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Opinioni

Un nuovo Manifesto di Ventotene?

Lo sguardo sulla Terra da un satellite artificiale ha lasciato folgorati quasi tutti gli astronauti che lo hanno potuto gettare, tanto da indurre alcuni a cambiare completamente il loro modo di pensare. La Terra, ha dichiarato uno di loro, mi è apparsa un corpo unico, tutto interconnesso, molto fragile, tormentato dagli interventi umani. Quelle prime immagini pervenute dallo spazio avevano folgorato anche James Lovelock e Lynn Margulis, spingendoli a elaborare la teoria, o la visione, di Gaia: la Terra è un unico grande organismo che si autoregola, tenuto in vita da tutto ciò che la ricopre e la popola – acqua, aria, suolo ed ecosistemi – mentre molti degli interventi umani ne sono la malattia. E’ la verità dell’Antropocene, l’era della trasformazione della realtà fisica della Terra, ma anche della sua devastazione, da parte della specie umana.

Niente ci avvicina alla Terra più di quello sguardo da lontano. Per questo quelle immagini andrebbero mostrate, illustrate, commentate e approfondite il più spesso possibile nelle scuole, sui media e in ogni sede del discorso pubblico, perché parlano più e meglio di qualsiasi teoria e ne sono premesse e complementi indispensabili.

Con la crisi climatica e ambientale ci stiamo avvicinando a grandi passi all’orlo di un baratro da cui non si torna indietro. Molti ne sono consapevoli, ma pochi (e tra questi la quasi totalità dell’establishment politico, finanziario, industriale e dei media di tutto il mondo) trovano la voglia, la forza o la capacità di misurarsi con il problema. Molti altri abitanti della Terra ne percepiscono il rischio in modo indistinto e irriflesso a partire da quanto sta cambiando sotto i loro occhi: non solo il clima, soprattutto quando sono vittime di eventi metereologici estremi, ma anche “la natura”, il vivente e persino l’ambiente costruito e manomesso. Pochi ne sono realmente all’oscuro. A spingere il carro dell’indifferenza è per lo più l’attaccamento ad abitudini o privilegi a cui non si sa rinunciare, ma soprattutto la paura di rimanere soli e indifesi, molto più di una vera adesione alle tesi di coloro che hanno fatto del negazionismo climatico una professione, per lo più ben retribuita dall’industria del petrolio e affini. Ma nessuno, comunque, sembra vedere nella guerra, nelle tante guerre in corso, un acceleratore micidiale della crisi climatica e ambientale, e con essa, e per essa, anche della nostra umanità.

Per noi che invece siamo consapevoli della minaccia esistenziale (è una parola di moda) rappresentata dalla crisi climatica e da tutto ciò che ne consegue, la guerra è il culmine e il punto di approdo di un modo di agire e pensare diffuso, indotto dai poteri dominanti, che da decenni hanno consapevolmente deciso di sacrificare la salvaguardia della nostra vita su questo pianeta all’imperativo della “crescita” del prodotto interno lordo (il PIL); che altro non è che ciò che Marx, e tanti con lui, chiamavano – e ora non chiamano più – “accumulazione del capitale”.

Quindi, tutto ok per quanto riguarda la decarbonizzazione, purché non intralci la crescita, anzi, purché contribuisca, in tutto o in parte, ad alimentarla. Se no, lasciamola perdere! Così è stato lungo tutta la trentennale sequenza delle CoP per l’attuazione dell’Accordo Quadro sul Clima, che hanno continuato a riunire ogni anno decine e decine di migliaia di “addetti ai lavori” senza mai definire né imporre delle misure efficaci, e avvolgendo invece tutto in un velo di ipocrisia. Trump, con il suo negazionismo climatico a base ostentatamente affaristica e antiscientifica, non ha fatto che accelerare la fuga dalla decarbonizzazione delle tante banche, imprese e istituzioni che vi si erano – a parole – impegnate, ma che, fiutando l’aria, avevano già imboccato la propria ritirata anche prima del suo ritorno al governo degli Stati Uniti.

Ma la guerra in Ucraina, come le altre in corso, avrebbe dovuto far riflettere: sostenerle, in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo, è la negazione assoluta di ogni aspirazione, progetto o ipotesi di conversione ecologica. Perché sotto il cappello della conversione ecologica si raccoglie tutto ciò che risulta condizione o conseguenza di una transizione energetica effettiva: pace, ambiente, diritto alla vita, dignità, democrazia, decentramento, eguaglianza, salute, istruzione, mentre la guerra, con il suo consumo di combustibili e materiali, l’inquinamento di suolo, aria e acque, la devastazione di edifici, impianti, strade, ponti, macchinari, la distruzione di vite e di esistenze, il comando che non può essere discusso, è la negazione di tutte quelle cose.

Ma quelle distruzioni non sono forse anche un arresto della crescita, dell’accumulazione del capitale, dell’economia? No: accumulazione del capitale non è la stessa cosa che capitale accumulato. La prima è un processo, il motore dello sviluppo capitalistico e della società che esso modella, il secondo è uno stock di beni che può anche essere azzerato, purché la prima non si interrompa, anche ricominciando da capo. Così la produzione bellica, per sostituire, integrare, accrescere le armi impiegate o distrutte in guerra può alimentare la crescita al posto delle industrie che non lo fanno più, come quella dell’auto, o non possono essere attive sotto le bombe, come quella delle costruzioni. Dunque, anche per l’Europa la guerra non è un’alternativa alla crescita, come lo è invece alla conversione ecologica, anzi, ne sta diventando il supporto. Anche per questo, nei tre anni della guerra in Ucraina, non c’è stata una sola iniziativa o un solo cenno di mediazione da parte dell’Unione Europea o di uno dei suoi Stati membri.

