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Podcast RSI – Informatici in campo per salvare i dati scientifici cancellati dal governo Trump

Questo è il testo della puntata del 10 febbraio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


Siamo a fine gennaio 2025. In tutti gli Stati Uniti e anche all’estero, scienziati, ricercatori, studenti, tecnici informatici si stanno scambiando frenetici messaggi di allarme: salvate subito una copia dei vostri dati pubblicati sui siti governativi statunitensi. È l’inizio di una maratona digitale collettiva per mettere in salvo dati sanitari, statistici, sociali, storici, climatici, tecnici ed economici che stanno per essere cancellati in una purga antiscientifica che ha pochi precedenti: quella derivante dalla raffica di ordini esecutivi emessi dalla presidenza Trump.

Persino la NASA è coinvolta e il 22 gennaio diffonde ai dipendenti l’ordine di “mollare tutto” [“This is a drop everything and reprioritize your day request”] e cancellare dai siti dell’ente spaziale, entro il giorno stesso, qualunque riferimento a minoranze, donne in posizione di autorità, popolazioni indigene, accessibilità, questioni ambientali e molti altri temi per rispettare questi ordini esecutivi [404 Media].

Per fortuna molti dei partecipanti a questa maratona si sono allenati in precedenza e sono pronti a scattare, e le risorse tecniche per sostenerli non mancano.

Questa è la storia di questa corsa per salvare scienza, conoscenza e cultura. E non è una corsa che riguarda solo gli Stati Uniti e che possiamo contemplare con inorridito distacco, perché piaccia o meno è lì che di fatto si definiscono gli standard tecnici e scientifici mondiali e si svolge gran parte della ricerca che viene utilizzata in tutto il mondo.

Benvenuti alla puntata del 10 febbraio 2025 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica… e questa è decisamente una storia strana e difficile da raccontare. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


La vastità e pervasività della cancellazione e riscrittura dei contenuti dei siti governativi statunitensi in corso dopo l’elezione del presidente Trump è difficile da comprendere guardando soltanto i suoi numeri. Secondo il New York Times, sono scomparse oltre 8000 pagine web di informazione sparse su una dozzina di siti governativi [NYT]. Inoltre sono svanite almeno 2000 raccolte di dati [404 Media]. Dati scientifici che riguardano le epidemie in corso, l’inquinamento e il clima, per esempio.

Conteggio dei dataset governativi su Data.gov prima e dopo gli ordini di Trump [404 Media].

Va detto che ogni avvicendamento di un’amministrazione statunitense comporta qualche modifica dei dati governativi disponibili, per rispecchiare gli orientamenti politici di chi è stato eletto, ma è la scala e la natura delle modifiche attualmente in atto che spinge molte autorità scientifiche, solitamente sobrie e compassate, a protestare pubblicamente e a paragonare la situazione di oggi a quella del romanzo distopico 1984 di George Orwell [Salon.com], alle censure sovietiche o ai roghi di intere biblioteche di libri scientifici da parte del regime nazista in Germania nel 1933 [Holocaust Memorial Day Trust; Wikipedia].

Quando riviste scientifiche prestigiosissime come Nature o il British Medical Journal si sentono in dovere di scendere in campo, vuol dire che la situazione è grave.

Non ritireremo articoli pubblicati, se un autore ce lo chiede perché contengono cosiddette parole bandite” scrive il British Medical Journal, aggiungendo che le buone prassi scientifiche e l’integrità professionale non cederanno di fronte a ordini di imbavagliamento o soppressione o capricci autoritari […] Se c’è qualcosa che va proibito, è l’idea che le riviste mediche e scientifiche, il cui dovere è rappresentare integrità ed equità, debbano piegarsi a censure politiche o ideologiche”, conclude il BMJ.

Ma non siamo nel 1933. Non si bruciano più vistosamente in piazza i libri malvisti dal potere. Oggi si danno ordini esecutivi e i database sanitari spariscono silenziosamente con un clic, per cui è facile non rendersi conto della portata delle istruzioni impartite dall’amministrazione Trump. E i numeri non aiutano a capire questa portata: come in ogni grande disastro, sono troppo grandi e astratti per essere compresi realmente. Forse tutto diventa più chiaro citando qualche caso specifico e concreto.


Prendiamo per esempio un argomento ben distante dagli schieramenti politici come l’astronomia. In Cile c’è il modernissimo Osservatorio Vera Rubin, intitolato all’omonima astronoma statunitense e gestito dalla National Science Foundation del suo paese. Il sito di quest’osservatorio ospitava questa frase:

La scienza è ancora un campo dominato dagli uomini, ma l’Osservatorio Rubin si adopera per aumentare la partecipazione delle donne e di altre persone che storicamente sono state escluse dalla scienza, accoglie chiunque voglia contribuire alla scienza, e si impegna a ridurre o eliminare le barriere che escludono i meno privilegiati.”

Questa frase, che non sembrerebbe essere particolarmente controversa, è stata rimossa e riscritta per rispettare gli ordini esecutivi del presidente Trump e adesso parla della dominazione maschile della scienza come se fosse una cosa passata [“what was, during her career, a very male-dominated field”] [ProPublica].

Oppure prendiamo il Museo Nazionale di Crittologia dell’NSA, che sta ad Annapolis, nel Maryland. La scienza dei codici segreti parrebbe forse ancora più lontana dalla politica di quanto lo sia l’astronomia, ma lo zelo degli esecutori degli ordini di Trump è arrivato anche lì: dei pannelli informativi che raccontavano il ruolo delle donne e delle persone di colore nella crittografia sono stati coperti in fretta e furia con fogli di carta da pacchi [Mark S. Zaid su X], rimossi solo dopo che la grossolana censura è stata segnalata ed è diventata virale sui social network.*

* La foga (o la paura di perdere il posto di lavoro) ha fatto addirittura cancellare un video che spiega il concetto grammaticale di pronome [404 Media].

Quelli che ho raccontato sono piccoli esempi, che illustrano la natura pervasiva e meschina* degli effetti delle direttive del governo Trump. Ma ovviamente la preoccupazione maggiore riguarda i grandi archivi di dati scientifici su argomenti che l’attuale amministrazione americana considera inaccettabili perché menzionano anche solo di striscio questioni di genere, di discriminazione e di accessibilità.

* 404 Media usa “pettiness”, ossia “meschinità”, per descrivere alcune delle cancellazioni dei siti governativi documentate tramite Github.

Il CDC, l’agenzia sanitaria federale statunitense, ha eliminato moltissime pagine di risorse scientifiche dedicate all’HIV, alle malattie sessualmente trasmissibili, all’assistenza alla riproduzione, alla salute delle minoranze, alla salute mentale dei minori, al monitoraggio dell’influenza, e ha ordinato a tutti i propri ricercatori di rimuovere dai propri articoli in lavorazione termini come “genere, transgender, persona in gravidanza, LGBT, transessuale, non binario, biologicamente maschile, biologicamente femminile”. La rimozione non riguarda solo gli articoli pubblicati dall’ente federale ma anche qualunque articolo da inviare a riviste scientifiche [Inside Medicine; Washington Post].

Screenshot del sito del CDC [Dr Emma Hodcroft su Mastodon].

Il NOAA, l’ente federale per la ricerca atmosferica e oceanica degli Stati Uniti, ha ordinato di eliminare persino la parola “empatia” da tutti i propri materiali [Mastodon].*

* La National Science Foundation, che finanzia una quota enorme della ricerca scientifica in USA, ha sospeso i finanziamenti a qualunque progetti che tocchi in qualche modo questioni di diversità o uguaglianza [Helen Czerski su Mastodon]. La sezione “Razzismo e salute” del CDC non esiste più [Archive.org; CDC.gov]. Dal sito della NASA sono stati rimossi moduli educativi sull‘open science [Archive.org; NASA]. Dal sito della Casa Bianca sono scomparsi la versione in spagnolo e la dichiarazione d’intenti di renderlo accessibile a persone con disabilità; l’Office of Gun Violence Prevention è stato cancellato [NBC].

Di fatto, qualunque ricerca scientifica statunitense che tocchi anche solo vagamente questi temi è bloccata, e anche le ricerche su altri argomenti che però usano dati del CDC oggi rimossi sono a rischio; è il caso, per esempio, anche delle indagini demografiche, che spesso contengono dati sull’orientamento sessuale, utili per valutare la diffusione di malattie nei vari segmenti della popolazione. Il Morbidity and Mortality Weekly Report, uno dei rapporti settimanali fondamentali del CDC sulla diffusione delle malattie, è sospeso per la prima volta da sessant’anni. È una crisi scientifica che imbavaglia persino i dati sull’influenza aviaria [Salon.com; KFF Health News], perché gli ordini esecutivi di Trump vietano in sostanza agli enti sanitari federali statunitensi di comunicare con l’Organizzazione Mondiale della Sanità [AP].

Ma c’è un piano informatico per contrastare tutto questo.


Il piano in questione si chiama End of Term Archive: è un progetto nato nel 2008 che archivia i dati dei siti governativi statunitensi a ogni cambio di amministrazione [Eotarchive.org]. È gestito dai membri del consorzio internazionale per la conservazione di Internet, che includono le biblioteche nazionali di molti paesi, Svizzera compresa, e a questa gestione prendono parte anche i membri del programma statunitense di conservazione dei dati digitali (NDIIPP).

