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Serbia

Fare memoria: Kosovo, 24 marzo 1999 – 24 marzo 2025

È notizia dello scorso 18 marzo la firma di una dichiarazione congiunta, nella capitale albanese Tirana, finalizzata alla cooperazione trilaterale (ma, in base alle dichiarazioni, potenzialmente aperta all’eventualità di coinvolgere anche altri Paesi della regione) in materia di difesa tra Croazia, Albania e Kosovo, attraverso la quale le parti contraenti si propongono di “rafforzare l’industria della difesa e della sicurezza, incrementare l’interoperabilità militare attraverso esercitazioni e addestramento congiunti, contrastare le minacce ibride e migliorare la sicurezza strategica, nonché promuovere il sostegno all’integrazione euro-atlantica”. La mossa ha suscitato una serie di reazioni e pone non pochi problemi, non solo di ordine pratico, in relazione alle possibilità effettive di implementazione e di sviluppo, ma anche di ordine formale, considerando, tra i tre contraenti, la particolare posizione del Kosovo, che non può dotarsi di una struttura della difesa comparabile a quella delle altre parti e che, prima ancora, non è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto tale.

Tra le reazioni, immediata, ovviamente, quella di Belgrado, che ha giudicato la firma della dichiarazione come una provocazione e, più ancora, una mossa capace di determinare effetti di insicurezza e destabilizzazione nella regione: “Adottando misure che minano la stabilità regionale, due Paesi, insieme al rappresentante delle istituzioni provvisorie di autogoverno a Prishtina, intraprendono azioni che costituiscono un grave rischio per la pace e la sicurezza nella regione”. Nella prospettiva dell’integrazione euro-atlantica, questa iniziativa viene a prefigurare la possibilità di ulteriori consolidamenti di carattere militare nell’Europa sud-orientale, sempre più rilevante e strategica, sullo sfondo della guerra in Ucraina, e di fronte ai tentativi di destabilizzazione che stanno attraversando la Serbia, alla pesante crisi politica e istituzionale in Bosnia-Erzegovina e alla situazione di tensione che caratterizza il Kosovo. Secondo la dichiarazione del Ministero della Difesa albanese, infatti, “in un ambiente di sicurezza fragile, condividiamo una valutazione comune delle minacce. Il nostro impegno per rafforzare le capacità di difesa è più forte che mai”. Non propriamente una dichiarazione di mitigazione delle tensioni.

È possibile considerare questa dichiarazione, al netto delle sue possibili ulteriori implementazioni, sotto tre diversi punti di vista. Intanto, di per sé, restringendo l’area della cooperazione militare a due Paesi e una regione la cui statualità è controversa – Paesi e regioni peraltro non confinanti – la dichiarazione concorre alla frammentazione molto più che alla convergenza. In ultima analisi, inserisce un ulteriore fattore di rischio, di divisione e di disarticolazione nel quadro, già particolarmente teso e complesso, dei rapporti bilaterali e multilaterali, in quello che si potrebbe chiamare lo spazio post-jugoslavo e, comprendendo anche l’Albania, dei Balcani occidentali. Inoltre, come conseguenza di questa posizione, non aiuta la costruzione di rapporti positivi né il miglioramento del clima di fiducia nei Balcani, aspetto, quest’ultimo, tanto più grave nel momento in cui si assiste a uno stallo nel processo del dialogo tra Belgrado e Prishtina, volto alla soluzione della questione del Kosovo sotto la mediazione Ue, e nel momento stesso in cui si assiste a un grave deterioramento del processo di Dayton e di costruzione di rapporti positivi volti al miglioramento della situazione in Bosnia-Erzegovina.

