Polonia e Paesi Baltici lasciano la Convenzione di Ottawa sulle mine antiuomo in nome della “deterrenza”
Da giorni si rincorrevano voci sull’uscita di Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania dalla Convenzione di Ottawa, firmata nel 1997 per sancire la messa al bando delle mine antiuomo. In una dichiarazione congiunta del 18 marzo 2025 è stata espressa l’ufficialità della scelta:
“La situazione della sicurezza nella nostra regione si è fondamentalmente deteriorata. Le minacce militari agli stati membri della Nato confinanti con Russia e Bielorussia sono aumentate in modo significativo. Alla luce di questo instabile ambiente di sicurezza segnato dall’aggressione della Russia e dalla sua continua minaccia alla comunità euro-atlantica, è essenziale valutare tutte le misure per rafforzare le nostre capacità di deterrenza e difesa”.
La giustificazione per questa scelta è il senso di paura che vive la prima linea del fronte europeo, al confine con la Federazione Russa e con l’alleata Bielorussia; o addirittura “la minaccia russa” che, esaurita l’offensiva contro l’Ucraina, possa raggiungere “l’est dell’Europa”, che diventerebbe a quel punto il prossimo obiettivo di Vladimir Putin. Secondo Polonia e Paesi Baltici questa operazione potrebbe non arrivare subito e nemmeno nel futuro più prossimo, ma il fatto che “Mosca voglia ricostruire l’assetto sovietico” per loro è “più di un sospetto”, alimentato dai continui sabotaggi e dagli attacchi ibridi da parte dei russi.
Dagli anni Novanta sappiamo benissimo che questi sospetti sono infondati e che ciò che si è avverato è stato ben altro: l’espansione della NATO nei Paesi dell’Est, violando gli accordi con Gorbaciov nel 1990; la violazione degli Accordi di Minsk tra Russia ed Ucraina (leggasi Stati Uniti); l’entrata recente dei Paesi Baltici e della Finlandia nella NATO. L’espansione ad Est della NATO è continuata con il cosiddetto scudo stellare, con l’addestramento di truppe ucraine fin dal 2009, con l’installazione di basi militari in Polonia e Romania. L’avanzata degli USA è continuata nel 2014 con la “rivoluzione colorata” di Maidan in Ucraina, che ha portato ad un golpe di stampo neonazista con regia occidentale ed un governo di oligarchi vicini a Washington. Successivamente, nel 2015, il Dragoon Ride ha portato truppe statunitensi in tutto l’Est europeo fino ai confini con la Russia, accompagnando le manovre militari con una campagna di incitamento all’odio nei confronti dei russi ed in particolare contro Putin. Inoltre, dall’indipendenza post-sovietica, i Paesi Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) hanno sviluppato una politica interna improntata sull’etnonazionalismo, sulla xenofobia, sul mito della sicurezza, sulla Russia come nemico numero uno e sull’istituzionalizzazione di forme di nostalgia fascista e neonazista; mentre in politica estera hanno seguito e continuano a seguire in modo decisivo il militarismo e le agende di riarmo della NATO e degli USA.
I Paesi dislocati lungo il fianco orientale hanno alzato il budget per le spese militari. Lituania, Estonia e Polonia hanno alzato la spesa per la difesa al 5% del Pil, mentre la Lettonia lo ha portato quest’anno al 3,45%. Se paragonato al resto della Nato, in cui molti paesi – Italia in primis – faticano ad arrivare alla soglia minima richiesta del 2%, è un gap notevole. Lo scorso anno inoltre i quattro paesi hanno inoltre richiesto finanziamenti europei per costruire le loro linee di difesa e puntellare il confine con bunker e denti di drago. La promessa era che, in un periodo di pace, non avrebbero installato mine, fili spinati, armi anti tank e altri ordigni simili. Con il ritorno di Trump la situazione della sicurezza europea è cambiata – in peggio – e si è passati al piano B.
Polonia e Paesi Baltici sono in prima linea nel riarmo: hanno aumentato sensibilmente i budget per la difesa e spingono perché tutti nell’Ue e nella Nato facciano altrettanto. E’ anche merito loro e dell’Alta Rappresentante per la politica estera dell’UE e vicepresidente della Commissione UE, la estone Kaja Kallas, se la Commissione Europea di Ursula Von Der Leyen ha pensato ad un riarmo europeo da 800 miliardi di euro.
Il passo indietro sulle mine antiuomo è stato vergognosamente motivato con la necessità di prevedere tutti gli strumenti di “deterrenza necessari alla difesa del territorio”. “Al momento non abbiamo piani per sviluppare, immagazzinare o utilizzare mine antiuomo precedentemente vietate”, ha voluto rassicurare il ministro della Difesa estone, Hanno Pevkur, garantendo che il suo Paese e gli altri alleati della regione “rimangono impegnati a sostenere il diritto umanitario e la protezione dei civili”.
Non c’è giustificazione che tenga sull’abbandono della Convenzione di Ottawa del 1997, se non la volontà di perpetuare militarismo, guerra e la disumanità. Anche solo pensare all’utilizzo di armamenti come le mine antiuomo o le bombe a grappolo, è un tabù che travalica un limite pericolosissimo. Le mine antiuomo hanno conseguenze di lungo periodo, rimanendo per anni inesplose sul terreno continuando a mietere vittime, soprattutto fra i civili. Oltre che dall’Ucraina, tra i paesi più minati al mondo, un altro esempio arriva dalla Siria.
