio economico del Partito Operaio Italiano fondato nel 1882, e della Confederazione Generale del Lavoro fondata nel 1906. L’esperienza dell’Internazionale in Italia ha forgiato legami tra socialismo e movimento operaio che sono rimasti inalterati fino ai giorni nostri.

 

Tiziano Antonelli

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Gli insegnamenti della Comune di Parigi. Solidarietà e organizzazione

Nella primavera del 1871, durante il suo soggiorno nella valle di Saint-Imier, Michail Bakunin tenne, davanti a un pubblico di operai, tre conferenze nelle quali, dopo aver ritracciata la storia della borghesia francese e della sua funzione rivoluzionaria nel 18º secolo, esponeva la missione storica del proletariato del diciannovesimo secolo. Pubblichiamo la parte finale dell’ultima conferenza, in occasione dell’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871).

Il clero e la nobiltà sono stati smascherati e battuti nel 1793. La rivoluzione del 1848 ha smascherato la borghesia e ne ha mostrato l’incapacità e la malvagità. Durante le giornate di giugno, nel 1848, la classe borghese ha altamente rinunciato alla religione dei suoi padri; quella religione rivoluzionaria che aveva avuto la libertà, l’uguaglianza e la fraternità per principio e per base. Appena il popolo ebbe presa sul serio l’uguaglianza e la libertà, la borghesia, che non esiste che per lo sfruttamento, vale a dire per l’ineguaglianza economica e per la schiavitù sociale del popolo, si è gettata nella reazione.

Gli stessi traditori che vogliono perdere ancora una volta la Francia, questi Thiers, Jules Favre, e l’immensa maggioranza dell’Assemblea nazionale del 1848, hanno lavorato per il trionfo della reazione più immonda, come vi lavorano ancora oggi. Hanno cominciato col distruggere il suffragio universale e più tardi hanno portato alla presidenza Luigi Bonaparte. Il timore della rivoluzione sociale, l’orrore dell’uguaglianza, il sentimento dei propri delitti e la paura della giustizia popolare, avevano gettato tutta questa classe, in altri tempi intelligente ed eroica e oggi stupida e vile, nelle braccia della dittatura di Napoleone III. Ed essi ne hanno avuto la dittatura militare, per diciotto anni di seguito, e non bisogna credere che i signori borghesi se ne siano trovati troppo male. Quelli che volevano ribellarsi e giocare al liberalismo in modo troppo rumoroso e incomodo per il regime imperiale, sono stati naturalmente scartati, soffocati. Ma tutti gli altri, quelli che lasciando le fisime politiche al popolo, si sono applicati esclusivamente e seriamente al grande affare della borghesia, allo sfruttamento del popolo, sono stati potentemente protetti e incoraggiati: si sono dati loro perfino, per salvare l’onore, tutte le apparenze della libertà. Infatti, non esisteva sotto l’Impero un’Assemblea legislativa regolarmente eletta a suffragio universale? Tutto andò dunque benissimo secondo i desideri della borghesia. E non ci fu che un solo punto nero, l’ambizione conquistatrice del sovrano, che trascinando la Francia in spese rovinose, ha finito coll’annientare l’antica potenza. Ma questo punto nero non era un accidente, era una necessità del sistema. Un regime dispotico, assoluto, quand’anche con le apparenze della libertà, deve necessariamente appoggiarsi su di un esercito potente, e ogni grande esercito permanente rende necessaria, prima o poi, la guerra all’esterno. La gerarchia militare ha difatti per principale aspirazione l’ambizione, ogni tenente vuole diventare colonnello, e ogni colonnello generale, e quanto ai soldati, essi, sistematicamente demoralizzati nelle caserme, sognano i nobili piaceri della guerra: il massacro, il saccheggio, il furto, lo stupro; prova ne sono le prodezze dell’esercito prussiano in Francia. Ebbene, se tutte queste nobili passioni sapientemente e sistematicamente nutrite nel cuore degli ufficiali e dei soldati, restano a lungo senza soddisfazione, inaspriscono l’esercito e lo spingono al malcontento, e dal malcontento alla rivolta. Perciò è necessario fare la guerra. Tutte le spedizioni e le guerre intraprese da Napoleone III non sono stati capricci personali, come pretendono oggi i signori borghesi: sono stati una necessità del sistema imperiale dispotico che [i borghesi] stessi avevano fondato per timore della rivoluzione sociale. Sono le classi privilegiate, è l’alto e basso clero, è la nobiltà decaduta, è infine – e soprattutto – questa rispettabile, onesta e virtuosa borghesia la quale [come] le altre classi e più dello stesso Napoleone III, è causa di tutte le orribili sventure che hanno ora colpito la Francia.

