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Niente Panico RSI – Puntata del 2024/11/25

Lunedì scorso alle 9 è andata in onda una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. La trasmissione è riascoltabile qui su RSI.ch oppure nell’embed che trovate qui sotto, ed è anche scaricabile.

I temi della puntata

L’account Instagram della settimana: @craaftcorner, ossia come fare pacchettini di Natale elegantissimi con materiali e tecniche semplici.


La bufala della settimana: Vietato guidare indossando occhiali da sole in Italia? No, falso allarme diffuso su TikTok per acchiappare clic e like (tratto da Bufale.net).


La donna ricordata/dimenticata dalla scienza: Cecilia Payne Gaposchkin (1900-1979), l’astrofisica che dimostrò che il Sole non era composto di ferro ma era per la maggior parte idrogeno, e che nel 1925 fu la prima persona a ottenere un dottorato in astronomia ad Harvard e nel 1956 divenne la prima donna nominata capo del dipartimento di astronomia di Harvard.


Notizia della settimana: Un giovane italiano su tre non è in grado di comprendere correttamente se un’informazione online sia davvero affidabile, secondo il report «Disinformazione a Scuola» realizzato da un team di ricerca guidato da Carlo Martini dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano (Vanity Fair).


L’AIntervista impossibile: Irene Cara. Testi: Claude.ai. Voce: Elevenlabs. Non ho modificato nulla a parte la grafia della parola inglese Fame che altrimenti veniva letta come fame in italiano.

Intervistatore: Irene, guardando indietro alla sua carriera, quale momento considera più significativo per la sua crescita artistica?

Il periodo di ‘Fame’ è stato fondamentale. Ero giovane, piena di energia e determinazione. Quel ruolo racchiudeva tutto ciò che amavo: il canto, la danza, la recitazione. Mi ricordo ancora le lunghe ore di prove, il sudore, la fatica, ma anche l’immensa gioia di vedere come il pubblico si identificava con Coco Hernandez. Quella esperienza mi ha insegnato che il vero talento richiede dedizione totale e che l’arte, in qualsiasi forma, ha il potere di toccare l’anima delle persone.

Intervistatore: Ha dovuto affrontare molte sfide nell’industria musicale, in particolare alcune battaglie legali. Come hanno influenzato la sua vita e la sua arte?

Le battaglie legali per i diritti d’autore sono state devastanti emotivamente, ma mi hanno resa più forte. Ho imparato che il successo nel mondo dello spettacolo non è solo talento, ma anche capacità di proteggere se stessi. Molti giovani artisti ancora oggi affrontano sfide simili. La mia esperienza mi ha insegnato l’importanza di mantenere la propria integrità artistica, anche quando il prezzo da pagare è alto. Ho sempre cercato di essere un esempio per gli artisti più giovani, dimostrando che si può combattere per i propri diritti senza perdere la passione per l’arte.

Intervistatore: Qual è il messaggio che vorrebbe lasciare alle nuove generazioni di artisti?

Il mio messaggio è semplice: credete nel vostro talento ma rimanete umili e continuate a studiare. L’arte è un viaggio continuo di apprendimento. La mia carriera è iniziata da bambina e fino all’ultimo ho continuato a evolvermi come artista. Le mie origini latine, la mia educazione nel Bronx, ogni esperienza ha contribuito a rendermi l’artista che sono diventata. Ricordate che il successo può essere effimero, ma la vera arte nasce dall’anima e dalla dedizione. E soprattutto, non permettete a nessuno di spegnere la vostra luce interiore, quel ‘feeling’ che vi fa brillare.

Podcast RSI – Australia, vietati i social sotto i 16 anni: misura applicabile o teatrino della sicurezza?

Questo è il testo della puntata del 2 dicembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


[CLIP: annuncio del Notiziario RSI del 28/11/2024: “L’Australia sarà il primo paese al mondo a vietare l’accesso ai social media ai giovani sotto i 16 anni…”]

La sperimentazione comincerà tra poche settimane, a gennaio 2025, e da novembre dello stesso anno in Australia nessuno sotto i 16 anni potrà usare legalmente Instagram, X, Snapchat, TikTok e altri social network. In vari paesi del mondo sono allo studio misure analoghe, richieste a gran voce dall’opinione pubblica, e in Svizzera un recente sondaggio rileva che la maggioranza della popolazione nazionale, ben il 78%, è favorevole a limitare a 16 anni l’accesso ai social media. C’è un piccolo problema: nessuno sa come farlo in pratica.

Questa è la storia dell’idea ricorrente di vietare i social network al di sotto di una specifica età e di come quest’idea, a prima vista così pratica e sensata, si è sempre scontrata, prima o poi, con la realtà tecnica che l’ha puntualmente resa impraticabile.

Benvenuti alla puntata del 2 dicembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Il 28 novembre scorso l’Australia ha approvato una legge che imporrà ai grandi nomi dei social network, da Instagram a TikTok, di impedire ai minori di sedici anni di accedere ai loro servizi. Se non lo faranno, rischieranno sanzioni fino a 32 milioni di dollari.

A gennaio inizieranno i test dei metodi che serviranno a far rispettare questa nuova legge, denominata Social Media Minimum Age Bill, e questa sperimentazione sarà osservata con molto interesse dai governi di altri paesi che hanno in cantiere o hanno già varato misure simili ma non così drastiche. La Francia e alcuni stati degli Stati Uniti, per esempio, hanno già in vigore leggi che limitano l’accesso dei minori ai social network senza il permesso dei genitori, ma il divieto australiano non prevede neppure la possibilità del consenso parentale: è un divieto assoluto.

Screenshot della pagina ufficiale di presentazione della legge australiana SMMA.

La nuova legge australiana prevede un elenco di buoni e di cattivi: non si applicherà ai servizi di messaggistica, come Facebook Messenger o WhatsApp, e includerà delle eccezioni specifiche per YouTube o Google Classroom, che vengono usati a scopo educativo. I cattivi, invece, includono TikTok, Facebook, Snapchat, Instagram, X e Reddit.

Questa legge vieta specificamente ai minori di sedici anni di avere un account su questi servizi, ma non di consultarli: per esempio, secondo il documento esplicativo che la accompagna i minori sarebbero ancora in grado di vedere i video di YouTube senza però poter essere iscritti a YouTube o avervi un account, e potrebbero ancora vedere alcune pagine di Facebook ma senza essere iscritti a questa piattaforma. La ragione di questa scelta apparentemente complicata è che non avere un account eliminerebbe il problema dello “stress da notifica”, ossia i disturbi del sonno e dell’attenzione causati dalle notifiche social che arrivano in continuazione.