Non è insomma una soluzione d’emergenza nata specificamente per la presidenza attuale. Nel 2020, durante la transizione da Trump a Biden, l’End of Term Archive raccolse oltre 266 terabyte di dati, che sono oggi pubblicamente accessibili presso Webharvest.gov insieme a quelli delle transizioni precedenti.

Questa iniziativa di conservazione si appoggia tecnicamente all’Internet Archive, una delle più grandi biblioteche digitali del mondo, fondata dall’imprenditore informatico Brewster Kahle come società senza scopo di lucro nell’ormai lontano 1996 e situata fisicamente a San Francisco, con copie parziali in Canada, Egitto e Paesi Bassi e accessibile online presso Archive.org.

Questa colossale biblioteca online archivia attualmente più di 866 miliardi di pagine web oltre a decine di milioni di libri, video, notiziari televisivi, software, immagini e suoni. Le raccolte di dati delle transizioni presidenziali statunitensi sono ospitate in una sezione apposita di Archive.org; quella del 2024, già disponibile, contiene oltre mille terabyte di dati.

Ma molti giornalisti, ricercatori e scienziati hanno provveduto a scaricarsi copie personali dei dati governativi che temevano di veder sparire, passando notti insonni a scaricare e soprattutto catalogare terabyte di dati [The Atlantic; The 19th News; Jessica Valenti; Nature]. Lo ha fatto anche l’Università di Harvard, mentre la Columbia University ha aggiornato il suo Silencing Science Tracker, una pagina che traccia i tentativi dei governi statunitensi di limitare o proibire la ricerca, l’educazione e la discussione scientifica dal 2016 in avanti.

È facile sottovalutare l’impatto pratico sulla vita di tutti i giorni di un ordine esecutivo che impone la riscrittura di un enorme numero di articoli e di pagine Web informative su temi scientifici e in particolare medici. La virologa Angela Rasmussen spiega in un’intervista al sito Ars Technica che non è semplicemente una questione di cambiare della terminologia o riscrivere qualche frase e tutto tornerà a posto: vengono rimosse informazioni critiche. Per esempio, i dati governativi statunitensi sulla trasmissione dell’Mpox, la malattia nota precedentemente come “vaiolo delle scimmie”, sono stati censurati rimuovendo ogni riferimento agli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini, dice Rasmussen. Queste persone “non sono le uniche a rischio negli Stati Uniti, ma sono quelle che hanno il maggior rischio di esposizione all’Mpox. Togliere il linguaggio inclusivo nasconde alle persone a rischio le informazioni che servirebbero a loro per proteggersi”.

La giornalista Jessica Valenti ha salvato e ripubblicato online documenti rimossi dall’amministrazione Trump e riguardanti la contraccezione, la pianificazione familiare, la salute sessuale, i vaccini, la violenza fra partner e altri argomenti assolutamente centrali nella vita di quasi ogni essere umano.

La presidenza Trump ha presentato la libertà di parola come uno dei propri mantra centrali, e uno degli ordini esecutivi che hanno portato a questo oscuramento, o oscurantismo se vogliamo chiamarlo con il suo vero nome, ha un titolo che parla di difesa delle donne e di “ripristino della verità biologica” (Defending Women from Gender Ideology Extremism and Restoring Biological Truth to the Federal Government). Censurare i fatti scientifici sulla salute e le informazioni che aiutano una donna a proteggersi è un modo davvero orwelliano di fare i paladini della libertà di espressione e i difensori delle donne.

George Orwell, in 1984, usava il termine doublethink (bipensiero o bispensiero nella traduzione italiana) per descrivere il meccanismo mentale che consente di ritenere vero un concetto e contemporaneamente anche il suo contrario. Sembra quasi che ci sia una tendenza diffusa a interpretare quel libro non come un monito ma come un manuale di istruzioni. Al posto dell’inceneritore delle notizie passate non più gradite al potere c’è il clic sull’icona del cestino, al posto della propaganda centralizzata c’è la disinformazione in mille rivoli lasciata correre o addirittura incoraggiata dai social network, e al posto dei teleschermi che sorvegliano a distanza ogni cittadino oggi ci sono gli smartphone e i dati raccolti su ciascuno di noi dai loro infiniti sensori, ma il concetto è lo stesso e gli effetti sono uguali: cambia solo lo strumento, che oggi è informatico.

Ed è ironico che sia proprio l’informatica a darci una speranza di conservare per tempi migliori quello che oggi si vuole invece seppellire. Forse conviene che ciascuno di noi cominci, nel proprio piccolo, a diventare un pochino hacker.

Fonti aggiuntive

The CDC’s Website Is Being Actively Purged to Comply With Trump DEI Order, 404 Media (2025)

CDC datasets uploaded before January 28th, 2025, Archive.org (2025)

BREAKING NEWS: CDC orders mass retraction and revision of submitted research across all science and medicine journals. Banned terms must be scrubbed, Inside Medicine (2025). Cita il concetto di vorauseilender Gehorsam, o “ubbidienza preventiva”

National Center for Missing & Exploited Children site scrubbed of transgender kids, Advocate.com (2025)

‘Breathtakingly Ignorant and Dangerous’: Trump’s DOT Orders Sweeping Purge of Climate, Gender, Race, Environmental Justice Initiatives, Inside Climate News (2025)

Trump scrubs all mention of DEI, gender, climate change from federal websites, The Register (2025)

Internet Archive played crucial role in tracking shady CDC data removals, Ars Technica (2025)

Researchers rush to preserve federal health databases before they disappear from government websites, The Journalist’s Resource (2025)

US Information Erasure Hurts Everyone, Human Rights Watch (2025)

Hot Topics in IPC: Avian Flu and Results From Trump’s Executive Orders, Infection Control Today (2025)

Podcast RSI – Social network senza algoritmi e senza padroni, grazie al fediverso

Questo è il testo della puntata del 17 febbraio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

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Ci sono sempre stati buoni motivi tecnici di privacy e di sicurezza per essere diffidenti verso i social network e usarli con molta cautela. Ora se ne è aggiunto un altro particolarmente importante: l’allineamento dichiarato e repentino di tutti i principali proprietari di social network e dei più influenti CEO del settore informatico alle direttive esplicite e implicite della presidenza Trump.

Screenshot della pagina della AP che mostra Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sundar Pichal (CEO di Google) e Elon Musk alla cerimonia di insediamento di Trump.

Una scelta di allineamento – o forse bisognerebbe chiamarla genuflessione – che, sommata a tutte le ragioni tecniche preesistenti, rende urgente chiedersi se si possa ancora far finta di niente e continuare a lasciare che la comunicazione, l’informazione e i dati personali di quattro miliardi di persone siano gestiti arbitrariamente da fantastiliardari che hanno dimostrato di essere capricciosi, impulsivi e vendicativi e di essere pronti a reinsediare nei loro social network persone e ideologie prima impresentabili, a zittire le voci scomode, a eliminare le iniziative contro la disinformazione e persino a riscrivere le cartine geografiche pur di compiacere il potente di turno e avere così carta bianca per massimizzare i propri profitti a spese di noi utenti e del concetto stesso di realtà condivisa.

Se vi attira l’idea di un social network senza padroni e algoritmi che vi dicono cosa vedere e cosa leggere, senza utenti più privilegiati di altri e senza immensi sistemi di schedatura di massa che ficcano incessantemente il loro naso virtuale nei fatti vostri e li danno in pasto ai pubblicitari e alle intelligenze artificiali, allora benvenuti alla puntata del 17 febbraio 2025 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Questa puntata, infatti, è dedicata al cosiddetto fediverso. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Comincio con un breve ripasso del concetto di fediverso. Ne ho già parlato in dettaglio in podcast precedenti [24 novembre 2022; 15 settembre 2023], ma in sintesi questo termine indica un ampio assortimento di servizi per creare social network che possono comunicare tra loro usando uno standard comune, che si chiama protocollo ActivityPub.

Detto così non sembra un granché, ma in realtà questa possibilità di intercomunicazione cambia tutto. Siamo abituati da anni all’idea dei social network che non si parlano: gli utenti di Instagram non possono scambiare messaggi con quelli di X o di WhatsApp e viceversa, per esempio. Ma questo muro è una costruzione artificiale, fatta apposta per tenere rinchiusi gli utenti e obbligarli a fare i salti mortali per passare informazioni da un social a un altro. Il fediverso non ha muri: è uno spazio nel quale tutti possono parlare con tutti.

Questa possibilità di comunicare con tutti ha una conseguenza non tecnica molto interessante: non c’è più bisogno di un ricco padrone centrale che investa in risorse tecniche adatte a reggere centinaia di milioni di utenti e che gestisca e controlli tutto e quindi possa permettersi di fare il bello e il cattivo tempo, come sta facendo per esempio in questi giorni X, il social network di Elon Musk, che sta bloccando qualunque link a Signal, un popolare sistema di messaggistica cifrata concorrente, con la scusa falsa che sarebbero link pericolosi, e non è la prima volta che si comporta in questo modo, visto che nel 2022 aveva bloccato ogni link a Instagram e al rivale Mastodon [Ars Technica].

Nel fediverso, invece, ogni utente o gruppo di utenti può crearsi il proprio mini-social network capace di comunicare con gli altri mini-social network. Al posto di un ambiente monolitico centralizzato c’è insomma una galassia di utenti indipendenti che collaborano: un universo federato, da cui il termine fediverso.