Non possiamo più, se mai l’abbiamo fatto, continuare ad affidarci a coloro che hanno da tempo imboccato quella strada; la loro cultura, i loro interessi, le loro abitudini, la loro ignoranza vanno tutte in quella direzione. Né possiamo contare sulle divergenze tra i Governi degli Stati europei per un’inversione di rotta. Ci vuole un taglio netto tra chi sta ai vertici ed è responsabile di quella deriva e tutti coloro che si ritrovano alla base della piramide sociale e vorrebbero vivere in un mondo diverso e senza guerre.

Il percorso per invertire rotta passa attraverso il ritiro della delega concessa a Stati e Governi, che peraltro l’hanno da tempo ceduta, a loro volta, alla finanza internazionale. E lo sviluppo dell’iniziativa di base non può darsi che abbandonando l’ossessione dei confini da “difendere” dai migranti e da nemici costruiti ad arte, per lo più con la menzogna.

Il confederalismo democratico del Rojava, multietnico, egualitario, partecipato e femminista, un processo in corso, ma forse anche la constatazione che l’obiettivo dei due Stati in Palestina è ormai irrealizzabile, e che l’unica soluzione prospettabile, un sogno a venire, certamente “a lungo termine”, è la convivenza, su un piede di parità, di due comunità diverse in un unico territorio che non sia più uno Stato, alludono entrambe alla direzione che dovrebbe imboccare una rifondazione dell’Europa orientata non alla guerra ma alla conversione ecologica.

Di fronte ai venti di guerra che stanno investendo l’Europa, occorre un ripensamento radicale come quello che oltre ottant’anni fa, nel pieno dell’offensiva nazifascista, aveva indotto tre militanti imprigionati e isolati in uno sperduto angolo dell’Europa a concepirne la rinascita in una visione che allora sembrava assurda. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di non essere solo in tre, ma molti di più, di non essere prigionieri, ma ancora liberi di circolare e confrontarci e di non essere già in piena guerra mondiale, ma di poterla ancora fermare. Forse è arrivato il momento di redigere insieme un nuovo “Manifesto di Ventotene” o qualcosa di analogo, adattato al nostro tempo, per prospettare una rinascita dal basso dell’Europa tenendo ferma la rotta della conversione ecologica. Può sembrare un’utopia assurda, ma certo non più pazza di quella che aveva ispirato i Tre di Ventotene.

 

Guido Viale

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

La guerra per la crescita, la crescita per la guerra

Luigino Bruni, economista e teologo, scrive: «Nella sua breve storia, il capitalismo ha avuto un rapporto ambivalente con la democrazia, con la pace e con il libero mercato. La storia, infatti, qualche volta, pensiamo alla nascita della Comunità europea, ha confermato la tesi di Montesquieu: “L’effetto naturale del commercio è il portare la pace” (L’Esprit des Lois, 1745). Altre volte, e forse sono quelle più numerose incluso il nostro presente, i fatti hanno dato invece ragione al napoletano Antonio Genovesi: “Gran fonte di guerre è il commercio”, perché “lo spirito del commercio non è che quello delle conquiste” (Lezioni di economia civile, 1769). Quale, allora, – si chiede Bruni – il rapporto tra lo spirito del capitalismo e lo spirito della pace, della democrazia e della libertà?». (Luigino Bruni, Come il capitalismo si sta alleando con la cultura bellica e illiberale. – Avvenire, martedì 25 febbraio 2025).

Sulla stessa linea di ricerca il giurista Gustavo Zagrebelsky: «La globalizzazione sembrò a molti promettere un futuro in cui la concorrenza commerciale illimitata avrebbe sostituito la guerra. È un abbaglio che viene da lontano. Trecento anni fa, quel burlone di Voltaire, nella IV lettera filosofica, s’era commosso: “Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corte reali: vi troverete riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le nazioni. Là l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’un con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta”». (Gustavo Zagrebelsky, Facilitatori di pace al tempo di guerra – la Repubblica, 31 dicembre 2024).

L’idea che l’economia in un mercato più o meno regolamentato conduca alla pace – oltre che al benessere materiale per tutti i popoli che vogliano seguire tale modello – è ancora ampiamente condivisa e sostenuta dalle liberaldemocrazie e dalle socialdemocrazie. Come abbiamo visto, affonda le sue radici nel liberalismo dell’Illuminismo, da Montesquieu a Voltaire fino a Kant, per incontrare Jeremy Bentham e Herbert Spencer e approdare a Norman Angell, premio Nobel per la pace nel 1933. L’economia come veicolo per la pace, dopo la Seconda guerra mondiale, trova sostenitori in Lord John Maynard Keynes, Kenneth Boulding e negli Economists for Peace and Security.

Ultimamente, dopo il ritorno delle guerre in Europa, un gruppo di economisti keynesiani di sinistra, tra cui Emiliano Brancaccio, ha prodotto un appello The Economic Conditions for the Peace (pubblicato dal Financial Times il 17 febbraio 2023) che chiede di «creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».

L’approccio che seguono gli economisti per la pace è pragmatico, basato su dati evidenti e perciò ritenuto più convincente. Facendo leva sugli interessi concreti delle persone è possibile convincere i governi a non sprecare risorse nelle guerre. La pace conviene, evidentemente, anche da un punto di vista strettamente economico. Applicando criteri di valutazione “costi-opportunità” della macroeconomia classica, “a conti fatti”, il solo mantenimento di uno stato permanente di deterrenza armata anche in “tempo di pace” sottrae denaro allo sviluppo economico e sociale. A ciò va aggiunta la distruzione netta e diretta di risorse materiali nel corso degli inevitabili conflitti militari (perdita di capitale fisso, umano, sociale, naturale). (Si legga anche quanto scrive Raul Caruso in Economia di pace, Il Mulino, 2017).