E voi l’avete visto tutti, compagni, che per difendere questa Francia sfortunata non si è trovato in tutto il paese che una sola massa, la massa degli operai delle città, quella precisamente che è [stata] tradita e abbandonata dalla borghesia all’Impero e sacrificata dall’Impero allo sfruttamento borghese. In tutto il paese non vi sono stati che i generosi lavoratori delle fabbriche e delle città a volere la sollevazione popolare per la salvezza della Francia. I lavoratori delle campagne, i contadini demoralizzati e istupiditi dall’educazione religiosa che fu loro impartita dal primo Napoleone ad oggi, hanno preso il partito dei Prussiani e della reazione contro la Francia. Si potevano guadagnare alla rivoluzione: in un opuscolo che molti di voi hanno letto, intitolato Lettere a un Francese, esposi i mezzi che conveniva usare per trascinarli nella Rivoluzione. Ma per farlo occorreva anzitutto che le città si sollevassero e si organizzassero rivoluzionariamente. Gli operai hanno provato, tentando anche in molte città del sud della Francia: a Lione, Marsiglia, Montpellier, Saint-Etienne, Tolosa. Ma dappertutto sono stati compressi e paralizzati dai borghesi radicali in nome della Repubblica. Sì, è nel nome stesso della Repubblica che i borghesi divenuti repubblicani per timore del popolo, è nel nome della Repubblica che Gambetta, il vecchio peccatore Jules Favre, Thiers, la volpe infame, e tutti i Picard, Ferry, Jules Simon, Pelletan e altri, è in nome della Repubblica che hanno assassinato la Repubblica e la Francia.

La borghesia è colpevole. È la classe più ricca e numerosa di Francia – eccettuato s’intende la massa popolare – avrebbe potuto salvare, se avesse voluto, la Francia. Ma per questo avrebbe dovuto sacrificare il suo denaro, la sua vita e appoggiarsi francamente sul proletariato come avevano fatto i suoi avi del 1793. Ebbene, ha voluto sacrificare il denaro meno della vita, e ha preferito che i Prussiani conquistassero la Francia, piuttosto che salvarla con la rivoluzione popolare.

La questione fra gli operai delle città e la borghesia è stata posta nettamente. Gli operai hanno detto: faremo saltare in aria le case piuttosto che abbandonare le città ai Prussiani. I borghesi hanno risposto: apriremo le porte delle città ai Prussiani piuttosto che permettervi di fare disordine pubblico, e vogliamo conservare le nostre preziose case a ogni costo, anche dovessimo baciare il culo ai S[ignori] Prussiani.

E notate che sono oggi gli stessi borghesi che osano insultare la Comune di Parigi, questa nobile Comune che salva l’onore della Francia e, speriamo nello stesso tempo, la libertà del mondo; sono gli stessi borghesi che l’insultano oggi, e in nome di cosa? – in nome del patriottismo!

Veramente, questi borghesi hanno la faccia di bronzo! Sono giunti a un tal grado d’infamia, da perdere fin l’ultimo sentimento di pudore. Ignorano la vergogna. Prima di essere morti sono già completamente marci.