Per fare un esempio concreto, proprio oggi la Scuola politecnica federale di Losanna o EPFL ha inaugurato un proprio server nel fediverso per consentire ai membri della comunità della Scuola di “condividere contenuti in una maniera allineata con i valori della scienza aperta”, come dice l’annuncio ufficiale dell’EPFL, precisando di aver scelto il software Mastodon, un equivalente libero di X/Twitter, Bluesky o Threads, per intenderci, “perché l’indipendenza e gli strumenti efficaci di comunicazione sono critici,” prosegue l’annuncio, aggiungendo che “i suoi algoritmi sono trasparenti e non sono progettati per far spiccare i post emotivamente carichi” come fanno invece i social network commerciali.

Questa soluzione, nota il comunicato, garantisce inoltre che i dati degli utenti non vengano monetizzati e che non possano entrare in gioco (cito) “i capricci strategici di un’azienda orientata al profitto”. Il server Mastodon dell’EPFL è federato, cioè scambia messaggi, con altri server dello stesso tipo, e quindi la comunità della Scuola politecnica può dialogare con gli utenti Mastodon di tutto il mondo senza doversi affidare a Elon Musk, Mark Zuckerberg e simili.

Mastodon non contiene pubblicità, non fa profilazione degli utenti, e non ha una sezione “Per te” di account che qualcuno ha deciso che dobbiamo assolutamente vedere e seguire. Ogni utente vede solo i post degli utenti che ha deciso di seguire, e li vede tutti, senza filtri arbitrari. In altre parole, è Internet come dovrebbe essere, al servizio degli utenti, invece di essere uno strumento per rendere servi gli utenti e pilotarne le opinioni. E mai come in questo momento è evidente, dalle notizie di cronaca, che X e Instagram, o meglio Elon Musk e Mark Zuckerberg, stanno usando i propri social network come strumenti di questo secondo secondo tipo.


Il fediverso, però, non è solo Mastodon come sostituto di X; non è solo una piattaforma di microblogging. Include anche alternative che possono rimpiazzare Instagram per la condivisione di foto e video e di messaggi diretti, come per esempio Pixelfed, disponibile come app per iOS e Android presso Pixelfed.org. Pixelfed è senza pubblicità, open source e decentrato, e i suoi feed predefiniti sono puramente cronologici.

L’elenco delle app libere e aperte da usare per sostituire i social network commerciali è piuttosto completo: per condividere video, al posto di YouTube c’è PeerTube; al posto di Facebook c’è Friendica; al posto di TikTok c’è Loops.video; e WhatsApp si può sostituire con il già citato Signal.

Su Internet si è diffusa la data del primo febbraio scorso come Global Switch Day, la giornata in cui gli utenti passano dai social network commerciali a quelli del fediverso, e sembra che il maggior beneficiario dell’esodo di utenti da X, come protesta per le recenti azioni politiche di Elon Musk, sia stato Bluesky, che oggi ha circa 30 milioni di utenti ma non è un’app federata in senso stretto, usa un standard differente dal resto del fediverso ed è comunque sotto il controllo di una singola persona, Jack Dorsey, l’ex CEO di Twitter*, per cui c’è il rischio di passare dalla padella alla brace.

* Correzione: Dorsey è il fondatore di Bluesky e ha lasciato il consiglio di amministrazione di Bluesky a maggio 2024 [The Verge].

Lo stesso vale per Threads, che è federato*, per cui i suoi utenti possono seguire anche le persone che sono su Mastodon, per esempio, ma è comunque un’app di Meta, quindi soggetta agli umori e alle affiliazioni politiche del momento di Mark Zuckerberg.

*  Almeno parzialmente, da dicembre 2024: “Threads users can't see posts from other fediverse platforms on their feeds yet. But you can follow accounts from those platforms if they've liked, followed, or replied to your federated posts from Threads. You're also able to share your Threads posts to other fediverse platforms and can opt-in by navigating to Profile > Settings > Account > Fediverse sharing. Threads and Instagram boss Adam Mosseri has shared a few more details about the latest update. When a Threads user receives a like or reply from a federated account, they can navigate to the profile without leaving the app. It'll appear like a Threads account even though it's technically from the fediverse. The fediverse user handles and profiles will show that the user is from a Mastodon server or other part of the federiverse. You can also choose to be notified when the federated user replies or posts on their server.” [PCMag.com, 2024/12/05]

Ma il problema di fondo di tutte queste iniziative di abbandono collettivo che periodicamente vengono proposte è che tecnicamente questi social alternativi fanno le stesse cose di quelli commerciali, anzi le fanno anche meglio dal punto di vista degli utenti, ma trasferirsi lì significa lasciarsi dietro tutti gli amici e i contatti che non si trasferiscono. E così nessuno muove il primo passo,* e tutto rimane com’era prima.

* È quello che è successo con l‘istanza Mastodon della Cancelleria federale svizzera, aperta nel 2023 a titolo sperimentale e chiusa a settembre 2024 per mancanza di traffico (3500 follower sparsi su sei account) [Admin.ch].

Fino al momento in cui qualcuno compie quel primo passo, e gli altri decidono di seguirlo perché non ne possono più di stare dove stanno. Provate a chiedervi se quella persona che compie quel primo passo, all’interno della vostra cerchia di contatti, potreste essere voi.

Fonti aggiuntive

Addio Facebook e Instagram: è ora di ricostruire le nostre case digitali, Arianna Ciccone su ValigiaBlu.it (2025/01/24)

La scelta di lasciare FB e IG: alcune obiezioni e le nostre risposte, Arianna Ciccone su ValigiaBlu.it (2025/02/04)

These apps are building Instagram alternatives on open protocols, TechCrunch (2025/02/09)

Niente Panico RSI – Puntata del 2025/02/17

È andata in onda lunedì scorso alle 9 una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi settimanalmente sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. La trasmissione è riascoltabile presso www.rsi.ch/rete-tre/programmi/intrattenimento/serotonina oppure nell’embed qui sotto.

Lo streaming in diretta della Rete Tre è presso www.rsi.ch/audio/rete-tre/live; la raccolta completa delle puntate è presso Attivissimo.me/np.

Podcast RSI – No, i telefonini non esplodono spontaneamente

Un frammento di uno dei cercapersone esplosi. Fonte: Al Jazeera.

Ultimo aggiornamento: 2024/09/22 19:00.

Questo è il testo della puntata del 20 settembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.

Il podcast si prenderà una pausa la settimana prossima e tornerà il 4 ottobre.


[CLIP: audio di esplosione e di panico]

Migliaia di dispositivi elettronici sono esplosi improvvisamente nel corso di due giorni in Libano e in Siria, uccidendo decine di persone e ferendone almeno tremila. Inizialmente si è sparsa la voce che si trattasse di un “attacco hacker”, come hanno scritto anche alcune testate giornalistiche [Il Fatto Quotidiano], facendo pensare a un’azione puramente informatica in grado di colpire teoricamente qualunque dispositivo ovunque nel mondo facendone esplodere la batteria attraverso un particolare comando inviato via radio o via Internet.

Non è così, ma resta il dubbio legittimo: sarebbe possibile un attacco del genere?

Questa è la storia di una tecnica di aggressione chiamata supply chain attack, che in questi giorni si è manifestata in maniera terribilmente cruenta ma è usata da tempo da criminali e governi per mettere a segno sabotaggi, estorsioni e operazioni di sorveglianza.

Benvenuti alla puntata del 20 settembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Il 17 settembre scorso il Libano e la Siria sono stati scossi dalle esplosioni quasi simultanee di migliaia di cercapersone, che hanno ucciso decine di persone e ne hanno ferite oltre duemila. Il giorno successivo sono esplosi centinaia di walkie-talkie, causando la morte di almeno altre venti persone e il ferimento di alcune centinaia.

Queste due raffiche di esplosioni hanno seminato il panico e la confusione nella popolazione locale, presa dal timore che qualunque dispositivo elettronico dotato di batteria, dal computer portatile alle fotocamere allo smartphone, potesse esplodere improvvisamente. Sui social network si è diffusa la diceria che stessero esplodendo anche gli impianti a pannelli solari, le normali radio e le batterie delle automobili a carburante, ma non c’è stata alcuna conferma [BBC]. All’aeroporto di Beirut è scattato il divieto di portare a bordo degli aerei qualunque walkie-talkie o cercapersone [BBC].

Nelle ore successive è emerso che non si è trattato di un “attacco hacker” in senso stretto: non è bastato che qualcuno mandasse un comando a un dispositivo per innescare l’esplosione della sua batteria. I cercapersone e i walkie-talkie esplosi erano stati sabotati fisicamente, introducendo al loro interno delle piccole ma micidiali cariche esplosive, successivamente fatte detonare inviando un comando via radio, con l’intento di colpire i membri di Hezbollah che usavano questi dispositivi.

In altre parole, non c’è nessun pericolo che qualcuno possa far esplodere un telefonino, un rasoio elettrico, una fotocamera, uno spazzolino da denti elettronico, un computer portatile, delle cuffie wireless, un tablet, un’automobile elettrica o qualunque altro dispositivo dotato di batteria semplicemente inviandogli un comando o un segnale particolare o infettandolo con un’app ostile di qualche tipo. Per questo genere di attacco, il dispositivo deve essere stato modificato fisicamente e appositamente.