La tesi degli economisti per la pace è che – al netto di altre motivazioni d’ordine ideologico e identitario, religiose, razziali, nazionaliste che possono portare i popoli a odiarsi e aggredirsi – lo scontro per motivi economici può sempre essere ricomposto usando gli stessi strumenti che regolano le attività economiche – senza ricorrere alle guerre. Una corretta politica economica, infatti, dovrebbe tendere a un equo accesso alle risorse e a una giusta redistribuzione degli utili consentendo di soddisfare le esigenze di tutte le popolazioni della Terra, rappacificandole. È la teoria della crescita economica in un sistema regolato di libera concorrenza variamente illustrata da metafore come quelle dei “vasi comunicanti” o della marea che alza nel porto tutte le barche (quelle dei ricchi e quelle dei poveri) o del trickle-down effect (sgocciolamento della ricchezza). Le politiche economiche democratiche sono state viste come “antidoto” alla legge primordiale del più forte praticata in altre fasi del capitalismo sfociate nel colonialismo e nell’imperialismo.

Lo sviluppo economico per il benessere di tutte e tutti come arma di pace, quindi?

Teoricamente l’idea che persone, comunità e popoli intenti a migliorare le proprie condizioni materiali collaborino e cooperino gli uni con gli altri per massimizzare i risultati del proprio lavoro è quanto di più bello e desiderabile si possa immaginare. La società che tutti vogliamo è operosa e pacifica.

Il guaio, il “baco” che fa fallire l’idea dello sviluppo progressivo del benessere economico, si annida dentro il modello stesso della crescita economica.

Se si assume, infatti, come scopo ultimo dell’attività economica quello dell’aumento indefinito e illimitato dei beni e dei servizi da offrire alle persone si innesca una corsa competitiva tra le imprese senza fine. Si finisce per perdere di vista lo scopo (il benessere, non il consumo) e il senso dell’impresa economica (soddisfare bisogni autentici delle persone, non accumulare valori monetari). La crescita per la crescita trasforma il mezzo (l’economia) in fine. Ciò che Serge Latouche ha apostrofato in vari modi: “paneconomia”, “apoteosi dell’economia”, “totalitarismo dell’economia”, ossia che: «La monetizzazione di ogni cosa provoca il collasso delle significazioni.» (Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati e Boringhieri, 2010).

Si finisce così per mettere in moto un «Un ciclo – bene descritto dall’antropologo Jason Hickel – che si autoalimenta, un tapis roulant in continua accelerazione: il denaro diventa profitto che diventa più denaro che diventa più profitto». La crescita è un imperativo strutturale, una legge ferrea del capitalismo, poiché il suo fine non è l’utilità del prodotto che l’impresa capitalista mette sul mercato ma il profitto che la sua vendita permette di realizzare. Da qui la necessità di creare continuamente nuovi mercati, nuovi oggetti, nuovi bisogni. «Se non si cresce si crolla» (Jason Hickel, Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta. Il Saggiatore 2020. Titolo originale: Less Is More: How Degrowth Will Save The World).

L’economia iscritta nella logica della crescita non conduce, quindi, a realizzare un equilibrato sistema di relazioni tra gli esseri umani e men che meno tra questi e gli ecosistemi naturali. Al contrario scatena rivalità e promuove le competizioni, incentiva l’avidità, non tiene conto dei limiti biogeofisici del pianeta (il metabolismo naturale). L’economia della crescita non assomiglia affatto al “dolce commercio” immaginato da Montesquieu e nemmeno alla “globalizzazione che funziona” ipotizzata da Joseph Stiglitz. Al contrario l’economia che ha al centro le ragioni del capitale ha bisogno, ieri come oggi, delle cannoniere che presidiano le rotte mercantili e gli oleodotti, di basi militari che controllano le zone di influenza, di eserciti sul campo che occupano i giacimenti minerari e i pozzi di petrolio e di polizia nelle piazze.

Mai dalla Seconda guerra mondiale ci sono state tante guerre aperte come oggi. Mai la spesa militare è schizzata come dopo il crollo del muro di Berlino.

Tornando a Luigino Bruni: «Questo capitalismo conosce la sola etica dell’accrescimento dei flussi e degli asset economici e finanziari, tutto il resto è solo mezzo in vista di questo unico fine. Tra i mezzi ci possono essere anche la democrazia, il libero mercato e la pace, ma non sono necessari. Lo spirito del capitalismo e dei capitalisti è adattivo e pragmatico: se in una regione del pianeta c’è democrazia, libertà di scambi e pace, si inseriscono in queste dinamiche democratiche, liberali e pacifiche e fanno i loro affari; ma non appena il clima politico cambia, con un cinismo perfetto cambiano linguaggio, alleati, mezzi, e usano guerre, dittature, dazi, populisti e populismi per continuare a perseguire il loro unico scopo. E se in circostanze ancora diverse, del passato e del presente, qualche grande potentato economico intravvedere in possibili scenari bellici, non liberali e non democratici opportunità di maggiori guadagni, non ha nessun scrupolo a favorire quel cambiamento, perché, giova ripeterlo, il telos, la natura di questo capitalismo non è né la pace, né la democrazia né il libero mercato, ma soltanto profitti e rendite. Ieri, e oggi.»