E non è solo in Francia, compagni, che la borghesia è putrida; moralmente e intellettualmente annientata; lo è allo stesso modo in tutta Europa, e in tutti i paesi d’Europa [soltanto il proletariato] ha conservato il fuoco sacro: esso soltanto porta oggi lo stendardo dell’umanità.

Qual è il suo motto, la sua morale, il suo principio? La solidarietà. Tutti per uno e uno per tutti. È il motto e il principio della nostra grande Associazione internazionale, la quale, superando le frontiere degli Stati, e con ciò stesso, distruggendo gli Stati, tende a unire i lavoratori del mondo intero in una sola famiglia umana, sulla base del lavoro ugualmente obbligatorio per tutti, e in nome della libertà di ciascuno e di tutti. Questa solidarietà si chiama, in economia sociale, lavoro e proprietà collettiva, in politica si chiama distruzione degli Stati e libertà di ognuno per la libertà di tutti.

Sì, cari compagni operai, solidalmente coi vostri fratelli lavoratori del mondo intero, ereditate da soli la grande missione dell’emancipazione dell’umanità. Avete tuttavia un coerede, lavoratore anch’esso, sebbene in altre condizioni. È il contadino. Ma il contadino non ha ancora la coscienza della grande missione popolare. È stato avvelenato, è ancora avvelenato dai preti, e serve, contro se stesso, come strumento di reazione. Dovete istruirlo, dove salvarlo suo malgrado, trascinandolo spiegandogli che cos’è la Rivoluzione sociale.

Nel frattempo, e soprattutto agl’inizi, gli operai dell’industria non devono, non possono contare che su se stessi; ma saranno onnipotenti se lo vorranno. Soltanto devono volerlo seriamente, e per realizzare questa volontà non ci sono che due mezzi. Stabilire dapprima nei gruppi, poi fra tutti i gruppi, una vera solidarietà fraterna, non solo di parole, ma anche d’azione, non solo con le feste, i discorsi, i brindisi, ma anche nella vita quotidiana. Ogni membro dell’Internazionale deve poter sentire, deve essere praticamente convinto, che tutti gli altri membri sono suoi fratelli.

L’altro mezzo è l’organizzazione rivoluzionaria, l’organizzazione per l’azione. Se le sollevazioni popolari di Lione, Marsiglia e di altre città della Francia sono fallite, è per mancanza d’organizzazione, e ve ne posso parlare con cognizione di causa, perché ci sono stato e ne ho sofferto. E se la Comune di Parigi s’impone oggi così saldamente, è perché durante l’assedio gli operai si sono seriamente organizzati. Non è senza ragione che i giornali borghesi accusano l’Internazionale di aver prodotto questa magnifica sollevazione di Parigi. Sì, diciamolo con fierezza, sono i nostri fratelli internazionalisti che col loro lavoro perseverante hanno organizzato il popolo di Parigi e resa possibile la Comune di Parigi.

Siamo dunque buoni fratelli, compagni, e organizziamoci. Non credete di essere alla fine della Rivoluzione, siamo solo all’inizio. La Rivoluzione è ormai all’ordine del giorno per molte decine di anni. Essa verrà a trovarci, presto o tardi, prepariamoci dunque, purifichiamoci, diventiamo più reali, meno chiacchieroni, meno chiassosi, meno parolai, meno bevitori, meno buontemponi. Siamo più austeri e prepariamoci degnamente a questa lotta che deve salvare tutti i popoli ed emancipare finalmente l’umanità.

Viva la Rivoluzione sociale! Viva la Comune di Parigi!