Non sono però previste sanzioni per i minori che dovessero tentare di eludere il divieto e quindi aprire lo stesso un account sulle piattaforme soggette a restrizione. Le penalità riguardano soltanto le piattaforme, e comunque va notato che anche l’importo massimo delle sanzioni che le riguarderebbero ammonta per esempio a un paio d’ore del fatturato annuale di Meta, che possiede Facebook, Instagram e WhatsApp e che nel 2023 ha incassato quasi 135 miliardi di dollari.

In altre parole, se i social network dovessero decidere di non rispettare questa legge australiana, le conseguenze per loro sarebbero trascurabili. Se i giovani australiani dovessero decidere di fare altrettanto, le conseguenze per loro sarebbero addirittura inesistenti.

Le intenzioni sembrano buone, perché il governo australiano nota che nel paese “quasi i due terzi degli australiani fra i 14 e i 17 anni ha visto online contenuti estremamente dannosi, compresi l’abuso di farmaci, il suicidio o l’autolesionismo, oltre a materiale violento,” come ha dichiarato il ministro delle comunicazioni australiano Michelle Rowland. Ma questa legge, con le sue sanzioni blande o addirittura inesistenti, ha le caratteristiche tipiche di quello che gli esperti informatici chiamano “teatrino della sicurezza” o security theater: un provvedimento che dà l’impressione e la sensazione confortante di una maggiore sicurezza, ma fa poco o nulla per fornirla davvero.

Questo Social Media Minimum Age Bill non produce effetti formali, però può avere un effetto sociale importante: può essere un aiuto per i genitori, che a quel punto potranno rifiutare con più efficacia la richiesta dei figli di accedere ai social network in età sempre più precoce, perché potranno appoggiarsi al fatto che questo accesso è illegale e non è più una proibizione arbitraria scelta da loro. A patto, però, che ci sia un modo efficace per far valere questo divieto. Ed è qui che sta il problema.


La legge australiana parla infatti genericamente di “un obbligo dei fornitori di una piattaforma di social media soggetta a restrizioni di età di prendere misure ragionevoli per prevenire che gli utenti soggetti a restrizioni di età possano avere un account sulla piattaforma”. Ma non dice assolutamente nulla su come si debbano realizzare concretamente queste “misure ragionevoli”.

Anzi, la legge approvata prevede esplicitamente che gli utenti non siano obbligati a fornire dati personali, compresi quelli dei documenti di identità, e quindi si pone un problema molto serio: come si verifica online l’età di una persona, se non le si può nemmeno chiedere un documento?

Ci sono varie tecniche possibili: una è il riconoscimento facciale, che grazie all’intelligenza artificiale è in grado di stimare abbastanza affidabilmente l‘età di una persona in base alla forma del viso, alla consistenza della pelle o alle proporzioni del corpo.*

* Questa tecnologia viene già usata da Facebook, OnlyFans, SuperAwesome di Epic Games e altri siti. Ha il notevole vantaggio di rispettare la privacy, perché non chiede di fornire documenti o di dare il nome della persona. Non identifica la persona ma si limita a stimarne l’età, e una volta fatta la stima l‘immagine della persona può essere cancellata. Non richiedendo documenti, non dissemina tutti i dati di contorno presenti su un documento di identità o su una carta di credito, ed è più inclusiva, visto che oltre un miliardo di persone nel mondo (e una persona su cinque nel Regno Unito) non ha documenti di identità.

Un’altra è la verifica sociale, ossia la valutazione di quante connessioni e interazioni con adulti ha un utente e di come è fatta la sua cronologia social. Una terza è l’obbligo di fornire i dati di una carta di credito per iscriversi, presumendo che solo una persona che ha più di 16 anni possa normalmente avere accesso a una carta.

Nessuno di questi metodi è perfetto, e il legislatore australiano ne tiene conto sin da subito, dichiarando che si aspetta che qualche minore riesca a eludere queste restrizioni e questi controlli. Ma ciascun metodo ha un costo operativo non trascurabile e comporta delle possibilità di errore che rischiano di colpire soprattutto le persone particolarmente vulnerabili, come ha notato Amnesty International, dichiarando inoltre che “un divieto che isola le persone giovani non soddisferà l’obiettivo del governo di migliorare le vite dei giovani”.

Ben 140 esperti hanno sottoscritto una lettera aperta che manifesta la loro preoccupazione per l’uso di uno strumento definito “troppo grossolano per affrontare efficacemente i rischi” e che “crea rischi maggiori per i minori che continueranno a usare le piattaforme” e ha “effetti sul diritto di accesso e di partecipazione”.

I social network coinvolti, da parte loro, si sono dichiarati contrari a questa legge ma disposti a rispettarla. Meta, per esempio, ha detto di essere “preoccupata a proposito del procedimento che ha approvato in fretta e furia la legge senza considerare correttamente le evidenze, quello che il settore già fa per garantire esperienze adatte all’età, e le voci delle persone giovani”. Parole che suonano un po’ vuote per chi ha esperienza di Instagram o Facebook e sa quanto è invece facile subire esperienze decisamente non adatte all’età. Per non parlare poi di X, il social network noto un tempo come Twitter, che ospita contenuti pornografici estremi e di violenza e li rende facilmente accessibili semplicemente cambiando una singola impostazione nell’app.

L’opinione pubblica australiana è fortemente a favore del divieto, sostenuto dal 77% dei partecipanti a un sondaggio di YouGov. In Svizzera, praticamente la stessa percentuale, il 78%, ha risposto “sì” o “piuttosto sì” a un sondaggio pubblicato da Tamedia sull’ipotesi di limitare a 16 anni l‘accesso a certi social network.

Però il modo in cui funziona la tecnologia non si cambia a suon di leggi o sondaggi.


Per esempio, anche se nel caso dell’Australia la geografia aiuta, non è corretto pensare che un provvedimento nazionale risolva il problema. I social network sono entità transnazionali e non rispettano frontiere e barriere. Che si fa con i turisti, giusto per ipotizzare uno dei tanti scenari che la legge non sembra aver considerato? Chi arriverà in Australia per vacanza con un minore dovrà dirgli di non usare i social network per tutto il tempo della vacanza? Gli account social dei minori in visita verranno bloccati automaticamente?

Nulla impedisce, poi, a un minore di installare una VPN e simulare di trovarsi al di fuori dell’Australia. E ci sono tanti altri social network e tante piattaforme di scambio messaggi che non saranno soggetti alle restrizioni di questa legge: in altre parole, il rischio di queste misure decise di pancia, senza considerare gli aspetti tecnici, è che i giovani vengano involontariamente invogliati a usare servizi social ancora meno monitorati rispetto a TikTok, Facebook e Instagram, o semplicemente usino account su queste piattaforme offerti a loro da maggiorenni compiacenti. Il mercato nero degli account social altrui rischia insomma di essere potenziato.