È importante però non confondere esplosione con incendio. Le batterie dei dispositivi elettronici possono in effetti incendiarsi se vengono danneggiate o caricate in modo scorretto. Ma gli eventi tragici di questi giorni non hanno affatto le caratteristiche di una batteria che prende fuoco, perché le esplosioni sono state improvvise e violente, delle vere e proprie detonazioni tipiche di una reazione chimica estremamente rapida, mentre l’incendio di una batteria è un fenomeno veloce ma non istantaneo, che rilascia molta energia termica ma lo fa in modo graduale, non di colpo.

Cosa più importante, non esiste alcun modo per innescare l’incendio di una batteria di un normale dispositivo attraverso ipotetiche app o ipotetici comandi ostili. Anche immaginando un malware capace di alterare il funzionamento del caricabatterie o dei circuiti di gestione della carica e scarica della batteria, la batteria stessa normalmente ha delle protezioni fisiche contro la scarica improvvisa o la carica eccessiva. Chi si è preoccupato all’idea che degli hacker sarebbero capaci di trasformare i telefonini in bombe con un semplice comando può insomma tranquillizzarsi, soprattutto se si trova lontano dalle situazioni di conflitto.

C’è però da capire come sia stato possibile un sabotaggio così sofisticato, e in questo senso l’informatica ci può dare una mano, perché non è la prima volta che si verifica quello che in gergo si chiama un supply chain attack, o attacco alla catena di approvvigionamento, anche se quella di questi giorni è una sua forma particolarmente cruenta.


Un supply chain attack è un attacco, fisico o informatico, a un elemento della catena di approvvigionamento di un avversario. Invece di attaccare i carri armati del nemico, per esempio, si colpiscono i loro depositi di carburante o le loro fabbriche di componenti. In campo informatico, invece di attaccare direttamente l’azienda bersaglio, che è troppo ben difesa, si prende di mira un suo fornitore meno attento alla sicurezza e lo si usa come cavallo di Troia per aggirare le difese entrando dall’accesso riservato ai fornitori, per così dire. Anzi, si potrebbe dire che proprio il celebre cavallo di Troia fu il primo caso, sia pure mitologico, di supply chain attack, visto che i troiani si fidarono decisamente troppo del loro fornitore.

Un esempio tipico, concreto e moderno di questa tecnica di attacco risale al 2008, quando le forze di polizia europee smascherarono un’organizzazione criminale dedita alle frodi tramite carte di credito che rubava i dati dei clienti usando dei dispositivi non tracciabili inseriti nei lettori delle carte di credito fabbricati in Cina. Questo aveva permesso ai criminali di effettuare prelievi e acquisti multipli per circa 100 milioni di dollari complessivi.

Nel 2013 la catena statunitense di grandi magazzini Target si vide sottrarre i dati delle carte di credito di circa 40 milioni di utenti, grazie a del malware installato nei sistemi di pagamento POS. Nonostante Target avesse investito cifre molto importanti nel monitoraggio continuo della propria rete informatica, l’attacco fu messo a segno tramite i codici di accesso rubati a un suo fornitore in apparenza slegato dagli acquisti: una ditta della Pennsylvania che faceva impianti di condizionamento.

Le modifiche apportate fisicamente di nascosto ai dispositivi forniti da terzi non sono un’esclusiva dei criminali. Grazie alle rivelazioni di Edward Snowden, per esempio, sappiamo che l’NSA statunitense [Ars Technica] ha intercettato server, router e altri apparati per reti informatiche mentre venivano spediti ai rispettivi acquirenti che voleva mettere sotto sorveglianza, li ha rimossi accuratamente dagli imballaggi, vi ha installato del software nascosto (più precisamente del firmware, ossia il software di base del dispositivo) e poi li ha reimballati, ripristinando tutti i sigilli di sicurezza, prima di reimmetterli nella filiera di spedizione.

Altri esempi di attacco alla catena di approvvigionamento sono Stuxnet, un malware che nel 2010 danneggiò seriamente il programma nucleare iraniano prendendo di mira il software degli apparati di controllo di una specifica azienda europea, usati nelle centrifughe di raffinazione del materiale nucleare in Iran, e NotPetya, un virus che nel 2017 fu inserito negli aggiornamenti di un programma di contabilità molto diffuso in Ucraina. I clienti scaricarono fiduciosamente gli aggiornamenti e si ritrovarono con i computer bloccati, i dati completamente cifrati e una richiesta di riscatto.

C’è anche un caso di supply chain attack che ci tocca molto da vicino, ed è quello della Crypto AG [sintesi su Disinformatico.info], l’azienda svizzera che per decenni ha venduto ai governi e alle forze armate di numerosi paesi del mondo degli apparati di crittografia molto sofisticati, che però a seconda del paese di destinazione venivano a volte alterati segretamente in modo da consentire ai servizi segreti statunitensi e tedeschi di decrittare facilmente le comunicazioni cifrate diplomatiche, governative e militari di quei paesi. In questo caso l’attacco proveniva direttamente dall’interno dell’azienda, ma il principio non cambia: il bersaglio veniva attaccato non frontalmente, ma attraverso uno dei fornitori di cui si fidava.


Difendersi da questo tipo di attacchi non è facile, perché spesso il committente non conosce bene il fornitore, e a sua volta quel fornitore deve conoscere bene i propri fornitori, perché non è la prima volta che un governo o un’organizzazione criminale costituiscono ditte fittizie e si piazzano sul mercato offrendo prodotti o servizi di cui il bersaglio ha bisogno.

Gli esperti raccomandano di ridurre al minimo indispensabile il numero dei fornitori, di visitarli spesso per verificare che siano autentici e non delle semplici scatole cinesi di copertura, di instillare in ogni fornitore, anche nel più secondario, una cultura della sicurezza che invece spesso manca completamente, e di adottare hardware e software che incorporino direttamente delle funzioni di verifica e di sicurezza contro le manomissioni. Ma per la maggior parte delle organizzazioni tutto questo ha costi insostenibili, e così gli attacchi alla catena di approvvigionamento prosperano e, secondo i dati delle società di sicurezza informatica, sono in costante aumento.

Lo schema di questi attacchi ha tre caratteristiche particolari che lo distinguono da altri tipi di attacco: la prima caratteristica è la necessità di disporre di risorse tecniche e logistiche enormi. Nel caso di cui si parla in questi giorni, per esempio, chi lo ha eseguito ha dovuto identificare marche e modelli usati dai membri di Hezbollah, infiltrarsi tra i fornitori fidati o intercettarne le spedizioni in modo invisibile, e progettare, testare e costruire le versioni modificate di migliaia di esemplari dei dispositivi, appoggiandosi a sua volta a fornitori di competenze tecnologiche ed esplosivistiche e di componenti elettronici che fossero capaci di mantenere il segreto.

La seconda caratteristica è invece più sottile. In aggiunta al tremendo bilancio di vite umane, impossibile da trascurare, questi attacchi hanno il risultato di creare angoscia e sfiducia diffusa in tutta l’opinione pubblica verso ogni sorta di tecnologia, creando falsi miti e diffidenze inutili e devastando la reputazione delle marche coinvolte.

Ma la terza caratteristica è quella più pericolosa e in questo caso potenzialmente letale. Chi si inserisce di nascosto in una catena di approvvigionamento raramente ne ha il pieno controllo, per cui non può essere certo che qualcuno dei prodotti che ha sabotato non finisca in mani innocenti invece che in quelle dei bersagli designati, e agisca colpendo chi non c’entra nulla, o rimanga in circolazione dopo l’attacco.

Finché si tratta di malware che causa perdite di dati, il danno potenziale a terzi coinvolti per errore è solitamente sopportabile; ma in questo caso che insanguina la cronaca è difficile, per chi ha lanciato questo attacco, essere certo che tutti quei dispositivi modificati siano esplosi, e così in Libano e in Siria probabilmente circolano ancora, e continueranno a lungo a circolare, dei cercapersone e dei walkie-talkie che sono imbottiti di esplosivo a insaputa dei loro utenti.

Chissà se chi ha concepito questi attacchi dorme sonni tranquilli.


2024/09/22 19:00: La teoria alternativa di Umberto Rapetto

Su La Regione Ticino è stato pubblicato un articolo nel quale il generale della Guardia di Finanza Umberto Rapetto, “già comandante del Gruppo Anticrimine Tecnologico, per anni docente di Open Source Intelligence alla Nato School di Oberammergau (D)”, afferma che l’esplosivo sarebbe stato inserito nei dispositivi non da un aggressore esterno, ma da Hezbollah, ossia dall’utente stesso.

A suo dire, la fornitura di cercapersone sarebbe stata

“commissionata pretendendo che all’interno del normale involucro del prodotto di serie sia ospitata una piccolissima carica esplosiva e che il software includa le istruzioni per attivare la deflagrazione”

in modo da costituire una sorta di meccanismo di autodistruzione da usare qualora un dispositivo fosse caduto in mani nemiche. Non solo: secondo Rapetto, la carica sarebbe stata installata addirittura a insaputa degli stessi affiliati di Hezbollah che usavano i walkie-talkie e i cercapersone modificati, allo scopo di eliminare anche loro qualora fossero stati rapiti:

“Non solo il minuscolo aggeggio non deve spianare la strada all’intelligence, ma deve anche evitare che il suo possessore eventualmente catturato possa raccontare cose riservate e compromettere la sorte dell’organizzazione […] il dispositivo non è più in grado di offrire spunti agli 007 avversari e anche il proprio agente – ucciso o gravemente ferito – perde la possibilità di confessare”.