C’è un difetto di origine nel sistema economico oggi imperante – chiamiamolo con il suo nome: capitalismo – che lo rende strutturalmente inadatto alla pace. Il motore di questa economia è l’avidità e il risultato non può che essere rivalità, ostilità e antagonismo tra le persone, tra le comunità, tra gli stati. Per “ripudiare” la guerra e togliere il fucile dalla spalla dell’economia è necessario inventare e praticare un’economia di pace. Un’economia disarmata, war free.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è“ – pubblicato anche su attac-italia

 

Paolo Cacciari

“Di qui non si passa!”

E’ stato composto l’inno della 96ª Adunata degli Alpini di Biella dal titolo evocativo “Di qui non si passa!”.

Di qui non si passa…”

Inno Alpino

Testo e Musica: M. Folli – E. Galvani

Vogliamo raccontar la nostra storia,

del corpo degli alpin, delle sue gesta.

vogliamo ricordar che i nostri padri

fondarono un’Italia fiera e desta.

[…]

Ritornello

Di qui non si passa, sul suolo

sacro della nostra Italia.

Di qui non si passa, noi difendiam

la pace con l’onore.

[…]

La nostra penna è il nostro vessillo

dal caldo della Libia al freddo in Russia,

l’abbiam portata sempre per giustizia

in nome di un’Italia a volte ingiusta

[…]

Le donne in divisa al nostro fianco

anch’esse con orgoglio, forza e vanto,

ricordano l’alpin nel loro cuore

con grazia, fede, tempra e tanto amore.

[…]

 

 

Che orrore l’Inno Alpino Di qui non si passa!

Retorico patriottismo da Prima guerra mondiale. Linguaggio ottocentesco, che imita la brutta forma dell’inno di Mameli.

Difesa di confini che non sono minacciati da nulla e da nessuno, se non dalla stupidità della politica che sceglie di armare gli Stati nazionali europei, perché questi non sono capaci di svolgere il ruolo della mediazione politica e della pacificazione.

Esaltazione delle politiche coloniali in Libia e dell’aggressione alla Unione Sovietica, infiocchettata del sacrificio in nome della “giustizia”!

Opportunistici aggiornamenti di genere che conformano la logica patriarcale.

Uno straordinario esercizio di ignoranza o l’adesione alla vocazione nazionalista del governo post-fascista? Probabilmente tutte e due, perché sono complementari e si muovono insieme, e muovono centinaia di migliaia di persone che, più o meno consapevolmente, sfileranno in nome di un pezzo d’esercito, gli Alpini, cioè di una forza armata, che assume l’aria pacifica dei benefattori solidali, ma contraddetti dalla storia e persino da questo aggressivo “inno alpino”.

Ci auguriamo che durante l’adunata le vere o posticce penne nere non si trasformino, come auspica la “preghiera dell’alpino”, in costruttori di muri in difesa della “nostra millenaria civiltà cristiana”, in perfetto stile neocoloniale .

marzo 2025

Coordinamento Antifascista Biellese

Redazione Piemonte Orientale

Oggi a Parigi: da “Vertice dei Volenterosi” a Vertice dei Bellicosi. Zelensky: truppe europee “pronte a combattere”

Occhi puntati oggi su Parigi. Ma con legittima preoccupazione. Il vertice convocato oggi a Parigi, con la partecipazione dei leader europei e del presidente ucraino Zelensky, è stato presentato come un incontro di “volenterosi”. Ma la parola si svuota rapidamente di significato quando il nodo centrale dell’incontro è l’invio di truppe in Ucraina. Non parliamo di forze di interposizione con un mandato condiviso, ma di truppe “pronte a combattere”, secondo le dichiarazioni dello stesso Zelensky.

Siamo quindi di fronte non a una missione di pace ma a una prospettiva di guerra. Non si tratta di chiudere il conflitto armato, ma di prepararsi ad ampliarlo. Le truppe “di interdizione” – questo il termine tecnico – non restano ferme: agiscono, si scontrano, combattono. E quando ciò avviene fuori da ogni accordo con le altre potenze coinvolte nelle trattative in corso, in particolare con la Russia, si viola una delle “linee rosse” che da mesi vengono tracciate con sempre maggiore rigidità. Il vertice avviene fuori dall’ambito Nato. E senza la presenza degli Stati Uniti. Siamo oltre ogni ambito concertativo riconosciuto, fuori  da cornici internazionali consolidate e in contrasto con le stesse trattative di Riad. È anzi un atto di malcelato sabotaggio – pensato in ambito europeo – per sabotare le trattative fra Ucraina, USA e Russia. Zelensky gioca maldestramente su due tavoli, uno a Riad e uno a Parigi, con chiari scopi di non farsi assorbire troppo nella trattativa con Trump e Putin. E di tentare la carta disperata della missione di truppe europee per dare manforte al suo esercito in gravi difficoltà.

Un tale passaggio non è soltanto una provocazione geopolitica: è un atto di pericolosa irresponsabilità. L’escalation che si prepara a Parigi rischia di coinvolgere l’Europa in una spirale bellica incontrollabile. E a nulla servono le rassicurazioni ufficiali. Mentre si discute a porte chiuse di truppe da mandare in Ucraina, a porte aperte i governi europei diffondono video e kit per prepararsi alle emergenze, alimentando un clima da catastrofe imminente.

Questo non è il comportamento di chi lavora per la pace. Questo è il comportamento di chi si prepara alla guerra. Nel linguaggio pubblico si abusa spesso di parole nobili: “volonterosi”. Ma la realtà oggi è che il vertice di Parigi non è un raduno di persone di buona volontà. È un raduno di volontà bellicose.

Volenterosi, sì. Ma volenterosi di guerra.

Occorre levare la nostra voce contro ogni passo verso l’escalation. Leviamo la voce dei veri volonterosi, quella di noi pacifisti che vogliamo la fine della inutile strage e lo stop di ogni escalation militare.