Dunque questa legge australiana ha l’aria di essere più una mossa elettorale, una ricerca di consensi, un teatrino della sicurezza che una misura realmente utile a proteggere i giovani dai pericoli indiscussi dell’abuso dei social media.

Se si volesse davvero impedire concretamente l’accesso ai social network ai minori, o perlomeno renderlo estremamente difficile, un modo forse ci sarebbe. Invece di cercare di appioppare la patata bollente ai fornitori dei social network dando oro vaghe istruzioni, si potrebbe proibire l’uso degli smartphone da parte dei minori. Questo uso, soprattutto in pubblico ma anche in famiglia, è facilmente verificabile, perché lo smartphone è un oggetto tangibile e riconoscibile. Ma stranamente nessun governo osa proporre soluzioni di questo genere, che sarebbero estremamente impopolari.

Chi sta seguendo con interesse questo esperimento sociale australiano nella speranza di trarne delle lezioni applicabili altrove si troverà molto probabilmente in collisione con la realtà. Nel 2017, il primo ministro australiano di allora, Malcolm Turnbull, propose una nuova legge per obbligare le aziende del settore informatico a dare ai servizi di sicurezza pieno accesso ai messaggi protetti dalla crittografia, come per esempio quelli di WhatsApp. Gli esperti obiettarono che questa crittografia funziona sulla base di concetti matematici molto complessi, che sono quelli che sono e non sono modificabili a piacere.

Malcolm Turnbull, il primo ministro, rispose pubblicamente che “Le leggi della matematica sono lodevoli, ma l’unica legge che vige in Australia è la legge australiana” [“The laws of mathematics are very commendable, but the only law that applies in Australia is the law of Australia”]. Se è questo il livello di comprensione della tecnologia da parte dei politici, è il caso di aspettarsi altri teatrini della sicurezza dai quali si potrà solo imparare come esempi di cose da non fare e da non imitare.

Fonti

Social media reforms to protect our kids online pass Parliament, Pm.gov.au, (2024)

L’Australia è il primo Paese a vietare i social agli under 16, Rsi.ch (2024)

Social dai 16 anni, d’accordo la maggioranza della popolazione, Rsi.ch (2024)

Australia passes social media ban for children under 16, Reuters (2024)

Labor has passed its proposed social media ban for under-16s. Here’s what we know – and what we don’t, The Guardian (2024)

Australia passes world-first law banning under-16s from social media despite safety concerns, The Guardian (2024)

How facial age estimation is creating age-appropriate experiences, Think.Digital Partners (2023)

How facial age-estimation tech can help protect children’s privacy for COPPA and beyond, Iapp.org (2023)

UK open to social media ban for kids as government kicks off feasibility study, TechCrunch (2024)

Bill to ban social media use by under-16s arrives in Australia’s parliament, TechCrunch (2024)

Laws of mathematics don’t apply here, says Australian PM, New Scientist (2017)

Niente Panico RSI – Puntata del 2024/12/02

Con colpevole ritardo pubblico qui la registrazione scaricabile della puntata di lunedì scorso di Niente Panico, il programma che conduco in diretta insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. La trasmissione è riascoltabile qui sul sito della RSI oppure nell’embed qui sotto. La raccolta completa delle puntate è presso attivissimo.me/np.

I temi della puntata

L’account Instagram della settimana: @benzank e le sue foto surreali.


La bufala della settimana: Elon Musk trova sull’autobus una bambina che si era persa, la ricongiunge con la madre e regala alle due una casa. Un caso di fake news fabbricato usando l’intelligenza artificiale per guadagnare clic e denaro (tratto da Snopes.com).


Una donna poco conosciuta ma di cui tutti conosciamo le opere: Cos’hanno in comune September degli Earth, Wind & Fire e la sigla di Friends? La paroliera, Allee Willis.


L’intervista (stavolta non generata con l’IA): due parole con il creatore e studioso di cerchi nel grano, Francesco Grassi.

Podcast RSI – Temu, quanto è insicura la sua app? L’analisi degli esperti svizzeri

Questo è il testo della puntata del 9 dicembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


[CLIP: spot di Temu in italiano]

Da tempo circolano voci e dicerie allarmistiche a proposito dell’app di Temu, il popolarissimo negozio online. Ora una nuova analisi tecnica svizzera fa chiarezza: sì, in questa app ci sono delle “anomalie tecniche” che andrebbero chiarite e la prudenza è quindi raccomandata. Ma i fan dello shopping online possono stare abbastanza tranquilli, se prendono delle semplici precauzioni.

Benvenuti alla puntata del 9 dicembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. In questa puntata vediamo cos’è Temu, cosa è accusata di fare in dettaglio, e cosa si può fare per rimediare. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


La popolarità del negozio online cinese Temu anche in Svizzera è indiscussa: la sua app è una delle più scaricate in assoluto negli app store di Google e di Apple, e le testate nazionali [Blick] parlano di mezzo milione di pacchetti in arrivo dall’Asia ogni giorno all’aeroporto di Zurigo, spediti principalmente dai colossi cinesi dell’e-commerce come Shein e, appunto, Temu.

Prevengo subito i dubbi sulla mia pronuncia di questi nomi: ho adottato quella usata dalle rispettive aziende, che non è necessariamente quella usata comunemente [pronuncia di Shein; deriva dal nome originale del sito, che era She Inside].

Ma se si immette in Google “temu app pericolosa” emergono molte pagine Web, anche di testate autorevoli, che parlano di questa popolare app in termini piuttosto preoccupanti, con parole tipo “spyware” e “malware”. Molte di queste pagine fondano i propri allarmi su una ricerca pubblicata dalla società statunitense Grizzly Research a settembre del 2023, che dice senza tanti giri di parole che l’app del negozio online cinese Temu sarebbe uno “spyware astutamente nascosto che costituisce una minaccia di sicurezza urgente” e sarebbe anche “il pacchetto di malware e spyware più pericoloso attualmente in circolazione estesa”.

Screenshot dal sito di Grizzly Research

Parole piuttosto pesanti. Online, però, si trovano anche dichiarazioni contrarie ben più rassicuranti.

A fare chiarezza finalmente su come stiano effettivamente le cose arriva ora un’analisi tecnica redatta dall’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza NTC, un’associazione senza scopo di lucro con sede a Zugo [video; l’acronimo NTC deriva dal tedesco Nationales Testinstitut für Cybersicherheit]. Secondo questa analisi [in inglese], l’app Temu ha delle “anomalie tecniche insolite” che vanno capite per poter valutare cosa fare.