Come ha messo in evidenza Branka Latinović, membro del Forum per le relazioni internazionali del Movimento europeo in Serbia, “la fiducia è stata violata, e la fiducia è necessaria per fare qualsiasi progresso nella regione. E se non c’è dialogo e non c’è fiducia reciproca, la sicurezza nella regione diventa fragile. Inoltre, la Dichiarazione è, in primo luogo, volta a rafforzare i legami tra il Kosovo e la Nato”. E questo è il terzo aspetto da considerare: l’Albania e la Croazia sono entrate nella Nato nel 2009, rappresentano fattori importanti, dal punto di vista euro-atlantico, ai fini del potenziamento del fianco sud-orientale e della presenza e della proiezione della Nato in questo scenario, sempre più rilevante e strategico. Per quanto il quadro di diritto internazionale impedirebbe tale esito, le autorità albanesi kosovare non fanno mistero di voler entrare nella Nato, peraltro già presente nella regione con una propria missione militare (Kfor) a seguito dell’approvazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E qui si giunge al quadro di diritto e di giustizia internazionale.

Com’è noto, infatti, la posizione internazionale del Kosovo è regolata dal Parere (Consultivo) del 22 luglio 2010 della Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto che la dichiarazione di indipendenza kosovara non ha rappresentato, di per sé, una violazione del diritto internazionale, e, soprattutto, dalla Risoluzione (vincolante, almeno teoricamente) 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, che ribadisce la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava, oggi Serbia, e prescrive, per il Kosovo, non l’indipendenza, bensì «una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione». Il Kosovo è riconosciuto da 103 su 193 Paesi membri delle Nazioni Unite (il 53% del totale), non ha un seggio in Assemblea Generale, e non è riconosciuto dall’Unione Europea in quanto tale, dal momento che cinque Paesi membri non lo riconoscono (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro). Sono undici gli Stati che hanno ritirato il riconoscimento inizialmente dato.

Il 24 marzo cade l’anniversario dell’aggressione della Nato nei confronti dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Alla fine della guerra del Kosovo, durata sino al 10 giugno 1999, si contavano 2.500 civili innocenti uccisi, oltre 12.000 feriti e circa 4.500 persone scomparse, senza contare i danni derivati dall’uso, da parte della Nato, di bombe a grappolo, di missili a uranio impoverito e di bombe alla grafite contro gli impianti elettrici della Serbia. Non è davvero di nuove dichiarazioni e misure di carattere militare, sullo sfondo del gigantesco piano di riarmo dell’UE da 800 miliardi di dollari, che vi sarebbe bisogno, ma al contrario di ricostruire occasioni e spazi di dialogo e di diplomazia, di ricomporre il terreno della fiducia reciproca e della cooperazione in ambito civile, di rilanciare il negoziato e delineare, finalmente, una soluzione di pace, con diritti e con giustizia.

Riferimenti:

Marija Stojanović, “What is the aim of the Declaration on military cooperation between Croatia, Albania and Kosovo?”, European Western Balkans, 24.03.2025: https://europeanwesternbalkans.com/2025/03/24/what-is-the-aim-of-the-declaration-on-military-cooperation-between-croatia-albania-and-kosovo

Gianmarco Pisa, “Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina”, Pressenza, 18.03.2025: https://www.pressenza.com/it/2025/03/se-la-crisi-precipita-sulla-bosnia-erzegovina

Risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza: https://unmik.unmissions.org/united-nations-resolution-1244.

 

Gianmarco Pisa

Serbia e Bosnia, le manifestazioni studentesche e una polveriera pronta a esplodere

Il 15 marzo scorso a Belgrado quando centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo serbo e il presidente Aleksandar Vučić, non è stato il “dan D” ovvero il giorno della svolta dopo il quale nulla sarà più lo stesso in Serbia. Sicuramente è stata la più grande manifestazione pacifica nella storia del paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone che hanno riempito le piazze della capitale. Dalla Grande Serbia, Belgrado è rimasta troppo piccola per poter ospitare cittadini provenienti da ogni parte del paese, per sostenere gli studenti e manifestare contro il presidente serbo, al potere da 12 anni e che da oltre quattro mesi, da quando sono iniziate le proteste studentesche, continua a ignorare la crisi politica. Una crisi che i media occidentali hanno definito la più grave dai tempi della caduta del governo di Slobodan Milošević nel 2000.