Nonostante ciò i governi dei Paesi Baltici sembrano più convinti che mai della decisione presa, in nome del mito della sicurezza e del militarismo: “Questa decisione darà un messaggio chiaro: siamo pronti a usare tutto quel che serve per garantire la nostra sicurezza”, avvertiva cinque giorni fa la ministra della Difesa lituana, Dovile Sakaliene. Una dichiarazione rilasciata a margine del bilaterale di Varsavia con l’omologo polacco, Wladyslaw Kosiniak-Kamysz, una delle tante riunioni che Polonia e Baltici hanno tenuto negli ultimi mesi per coordinare le proprie iniziative di difesa.
Già a inizio mese a rompere il tabù sulle mine antiuomo era stato il primo ministro polacco, Donald Tusk, in un discorso pronunciato in Parlamento. “Ammettiamolo: non è una bella cosa, niente di piacevole. Lo sappiamo molto bene. Il problema è che nel nostro ambiente, quelli di cui potremmo avere paura o quelli che sono in guerra ce le hanno tutti”. Nonostante le parole giustificatrice, la consapevolezza di quello che stanno facendo è molto bassa.
Ad avallare la posizione della fuoriuscita di Polonia e Paesi Baltici dalla Convenzione di Ottawa del 1997 è stato anche il think tank brussellese Brussels European and Global Economic Laboratory (1), uno dei più importanti centri europei e mondiali del capitalismo finanziario: “Le norme dell’Ue in materia di finanza sostenibile non impongono restrizioni generali agli investimenti nella difesa, ma esistono restrizioni al finanziamento di società coinvolte nella produzione di armi controverse” scrivono in un report parlando di bombe a grappolo, armi chimiche e biologiche, fosforo bianco, uranio impoverito, laser accecanti, frammenti non rilevabili e, appunto, mine antiuomo. Vista la situazione, la Commissione “potrebbe allentare temporaneamente la posizione” su tali armamenti o “esortare le banche europee a rimuovere le esclusioni autoimposte per il finanziamento delle armi nucleari”. Secondo Bruegel, ciò che è importante è che l’UE parli chiaro, per fare chiarezza ed evitare “zone grigie su come si aspetta che il settore finanziato venga coinvolto”.
A quello di Ottawa, aveva aggiunto Tusk, potrebbe seguire un altro ritiro, stavolta dalla Convenzione di Dublino sulle munizioni a grappolo.
La prossima a uscire dalla Convenzione di Ottawa potrebbe essere la Finlandia, che da quando è diventata membro dell’Ue si è impegnata a distruggere oltre un milione di mine, ma adesso sarebbe pronta a fare marcia indietro, anche perché ha “una frontiera di 1.340 km con la Federazione russa da difendere”: “Ho commissionato una valutazione per stabilire se il loro utilizzo sia un fattore di rafforzamento per la Finlandia e se dovremmo avere la possibilità di usarle. E questo parte da una visione difensiva” – spiegava a dicembre il ministro della Difesa, Antti Hakkanen.
A opporsi allo sdoganamento di armi ritenute proibite sono state le organizzazioni per i diritti umani, preoccupate per la deriva che potrebbe generare questa decisione.
(1) Brussels European and Global Economic Laboratory (Bruegel) è considerato fra i più importanti think tank europei e mondiali. Nato nel 2005, a seguito degli accordi di collaborazione bilaterali franco-tedeschi che sfociarono nella dichiarazione comune di intenti fra il presidente francese Jacques Chirac e il cancelliere tedesco Gerhard Schröder, Bruegel è una delle più importanti lobby del capitalismo finanziario al mondo che novembre 2010 ha pubblicato una proposta su come affrontare la crisi del debito sovrano dei Paesi dell’Eurozona, basata su un meccanismo di “default controllato”: A European Mechanism for Sovereign Debt Crisis Resolution: A proposal. Al 2012 è presieduto da Jean Claude Trichet (che è anche il presidente del gruppo europeo della Commissione Trilaterale ed ex-governatore della Banca Centrale Europea). Ne sono presidenti onorari Mario Monti (primo presidente, dal 2005 al 2008, dell’organizzazione)e Leszek Balcerowicz (anch’egli ex presidente dell’organizzazione). Le aziende private, tutte a dimensione di multinazionale che contribuiscono come membri sono: Deutsche Telekom, Électricité de France (EDF), Ernst & Young, Erste Bank Group, General Electric, Goldman Sachs, Google, LVMH Louis Vuitton Moët Hennessy S.A., Microsoft, MasterCard, MECM Ltd., Novartis, NYSE Euronext, Pfizer, Qualcomm, Renault, Samsung Electronics, Schroeders Solvay, Syngenta, Toyota, UBS e UniCredit. Sono inoltre membri istituzionali: Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, Banca di Francia, Banca Nazionale di Danimarca, Banca Nazionale di Polonia, Caisse des Dépôts, European Investment Bank.