 

Michail Bakunin

 

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Uno schermo che siamo noi

La ripresa di Cinema Cielo di Danio Manfredini

È doveroso tracciare un bilancio di qualcosa che non succede tanto spesso nella vita di un semplice appassionato di teatro come me, quando si trova a sedersi sulle poltrone delle sale teatrali italiche da ormai circa mezzo secolo, se non erra la sua memoria: sto parlando di tornare a vedere, per addirittura la terza volta, uno spettacolo di un importante attore ed autore italiano, la ripresa di un pezzo di storia del nostro teatro contemporaneo, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini. Spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel lontano 2004, da me visto nella sua prima apparizione, dopo l’anteprima al festival di Santarcangelo nel 2003, quando fu presentato in quella stagione teatrale all’allora Elfo di Milano, adesso Teatro Menotti.

L’impressione all’epoca fu devastante, non solo per me: ricordo benissimo le decine di minuti di applausi scroscianti fatte da spettatori che per la maggior parte – me compreso – avevano le lacrime agli occhi, con Danio e gli altri tre attori costretti a ritornare in scena non so quante volte, ma l’ovazione durò tre quarti d’ora almeno, perché nessuno si decideva ad andarsene, a smettere di applaudire. Lo spettacolo, ovviamente, non è rimasto esattamente identico a quello dell’epoca, nemmeno il suo impatto è rimasto tale a quello di venti anni fa, perché i tempi sono cambiati, c’è stata di mezzo una diversa carriera e avventure diverse per i quattro protagonisti, ma ha perso in definitiva ben poco del suo spessore poetico, attoriale, sonoro e di scrittura, anche per uno spettatore che ha attraversato tutti gli anni trascorsi durante la sua mutazione come me. Ho parlato di un livello sonoro, perché, insieme a quelli visivi e di performance attoriale, non si può in questo spettacolo mettere in secondo piano la banda sonora, ripresa direttamente dallo spettacolo originale di Sant’ Arcangelo, che non ha invece subito mutazioni, anche nella mia visione di qualche giorno fa a Sarzana, nella tournée che è adesso in corso, che lo riporterà anche nella sala dove l’ho visto la prima volta.

In Cinema Cielo lo spettatore trova in scena la sala dell’omonimo reale storico cinema a luci rosse di Milano, un tempo sito in viale Premuda: si trova davanti le poltrone, alcune occupate da dei manichini, attraversate da diversi personaggi che vivono la loro esistenza estrema alla ricerca di piacere sessuale, di un rifugio dalla vita esterna, di un’illusione d’amore, mentre scorre un film sullo schermo che però siamo anche noi, lì seduti in platea ad osservare loro, come guardoni osservati dai personaggi che guardano verso di noi; un microcosmo allucinato, ma disperatamente poetico. Oltre a vedere possiamo ascoltare il sonoro di diverse voci fuori campo che appartengono a questa storia, più la banda sonora di un film immaginario che i personaggi guardano e che segue la trama di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, un testo da cui Danio diversi anni dopo Cinema Cielo ha tratto anche un bellissimo reading allietato dalla visione dei suoi disegni; tra l’altro questo spettacolo, adesso, si chiude con la visione di un disegno di Danio che appare sul sipario alla fine, là dove si vede all’inizio la foto del vero Cinema Cielo. C’è però differenza tra le avventure di Divine del romanzo di Genet, e quelle del travestito missionario dell’amore, interpretato da Danio sul palco che si muove con le sue alucce su dei tacchi alti.

Divine, Notre Dame de Fleurs, le loro amiche/amici proseguono la loro vita fuori dagli schemi normali fino alla tragedia finale e questo mondo altro viene trasceso da Genet come esemplare di una nuova e sovrumana morale, mentre la serie di avvenimenti mostrati nello spettacolo di Danio non giunge a questa dimensione di esaltazione, ma trascina tutti i personaggi in una sorta di estasi della comprensione umana che, paradossalmente, ha quasi del mistico, specialmente nelle avventure sessuali del travestito, narrate però nel suo dialogare direttamente con Gesù, che appare anche (in croce) verso la fine: un Gesù di periferia, un Gesù degli ultimi che – dice questo personaggio – non ha abbastanza forza per portarci tutti nelle sue braccia, quindi non ha più la forza di salvarci.