Gli organizzatori avevano promesso che sarebbe stato un raduno pacifico, concentrato davanti alla sede del parlamento. Molti cittadini si aspettavano che il governo di Vučić cadesse dopo le manifestazioni, mentre altri erano pronti a provocare scontri e violenze, finendo per favorire il presidente serbo. Coloro che sono realmente caduti a terra nelle strade non erano agitatori, ma manifestanti pacifici che sono stati colti di sorpresa da un suono assordante, descritto dai presenti come simile a un'esplosione o al rumore di un proiettile o di una caduta aerea, mentre stavano commemorando in silenzio per 15 minuti le vittime della stazione di Novi Sad. Nonostante i video diffusi sui social media mostrassero la folla disperdersi impaurita, un dettaglio che, secondo molti analisti militari, potrebbe suggerire l'uso di un presunto “cannone sonoro” a disposizione delle forze di sicurezza serbe, sia il presidente Aleksandar Vučić che il ministro degli Interni Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo e successore politico di Slobodan Milošević, hanno negato non solo l'impiego di tale arma, ma persino la sua esistenza, affermando che la polizia serba non ne sarebbe mai stata in possesso.

Una cosa assolutamente non vera, come ha dimostra l’immagine presentata il giorno dopo la manifestazione dai leader di opposizione e del partito “La Libertà e Giustizia”, Marinika Tepić, in cui si vede chiaramente un cannone sonoro, ovvero un dispositivo acustico a lungo raggio (LRAD) del marchio Vortex, il cui impiego è vietato dalla legge serba, parcheggiato dietro il Parlamento. Dopo la diffusione di quell'immagine, il ministro Dačić ha ammesso che lo Stato possiede un'arma di quel tipo, ma ha negato che sia stata utilizzata contro i manifestanti. Il presidente Vučić, invece, ha detto che se emergeranno prove che è stato utilizzato un cannone sonico, non sarà più il presidente.

Parole poco credibili, soprattutto perché, quello stesso giorno, Vučić ha annunciato l'intenzione di formare un nuovo governo entro il 15 aprile. Ha aggiunto che, nel caso non ci riuscisse, indirebbe nuove elezioni a giugno, escludendo però categoricamente la possibilità di un governo di transizione. Ha poi dichiarato che non lascerà il paese "in mano ai terroristi", come ha definito i leader dell’opposizione.

"Finché sono vivo, non accetterò nessun governo di transizione. Se vogliono sostituirmi, devono uccidermi", ha dichiarato Vučić al suo rientro da Bruxelles, dove il 19 marzo ha incontrato il segretario generale della NATO, Mark Rutte. Durante il colloquio, hanno discusso della situazione in Kosovo, ma anche delle tensioni in Bosnia ed Erzegovina, ma così alte dai tempi della guerra degli anni ’90. La situazione è precipitata dopo l’emissione del mandato di arresto per il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’intensificarsi delle manovre dei rappresentanti serbi per ottenere la secessione da Sarajevo, nella speranza di ricevere il sostegno non solo da Putin, ma anche da Trump.

Il sostegno al regime di Vučić non è più la garanzia per la stabilità regionale

Le proteste in Serbia, così come le tensioni in Bosnia ed Erzegovina, hanno inevitabilmente attirato l’attenzione della politica internazionale. Dopo mesi di silenzio sulla rivolta studentesca e cittadina, alcuni politici occidentali hanno finalmente preso posizione. Oltre a ribadire il loro sostegno all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, hanno commentato con cautela anche l’ondata di malcontento che sta attraversando le strade serbe.

Sembra ormai evidente che il sostegno alla "stabilocrazia" di Aleksandar Vučić non rappresenti una garanzia assoluta per la stabilità regionale. Di conseguenza, gli incontri diretti tra alcuni funzionari internazionali e il presidente serbo sono diventati sempre più frequenti.