La copertina dell’analisi dell’NTC

La prima anomalia descritta dai ricercatori dell’NTC è il cosiddetto “caricamento dinamico di codice in runtime proprietario”. Traduco subito: siamo abituati a pensare alle app come dei programmi che una volta scaricati e installati non cambiano, almeno fino a che decidiamo di scaricarne una nuova versione aggiornata. L’app di Temu, invece, è capace di modificarsi da sola, senza passare dal meccanismo degli aggiornamenti da scaricare da un app store. Questo vuol dire che può eludere i controlli di sicurezza degli app store e che può scaricare delle modifiche dal sito di Temu senza alcun intervento dell’utente, e questo le consente di adattare il suo comportamento in base a condizioni specifiche, come per esempio la localizzazione. L’esempio fatto dai ricercatori è sottilmente inquietante: un’app fatta in questo modo potrebbe comportarsi in modo differente, per esempio, solo quando il telefono si trova dentro il Palazzo federale a Berna oppure in una base militare e non ci sarebbe modo di notarlo.

Questo è il significato di “caricamento dinamico di codice”, e va detto che di per sé questo comportamento dell’app di Temu non è sospetto: anche altre app funzionano in modo analogo. Quello che invece è sospetto, secondo i ricercatori dell’NTC, è che questo comportamento si appoggi a un componente software, in gergo tecnico un cosiddetto “ambiente di runtime JavaScript”, che è di tipo sconosciuto, ossia non è mai stato visto in altre app, ed è proprietario, ossia appartiene specificamente all’azienda, invece di essere un componente standard conosciuto. È strano che un’azienda dedichi risorse alla creazione di un componente che esiste già ed è liberamente utilizzabile.

La seconda anomalia documentata dal rapporto tecnico dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza è l’uso di livelli aggiuntivi di crittografia. Anche qui, in sé l’uso della crittografia per migliorare la protezione dei dati è un comportamento diffusissimo e anzi lodevole, se serve per impedire che le informazioni personali degli utenti vengano intercettate mentre viaggiano via Internet per raggiungere il sito del negozio online. Ma nell’app di Temu la crittografia viene usata anche per “identificare in modo univoco gli utenti che non hanno un account Temu”. E viene adoperata anche per un’altra cosa: per sapere se il dispositivo sul quale sta funzionando l’app è stato modificato per consentire test e analisi. Questo vuol dire che l’app potrebbe comportarsi bene quando si accorge che viene ispezionata dagli esperti e comportarsi… diversamente sugli smartphone degli utenti.

Anche queste, però, sono cose che fanno anche altre app, senza necessariamente avere secondi fini.


C’è però un altro livello aggiuntivo di crittografia che i ricercatori non sono riusciti a decifrare: un pacchettino di dati cifrati che non si sa cosa contenga e che viene mandato a Temu. E a tutto questo si aggiunge il fatto che l’app può chiedere la geolocalizzazione esatta dell’utente, non quella approssimativa, e lo può fare in vari modi.

In sé queste caratteristiche non rappresentano una prova di comportamento ostile e potrebbero essere presenti per ragioni legittime, come lo sono anche in altre app. Ma sono anche le caratteristiche tipiche che si usano per le app che fanno sorveglianza di massa nascosta, ossia sono spyware. Di fatto queste caratteristiche rendono impossibile anche per gli esperti dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza determinare se l’app Temu sia pericolosa oppure no.

Ma allora come mai i ricercatori di Grizzly Research sono stati invece così categorici? L’analisi tecnica svizzera spiega che Grizzly non è un’azienda dedicata alla sicurezza informatica, ma è una società che si occupa di investimenti finanziari e “ha un interesse economico nel far scendere le quotazioni di borsa e quindi non è neutrale”.

I ricercatori svizzeri, tuttavia, non possono scagionare completamente l’app di Temu proprio perché manca la trasparenza. Fatta come è attualmente, questa app potrebbe (e sottolineo il potrebbe) “contenere funzioni nascoste di sorveglianza che vengono attivate solo in certe condizioni (per esempio in certi luoghi o certi orari)” e non sarebbe possibile accorgersene. L’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza nota inoltre che Temu e la società che la gestisce, la PDD, sono soggette al diritto cinese, che non garantisce una protezione adeguata dei dati degli utenti dal punto di vista europeo, e aggiunge che “le agenzie governative in Cina hanno accesso facilitato ai dati personali e le aziende vengono spesso obbligate a condividere dati con queste agenzie”.

Un’app che ha tutte le caratteristiche tecniche ideali per farla diventare uno strumento di sorveglianza di massa e appartiene a un’azienda soggetta a un governo che non offre le garanzie di protezione dei dati personali alle quali siamo abituati non è un’app che rassicura particolarmente. Ma non ci sono prove di comportamenti sospetti.

Per questo i ricercatori svizzeri sono arrivati a una raccomandazione: in base a un principio di prudenza, è opportuno valutare con attenzione se installare Temu in certe circostanze, per esempio su smartphone aziendali o governativi o di individui particolarmente vulnerabili, e tutti gli utenti dovrebbero fare attenzione ai permessi richiesti ogni volta durante l’uso dell’app, per esempio la geolocalizzazione o l’uso della fotocamera, e dovrebbero tenere costantemente aggiornati i sistemi operativi dei propri dispositivi.

Tutto questo può sembrare davvero troppo complicato per l’utente comune che vuole solo fare shopping, ma per fortuna i ricercatori dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza hanno una soluzione più semplice e al tempo stesso sicura.


Se siete preoccupati per il rischio tecnicamente plausibile di essere spiati da Temu o da app analoghe, soprattutto se vivete o lavorate in ambienti sensibili, i ricercatori svizzeri propongono una scelta facile e a costo zero: invece di usare l’app di Temu, accedete al sito di Temu usando il browser del telefono o del tablet o del computer. Questo vi permette di avere maggiore controllo, riduce la superficie di attacco disponibile per eventuali abusi, e riduce drasticamente gli appigli tecnici che consentirebbero un’eventuale sorveglianza di massa.

C’è invece un altro aspetto di sicurezza, molto concreto, che emerge da altre indagini tecniche svolte su Temu e sulla sua app: il rischio di furto di account. È altamente consigliabile attivare l’autenticazione a due fattori, che Temu ha introdotto a dicembre 2023, oltre a scegliere una password robusta e complessa. Questa misura antifurto si attiva andando nelle impostazioni di sicurezza dell’app e scegliendo se si vuole ricevere un codice di verifica via SMS oppure immettere un codice generato localmente dall’app di autenticazione, quando ci si collega al sito. Temu è un po’ carente sul versante sicurezza: secondo i test di Altroconsumo, quando un utente si registra su Temu non gli viene chiesto di scegliere una password sicura e robusta. Gli sperimentatori hanno immesso come password “1234” e Temu l’ha accettata senza batter ciglio.