Quindi com’è stata l’esperienza di me spettatore alla terza visione dello spettacolo, che ha ritrovato con gli attori, con un altro se stesso, attraverso i decenni, dopo esserselo portato dentro con l’intensità del ricordo, ma anche con lo sguardo cambiato col mutarsi dei corpi messi in scena, quelli veri degli attori, quelli dei manichini, quelli evocati dalle voci della narrazione di Genet, un testo che anche lo spettatore-me ha letto ed amato (molto) nella sua lontana gioventù?

Ed è qui che si consuma la riuscita di questa reprise, nel centellinare nuove emozioni, forse meno sconvolgenti, ma altrettanto poetiche, altrettanto intense e più mature, accolte in una nuova visione in cui lo spettatore guarda questo campionario di umanità e viene quasi allegoricamente a essere osservato da esso e dalla sapiente messa in scena di Manfredini, oltre che dalla recitazione antinaturalistica sua e degli altri attori, diffusa nelle parole, nei gesti della camminata dei personaggi dell’ “angelica” protagonista e di altre figure che percorrono peripateticamente i corridoi del Cinema Cielo, come in una processione allucinata, immersi in un quadro di luce, di suoni e di canzoni che lasciano il segno. Quando questa musica si dirada, si spengono gli applausi, lo spettatore se ne torna a casa, sotto la pioggia, avendo rinchiuso dentro di sé un’altra emozione e un’altra dose della poesia del teatro del Grande Danio Manfredini.

Falco Ranuli


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Un Nuovo Movimento Ambientalista?

L’Emilia-Romagna è sempre stata all’avanguardia, per ciò che riguarda i movimenti ambientalisti.

In Emilia si svilupparono, alla fine degli anni settanta del Novecento, vivaci lotte antinucleari con riferimento alla centrale di Caorso (PC) e, successivamente, a quella del Brasimone (BO). In Romagna furono molto attivi, in quel periodo, gruppi che, insieme ad altri (soprattutto veneti), diedero vita, a livello nazionale, all’esperienza dell’Arcipelago Verde, presto degenerata nel partito dei verdi. In tutta la regione vennero portate avanti, in tale contesto, lotte pionieristiche per indurre le amministrazioni comunali a praticare il riciclaggio dei rifiuti solidi urbani.

Negli anni seguenti, l’aziendalismo dominante, insieme alla deludente attività istituzionale dei verdi, frenò il movimento, che tuttavia continuò ad esistere e lottare, conseguendo anche qualche vittoria significativa, sia pure senza quella spinta che lo aveva caratterizzato inizialmente.

La bandiera dell’ambientalismo fu nuovamente sventolata, circa quindici anni fa, dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, sugli sviluppi del quale stendiamo un pietoso velo, e più tardi, nel 2018, dai seguaci di Greta Thunberg, un singolare personaggio salito agli onori delle cronache mondiali per aver marinato la scuola con cadenza settimanale (cosa che in Italia molti altri fanno, senza per questo essere ricevuti dal papa o ascoltati dall’assemblea dell’ONU).

Da tre anni a questa parte, proprio in Emilia-Romagna, persone di tutte le età, reduci dalle esperienze sopra elencate, stanno dando vita a qualcosa di nuovo, o così sembra. Molta importanza ha avuto, in tale processo, una piccola iniziativa: la marcia contro le opere inutili che, nel settembre del 2022, ha visto una quarantina di attivisti, autodefinitisi “Sollevamenti della Terra”, camminare ininterrottamente per dieci giorni. Partiti dalla pianura, e precisamente da Ponticelli di Malalbergo (dove era stata vinta un’importante vertenza contro la nascita di un polo logistico) sono arrivati in montagna, al Corno alle Scale (dove è prevista la costruzione di un inutile impianto di risalita). Le sinergie sviluppatesi nel corso della marcia hanno poi contribuito a ravvivare la preesistente lotta contro il “Passante di mezzo”, grande opera inutile consistente nel portare in alcuni punti, situati in prossimità di Bologna, la sede autostradale a ben 18 corsie.