Tuttavia, la commissaria europea per l'allargamento, Marta Kos, ha definito "costruttivo" l'incontro a Bruxelles con Vučić, spiegando che si è discusso di passi concreti nel percorso della Serbia verso l'UE e dell'attuazione del piano di crescita per i Balcani occidentali. Ha anche sottolineato “l'importanza della società civile e dei media indipendenti in questo processo", dimenticando, però, che in Serbia da quattro mesi la società civile è impegnata in manifestazioni contro il presidente serbo, mentre molti media pro-governativi, inclusa la radiotelevisione del servizio pubblico, svolgono un ruolo da portavoce del presidente stesso. Secondo un'indagine non-governativa CRTA, durante lo scorso anno, il presidente serbo ha partecipato 330 volte alle trasmissioni televisive.

Come spiega per Valigia Blu Dušan Janjić, del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, la situazione in Serbia è al limite e il comportamento delle autorità serbe contribuisce a questo processo, attirando l'attenzione anche della NATO, data l'importanza regionale del paese.

Per quanto riguarda la situazione tesa in Bosnia ed Erzegovina, Janjić ritiene che Vučić abbia ricevuto un avvertimento diplomatico, sottolineando che il tempo è scaduto e che non c'è più spazio per i cosiddetti "doppi giochi" di sostegno o mancato sostegno a figure come Milorad Dodik.

L’arresto di Dodik potrebbe essere il test per l’equilibrio istituzionale in Bosnia

La Bosnia ed Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine della guerra degli anni '90, con il crescente rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska e il governo centrale è esplosa dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, avvenuta il 27 febbraio scorso, accusato di minare l'ordine costituzionale. In risposta, le autorità della Republika Srpska hanno respinto la sentenza e ordinato il ritiro della polizia di Stato dal territorio a maggioranza serba, mentre il leader serbo-bosniaco ha detto “che la Bosnia non esisterà più”.

Questa escalation ha spinto la comunità internazionale a rafforzare le forze di peacekeeping, ma la situazione resta critica, soprattutto nella parte interna della Republika Srpska, dove lo stesso Dodik non ha più il sostegno dei cittadini. 

L'aspirazione di Dodik verso una maggiore autonomia, se non addirittura la secessione, è sempre stata forte, ma ora è più che mai pronunciata. Se le autorità dovessero tentare di arrestarlo, i rischi di violenza potrebbero diventare concreti, con gravi conseguenze per la stabilità non solo della Bosnia, ma dell'intera regione.

Chi può calmare le tensioni?

Nonostante, in questo momento, il presidente serbo Vučić stia affrontando una crisi politica grave, sicuramente proverà a spostare l'attenzione da quello che succede in Serbia, beneficiando dell’instabilità nella Bosnia-Erzegovina. Anche se dovesse formare un governo, il problema resterebbe che sempre meno membri della comunità internazionale si fidano di lui.

“Questo scetticismo persisterà finché non verrà avviata un'indagine internazionale sugli eventi del 15 marzo a Belgrado”, spiega ancora Janjić.

In sostanza, Bosnia e Serbia tornano al centro dello scenario internazionale, dove le alleanze geopolitiche giocano un ruolo fondamentale. Mentre Russia e Ungheria sostengono Dodik e Vučić, l'Unione Europea li condanna, ma solo ora, dopo un lungo periodo in cui ha agito da semplice osservatrice sulla situazione che perdura da mesi in Serbia.

Il ruolo cruciale potrebbe spettare agli Stati Uniti, in particolare sotto l'amministrazione Trump, che potrebbe essere decisiva nel fermare un conflitto potenzialmente in grado di oltrepassare i confini della regione. Tuttavia, la domanda resta, se il presidente americano rispetterà il diritto internazionale che tutela la sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina.