A supporto di questa teoria non vengono portate prove, e finora non ho trovato nessun’altra persona esperta che abbia proposto questa ricostruzione degli eventi.

Niente Panico RSI – Puntata del 2024/09/23

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Stamattina è andata in onda una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera.

La puntata è riascoltabile qui oppure nell’embed qui sotto. Le puntate vengono pubblicate a questo link:

I temi della puntata

L’account Instagram della settimana: @combophoto.

La bufala della settimana: il falso allarme per il tonno radioattivo (da Bufale.net).

Intelligenza artificiale e musica: Suno lancia la funzione Covers per ricreare le canzoni usando vari stili “un po’ come applicare un filtro a una foto” e usabile anche partendo da “un canto amatoriale sotto la doccia […] Per i musicisti e i produttori, Covers offre un’opportunità unica di sperimentare diversi arrangiamenti e stili senza perdere tempo” (Punto Informatico).

Prova pratica di Suno: ho creato un account gratuito, ho immesso il prompt “una canzone pop dedicata a due conduttori radiofonici, Rosy e Paolo, che portano informazione e allegria”, in italiano, e Suno mi ha generato questo brano, che è quello che abbiamo anche trasmesso in diretta, e anche questa versione alternativa un po’ meno brillante.

Sottolineo che tutto quello che sentite è stato generato pari pari dall’intelligenza artificiale di Suno, senza alcun mio intervento di rifinitura: il testo (in italiano e in rima), la voce del cantante, la melodia e gli strumenti.

L’intervista impossibile: Abbiamo ricordato l’anniversario della nascita di Ray Charles (23 settembre 1930). A titolo dimostrativo, anche qui tutto è stato creato pari pari dall’IA.

Per prima cosa ho chiesto a ChatGPT “leggi questa biografia di Ray Charles https://it.wikipedia.org/wiki/Ray_Charles e prepara quattro domande vivaci e intelligenti per un’intervista a Ray Charles come se fosse ancora vivo”.

La risposta di ChatGPT:

Ecco quattro domande vivaci e intelligenti per un’intervista a Ray Charles:

Ray, sei stato un pioniere nel fondere gospel, jazz e blues, creando il soul. Come hai trovato il coraggio di rompere le regole musicali e inventare un suono così unico?

Dopo la perdita della vista, la musica è diventata la tua vera visione. In che modo questa esperienza ha cambiato il tuo modo di sentire e interpretare la musica?

“Georgia on My Mind” è uno dei tuoi brani più amati. Cosa rappresenta per te questo pezzo e perché pensi abbia toccato così tante persone?

Hai affrontato momenti difficili, inclusa la dipendenza. Qual è stato il momento in cui hai sentito di poter riprendere il controllo della tua vita e della tua carriera?

Solitamente per queste “interviste” usiamo Character.ai, che però non ha un profilo già pronto dedicato a Ray Charles, per cui ho chiesto a ChatGPT di generare anche le presunte risposte, dandogli l’istruzione “Usando le informazioni che hai su Ray Charles, crea le risposte a queste domande”.

ChatGPT ha risposto così:

Ecco delle risposte immaginate da Ray Charles alle tue domande:

Ray, sei stato un pioniere nel fondere gospel, jazz e blues. Come hai trovato il coraggio di rompere le regole musicali e creare un suono così unico? “Ho sempre seguito il mio cuore. La musica è una cosa viva, non puoi rinchiuderla in scatole. Venivo da una tradizione di gospel, ma il blues e il jazz mi parlavano, così ho combinato tutto. Non era pianificato, era solo quello che sentivo.”

Dopo la perdita della vista, la musica è diventata la tua vera visione. In che modo questa esperienza ha cambiato il tuo modo di sentire e interpretare la musica? “Perdere la vista mi ha fatto ascoltare il mondo in un modo completamente nuovo. Ogni nota, ogni ritmo aveva un significato più profondo. La musica è diventata il mio modo di vedere, di comunicare e di esprimere le emozioni che non potevo vedere ma che sentivo dentro di me.”

“Georgia on My Mind” è uno dei tuoi brani più amati. Cosa rappresenta per te questo pezzo e perché pensi abbia toccato così tante persone? “Georgia è più di una canzone per me, è come tornare a casa, dove ho iniziato tutto. Credo che tocchi le persone perché parla di nostalgia, di affetto per le proprie radici. Chiunque può connettersi con quel sentimento.”

Hai affrontato momenti difficili, inclusa la dipendenza. Qual è stato il momento in cui hai sentito di poter riprendere il controllo della tua vita e della tua carriera? “Il momento più difficile è stato rendermi conto che la dipendenza mi stava portando via tutto, ma la musica mi ha sempre dato una ragione per lottare. Quando ho capito che avevo ancora tanto da dare, è stato lì che ho deciso di riprendere il controllo, per me stesso e per la mia musica.”

Ho poi preso questi testi e li ho fatti leggere a une delle voci di ElevenLabs.io. La cosa che mi inquieta è che le domande sono dannatamente pertinenti e probabilmente migliori di quelle che sarebbero venute in mente a me.

Abbandono di X, ne abbiamo parlato alla RSI

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Stamattina sono stato ospite di Millevoci sulla Rete Uno (radio) della Radiotelevisione Svizzera per parlare della situazione di X (l’ex Twitter) e del suo potere mediatico alla vigilia delle elezioni presidenziali statunitensi, partendo dalla mia decisione di smettere definitivamente di usare X. Ho partecipato al programma insieme a Isabella Visetti, Nicola Colotti e Neva Petralli.

La registrazione è disponibile online qui e nell’embed qui sotto.

Il calo degli utenti di X che ho citato durante la trasmissione è tratto da questo articolo di NBC News di marzo 2024. A febbraio di quest’anno, secondo i rilevamenti di Sensor Tower, X aveva negli Stati Uniti 27 milioni di utenti giornalieri della sua app per dispositivi mobili. L’andamento è piatto o in calo da novembre 2022, quando Musk ha acquisito Twitter, e il calo complessivo in USA ammonta al 23%.

A livello mondiale, gli utenti sono calati del 15% rispetto a febbraio 2023, scendendo a 174 milioni. X dichiara invece di avere 250 milioni di utenti giornalieri nel mondo; anche così, sono in leggero calo rispetto ai 258 milioni al momento dell’acquisto da parte di Musk.


Per quel che riguarda la mia vicenda personale su X, l’articolo in cui annuncio la mia uscita da X che viene citato nella trasmissione è questo, del 14 settembre scorso.

Sto lentamente defollowando a mano gli oltre 700 account Twitter che seguivo (se vi seguivo e avete notato il mio defollow, non ce l’ho con voi, sto smettendo di seguire tutti su X).

I miei follower su X (a questo punto inutili) sono fermi a 411.002. Quelli su Threads sono 4325; quelli su Instagram sono 5871; quelli su Mastodon sono circa 11.000.

Niente Panico RSI – Puntata del 2024/09/30

Stamattina è andata in onda una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. La trasmissione è riascoltabile qui oppure nell’embed qui sotto. Le puntate vengono pubblicate a questo link:

https://www.rsi.ch/rete-tre/programmi/intrattenimento/serotonina

I temi della puntata

L’account Instagram della settimana: Jan Hakon Erichsen (@janerichsen), 797.000 follower, è un artista norvegese che si è fatto notare per le sue esibizioni surreali e virali, che pubblica su Instagram dal 2017. Usa oggetti quotidiani come cibo, palloncini e strumenti meccanici per creare scene di distruzione comica e assurda o situazioni totalmente bizzarre come il Banana Tapper (The Guardian).

La donna dimenticata (e ora ricordata) dalla scienza: Rosalind Franklin, chimica britannica (1920-1958) ed esperta di cristallografia, che ebbe un ruolo chiave, non riconosciuto all’epoca, nella realizzazione dell’immagine (diffrattogramma a raggi X) che permise di identificare la forma del DNA, scoperta che valse il Nobel per la medicina a Watson, Crick e Wilkins nel 1962 (ma non a lei, anche perché le regole del premio all’epoca non consentivano i riconoscimenti postumi e lei era morta a soli 37 anni nel 1958). Oggi il suo nome verrà ricordato usandolo per la sonda mobile robotica (rover) Exomars che dovrebbe partire per Marte nel 2028.

Origine del termine robotrix: dovrebbe essere una pubblicazione del 1933, Science Fiction Digest di Forrest Ackerman, in riferimento al film Metropolis di Fritz Lang, secondo SFdictionary.

L’intervista impossibile: Victoria Braithwaite (1967-2019), nota per aver dimostrato scientificamente che i pesci provano dolore, cambiando radicalmente il modo in cui consideriamo questi esseri viventi; la ricordiamo nell’anniversario della sua scomparsa.

Cosa fare in caso di hacking o furto di un account Instagram: prima di tutto si deve fare prevenzione, con l’autenticazione a due fattori e l’attivazione di un account a pagamento, che ha diritto all’assistenza tecnica. Se il disastro è già successo, si può tentare il negoziato con il ladro dell’account.