La marcia successiva, nel settembre 2023, ha posto al centro dell’attenzione l’opposizione al Passante e, nuovamente, quella ai nuovi impianti di risalita, concludendosi a Cutigliano, in Toscana, e coinvolgendo anche gli ambientalisti locali. Pochi mesi dopo, del tutto inaspettatamente, è cresciuta a Bologna la lotta per la difesa delle scuole Besta, che il Comune intendeva demolire, e dell’adiacente parco Don Bosco, molto amato dagli abitanti del quartiere San Donato. Tutto è partito da una raccolta di firme finalizzata a salvare il parco. Il Comune ha tentato di procedere ugualmente. Gli ambientalisti hanno dato vita a un presidio, rinforzato da giovani accampati sugli alberi. La vertenza è proseguita, con alterne vicende, fino alla (parziale) vittoria: il parco ora è salvo; la scuola è ancora in piedi. Il Comitato Besta vuole che sia restaurata e restituita alla sua funzione.

L’intera vicenda ha avuto grande risonanza sui mezzi di comunicazione di massa e, negli ultimi mesi, in tutta l’Italia si sono sviluppate lotte analoghe, finalizzate alla salvaguardia delle zone verdi insidiate dalla speculazione edilizia.

Nell’ultima settimana dell’agosto 2024 si è tenuta la terza edizione della marcia contro le opere inutili. Questa volta i marciatori sono partiti dalla Toscana, per contestare la costruzione dell’ennesimo impianto di risalita; si sono poi trasferiti in prossimità della centrale nucleare del Brasimone che qualcuno, nel governo e non solo, vorrebbe mettere in funzione; hanno terminato la manifestazione all’interno del comune di Bologna, camminando dal parco Don Bosco, per arrivare in zona Bertalia-Lazzaretto, presso l’aeroporto, dove sono in corso ulteriori interventi di cementificazione.

Tutto ciò, ovviamente, per quanto importante, non ha alcun effetto significativo sul cambiamento climatico (sarebbe necessario ben altro!) e, nel frattempo, l’Emilia-Romagna è stata interessata da lunghi periodi di siccità, intervallati da rovinose alluvioni. L’ultima, in ordine di tempo, ha coinvolto proprio la città di Bologna, e si è verificata proprio pochi giorni prima della manifestazione ambientalista indetta da un’insolita compagnia formata da Comitato Besta, Legambiente, Parents For Future, Rete Emergenza Climatica e Ambientale, Un altro Appennino è possibile, Comitato contro ogni autonomia differenziata, Confederazione Cobas e, ovviamente, USI-CIT.

Tale compagnia, che ha incuriosito il mondo ambientalista per via della sua stranezza, e costituito un richiamo per molti comitati di lotta che hanno preso parte alla manifestazione, ha poi convocato un’assemblea regionale, pienamente riuscita, per il giorno 25 gennaio 2025.

Nonostante l’evidente diversità dei componenti, prosegue nel suo percorso.

Riuscirà a consolidare quell’alleanza tra generazioni che ha caratterizzato l’esperienza delle marce e si è rivelata vincente in quella del Comitato Besta?

Luciano Nicolini’

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Trizio, Giorgia e Descalzi. Il nucleare civile passaggio obbligato per lo scudo atomico europeo

La pericolosità e la scarsa convenienza economica di riscaldare l’acqua con l’energia nucleare per produrre energia elettrica balza agli occhi: nessuno userebbe una bomba atomica per scaldare una pentola per la pasta. Ma al di là di queste considerazioni elementari, c’è uno stretto legame tra nucleare civile e nucleare militare.