Immagine in anteprima: frame video Guardian

Fare memoria: Kosovo, 24 marzo 1999 – 24 marzo 2025

È notizia dello scorso 18 marzo la firma di una dichiarazione congiunta, nella capitale albanese Tirana, finalizzata alla cooperazione trilaterale (ma, in base alle dichiarazioni, potenzialmente aperta all’eventualità di coinvolgere anche altri Paesi della regione) in materia di difesa tra Croazia, Albania e Kosovo, attraverso la quale le parti contraenti si propongono di “rafforzare l’industria della difesa e della sicurezza, incrementare l’interoperabilità militare attraverso esercitazioni e addestramento congiunti, contrastare le minacce ibride e migliorare la sicurezza strategica, nonché promuovere il sostegno all’integrazione euro-atlantica”. La mossa ha suscitato una serie di reazioni e pone non pochi problemi, non solo di ordine pratico, in relazione alle possibilità effettive di implementazione e di sviluppo, ma anche di ordine formale, considerando, tra i tre contraenti, la particolare posizione del Kosovo, che non può dotarsi di una struttura della difesa comparabile a quella delle altre parti e che, prima ancora, non è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto tale.

Tra le reazioni, immediata, ovviamente, quella di Belgrado, che ha giudicato la firma della dichiarazione come una provocazione e, più ancora, una mossa capace di determinare effetti di insicurezza e destabilizzazione nella regione: “Adottando misure che minano la stabilità regionale, due Paesi, insieme al rappresentante delle istituzioni provvisorie di autogoverno a Prishtina, intraprendono azioni che costituiscono un grave rischio per la pace e la sicurezza nella regione”. Nella prospettiva dell’integrazione euro-atlantica, questa iniziativa viene a prefigurare la possibilità di ulteriori consolidamenti di carattere militare nell’Europa sud-orientale, sempre più rilevante e strategica, sullo sfondo della guerra in Ucraina, e di fronte ai tentativi di destabilizzazione che stanno attraversando la Serbia, alla pesante crisi politica e istituzionale in Bosnia-Erzegovina e alla situazione di tensione che caratterizza il Kosovo. Secondo la dichiarazione del Ministero della Difesa albanese, infatti, “in un ambiente di sicurezza fragile, condividiamo una valutazione comune delle minacce. Il nostro impegno per rafforzare le capacità di difesa è più forte che mai”. Non propriamente una dichiarazione di mitigazione delle tensioni.

È possibile considerare questa dichiarazione, al netto delle sue possibili ulteriori implementazioni, sotto tre diversi punti di vista. Intanto, di per sé, restringendo l’area della cooperazione militare a due Paesi e una regione la cui statualità è controversa – Paesi e regioni peraltro non confinanti – la dichiarazione concorre alla frammentazione molto più che alla convergenza. In ultima analisi, inserisce un ulteriore fattore di rischio, di divisione e di disarticolazione nel quadro, già particolarmente teso e complesso, dei rapporti bilaterali e multilaterali, in quello che si potrebbe chiamare lo spazio post-jugoslavo e, comprendendo anche l’Albania, dei Balcani occidentali. Inoltre, come conseguenza di questa posizione, non aiuta la costruzione di rapporti positivi né il miglioramento del clima di fiducia nei Balcani, aspetto, quest’ultimo, tanto più grave nel momento in cui si assiste a uno stallo nel processo del dialogo tra Belgrado e Prishtina, volto alla soluzione della questione del Kosovo sotto la mediazione Ue, e nel momento stesso in cui si assiste a un grave deterioramento del processo di Dayton e di costruzione di rapporti positivi volti al miglioramento della situazione in Bosnia-Erzegovina.