Auto connesse “hackerabili” via Internet: problema risolto, ma i dettagli sono preoccupanti in termini di fragilità dei sistemi di gestione (Samcurry.net). Ne parlerò nel prossimo podcast de Il Disinformatico.

Podcast RSI – Auto connesse “hackerabili”, stavolta tocca a Kia. Ma a fin di bene

Questo è il testo della puntata del 4 ottobre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunesYouTube MusicSpotify e feed RSS.


[CLIP: audio dello sblocco di una Kia parcheggiata]

I rumori che state ascoltando in sottofondo sono quelli di un hacker che si avvicina a un’auto parcheggiata, che non è la sua, ne immette il numero di targa in una speciale app sul suo smartphone, e ne sblocca le portiere.

L’auto è un modello recentissimo, della Kia, e l’hacker può ripetere questa dimostrazione con qualunque esemplare recente di questa marca semplicemente leggendo il numero di targa del veicolo scelto come bersaglio. Non gli serve altro.

Questa è la storia di come si fa a “hackerare” un’automobile oggi, grazie alla tendenza sempre più diffusa di interconnettere i veicoli e consentirne il monitoraggio e il comando remoto via Internet. In questo caso l’“hackeraggio” è opera di un gruppo di informatici che agisce a fin di bene, e questa specifica vulnerabilità è stata risolta, ma conoscere la tecnica adoperata per ottenere questo risultato imbarazzante e preoccupante è utile sia per chi deve proteggere la propria auto da questa nuova frontiera dei furti sia per chi deve pensare alla sicurezza informatica in generale, perché mostra come scovare vulnerabilità inaspettate in qualunque contesto e rivela in modo intrigante come agisce un intruso informatico.

Benvenuti alla puntata del 4 ottobre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Questa storia inizia due anni fa, ad autunno del 2022, quando un gruppo di hacker statunitensi, durante un viaggio per partecipare a una conferenza di sicurezza informatica a Washington, si imbatte per caso in una falla di sicurezza degli onnipresenti monopattini elettrici a noleggio e con relativa facilità riesce a farne suonare in massa i clacson e lampeggiare i fanali semplicemente agendo in modo particolare sulla normale app usata per gestire questi veicoli.

[CLIP: audio dei monopattini]

Incuriositi dal loro successo inaspettatamente facile, i membri del gruppo provano a vedere se la stessa tecnica funziona anche sulle automobili, ed è un bagno di sangue: Kia, Honda, Infiniti, Nissan, Acura, Mercedes-Benz, Hyundai, Genesis, BMW, Rolls-Royce, Ferrari, Ford, Porsche, Toyota, Jaguar, Land Rover risultano tutte attaccabili nello stesso modo. Un aggressore può farne suonare ripetutamente il clacson, avviarle e spegnerle, aprirne e chiuderne le serrature, e tracciarne gli spostamenti, tutto da remoto, senza dover essere fisicamente vicino al veicolo.

Questo gruppo di informatici* è guidato da Sam Curry, che di professione fa appunto l’hacker e il bug bounty hunter, ossia va a caccia di vulnerabilità in ogni sorta di dispositivo, software o prodotto informatico per il quale il costruttore o lo sviluppatore offre una ricompensa monetaria a chi la scopre e la comunica in modo eticamente corretto.

*Il gruppo è composto da Sam Curry, Neiko Rivera, Brett Buerhaus, Maik Robert, Ian Carroll, Justin Rhinehart e Shubham Shah.

In un suo articolo di gennaio 2023 Curry spiega pubblicamente la tecnica usata per prendere il controllo delle auto e per ottenere dati particolarmente preziosi e sensibili come l’elenco di tutti i clienti della Ferrari.

In sostanza, invece di tentare di attaccare frontalmente il singolo veicolo, gli informatici prendono di mira il sistema centrale di gestione remota, il portale Web attraverso il quale i dipendenti e i concessionari delle singole case automobilistiche amministrano i veicoli. Nel caso di BMW e Rolls Royce, per esempio, si accorgono che è sufficiente una singola riga di comandi inviata via Internet per ottenere un codice di recupero che consente di prendere il controllo di un account amministrativo e da lì acquisire i dati personali dei clienti e comandare le loro automobili.

A questo punto gli hacker contattano le case costruttrici e le informano dei loro problemi, che vengono risolti, chiudendo queste falle. In totale, i veicoli a rischio sono circa 15 milioni, includono anche i mezzi di soccorso, e le scoperte del gruppo di informatici vengono anche segnalate al Congresso degli Stati Uniti.

Un imbarazzo collettivo del genere dovrebbe essere un campanello d’allarme per queste industrie, che dovrebbero in teoria avviare un ampio riesame interno delle proprie procedure per individuare altre eventuali falle prima che vengano scoperte, non da informatici di buon cuore come in questo caso, ma da criminali, ai quali potrebbe interessare moltissimo ricattarle, minacciando per esempio di rivelare i nomi e i dati personali dei loro clienti di alto profilo oppure paralizzando la loro rete di gestione delle auto. Ma la realtà racconta una storia molto differente.


Passano due anni, e Sam Curry e il suo gruppo* rivisitano i servizi online delle case automobilistiche per vedere come stanno le cose dopo la raffica di falle scoperte e risolte.

*Specificamente Curry insieme a Neiko Rivera, Justin Rhinehart e Ian Carroll.

L’11 giugno 2024 scoprono delle nuove vulnerabilità nei veicoli Kia che permettono di prendere il controllo delle funzioni di gestione remota semplicemente partendo dal numero di targa. L’attacco richiede mezzo minuto, funziona su tutti i modelli Kia dotati di connettività, e soprattutto funziona anche se il proprietario del veicolo non ha un abbonamento ai servizi di controllo remoto, che Kia chiama Kia Connect.

Gli hacker trovano inoltre che è possibile procurarsi informazioni personali del proprietario dell’auto, compreso il suo nome, il suo numero di telefono, il suo indirizzo di mail e il suo indirizzo di casa, diventando così, come spiega Curry, “un secondo utente invisibile del veicolo della vittima senza che quella vittima ne sappia nulla”.

Così Sam Curry e i suoi colleghi costruiscono un’app dimostrativa, grazie alla quale possono semplicemente immettere il numero di targa di un veicolo Kia e nient’altro e trovarsi, nel giro di una trentina di secondi, in grado di comandare da remoto quel veicolo.

Prima che i proprietari di Kia all’ascolto si facciano prendere dal panico, sottolineo e ripeto che il problema è già stato risolto: anche questa vulnerabilità è stata corretta, l’app di attacco non è mai stata rilasciata al pubblico, e Kia ha verificato che la falla che sto per descrivere non è mai stata usata in modo ostile.

La tecnica usata a fin di bene dagli hacker è diversa da quella adoperata in passato: mentre prima avevano agito al livello del singolo veicolo, ora hanno provato a un livello più alto. Scrive Curry: “e se ci fosse un modo per farsi registrare come concessionario, generare un codice di accesso, e poi usarlo?”. E infatti c’è.

Curry e i suoi colleghi mandano una semplice riga di comandi accuratamente confezionati a kiaconnect.kdealer.com, dando il proprio nome, cognome, indirizzo di mail e specificando una password, e vengono accettati senza battere ciglio. Per il sistema informatico di Kia, loro sono a questo punto un concessionario come tanti altri.

Questo permette a loro di immettere un VIN, ossia il numero identificativo unico di un veicolo, e ottenere in risposta i dati personali del proprietario di quel veicolo, compreso il suo indirizzo di mail, che è la chiave per l’eventuale attivazione dei servizi di comando remoto.

Avendo questo indirizzo e potendosi presentare al sistema informatico di Kia come concessionario, possono dire al sistema di aggiungere il loro indirizzo di mail a quelli abilitati a mandare comandi remoti all’auto, e a questo punto diventano pienamente padroni di telecomandare il veicolo del malcapitato utente.

Resta solo da scoprire il VIN del veicolo scelto come bersaglio, ma questo è relativamente facile. Molti veicoli riportano questo identificativo in maniera ben visibile, per esempio su una targhetta dietro il parabrezza, ma anche se il VIN non è in bella mostra e non c’è modo di avvicinarsi al veicolo per leggerlo è possibile iscriversi a uno dei tanti servizi che forniscono il VIN di un veicolo partendo dal suo numero di targa.


Visto che hanno trovato questo ultimo tassello del mosaico, Sam Curry e colleghi sono pronti per dimostrare il loro attacco. Avvisano immediatamente Kia, che risponde tre giorni dopo, e creano un’app che esegue automaticamente l’intero processo di intrusione: parte appunto dal numero di targa dell’auto presa di mira, che per ovvie ragioni è ben visibile, e poi interroga un servizio commerciale per ottenere il VIN corrispondente a quella targa.

Poi l’app si annuncia al sito di Kia come se fosse un concessionario, e si procura così l’indirizzo di mail associato al veicolo, aggiunge l’indirizzo di mail degli hacker a quello dell’utente legittimo, e infine promuove quell’indirizzo a utente principale.

A quel punto gli hacker, per restare nei limiti della dimostrazione non pericolosa e legale, noleggiano una Kia e registrano un video nel quale si vede che l’auto inizialmente chiusa a chiave diventa apribile, telecomandabile e localizzabile semplicemente immettendo nella loro app il suo numero di targa. Il 20 giugno mandano a Kia lo screenshot della loro app dimostrativa.