Alessandro Marescotti

Investimenti in armi del TFR: rendimenti e rischi per i Fondi Pensione

Se affronti il rischio della ricerca di elevati profitti, anche il risparmiatore o broker oculato alla fine, per tutelare i suoi clienti, andrà ad investire dove i rendimenti finanziari sono maggiori. E le imprese di armi oggi presentano margini elevati, basti vedere le quotazioni in Borsa dei loro titoli.

Facciamo riferimento a tre articoli pubblicati da poco sul Fatto Quotidiano e reperibili integralmente anche attraverso la rete:

Vediamo quali sono le informazioni tratte dai tre articoli:

  • La performance dei titoli azionari delle imprese di armi è in costante ascesa e gli investitori fanno a gara per acquistarne titoli o azioni che in un anno sono cresciuti a dismisura e hanno margini di crescita ancor maggiori con il Riarmo UE;
  • All’estero numerosi Fondi di investimento, dentro i quali si trovano i risparmi previdenziali di tanti lavoratori e lavoratrici, stanno acquistando titoli e azioni di imprese belliche;
  • In Italia non è ancora certo che questo accada, ma sappiamo bene che potrebbero essere determinanti alcuni equivoci di fondo, cioè la distinzione tra armi convenzionali e di nuova generazione, tecnologie duali e quindi utilizzabili non solo in campo militare, ma anche nel civile, tanti distinguo costruiti ad arte per giustificare investimenti nelle imprese belliche.

Solo pochi mesi fa parlavamo del pericolo di un nuovo semestre di silenzio assenso ossia in caso di mancata scelta del lavoratore il suo TFR sarebbe stato indirizzato automaticamente nella previdenza integrativa.

Se ne era parlato a lungo, ma alla fine la proposta, di Fratelli d’Italia, non era stata inserita nella legge di Bilancio, siamo tuttavia certi che ci riproveranno, aprendosi una stagione nella quale il Riarmo avrà bisogno di finanziatori privati, tra i quali anche i Fondi pensionistici. E proprio i Fondi ETF, quelli che pare non disdegnino investimenti in settori militari, risultano convenienti e vengono sponsorizzati anche quando inflazione elevata e tassi di interessi alti (ci sarà un motivo per cui li stanno abbassando, oltre a ridurre il costo del denaro?) consiglierebbero vivamente di trattenere in azienda il TFR.

In tempi nei quali le ragioni etiche e morali si scontrano con i principi guida del dio mercato e del profitto, la possibilità che la previdenza integrativa, anche quella legata ai contratti nazionali e ai sindacati cosiddetti rappresentativi, è tutt’altro che remota. E la giustificazione addotta potrebbe essere quella di volere tutelare prima di ogni altra cosa gli investimenti dei lavoratori e delle lavoratrici e assai difficilmente troverebbero oppositori nelle aziende pubbliche e private.

Intanto noi siamo a ricordare la battaglia intrapresa in tempi lontani per trattenere il TFR in azienda, sottraendolo alle girandole speculative della finanza.

 

Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università

Un nuovo Manifesto di Ventotene?

Lo sguardo sulla Terra da un satellite artificiale ha lasciato folgorati quasi tutti gli astronauti che lo hanno potuto gettare, tanto da indurre alcuni a cambiare completamente il loro modo di pensare. La Terra, ha dichiarato uno di loro, mi è apparsa un corpo unico, tutto interconnesso, molto fragile, tormentato dagli interventi umani. Quelle prime immagini pervenute dallo spazio avevano folgorato anche James Lovelock e Lynn Margulis, spingendoli a elaborare la teoria, o la visione, di Gaia: la Terra è un unico grande organismo che si autoregola, tenuto in vita da tutto ciò che la ricopre e la popola – acqua, aria, suolo ed ecosistemi – mentre molti degli interventi umani ne sono la malattia. E’ la verità dell’Antropocene, l’era della trasformazione della realtà fisica della Terra, ma anche della sua devastazione, da parte della specie umana.

Niente ci avvicina alla Terra più di quello sguardo da lontano. Per questo quelle immagini andrebbero mostrate, illustrate, commentate e approfondite il più spesso possibile nelle scuole, sui media e in ogni sede del discorso pubblico, perché parlano più e meglio di qualsiasi teoria e ne sono premesse e complementi indispensabili.

Con la crisi climatica e ambientale ci stiamo avvicinando a grandi passi all’orlo di un baratro da cui non si torna indietro. Molti ne sono consapevoli, ma pochi (e tra questi la quasi totalità dell’establishment politico, finanziario, industriale e dei media di tutto il mondo) trovano la voglia, la forza o la capacità di misurarsi con il problema. Molti altri abitanti della Terra ne percepiscono il rischio in modo indistinto e irriflesso a partire da quanto sta cambiando sotto i loro occhi: non solo il clima, soprattutto quando sono vittime di eventi metereologici estremi, ma anche “la natura”, il vivente e persino l’ambiente costruito e manomesso. Pochi ne sono realmente all’oscuro. A spingere il carro dell’indifferenza è per lo più l’attaccamento ad abitudini o privilegi a cui non si sa rinunciare, ma soprattutto la paura di rimanere soli e indifesi, molto più di una vera adesione alle tesi di coloro che hanno fatto del negazionismo climatico una professione, per lo più ben retribuita dall’industria del petrolio e affini. Ma nessuno, comunque, sembra vedere nella guerra, nelle tante guerre in corso, un acceleratore micidiale della crisi climatica e ambientale, e con essa, e per essa, anche della nostra umanità.