Per causare una reazione di fissione che produrrà energia, viene utilizzato l’uranio 235 – “l’unico nucleo fissile che esiste nello stato naturale”. Quando l’uranio viene estratto, tuttavia, è composto solo dallo 0,7% di uranio 235. Il resto, cioè il 99,3% del materiale, è uranio 238. Così, per produrre energia, è necessario “arricchire l’uranio”, cioè aumentare la concentrazione di uranio 235. Per questo, la tecnica principale utilizzata è la centrifuga.

Per funzionare, una centrale nucleare deve utilizzare uranio a basso arricchimento (contenitori EnU235 superiori allo 0,71% e rigorosamente inferiore al 20%). Ciò richiede un uso significativo delle centrifughe, ma non è nulla in confronto al livello di uranio 235 necessario per utilizzare un reattore di ricerca nucleare. In questo caso, viene utilizzato uranio altamente arricchito, cioè con un contenuto di U 235 superiore o pari al 20%. Una volta raggiunto il 20% è possibile raggiungere il 90% molto rapidamente.

Così si esprimeva il Rapporto sulla situazione dell’industria nucleare nel mondo del 2018:

Gli stati dotati di armi nucleari rimangono i principali sostenitori dei programmi di energia nucleare. WNISR2018 offre un primo sguardo alla questione se gli interessi militari servano come uno dei fattori che spingono l’estensione della durata delle strutture esistenti e le nuove costruzioni in alcuni paesi. Perché l’energia nucleare si sta dimostrando sorprendentemente resistente, in particolari luoghi del mondo, al drastico cambiamento delle condizioni del mercato globale dell’energia e delle strutture per la fornitura di elettricità? In un contesto di declino dell’industria nucleare mondiale nel suo complesso, i piani per l’estensione della vita utile degli impianti e le nuove costruzioni nucleari rimangono le principali aree di investimento in alcuni paesi specifici. Persistono forti legami con progetti come Hinkley Point C nel Regno Unito, nonostante i costi si siano quintuplicati rispetto alle stime originali, una serie di difficoltà tecniche ancora irrisolte e le richieste di crescenti concessioni finanziarie e garanzie governative.

Stanno cominciando ad emergere prove in un certo numero di importanti stati nucleari militari per ulteriori significative interdipendenze industriali riguardo alle capacità di sostenere i programmi di propulsione nucleare navale. Con il declino dell’energia nucleare civile negli Stati Uniti, una serie di recenti rapporti ha sottolineato l’importanza per la “marina nucleare” di una continua base nazionale di ingegneria nucleare sostenuta da politiche per sostenere il settore nucleare civile. Il “Nuclear Sector Deal” del Nuclear Industry Council del Regno Unito afferma che “il settore si impegna ad aumentare le opportunità di trasferibilità tra le industrie civili e della difesa e ad aumentare in generale la mobilità per garantire che le risorse siano posizionate nei luoghi richiesti” e che il 18% delle lacune di competenze previste può essere colmato da “trasferibilità e mobilità”. In diversi paesi, può darsi che i fattori militari svolgano un ruolo significativo nella persistenza di quella che altrimenti è sempre più riconosciuta come la crescente obsolescenza dell’energia nucleare come tecnologia di generazione di elettricità a basse emissioni di carbonio”.

Così, un sito civile che produce energia può essere rapidamente trasformato in un’installazione militare sotto falso nome.

È in questo quadro che si inserisce la notizia che ENI e UKAEA (United Kingdom Atomic Energy Authority) l’autorità del Regno Unito responsabile per l’energia atomica, hanno siglato un accordo di collaborazione per condurre attività di ricerca e sviluppo nel campo dell’energia da fusione, che avvia in primo luogo la realizzazione dell’impianto più grande e avanzato al mondo per la gestione del ciclo del trizio, combustibile chiave nel processo di fusione, come si legge nel comunicato diffuso dalla multinazionale energetica italiana. Il comunicato poi si dilunga sui benefici che la produzione del trizio porterà alla generazione del combustibile nelle centrali a fusione, ancora di là da venire.