Questa è insomma la situazione: nessuna prova, molti sospetti, un’architettura che si presterebbe molto bene ad abusi, e una dipendenza da leggi inadeguate ai nostri standard di riservatezza. Ma la soluzione c’è: usare un browser al posto dell’app. Gli esperti dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza non hanno invece soluzioni per un altro problema dei negozi online: la scarsissima qualità, e in alcuni casi la pericolosità, dei prodotti offerti. Giocattoli con pezzi piccoli che potrebbero portare al soffocamento, assenza di istruzioni in italiano, mancanza delle omologazioni di sicurezza previste dalle leggi, assenza di elenco degli ingredienti dei cosmetici e imballaggi difficilissimi da smaltire sono fra i problemi più frequentemente segnalati.

Forse questo, più di ogni dubbio sulla sicurezza informatica, è un buon motivo per diffidare di questi negozi online a prezzi stracciati.

Fonti aggiuntive

Comunicato stampa dell’Istituto Nazionale di test per la cibersicurezza NTC (in italiano), 5 dicembre 2024

Un istituto di prova indipendente aumenta la sicurezza informatica nazionale in Svizzera, M-Q.ch (2022)

Temu da… temere – Puntata di Patti Chiari del 18 ottobre 2024

People only just learning correct way to pronounce Shein – it’s not what you think, Manchester Evening News, 2024

Temu è uno spyware? Cosa c’è di vero nelle ipotesi di Grizzly Research – Agenda Digitale (2023)

Niente Panico RSI – Puntata del 2024/12/09

Ieri alle 9 è andata in onda una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. La trasmissione è riascoltabile qui oppure nell’embed qui sotto. Le puntate sono elencate presso attivissimo.me/np.

I temi della puntata

Abbiamo dedicato l’intera puntata a raccontare chicche poco conosciute e aneddoti della vita e del curriculum di Elon Musk.

Niente Panico RSI – Puntata del 2024/12/16

Lunedì mattina è andata in onda una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. La trasmissione è riascoltabile sul sito della RSI e nell’embed qui sotto; la raccolta completa delle puntate è presso attivissimo.me/np.

L’Instagram della settimana è @focusart80, artista digitale che usa l’intelligenza artificiale e altre tecniche di elaborazione delle immagini per creare persone e scenari surreali. Abbiamo parlato di concerti in realtà virtuale, da Travis Scott ad Ariana Grande, di unboxing e di fare soldi con Twitch. La AI-intervista ha avuto come ospite (ovviamente sintetico) Vasilij Kandinskij.

Questa è l’ultima puntata di Niente Panico per il 2024; il programma tornerà il 7 gennaio prossimo, per una sola volta di martedì, e poi riprenderà il suo orario abituale del lunedì alle 9 su Rete Tre.

Podcast RSI – Google Maps diventa meno ficcanaso

Questo è il testo della puntata del 23 dicembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS. Il podcast riprenderà il 13 gennaio 2025.


Se avete ricevuto una strana mail che sembra provenire da Google e che parla di “spostamenti” e “cronologia delle posizioni” ma non avete idea di cosa voglia dire, siete nel posto giusto per levarvi il dubbio e capire se e quanto siete stati pedinati meticolosamente da Google per anni: siete nella puntata del 23 dicembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica, e dedicato in questo caso agli importanti cambiamenti della popolarissima app Google Maps. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Se siete fra i tantissimi utenti che hanno installato e usano Google Maps sullo smartphone, forse non vi siete mai accorti che questa utilissima app non vi dice soltanto dove siete e dove si trovano i punti di interesse intorno a voi, ma si ricorda ogni vostro spostamento sin da quando l’avete installata, anche quando le app di Google non sono in uso. In altre parole, Google sa dove siete stati, minuto per minuto, giorno per giorno, e lo sa molto spesso per anni di fila.

Infatti se andate nell’app e toccate l’icona del vostro profilo, compare un menu che include la voce Spostamenti. Toccando questa voce di menu compare un calendario con una dettagliatissima cronologia di tutti i vostri spostamenti, che include gli orari di partenza e di arrivo e anche il mezzo di trasporto che avete usato: bici, auto, nave, treno, aereo, piedi.

Google infatti usa i sensori del telefono per dedurre la vostra posizione: non solo il tradizionale GPS, che funziona solo all’aperto, ma anche il Wi-Fi e il Bluetooth, che permettono il tracciamento della posizione anche al coperto. Anche se non vi collegate a una rete Wi-Fi mentre siete in giro, Google Maps fa una scansione continua delle reti Wi-Fi presenti nelle vicinanze e confronta i loro nomi con una immensa mappa digitale, costantemente aggiornata, delle reti Wi-Fi in tutto il mondo. Se trova una corrispondenza, deduce che siete vicini a quella rete e quindi sa dove vi trovate, anche al chiuso.

Moltissime persone non sono a conoscenza di questo tracciamento di massa fatto da Google. Quando vado nelle scuole a presentare agli studenti le questioni di sicurezza e privacy informatica, mostrare a uno specifico studente la sua cronologia degli spostamenti archiviata da Google per anni è una delle dimostrazioni più efficaci e convincenti della necessità di chiedersi sempre quali dati vengono raccolti su di noi e come vengono usati. Sposta immediatamente la conversazione dal tipico “Eh, ma quante paranoie” a un più concreto “Come faccio a spegnerla?”

Disattivare il GPS non basta, perché Maps usa appunto anche il Wi-Fi per localizzare il telefono e quindi il suo utente. Bisognerebbe disattivare anche Wi-Fi e Bluetooth, ma a quel punto lo smartphone non sarebbe più uno smartphone, perché perderebbe tutti i servizi basati sulla localizzazione, dal navigatore alla ricerca del ristorante o Bancomat più vicino, e qualsiasi dispositivo Bluetooth, come cuffie, auricolari o smartwatch, cesserebbe di comunicare. Si potrebbe disabilitare GPS, Bluetooth e Wi-Fi solo per Maps, andando nei permessi dell’app, ma è complicato e molti utenti non sanno come fare e quindi rischiano di disabilitare troppi servizi e trovarsi con un telefono che non funziona più correttamente.

Maps permette di cancellare questa cronologia, per un giorno specifico oppure integralmente, ma anche in questo caso viene il dubbio: e se un domani ci servisse sapere dove eravamo in un certo giorno a una certa ora? Per esempio per catalogare le foto delle vacanze oppure per dimostrare a un partner sospettoso dove ci trovavamo e a che ora siamo partiti e arrivati? Non ridete: ci sono persone che lo fanno. Lo so perché le incontro per lavoro. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, sbarazzarsi di questo Grande Fratello non è facile. Ma ora è arrivata una soluzione alternativa, ed è questo il motivo della mail di Google.