Per noi che invece siamo consapevoli della minaccia esistenziale (è una parola di moda) rappresentata dalla crisi climatica e da tutto ciò che ne consegue, la guerra è il culmine e il punto di approdo di un modo di agire e pensare diffuso, indotto dai poteri dominanti, che da decenni hanno consapevolmente deciso di sacrificare la salvaguardia della nostra vita su questo pianeta all’imperativo della “crescita” del prodotto interno lordo (il PIL); che altro non è che ciò che Marx, e tanti con lui, chiamavano – e ora non chiamano più – “accumulazione del capitale”.

Quindi, tutto ok per quanto riguarda la decarbonizzazione, purché non intralci la crescita, anzi, purché contribuisca, in tutto o in parte, ad alimentarla. Se no, lasciamola perdere! Così è stato lungo tutta la trentennale sequenza delle CoP per l’attuazione dell’Accordo Quadro sul Clima, che hanno continuato a riunire ogni anno decine e decine di migliaia di “addetti ai lavori” senza mai definire né imporre delle misure efficaci, e avvolgendo invece tutto in un velo di ipocrisia. Trump, con il suo negazionismo climatico a base ostentatamente affaristica e antiscientifica, non ha fatto che accelerare la fuga dalla decarbonizzazione delle tante banche, imprese e istituzioni che vi si erano – a parole – impegnate, ma che, fiutando l’aria, avevano già imboccato la propria ritirata anche prima del suo ritorno al governo degli Stati Uniti.

Ma la guerra in Ucraina, come le altre in corso, avrebbe dovuto far riflettere: sostenerle, in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo, è la negazione assoluta di ogni aspirazione, progetto o ipotesi di conversione ecologica. Perché sotto il cappello della conversione ecologica si raccoglie tutto ciò che risulta condizione o conseguenza di una transizione energetica effettiva: pace, ambiente, diritto alla vita, dignità, democrazia, decentramento, eguaglianza, salute, istruzione, mentre la guerra, con il suo consumo di combustibili e materiali, l’inquinamento di suolo, aria e acque, la devastazione di edifici, impianti, strade, ponti, macchinari, la distruzione di vite e di esistenze, il comando che non può essere discusso, è la negazione di tutte quelle cose.

Ma quelle distruzioni non sono forse anche un arresto della crescita, dell’accumulazione del capitale, dell’economia? No: accumulazione del capitale non è la stessa cosa che capitale accumulato. La prima è un processo, il motore dello sviluppo capitalistico e della società che esso modella, il secondo è uno stock di beni che può anche essere azzerato, purché la prima non si interrompa, anche ricominciando da capo. Così la produzione bellica, per sostituire, integrare, accrescere le armi impiegate o distrutte in guerra può alimentare la crescita al posto delle industrie che non lo fanno più, come quella dell’auto, o non possono essere attive sotto le bombe, come quella delle costruzioni. Dunque, anche per l’Europa la guerra non è un’alternativa alla crescita, come lo è invece alla conversione ecologica, anzi, ne sta diventando il supporto. Anche per questo, nei tre anni della guerra in Ucraina, non c’è stata una sola iniziativa o un solo cenno di mediazione da parte dell’Unione Europea o di uno dei suoi Stati membri.

Non possiamo più, se mai l’abbiamo fatto, continuare ad affidarci a coloro che hanno da tempo imboccato quella strada; la loro cultura, i loro interessi, le loro abitudini, la loro ignoranza vanno tutte in quella direzione. Né possiamo contare sulle divergenze tra i Governi degli Stati europei per un’inversione di rotta. Ci vuole un taglio netto tra chi sta ai vertici ed è responsabile di quella deriva e tutti coloro che si ritrovano alla base della piramide sociale e vorrebbero vivere in un mondo diverso e senza guerre.

Il percorso per invertire rotta passa attraverso il ritiro della delega concessa a Stati e Governi, che peraltro l’hanno da tempo ceduta, a loro volta, alla finanza internazionale. E lo sviluppo dell’iniziativa di base non può darsi che abbandonando l’ossessione dei confini da “difendere” dai migranti e da nemici costruiti ad arte, per lo più con la menzogna.

Il confederalismo democratico del Rojava, multietnico, egualitario, partecipato e femminista, un processo in corso, ma forse anche la constatazione che l’obiettivo dei due Stati in Palestina è ormai irrealizzabile, e che l’unica soluzione prospettabile, un sogno a venire, certamente “a lungo termine”, è la convivenza, su un piede di parità, di due comunità diverse in un unico territorio che non sia più uno Stato, alludono entrambe alla direzione che dovrebbe imboccare una rifondazione dell’Europa orientata non alla guerra ma alla conversione ecologica.

Di fronte ai venti di guerra che stanno investendo l’Europa, occorre un ripensamento radicale come quello che oltre ottant’anni fa, nel pieno dell’offensiva nazifascista, aveva indotto tre militanti imprigionati e isolati in uno sperduto angolo dell’Europa a concepirne la rinascita in una visione che allora sembrava assurda. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di non essere solo in tre, ma molti di più, di non essere prigionieri, ma ancora liberi di circolare e confrontarci e di non essere già in piena guerra mondiale, ma di poterla ancora fermare. Forse è arrivato il momento di redigere insieme un nuovo “Manifesto di Ventotene” o qualcosa di analogo, adattato al nostro tempo, per prospettare una rinascita dal basso dell’Europa tenendo ferma la rotta della conversione ecologica. Può sembrare un’utopia assurda, ma certo non più pazza di quella che aveva ispirato i Tre di Ventotene.