Ben più attuale, secondo il “World Nuclear Industry Status Report 2024”, è la produzione di trizio per usi militari, che attualmente rappresenta il principale contributo dei reattori civili alla produzione bellica. Le moderne armi termonucleari utilizzano il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno, per “aumentare” la resa nucleare del pozzo esplosivo di fissione, o “primario”, che genera l’intensa energia diretta ad accendere la fusione “secondaria”. L’emivita radioattiva del trizio è di 12,3 anni e ogni anno una data quantità di trizio diminuirà del 5,5%. Pertanto, per mantenere una data riserva di trizio per le armi, l’isotopo deve essere prodotto continuamente per sostituire il materiale perso a causa del decadimento radioattivo. Storicamente, questo è stato fatto dagli Stati Uniti, dalla Francia e da altri stati dotati di armi nucleari irradiando bersagli di litio in reattori militari dedicati e processando chimicamente i bersagli per estrarre il trizio.

Negli Stati Uniti, il trizio è stato prodotto nei reattori di proprietà del governo presso il sito di Savannah River nella Carolina del Sud fino a quando l’ultimo reattore operativo è stato chiuso nel 1988 per motivi di sicurezza. Dal 2003, gli Stati Uniti producono trizio per le armi utilizzando i neutroni generati dalle centrali nucleari civili, in particolare i due reattori di Watts Bar nello stato del Tennessee.

Nel marzo 2024, il governo francese ha annunciato che, dopo la chiusura dei propri reattori di produzione di trizio, stava collaborando con il gigante dell’energia EDF per produrre trizio per il suo programma di armi nucleari presso la centrale nucleare a doppio reattore di Civaux. Il programma non è stato ancora approvato dalle autorità francesi per la sicurezza nucleare. EDF dovrebbe presentare un fascicolo tecnico nell’autunno del 2024 con un primo test previsto per il 2025.

Nelle armi termo nucleari il trizio viene usato per l’innesco della reazione, quando una miscela di trizio e deuterio viene iniettata nella camera di scoppio, successivamente viene compressa e subisce reazioni di fusione, rilasciando neutroni ad alta energia. Questo processo migliora notevolmente l’efficienza del combustibile primario (plutonio e/o uranio altamente arricchito) che subisce la fissione. Ciò consente una riduzione della massa del combustibile e degli altri componenti primari (riflettore, esplosivo ad alto potenziale) necessari per generare una resa sufficientemente elevata (dell’ordine di dieci chilotoni) per accendere il secondario. Il trizio rende anche le armi nucleari a fissione “a prova di predetonazione”, consentendo l’utilizzo di materiali fissili con tassi di neutroni di fondo spontanei più elevati (come il plutonio per reattori) senza alcuna riduzione della resa prevista. Stime indipendenti del fabbisogno storico di trizio per le armi termonucleari variano in media da due a quattro grammi per testata. Alcune armi (note come “dial-a-yield”) possono utilizzare quantità variabili di trizio per regolare la loro potenza esplosiva. Tuttavia, nel complesso, la domanda di trizio è aumentata negli ultimi anni per le scorte statunitensi, presumibilmente per aumentare i margini di performance.

Il governo italiano, di qualsiasi colore sia, è sempre disponibile ad assecondare le mire di sfruttamento dell’ENI, ed ecco a tempo di record varata un disegno di legge delega che permetterebbe anche allo Stato italiano, in barba alle conquiste ottenute dal movimento antinucleare con l’azione diretta, di partecipare alla torta del nucleare militare, gabellandolo per civile.

Ancora una volta il governo si rivela il peggior nemico della società.

Avis Everhard

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