Il titolo della mail firmata Google, nella versione italiana, è “Vuoi conservare i tuoi Spostamenti? Decidi entro il giorno 18 maggio 2025”, e il messaggio di solito arriva effettivamente da Google, anche se è probabile che i soliti sciacalli e truffatori della Rete invieranno mail false molto simili per cercare di ingannare gli utenti, per cui conviene comunque evitare di cliccare sui link presenti nella mail di avviso e andare direttamente alle pagine di Google dedicate a questo cambiamento; le trovate indicate su Attivissimo.me.

La prima buona notizia è che se siete sicuri di non voler conservare questa cronologia dei vostri spostamenti, è sufficiente non fare nulla: i dati e le impostazioni degli Spostamenti verranno disattivati automaticamente dopo il 18 maggio 2025 e Google smetterà di tracciarvi, perlomeno in questo modo.

Se invece volete conservare in tutto o in parte questa cronologia, dovete agire, e qui le cose si fanno complicate. Il grosso cambiamento, infatti, è che i dati della cronologia degli spostamenti non verranno più salvati sui server di Google ma verranno registrati localmente sul vostro telefono, in maniera molto meno invadente rispetto alla situazione attuale.

Per contro, Google avvisa che dopo il 18 maggio, se non rinunciate alla cronologia, i dati sui vostri spostamenti verranno raccolti da tutti i dispositivi che avete associato al vostro account Google, quindi non solo dal vostro telefono ma anche da eventuali tablet o computer o altri smartphone, e verranno raccolti anche se avevate disattivato la registrazione degli spostamenti su questi altri dispositivi.

Un’altra novità importante è che la cronologia degli spostamenti non sarà più disponibile nei browser Web, ma sarà accessibile soltanto tramite l’app Google Maps e soltanto sul telefono o altro dispositivo sul quale avete scelto di salvare la copia locale della cronologia.

La procedura di cambiamento di queste impostazioni di Google Maps è semplice e veloce ed è usabile anche subito, senza aspettare maggio del 2025. Con pochi clic si scelgono le preferenze desiderate e non ci si deve pensare più. Se si cambia idea in futuro, si possono sempre cambiare le proprie scelte andando a myactivity.google.com/activitycontrols oppure entrare nell’app Google Maps e scegliere il menu Spostamenti. I dati scaricati localmente, fra l’altro, occupano pochissimo spazio: la mia cronologia degli spostamenti, che copre anni di viaggi, occupa in tutto meno di tre megabyte.

Resta un ultimo problema: se i dati della cronologia degli spostamenti vi servono e d’ora in poi verranno salvati localmente sul vostro telefono, come farete quando avrete bisogno di cambiare smartphone? Semplice: Google offre la possibilità di fare un backup automatico dei dati, che viene salvato sui server di Google e può essere quindi importato quando si cambia telefono.

Ma allora siamo tornati al punto di partenza e i dati della cronologia restano comunque a disposizione di Google? No, perché il backup è protetto dalla crittografia e Google non può leggerne il contenuto, come descritto nelle istruzioni di backup fornite dall’azienda.


Resta solo da capire cosa fa esattamente Google con i dati di localizzazione di milioni di utenti. Sul versante positivo, questi dati permettono di offrire vari servizi di emergenza, per esempio comunicando ai soccorritori dove vi trovate. Se andate a correre e usate lo smartphone o smartwatch per misurare le vostre prestazioni, la localizzazione permette di tracciare il vostro chilometraggio. Se cercate informazioni meteo o sul traffico, la localizzazione consente di darvi più rapidamente i risultati che riguardano la zona dove vi trovate. Se smarrite il vostro telefono, questi dati permettono di trovarlo più facilmente. E se qualcuno accede al vostro account senza il vostro permesso, probabilmente lo fa da un luogo diverso da quelli che frequentate abitualmente, e quindi Google può insospettirsi e segnalarvi la situazione anomala.

Sul versante meno positivo, le informazioni di localizzazione permettono a Google di mostrarvi annunci più pertinenti, per esempio i negozi di scarpe nella vostra zona se avete cercato informazioni sulle scarpe in Google. In dettaglio, Google usa non solo i dati di posizione, ma anche l’indirizzo IP, le attività precedenti, l’indirizzo di casa e di lavoro che avete memorizzato nel vostro account Google, il fuso orario del browser, i contenuti e la lingua della pagina visitata, il tipo di browser e altro ancora. Tutti questi dati sono disattivabili, ma la procedura è particolarmente complessa.

Non stupitevi, insomma, se il vostro smartphone a volte vi offre informazioni o annunci così inquietantemente azzeccati e pertinenti da farvi sospettare che il telefono ascolti le vostre conversazioni. Google non lo fa, anche perché con tutti questi dati di contorno non gli servirebbe a nulla farlo. E se proprio non volete essere tracciati per qualunque motivo, c’è sempre l’opzione semplice e pratica di lasciare il telefono a casa o portarlo con sé spento.

Usare Google senza esserne usati è insomma possibile, ma servono utenti informati e motivati, non cliccatori passivi. Se sono riuscito a darvi le informazioni giuste per decidere e per motivarvi, questo podcast ha raggiunto il suo scopo. E adesso vado subito anch’io a salvare la mia cronologia degli spostamenti.

Niente Panico RSI – Puntata del 2025/01/07

È andata in onda stamattina alle 9 una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. La trasmissione è riascoltabile presso www.rsi.ch/rete-tre/programmi/intrattenimento/serotonina oppure nell’embed qui sotto.

Lo streaming in diretta della Rete Tre è presso www.rsi.ch/audio/rete-tre/live; la raccolta completa delle puntate è presso Attivissimo.me/np.

Niente Panico RSI – Puntata del 2025/01/13

Di questa puntata, andata in onda in diretta il 13 gennaio dalle 9 alle 10 come consueto, non è disponibile la registrazione. Questi sono i suoi temi:

  • Anniversario del debutto a fumetti del personaggio di Topolino (Mickey Mouse) nel 1933, nel Mickey Mouse Magazine.
  • Character.ai, un sito che propone conversazioni con personaggi virtuali generati dall’intelligenza artificiale, è accusato negli Stati Uniti di aver incoraggiato un minore a suicidarsi e di aver suggerito a un altro minore di uccidere i propri genitori (CBS News), mentre nel Regno Unito suscita scalpore e indignazione la scoperta che include fra i propri personaggi dei minori realmente esistiti che si sono tolti la vita o sono stati uccisi (BBC News).
  • Come indagare sull’attendibilità di un sito, in questo caso Kidscasting.com, che sembra occuparsi di trovare lavoro nel mondo del cinema e della TV per attori bambini (https://www.instagram.com/kidscastingcom).
  • Le case londinesi che sono in realtà soltanto facciate finte: stanno a Bayswater, sono state “create” dalla costruzione della metropolitana a cielo aperto a metà dell’Ottocento, e sono state usate in alcune scene della serie TV Sherlock.
  • Per la AI-intervista impossibile, Emile Zola e il suo celebre “J’accuse”.