 

Guido Viale

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

La guerra per la crescita, la crescita per la guerra

Luigino Bruni, economista e teologo, scrive: «Nella sua breve storia, il capitalismo ha avuto un rapporto ambivalente con la democrazia, con la pace e con il libero mercato. La storia, infatti, qualche volta, pensiamo alla nascita della Comunità europea, ha confermato la tesi di Montesquieu: “L’effetto naturale del commercio è il portare la pace” (L’Esprit des Lois, 1745). Altre volte, e forse sono quelle più numerose incluso il nostro presente, i fatti hanno dato invece ragione al napoletano Antonio Genovesi: “Gran fonte di guerre è il commercio”, perché “lo spirito del commercio non è che quello delle conquiste” (Lezioni di economia civile, 1769). Quale, allora, – si chiede Bruni – il rapporto tra lo spirito del capitalismo e lo spirito della pace, della democrazia e della libertà?». (Luigino Bruni, Come il capitalismo si sta alleando con la cultura bellica e illiberale. – Avvenire, martedì 25 febbraio 2025).

Sulla stessa linea di ricerca il giurista Gustavo Zagrebelsky: «La globalizzazione sembrò a molti promettere un futuro in cui la concorrenza commerciale illimitata avrebbe sostituito la guerra. È un abbaglio che viene da lontano. Trecento anni fa, quel burlone di Voltaire, nella IV lettera filosofica, s’era commosso: “Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corte reali: vi troverete riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le nazioni. Là l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’un con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta”». (Gustavo Zagrebelsky, Facilitatori di pace al tempo di guerra – la Repubblica, 31 dicembre 2024).

L’idea che l’economia in un mercato più o meno regolamentato conduca alla pace – oltre che al benessere materiale per tutti i popoli che vogliano seguire tale modello – è ancora ampiamente condivisa e sostenuta dalle liberaldemocrazie e dalle socialdemocrazie. Come abbiamo visto, affonda le sue radici nel liberalismo dell’Illuminismo, da Montesquieu a Voltaire fino a Kant, per incontrare Jeremy Bentham e Herbert Spencer e approdare a Norman Angell, premio Nobel per la pace nel 1933. L’economia come veicolo per la pace, dopo la Seconda guerra mondiale, trova sostenitori in Lord John Maynard Keynes, Kenneth Boulding e negli Economists for Peace and Security.

Ultimamente, dopo il ritorno delle guerre in Europa, un gruppo di economisti keynesiani di sinistra, tra cui Emiliano Brancaccio, ha prodotto un appello The Economic Conditions for the Peace (pubblicato dal Financial Times il 17 febbraio 2023) che chiede di «creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».

L’approccio che seguono gli economisti per la pace è pragmatico, basato su dati evidenti e perciò ritenuto più convincente. Facendo leva sugli interessi concreti delle persone è possibile convincere i governi a non sprecare risorse nelle guerre. La pace conviene, evidentemente, anche da un punto di vista strettamente economico. Applicando criteri di valutazione “costi-opportunità” della macroeconomia classica, “a conti fatti”, il solo mantenimento di uno stato permanente di deterrenza armata anche in “tempo di pace” sottrae denaro allo sviluppo economico e sociale. A ciò va aggiunta la distruzione netta e diretta di risorse materiali nel corso degli inevitabili conflitti militari (perdita di capitale fisso, umano, sociale, naturale). (Si legga anche quanto scrive Raul Caruso in Economia di pace, Il Mulino, 2017).

La tesi degli economisti per la pace è che – al netto di altre motivazioni d’ordine ideologico e identitario, religiose, razziali, nazionaliste che possono portare i popoli a odiarsi e aggredirsi – lo scontro per motivi economici può sempre essere ricomposto usando gli stessi strumenti che regolano le attività economiche – senza ricorrere alle guerre. Una corretta politica economica, infatti, dovrebbe tendere a un equo accesso alle risorse e a una giusta redistribuzione degli utili consentendo di soddisfare le esigenze di tutte le popolazioni della Terra, rappacificandole. È la teoria della crescita economica in un sistema regolato di libera concorrenza variamente illustrata da metafore come quelle dei “vasi comunicanti” o della marea che alza nel porto tutte le barche (quelle dei ricchi e quelle dei poveri) o del trickle-down effect (sgocciolamento della ricchezza). Le politiche economiche democratiche sono state viste come “antidoto” alla legge primordiale del più forte praticata in altre fasi del capitalismo sfociate nel colonialismo e nell’imperialismo.

Lo sviluppo economico per il benessere di tutte e tutti come arma di pace, quindi?

Teoricamente l’idea che persone, comunità e popoli intenti a migliorare le proprie condizioni materiali collaborino e cooperino gli uni con gli altri per massimizzare i risultati del proprio lavoro è quanto di più bello e desiderabile si possa immaginare. La società che tutti vogliamo è operosa e pacifica.

Il guaio, il “baco” che fa fallire l’idea dello sviluppo progressivo del benessere economico, si annida dentro il modello stesso della crescita economica.

Se si assume, infatti, come scopo ultimo dell’attività economica quello dell’aumento indefinito e illimitato dei beni e dei servizi da offrire alle persone si innesca una corsa competitiva tra le imprese senza fine. Si finisce per perdere di vista lo scopo (il benessere, non il consumo) e il senso dell’impresa economica (soddisfare bisogni autentici delle persone, non accumulare valori monetari). La crescita per la crescita trasforma il mezzo (l’economia) in fine. Ciò che Serge Latouche ha apostrofato in vari modi: “paneconomia”, “apoteosi dell’economia”, “totalitarismo dell’economia”, ossia che: «La monetizzazione di ogni cosa provoca il collasso delle significazioni.» (Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati e Boringhieri, 2010).