Come ha messo in evidenza Branka Latinović, membro del Forum per le relazioni internazionali del Movimento europeo in Serbia, “la fiducia è stata violata, e la fiducia è necessaria per fare qualsiasi progresso nella regione. E se non c’è dialogo e non c’è fiducia reciproca, la sicurezza nella regione diventa fragile. Inoltre, la Dichiarazione è, in primo luogo, volta a rafforzare i legami tra il Kosovo e la Nato”. E questo è il terzo aspetto da considerare: l’Albania e la Croazia sono entrate nella Nato nel 2009, rappresentano fattori importanti, dal punto di vista euro-atlantico, ai fini del potenziamento del fianco sud-orientale e della presenza e della proiezione della Nato in questo scenario, sempre più rilevante e strategico. Per quanto il quadro di diritto internazionale impedirebbe tale esito, le autorità albanesi kosovare non fanno mistero di voler entrare nella Nato, peraltro già presente nella regione con una propria missione militare (Kfor) a seguito dell’approvazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E qui si giunge al quadro di diritto e di giustizia internazionale.

Com’è noto, infatti, la posizione internazionale del Kosovo è regolata dal Parere (Consultivo) del 22 luglio 2010 della Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto che la dichiarazione di indipendenza kosovara non ha rappresentato, di per sé, una violazione del diritto internazionale, e, soprattutto, dalla Risoluzione (vincolante, almeno teoricamente) 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, che ribadisce la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava, oggi Serbia, e prescrive, per il Kosovo, non l’indipendenza, bensì «una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione». Il Kosovo è riconosciuto da 103 su 193 Paesi membri delle Nazioni Unite (il 53% del totale), non ha un seggio in Assemblea Generale, e non è riconosciuto dall’Unione Europea in quanto tale, dal momento che cinque Paesi membri non lo riconoscono (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro). Sono undici gli Stati che hanno ritirato il riconoscimento inizialmente dato.

Il 24 marzo cade l’anniversario dell’aggressione della Nato nei confronti dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Alla fine della guerra del Kosovo, durata sino al 10 giugno 1999, si contavano 2.500 civili innocenti uccisi, oltre 12.000 feriti e circa 4.500 persone scomparse, senza contare i danni derivati dall’uso, da parte della Nato, di bombe a grappolo, di missili a uranio impoverito e di bombe alla grafite contro gli impianti elettrici della Serbia. Non è davvero di nuove dichiarazioni e misure di carattere militare, sullo sfondo del gigantesco piano di riarmo dell’UE da 800 miliardi di dollari, che vi sarebbe bisogno, ma al contrario di ricostruire occasioni e spazi di dialogo e di diplomazia, di ricomporre il terreno della fiducia reciproca e della cooperazione in ambito civile, di rilanciare il negoziato e delineare, finalmente, una soluzione di pace, con diritti e con giustizia.

Riferimenti:

Marija Stojanović, “What is the aim of the Declaration on military cooperation between Croatia, Albania and Kosovo?”, European Western Balkans, 24.03.2025: https://europeanwesternbalkans.com/2025/03/24/what-is-the-aim-of-the-declaration-on-military-cooperation-between-croatia-albania-and-kosovo

Gianmarco Pisa, “Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina”, Pressenza, 18.03.2025: https://www.pressenza.com/it/2025/03/se-la-crisi-precipita-sulla-bosnia-erzegovina

Risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza: https://unmik.unmissions.org/united-nations-resolution-1244.

 

Gianmarco Pisa

Serbia e Bosnia, le manifestazioni studentesche e una polveriera pronta a esplodere

Il 15 marzo scorso a Belgrado quando centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo serbo e il presidente Aleksandar Vučić, non è stato il “dan D” ovvero il giorno della svolta dopo il quale nulla sarà più lo stesso in Serbia. Sicuramente è stata la più grande manifestazione pacifica nella storia del paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone che hanno riempito le piazze della capitale. Dalla Grande Serbia, Belgrado è rimasta troppo piccola per poter ospitare cittadini provenienti da ogni parte del paese, per sostenere gli studenti e manifestare contro il presidente serbo, al potere da 12 anni e che da oltre quattro mesi, da quando sono iniziate le proteste studentesche, continua a ignorare la crisi politica. Una crisi che i media occidentali hanno definito la più grave dai tempi della caduta del governo di Slobodan Milošević nel 2000.