Podcast RSI – Davvero la scienza dice che “il fact-checking non funziona”?

Questo è il testo della puntata del 13 gennaio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


Pochi giorni fa Meta ha annunciato che chiuderà il proprio programma di fact-checking gestito tramite esperti esterni e lo sostituirà con le cosiddette Community notes, ossia delle annotazioni redatte dagli stessi utenti dei suoi social network, come ha già fatto la piattaforma concorrente X di Elon Musk.

Questa decisione, che per citare un titolo del Corriere della Sera è stata vista come una “resa definitiva a Trump (e Musk)”, ha rianimato la discussione su come contrastare la disinformazione. Walter Quattrociocchi, professore ordinario dell’Università La Sapienza di Roma, ha dichiarato che “Il fact-checking è stato un fallimento, ma nessuno vuole dirlo”, aggiungendo che “[l]a comunità scientifica lo aveva già dimostrato”. Queste sono sue parole in un articolo a sua firma pubblicato sullo stesso Corriere.

Detta così, sembra una dichiarazione di resa incondizionata della realtà, travolta e sostituita dai cosiddetti “fatti alternativi” e dai deliri cospirazionisti. Sembra un’ammissione che non ci sia nulla che si possa fare per contrastare la marea montante di notizie false, di immagini fabbricate con l’intelligenza artificiale, di propaganda alimentata da interessi economici o politici, di tesi di complotto sempre più bizzarre su ogni possibile argomento. I fatti hanno perso e le fandonie hanno vinto.

Se mi concedete di portare per un momento la questione sul piano personale, sembra insomma che la scienza dica che il mio lavoro di “cacciatore di bufale” sia una inutile perdita di tempo, e più in generale lo sia anche quello dei miei tanti colleghi che fanno debunking, ossia verificano le affermazioni che circolano sui social network e nei media in generale e le confermano o smentiscono sulla base dei fatti accertati.

È veramente così? Difendere i fatti è davvero fatica sprecata? Ragioniamoci su in questa puntata, datata 13 gennaio 2025, del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Nel suo annuncio pubblico, Mark Zuckerberg ha spiegato che il programma di fact-checking lanciato nel 2016 dalla sua piattaforma e basato su organizzazioni indipendenti specializzate in verifica dei fatti voleva dare agli utenti “più informazioni su quello che vedono online, in particolare sulle notizie false virali, in modo che potessero giudicare da soli quello che vedevano e leggevano”, scrive Zuckerberg.

Ma a suo dire questo approccio non ha funzionato perché anche gli esperti, dice, “come tutte le persone, hanno i propri pregiudizi e i propri punti di vista”, e quindi è giunto il momento di sostituire gli esperti esterni con gli utenti dei social network. Saranno loro, dice Zuckerberg, a “decidere quando i post sono potenzialmente ingannevoli e richiedono più contesto”, e saranno “persone che hanno una vasta gamma di punti di vista” a “decidere quale tipo di contesto è utile che gli altri utenti vedano”.

Zuckerberg non spiega, però, in che modo affidare la valutazione delle notizie agli utenti farà magicamente azzerare quei pregiudizi e quei punti di vista di cui parlava. In fin dei conti, gli utenti valutatori saranno un gruppo che si autoselezionerà invece di essere scelto in base a criteri di competenza. Anzi, l’autoselezione è già cominciata, perché Zuckerberg ha già pubblicato i link per iscriversi alla lista d’attesa per diventare valutatori su Facebook, Instagram e Threads. Mi sono iscritto anch’io per vedere dall’interno come funzionerà questa novità e raccontarvela.

Invece le Linee guida della community, ossia le regole di comportamento degli utenti di Meta, sono già state riscritte per togliere molte restrizioni sui discorsi d’odio, aggiungendo specificamente che dal 7 gennaio scorso sono consentite per esempio le accuse di malattia mentale o anormalità basate sul genere o l’orientamento sessuale* ed è accettabile paragonare le donne a oggetti e le persone di colore ad attrezzi agricoli oppure negare l’esistenza di una categoria di persone o chiedere l’espulsione di certi gruppi di individui.**

* Il 10 gennaio, Meta ha eliminato da Messenger i temi Pride e Non-Binary che aveva introdotto con così tanta enfasi rispettivamente 2021 e nel 2022 [404 media; Platformer.news]. Intanto Mark Lemley, avvocato per le questioni di copyright e intelligenza artificiale di Meta, ha troncato i rapporti con l’azienda, scrivendo su LinkedIn che Zuckerberg e Facebook sono in preda a “mascolinità tossica e pazzia neonazista”.

** Confesso che nel preparare il testo di questo podcast non sono riuscito a trovare parole giornalisticamente equilibrate per definire lo squallore infinito di un‘azienda che decide intenzionalmente di riscrivere le proprie regole per consentire queste specifiche forme di odio. E così ho contenuto sia il conato che la rabbia, e ho deciso di lasciare che le parole di Meta parlassero da sole.

Un’altra novità importante è che Meta smetterà di ridurre la visibilità dei contenuti sottoposti a verifica e gli utenti, invece di trovarsi di fronte a un avviso a tutto schermo che copre i post a rischio di fandonia, vedranno soltanto “un’etichetta molto meno invadente che indica che sono disponibili ulteriori informazioni per chi le vuole leggere”. In altre parole, sarà più facile ignorare gli avvertimenti.

Insomma, è un po’ come se una compagnia aerea decidesse che tutto sommato è inutile avere dei piloti addestrati e competenti ed è invece molto meglio lasciare che siano i passeggeri a discutere tra loro, insultandosi ferocemente, su come pilotare, quando tirare su il carrello o farlo scendere, quanto carburante imbarcare e cosa fare se l’aereo sta volando dritto verso una montagna. Ed è un po’ come se decidesse che è più saggio che gli irritanti allarmi di collisione vengano sostituiti da una voce sommessa che dice “secondo alcuni passeggeri stiamo precipitando, secondo altri no, comunque tocca lo schermo per ignorare tutta la discussione e guardare un video di tenerissimi gattini.

Va sottolineato che queste scelte di Meta riguardano per ora gli Stati Uniti e non si applicano in Europa, dove le leggi* impongono ai social network degli obblighi di moderazione e di mitigazione della disinformazione e dei discorsi d’odio.

*  In particolare il Digital Services Act o DSA, nota Martina Pennisi sul Corriere.