Si finisce così per mettere in moto un «Un ciclo – bene descritto dall’antropologo Jason Hickel – che si autoalimenta, un tapis roulant in continua accelerazione: il denaro diventa profitto che diventa più denaro che diventa più profitto». La crescita è un imperativo strutturale, una legge ferrea del capitalismo, poiché il suo fine non è l’utilità del prodotto che l’impresa capitalista mette sul mercato ma il profitto che la sua vendita permette di realizzare. Da qui la necessità di creare continuamente nuovi mercati, nuovi oggetti, nuovi bisogni. «Se non si cresce si crolla» (Jason Hickel, Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta. Il Saggiatore 2020. Titolo originale: Less Is More: How Degrowth Will Save The World).

L’economia iscritta nella logica della crescita non conduce, quindi, a realizzare un equilibrato sistema di relazioni tra gli esseri umani e men che meno tra questi e gli ecosistemi naturali. Al contrario scatena rivalità e promuove le competizioni, incentiva l’avidità, non tiene conto dei limiti biogeofisici del pianeta (il metabolismo naturale). L’economia della crescita non assomiglia affatto al “dolce commercio” immaginato da Montesquieu e nemmeno alla “globalizzazione che funziona” ipotizzata da Joseph Stiglitz. Al contrario l’economia che ha al centro le ragioni del capitale ha bisogno, ieri come oggi, delle cannoniere che presidiano le rotte mercantili e gli oleodotti, di basi militari che controllano le zone di influenza, di eserciti sul campo che occupano i giacimenti minerari e i pozzi di petrolio e di polizia nelle piazze.

Mai dalla Seconda guerra mondiale ci sono state tante guerre aperte come oggi. Mai la spesa militare è schizzata come dopo il crollo del muro di Berlino.

Tornando a Luigino Bruni: «Questo capitalismo conosce la sola etica dell’accrescimento dei flussi e degli asset economici e finanziari, tutto il resto è solo mezzo in vista di questo unico fine. Tra i mezzi ci possono essere anche la democrazia, il libero mercato e la pace, ma non sono necessari. Lo spirito del capitalismo e dei capitalisti è adattivo e pragmatico: se in una regione del pianeta c’è democrazia, libertà di scambi e pace, si inseriscono in queste dinamiche democratiche, liberali e pacifiche e fanno i loro affari; ma non appena il clima politico cambia, con un cinismo perfetto cambiano linguaggio, alleati, mezzi, e usano guerre, dittature, dazi, populisti e populismi per continuare a perseguire il loro unico scopo. E se in circostanze ancora diverse, del passato e del presente, qualche grande potentato economico intravvedere in possibili scenari bellici, non liberali e non democratici opportunità di maggiori guadagni, non ha nessun scrupolo a favorire quel cambiamento, perché, giova ripeterlo, il telos, la natura di questo capitalismo non è né la pace, né la democrazia né il libero mercato, ma soltanto profitti e rendite. Ieri, e oggi.»

C’è un difetto di origine nel sistema economico oggi imperante – chiamiamolo con il suo nome: capitalismo – che lo rende strutturalmente inadatto alla pace. Il motore di questa economia è l’avidità e il risultato non può che essere rivalità, ostilità e antagonismo tra le persone, tra le comunità, tra gli stati. Per “ripudiare” la guerra e togliere il fucile dalla spalla dell’economia è necessario inventare e praticare un’economia di pace. Un’economia disarmata, war free.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è“ – pubblicato anche su attac-italia

 

Paolo Cacciari

“Di qui non si passa!”

E’ stato composto l’inno della 96ª Adunata degli Alpini di Biella dal titolo evocativo “Di qui non si passa!”.

Di qui non si passa…”

Inno Alpino

Testo e Musica: M. Folli – E. Galvani

Vogliamo raccontar la nostra storia,

del corpo degli alpin, delle sue gesta.

vogliamo ricordar che i nostri padri

fondarono un’Italia fiera e desta.

[…]

Ritornello

Di qui non si passa, sul suolo

sacro della nostra Italia.

Di qui non si passa, noi difendiam

la pace con l’onore.

[…]

La nostra penna è il nostro vessillo

dal caldo della Libia al freddo in Russia,

l’abbiam portata sempre per giustizia

in nome di un’Italia a volte ingiusta

[…]

Le donne in divisa al nostro fianco

anch’esse con orgoglio, forza e vanto,

ricordano l’alpin nel loro cuore

con grazia, fede, tempra e tanto amore.

[…]

 

 

Che orrore l’Inno Alpino Di qui non si passa!

Retorico patriottismo da Prima guerra mondiale. Linguaggio ottocentesco, che imita la brutta forma dell’inno di Mameli.

Difesa di confini che non sono minacciati da nulla e da nessuno, se non dalla stupidità della politica che sceglie di armare gli Stati nazionali europei, perché questi non sono capaci di svolgere il ruolo della mediazione politica e della pacificazione.

Esaltazione delle politiche coloniali in Libia e dell’aggressione alla Unione Sovietica, infiocchettata del sacrificio in nome della “giustizia”!

Opportunistici aggiornamenti di genere che conformano la logica patriarcale.

Uno straordinario esercizio di ignoranza o l’adesione alla vocazione nazionalista del governo post-fascista? Probabilmente tutte e due, perché sono complementari e si muovono insieme, e muovono centinaia di migliaia di persone che, più o meno consapevolmente, sfileranno in nome di un pezzo d’esercito, gli Alpini, cioè di una forza armata, che assume l’aria pacifica dei benefattori solidali, ma contraddetti dalla storia e persino da questo aggressivo “inno alpino”.

Ci auguriamo che durante l’adunata le vere o posticce penne nere non si trasformino, come auspica la “preghiera dell’alpino”, in costruttori di muri in difesa della “nostra millenaria civiltà cristiana”, in perfetto stile neocoloniale .

marzo 2025

Coordinamento Antifascista Biellese

Redazione Piemonte Orientale