Passano varie settimane, e finalmente il 14 agosto Kia risponde dicendo che la vulnerabilità è stata corretta e che sta verificando che la correzione funzioni. Gli hacker, da parte loro, verificano che effettivamente la falla è stata turata e il 26 settembre scorso, pochi giorni fa, insomma, annunciano la loro scoperta pubblicandone i dettagli tecnici presso Samcurry.net.

Tutto è bene quel che finisce bene, si potrebbe pensare. La casa costruttrice ha preso sul serio la segnalazione di allarme degli hacker benevoli, cosa che non sempre succede, ha agito e ha risolto il problema. Ma tutto questo è stato possibile perché anche stavolta la falla, piuttosto grossolana, è stata scoperta da informatici ben intenzionati che hanno condiviso con l’azienda quello che avevano trovato. La prossima volta potrebbe non andare così bene e una nuova falla potrebbe finire nelle mani del crimine informatico organizzato.

Questa scoperta di una nuova grave vulnerabilità nella sicurezza delle automobili connesse, così di moda oggi, mette in evidenza i rischi e i vantaggi della crescente digitalizzazione nel settore automobilistico, che non sembra essere accompagnata da una corrispondente crescita dell’attenzione alla sicurezza informatica da parte dei costruttori. E noi consumatori, in questo caso, non possiamo fare praticamente nulla per rimediare.

Certo, questi veicoli connessi offrono grandi vantaggi in termini di comodità, con funzioni avanzate come il monitoraggio remoto, gli aggiornamenti del software senza recarsi in officina e i servizi di navigazione migliorati. Ma il loro collegamento a Internet, se non è protetto bene, li rende vulnerabili a possibili attacchi informatici, diventa un pericolo per la sicurezza del conducente e dei passeggeri, per esempio attraverso accessi non autorizzati ai sistemi critici del veicolo come i freni o l’acceleratore, e mette a rischio la privacy dei dati personali. Se è così facile accreditarsi come concessionari in un sistema informatico di un costruttore di auto, come abbiamo visto grazie a Sam Curry e ai suoi colleghi, vuol dire che la lezione di sicurezza non è stata ancora imparata a sufficienza.

Il caso di Kia, insomma, è un esempio da manuale di come agisce un aggressore informatico, e può essere esteso a qualunque attività che dipenda da Internet e dai computer. L’aspirante intruso è fantasioso e non attacca frontalmente ma cerca qualunque varco secondario lasciato aperto e lo usa come cuneo per penetrare gradualmente nei sistemi, andando sempre più in profondità. È quasi sempre molto più motivato e ossessivo di un difensore, che ha il problema di essere spesso poco apprezzato dal datore di lavoro, perché il suo lavoro è invisibile per definizione: quando opera bene non succede nulla e non ci si accorge di nulla.

Provate a guardare la vostra attività e chiedetevi se avete per caso blindato tanto bene la vostra porta principale ma avete dimenticato che per esempio l’ingresso dedicato ai fornitori è protetto “per comodità” da un PIN di accesso, che tutti quei fornitori puntualmente si annotano su un foglietto di carta appiccicato in bella vista sul cruscotto del loro furgone. Far esaminare le proprie difese dagli occhi di una persona esperta esterna può essere molto illuminante e può salvare da figuracce e disastri.

Fonte aggiuntiva

Flaw in Kia’s web portal let researchers track, hack cars (Ars Technica)

Niente Panico RSI – Puntata del 2024/10/07 (nuovo orario)

Stamattina andrà in onda una nuova puntata in diretta di Niente Panico, il programma che conduco insieme a Rosy Nervi sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera, con un nuovo orario: non più alle 11 ma alle 9.

La trasmissione sarà ascoltabile in streaming in diretta su https://www.rsi.ch/audio/rete-tre/live/ e riascoltabile qui https://www.rsi.ch/rete-tre/programmi/intrattenimento/serotonina o nell’embed che aggiungerò qui sotto non appena sarà disponibile la registrazione.

2024/10/09. Ecco la registrazione:

I temi della puntata

L’account Instagram della settimana: @whatif.now, un esempio non popolarissimo (8500 follower) ma notevole di come l’intelligenza artificiale, nelle mani di persone di talento, possa essere usata per creare quella che perlomeno a me sembra definibile come arte.

La bufala della settimana: Oltre 600.000 persone, fra le quali l’attore James McAvoy, hanno creduto alla bufala del messaggio “Goodbye Meta AI” che, se postato pubblicamente, negherebbe a Meta il diritto di usare le loro immagini per l’addestramento delle intelligenze artificiali dell’azienda. Non è così: per negare questo utilizzo non basta un messaggio pubblicato ma è necessario attivare un’opzione apposita, che ho descritto nel podcast del Disinformatico del 7 giugno 2024 (BBC).

L’intervista impossibile: Bette Davis. Testo generato da ChatGPT (al quale è stato chiesto di leggersi prima la pagina di Wikipedia dedicata all’attrice) e voce generata da ElevenLabs. Chicca: la canzone Bette Davis Eyes, diventata popolarissima (nove settimane in cima alla classifica della Hot 100 di Billboard, Grammy come canzone dell’anno nel 1981) grazie a Kim Carnes, è ovviamente ispirata a quest’attrice, ma quella di Kim Carnes non è la versione originale, che è invece questa interpretata da Jackie DeShannon e scritta insieme a Donna Weiss nel 1974 (Wikipedia).

Abbiamo anche presentato due brani creati con Suno per ricordare semiseriamente il cambio di orario.

Podcast RSI – Password, Microsoft e NIST dicono che cambiarle periodicamente è sbagliato

Questo è il testo della puntata dell’11 ottobre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


[CLIP: rumore di picchiettio sulla tastiera interrotto ripetutamente dal suono di errore di immissione]

Le password. Le usiamo tutti, ne abbiamo tantissime, e di solito le detestiamo. Non ce le ricordiamo, sono scomode da digitare soprattutto sulle minuscole tastiere touch dei telefonini, facciamo fatica a inventarcele e dopo tutta quella fatica ci viene imposto periodicamente di cambiarle, e ci viene detto che è “per motivi di sicurezza”.

Ma Microsoft dice da anni che questo cambio ricorrente è sbagliato, e adesso anche il NIST, uno delle più autorevoli enti di riferimento per la sicurezza informatica, ha annunciato che sta aggiornando le proprie linee guida per sconsigliare di cambiare periodicamente le password, dopo anni che ci è stato detto e stradetto esattamente il contrario. Come mai questo dietrofront? Perché gli esperti non si decidono una buona volta?

Proviamo a capire cosa sta succedendo in questa puntata delll’11 ottobre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo. Benvenuti.

[SIGLA di apertura]


Probabilmente la sigla NIST non vi dice nulla. Queste quattro lettere sono l’acronimo di National Institute of Standards and Technology, e rappresentano l’agenzia governativa statunitense che regolamenta le tecnologie sviluppando metodi e soprattutto standard di riferimento che vengono poi adottati a livello mondiale. Quando il NIST parla, il mondo ascolta.

Poche settimane fa il NIST ha appunto parlato. O meglio, come si addice a qualunque ente burocratico, ha pubblicato online ben quattro volumi di linee guida per le identità digitali, pieni di gergo tecnico, che definiscono i nuovi standard di sicurezza che dovranno essere adottati da tutti gli enti federali degli Stati Uniti. Il resto del pianeta, di solito, abbraccia questi standard, per cui quello che dice il NIST diventa rapidamente regola mondiale.

Le icone dei volumi delle linee guida del NIST per le identità digitali.

In questi quattro volumi è annidata una serie di cambiamenti molto profondi nelle regole di sicurezza per le password. Sono cambiamenti che vanno in senso diametralmente opposto alle norme che per anni ci sono state imposte dai siti e dai servizi presso i quali abbiamo aperto degli account.

Per esempio, le nuove regole vietano di chiedere agli utenti di cambiare periodicamente le proprie password, come invece si è fatto finora; proibiscono di imporre che le password contengano un misto di caratteri maiuscoli e minuscoli, numeri, simboli e segni di punteggiatura; e vietano di usare informazioni personali, come per esempio il nome del primo animale domestico o il cognome da nubile della madre, come domande di verifica dell’identità.

Se vi sentite beffati, è normale, ma gli informatici del NIST non sono impazziti improvvisamente: sono anni che gli addetti ai lavori dicono che le regole di sicurezza adottate fin qui sono sbagliate, vecchie e inutili o addirittura controproducenti, tanto che riducono la sicurezza informatica invece di aumentarla. Per esempio, già nel 2019 Microsoft aveva annunciato che avrebbe tolto dalle sue impostazioni di base raccomandate il requisito lungamente consigliato di cambiare periodicamente le password, definendolo addirittura “antico e obsoleto”. Ancora prima, nel 2016, Lorrie Cranor, professoressa alla Carnegie Mellon University e tecnologa capo della potente Federal Trade Commission, aveva criticato pubblicamente questa regola.

Lorrie Cranor racconta che chiese ai responsabili dei social media dell‘FTC come mai l‘agenzia raccomandava ufficialmente a tutti di cambiare spesso le proprie password. La risposta fu che siccome l‘FTC cambiava le proprie password ogni 60 giorni, doveva essere una raccomandazione valida.