Ma una cosa è certa: questa nuova soluzione costerà molto meno a Meta. I valutatori indipendenti vanno pagati (lo so perché sono stato uno di loro per diversi anni), mentre gli utenti che scriveranno le Note della comunità lo faranno gratis. Cosa mai potrebbe andare storto?


Ma forse Mark Zuckerberg tutto sommato ha ragione, perché è inutile investire in verifiche dei fatti perché tanto “il fact-checking non funziona,” come scrive appunto il professor Quattrociocchi, persona che conosco dai tempi in cui abbiamo fatto parte dei numerosi consulenti convocati dalla Camera dei Deputati italiana sul problema delle fake news.

In effetti Quattrociocchi presenta dei dati molto rigorosi, contenuti in un articolo scientifico di cui è coautore, intitolato Debunking in a world of tribes, che si basa proprio sulle dinamiche sociali analizzate dettagliatamente su Facebook fra il 2010 e il 2014. Questo articolo e altri indicano che “il fact-checking, lungi dall’essere una soluzione, spesso peggiora le cose” [Corriere] perché crea delle casse di risonanza o echo chamber, per cui ogni gruppo rimane della propria opinione e anzi si polarizza ancora di più: se vengono esposti a un fact-checking, i complottisti non cambiano idea ma anzi tipicamente diventano ancora più complottisti, mentre chi ha una visione più scientifica delle cose è refrattario anche a qualunque minima giusta correzione che tocchi le sue idee.

Ma allora fare il mio lavoro di cacciatore di bufale è una perdita di tempo e anzi fa più male che bene? Devo smettere, per il bene dell’umanità, perché la scienza dice che noi debunker facciamo solo danni?

Dai toni molto vivaci usati dal professor Quattrociocchi si direbbe proprio di sì. Frasi come “nonostante queste evidenze, milioni di dollari sono stati spesi in soluzioni che chiunque con un minimo di onestà intellettuale avrebbe riconosciuto come fallimentari” sono facilmente interpretabili in questo senso. Ma bisogna fare attenzione a cosa intende esattamente il professore con “fact-checking”: lui parla specificamente di situazioni [nel podcast dico “soluzioni” – errore mio, che per ragioni tecniche non posso correggere] in cui il debunker, quello che vorrebbe smentire le falsità presentando i fatti, va a scrivere quei fatti nei gruppi social dedicati alle varie tesi di complotto. In pratica, è come andare in casa dei terrapiattisti a dire loro che hanno tutti torto e che la Terra è una sfera: non ha senso aspettarsi che questo approccio abbia successo e si venga accolti a braccia aperte come portatori di luce e conoscenza.

Anche senza il conforto dei numeri e dei dati raccolti da Quattrociocchi e dai suoi colleghi, è piuttosto ovvio che un fact-checking del genere non può che fallire: tanto varrebbe aspettarsi che andare a un derby, sedersi tra i tifosi della squadra avversaria e tessere le lodi della propria squadra convinca tutti a cambiare squadra del cuore. Ma il fact-checking non consiste soltanto nell’andare dai complottisti; anzi, i debunker evitano accuratamente questo approccio.

Il fact-checking, infatti, non si fa per chi è già parte di uno schieramento o dell’altro. Si fa per chi è ancora indeciso e vuole informarsi, per poi prendere una posizione, e in questo caso non è affatto inutile, perché fornisce le basi fattuali che rendono perlomeno possibile una decisione razionale.

Del resto, lo stesso articolo scientifico del professor Quattrociocchi, e il suo commento sul Corriere della Sera, sono in fin dei conti due esempi di fact-checking: su una piattaforma pubblica presentano i dati di fatto su un tema e li usano per smentire una credenza molto diffusa. Se tutto il fact-checking fosse inutile, se davvero presentare i fatti non servisse a nulla e fosse anzi controproducente, allora sarebbero inutili, o addirittura pericolosi, anche gli articoli del professore.


Resta la questione delle soluzioni al problema sempre più evidente dei danni causati dalla disinformazione e dalla malinformazione circolante sui social e anzi incoraggiata e diffusa anche da alcuni proprietari di questi social, come Elon Musk.

Il professor Quattrociocchi scrive che “L’unico antidoto possibile, e lo abbiamo visto chiaramente, è rendere gli utenti consapevoli di come interagiamo sui social.” Parole assolutamente condivisibili, con un piccolo problema: non spiegano come concretamente arrivare a rendere consapevoli gli utenti di come funzionano realmente i social network.

Sono ormai più di vent’anni che esistono i social network, e finora i tentativi di creare questa consapevolezza si sono tutti arenati. Non sono bastati casi clamorosi come quelli di Cambridge Analytica; non è bastata la coraggiosa denuncia pubblica, nel 2021, da parte di Frances Haugen, data scientist di Facebook, del fatto che indignazione e odio sono i sentimenti che alimentano maggiormente il traffico dei social e quindi i profitti di Meta e di tutti i social network. Come dice anche il professor Quattrociocchi insieme a numerosi altri esperti, “[s]i parla di fake news come se fossero il problema principale, ignorando completamente che è il modello di business delle piattaforme a creare le condizioni per cui la disinformazione prospera.”

La soluzione, insomma, ci sarebbe, ma è troppo radicale per gran parte delle persone: smettere di usare i social network, perlomeno quelli commerciali, dove qualcuno controlla chi è più visibile e chi no e decide cosa vediamo e ha convenienza a soffiare sul fuoco della disinformazione. Le alternative prive di controlli centrali non mancano, come per esempio Mastodon al posto di Threads, X o Bluesky, e Pixelfed al posto di Instagram, ma cambiare social network significa perdere i contatti con i propri amici se non migrano anche loro, e quindi nonostante tutto si finisce per restare dove si è, turandosi il naso. Fino al momento in cui non si sopporta più: il 20 gennaio, per esempio, è la data prevista per #Xodus, l’uscita in massa da X da parte di politici, organizzazioni ambientaliste, giornalisti* e utenti di ogni genere.

* La Federazione Europea dei Giornalisti (European Federation of Journalists, EFJ), la più grande organizzazione di giornalisti in Europa, che rappresenta oltre 295.000 giornalisti, ha annunciato che non pubblicherà più nulla su X dal 20 gennaio 2025: “Come molte testate europee (The Guardian, Dagens Nyheter, La Vanguardia, Ouest-France, Sud-Ouest, ecc.) and e organizzazioni di giornalisti, come l’Associazione dei Giornalisti Tedeschi (DJV), la EFJ ritiene di non poter più partecipare eticamente a un social network che è stato trasformato dal suo proprietario in una macchina di disinformazione e propaganda.”

Funzionerà? Lo vedremo molto presto.

Aggiornamento (2025/01/20)

Il quotidiano francese Le Monde ha annunciato di aver interrotto la condivisione dei propri contenuti su X, dove ha 11,1 milioni di follower.