Il requisito era sensato all’epoca, ma oggi non lo è più per una serie di ragioni pratiche. I criminali informatici hanno oggi a disposizione computer potentissimi, con i quali possono effettuare in pochissimo tempo un numero enorme di calcoli per tentare di trovare la password di un utente. Di solito violano un sistema informatico, ne rubano l’archivio delle password, che è protetto dalla crittografia, e poi tentano per forza bruta di decrittare sui loro computer il contenuto di questo archivio, facendo se necessario miliardi di tentativi.

Il numero dei tentativi diminuisce drasticamente se la password cercata è facile da ricordare, come per esempio un nome o una frase tratta da un film, da una canzone o da un libro. E con la potenza di calcolo attuale il vecchio trucco di alterare le parole di senso compiuto di una password aggiungendovi lettere o simboli o cambiando per esempio le O in zeri è diventato irrilevante, perché non aumenta granché, in proporzione, il numero di tentativi necessari. I software di decrittazione odierni includono dizionari, cataloghi di password popolari compilati sulla base delle password trovate nei furti precedenti, e istruzioni per tentare prima di tutto le alterazioni più frequenti delle parole. Se pensavate di essere al sicuro e anche magari molto cool perché scrivevate la cifra 3 al posto della lettera E nelle vostre password, non lo siete più, e da un pezzo.


Obbligare a cambiare le proprie password periodicamente o a usare caratteri diversi dalle lettere, dicono i ricercatori sulla base di numerose osservazioni sperimentali, non aiuta affatto la sicurezza e anzi la riduce, per una serie di ragioni molto umane. Di fronte a questi obblighi, infatti, gli utenti tipicamente reagiscono scegliendo password più deboli. Tendono a usare schemi, per esempio cambiando password1 in password2 e così via, e i criminali questo lo sanno benissimo.

Se una password è difficile da ricordare perché deve contenere caratteri maiuscoli e minuscoli, cifre e simboli, e viene imposto di cambiarla comunque a scadenza fissa per cui la fatica di ricordarsela aumenta, gli utenti tipicamente reagiscono anche annotandola da qualche parte, dove verrà vista da altri.

Le password andrebbero cambiate solo in caso di furto accertato o perlomeno sospettato, non preventivamente e periodicamente. Come scrive Microsoft, “una scadenza periodica delle password difende solo contro la probabilità che una password […] sia stata rubata durante il suo periodo di validità e venga usata da un’entità non autorizzata.” In altre parole, avere una scadenza significa che l’intruso prima o poi perderà il proprio accesso, ma se la scadenza è ogni due o tre mesi, vuol dire che avrà comunque quell’accesso per un periodo più che sufficiente a far danni.

Le soluzioni tecniche che funzionano, per le password, sono la lunghezza, la casualità, l’autenticazione a due fattori (quella in cui oltre alla password bisogna digitare un codice ricevuto sul telefono o generato da un’app) e le liste di password vietate perché presenti nei cataloghi di password usati dai criminali.

Quanto deve essere lunga una password per essere sicura oggi? Gli esperti indicano che servono almeno undici caratteri, generati a caso, per imporre tempi di decrittazione lunghi che scoraggino gli aggressori. Ogni carattere in più aumenta enormemente il tempo e la fatica necessari. Le nuove linee guida del NIST indicano un minimo accettabile di otto caratteri, ma ne raccomandano almeno quindici e soprattutto consigliano di consentire lunghezze di almeno 64. Eppure capita spesso di imbattersi in siti o servizi che si lamentano che la password scelta è troppo lunga, nonostante il fatto che oggi gestire e immettere password lunghissime e quindi molto sicure sia facile grazie ai password manager, cioè le app o i sistemi operativi che memorizzano per noi le password e le immettono automaticamente quando servono.

La casualità, inoltre, non richiede di usare per forza caratteri maiuscoli e minuscoli o simboli: il NIST è molto chiaro in questo senso e specifica che questo uso non dovrebbe essere imposto. La ragione è molto semplice: una password sufficientemente lunga e generata in maniera realmente casuale, per esempio tramite i generatori di password ormai presenti in tutti i browser più diffusi, come Chrome o Firefox o Edge, non trae alcun beneficio significativo dall’inclusione obbligata di questi caratteri e anzi sapere che c‘è quest’obbligo può essere un indizio utile per gli aggressori.

E a proposito di indizi, un’altra nuova linea guida del NIST che va contro le abitudini comuni di sicurezza è il divieto di offire aiutini. Capita spesso di vedere che un sito o un dispositivo, dopo un certo numero di tentativi falliti di immettere una password, offra un promemoria o un suggerimento che aiuta a ricordare la password giusta. Purtroppo questo suggerimento può essere letto dall’aggressore e può aiutarlo moltissimo nel ridurre l’insieme delle password da tentare.

Ci sono anche altre due regole di sicurezza del NIST che cambiano perché la tecnologia è cambiata e i vecchi comportamenti non sono più sicuri. Una è la domanda di sicurezza, e l’altra è decisamente sorprendente.


La domanda di sicurezza è un metodo classico e diffusissimo di verificare l’identità di una persona: le si chiede qualcosa che solo quella persona può sapere e il gioco è fatto. Ma il NIST vieta, nelle sue nuove regole, l’uso di questa tecnica (knowledge-based authentication o autenticazione basata sulle conoscenze).

La ragione è che oggi per un aggressore o un impostore è molto più facile che in passato procurarsi i dati personali richiesti dalle tipiche domande di sicurezza, come il cognome da nubile della madre, il luogo di nascita o il nome del cane o gatto. È più facile perché le persone condividono tantissime informazioni sui social network, senza rendersi conto che appunto il loro cognome da nubili, che magari pubblicano per farsi trovare dagli amici e dalle amiche d’infanzia, è anche la chiave per sbloccare l’account del figlio, e che le foto del loro animale domestico di cui vanno fieri includono anche il nome di quell’animale e verranno viste anche dagli aggressori.

Inoltre il boom dei siti di genealogia, dove le persone ricostruiscono spesso pubblicamente i loro rapporti di parentela, ha come effetto collaterale non intenzionale una grande facilità nel reperire i dati personali da usare come risposte alle domande di sicurezza. Quindi prepariamoci a dire addio a queste domande. In attesa che i siti si adeguino alle nuove linee guida, conviene anche prendere una precauzione: se un sito vi chiede a tutti i costi di creare una risposta da usare in caso di password smarrita o dimenticata, non immettete una risposta autentica. Se il sito chiede dove siete nati, rispondete mentendo, però segnatevi la risposta falsa da qualche parte.

La regola di sicurezza sorprendente enunciata adesso dal NIST è questa: la verifica della password inviata dall’utente deve includere l’intera password immessa e non solo i suoi primi caratteri. Sì, avete capito bene: molti siti, dietro le quinte, in realtà non controllano affatto tutta la password che digitate, ma solo la sua parte iniziale, perché usano vecchissimi metodi di verifica che troncano le password oltre una certa lunghezza, e siccome questi metodi hanno sempre funzionato, nessuno va mai a modificarli o aggiornarli, anche perché se si sbaglia qualcosa nella modifica le conseguenze sono catastrofiche: non riesce a entrare più nessun utente. Tutto questo vuol dire che per questi siti una password lunga è inutile e in realtà non aumenta affatto la sicurezza, perché se l’intruso indovina le prime lettere della password e poi ne sbaglia anche le successive, entra lo stesso nell’account.

Passerà parecchio tempo prima che queste nuove linee guida vengano adottate diffusamente, ma la loro pubblicazione è un primo passo importante verso una maggiore sicurezza per tutti. Il fatto che finalmente un’autorità come il NIST dichiari pubblicamente che cambiare periodicamente le password è sbagliato e non va fatto offre ai responsabili della sicurezza informatica delle aziende e dei servizi online una giustificazione robusta per adottare misure al passo con i tempi e con le tecnologie di attacco. Misure che loro chiedono di applicare da tempo, ma che i dirigenti sono spesso riluttanti ad accogliere, perché per chi dirige è più importante essere conformi e superare i controlli dei revisori che essere realmente sicuri.

Nel frattempo, anche noi utenti dobbiamo fare la nostra parte, adottando i generatori e gestori di password e usando ovunque l’autenticazione a due fattori. E invece troppo spesso vedo utenti fermi alla password costituita dal nome e dall’anno di nascita o addirittura dall’intramontabile “12345678”, usata oltretutto dappertutto perché “tanto chi vuoi che venga a rubare proprio a me l’account e comunque è una password così ovvia che non penseranno mai di provarla”.

Sarà forse colpa delle serie TV, che per motivi di drammaticità mostrano sempre gli hacker che entrano nei sistemi informatici tentando manualmente le password, ma sarebbe ora di capire che non è così che lavorano i criminali informatici: non pensano alle password da provare, ma lasciano che i loro computer ultraveloci le tentino tutte fino a trovare quella giusta. L’unico modo efficace per fermarli è rendere difficili questi tentativi usando lunghezza e casualità sufficienti, insieme al paracadute dell’autenticazione tramite codice temporaneo. Diamoci da fare.

Fonti aggiuntive

NIST proposes barring some of the most nonsensical password rules, Ars Technica

NIST proposed password updates: What you need to know, 1password.com