Gli organizzatori avevano promesso che sarebbe stato un raduno pacifico, concentrato davanti alla sede del parlamento. Molti cittadini si aspettavano che il governo di Vučić cadesse dopo le manifestazioni, mentre altri erano pronti a provocare scontri e violenze, finendo per favorire il presidente serbo. Coloro che sono realmente caduti a terra nelle strade non erano agitatori, ma manifestanti pacifici che sono stati colti di sorpresa da un suono assordante, descritto dai presenti come simile a un'esplosione o al rumore di un proiettile o di una caduta aerea, mentre stavano commemorando in silenzio per 15 minuti le vittime della stazione di Novi Sad. Nonostante i video diffusi sui social media mostrassero la folla disperdersi impaurita, un dettaglio che, secondo molti analisti militari, potrebbe suggerire l'uso di un presunto “cannone sonoro” a disposizione delle forze di sicurezza serbe, sia il presidente Aleksandar Vučić che il ministro degli Interni Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo e successore politico di Slobodan Milošević, hanno negato non solo l'impiego di tale arma, ma persino la sua esistenza, affermando che la polizia serba non ne sarebbe mai stata in possesso.

Una cosa assolutamente non vera, come ha dimostra l’immagine presentata il giorno dopo la manifestazione dai leader di opposizione e del partito “La Libertà e Giustizia”, Marinika Tepić, in cui si vede chiaramente un cannone sonoro, ovvero un dispositivo acustico a lungo raggio (LRAD) del marchio Vortex, il cui impiego è vietato dalla legge serba, parcheggiato dietro il Parlamento. Dopo la diffusione di quell'immagine, il ministro Dačić ha ammesso che lo Stato possiede un'arma di quel tipo, ma ha negato che sia stata utilizzata contro i manifestanti. Il presidente Vučić, invece, ha detto che se emergeranno prove che è stato utilizzato un cannone sonico, non sarà più il presidente.

Parole poco credibili, soprattutto perché, quello stesso giorno, Vučić ha annunciato l'intenzione di formare un nuovo governo entro il 15 aprile. Ha aggiunto che, nel caso non ci riuscisse, indirebbe nuove elezioni a giugno, escludendo però categoricamente la possibilità di un governo di transizione. Ha poi dichiarato che non lascerà il paese "in mano ai terroristi", come ha definito i leader dell’opposizione.

"Finché sono vivo, non accetterò nessun governo di transizione. Se vogliono sostituirmi, devono uccidermi", ha dichiarato Vučić al suo rientro da Bruxelles, dove il 19 marzo ha incontrato il segretario generale della NATO, Mark Rutte. Durante il colloquio, hanno discusso della situazione in Kosovo, ma anche delle tensioni in Bosnia ed Erzegovina, ma così alte dai tempi della guerra degli anni ’90. La situazione è precipitata dopo l’emissione del mandato di arresto per il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’intensificarsi delle manovre dei rappresentanti serbi per ottenere la secessione da Sarajevo, nella speranza di ricevere il sostegno non solo da Putin, ma anche da Trump.

Il sostegno al regime di Vučić non è più la garanzia per la stabilità regionale

Le proteste in Serbia, così come le tensioni in Bosnia ed Erzegovina, hanno inevitabilmente attirato l’attenzione della politica internazionale. Dopo mesi di silenzio sulla rivolta studentesca e cittadina, alcuni politici occidentali hanno finalmente preso posizione. Oltre a ribadire il loro sostegno all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, hanno commentato con cautela anche l’ondata di malcontento che sta attraversando le strade serbe.

Sembra ormai evidente che il sostegno alla "stabilocrazia" di Aleksandar Vučić non rappresenti una garanzia assoluta per la stabilità regionale. Di conseguenza, gli incontri diretti tra alcuni funzionari internazionali e il presidente serbo sono diventati sempre più frequenti.

Tuttavia, la commissaria europea per l'allargamento, Marta Kos, ha definito "costruttivo" l'incontro a Bruxelles con Vučić, spiegando che si è discusso di passi concreti nel percorso della Serbia verso l'UE e dell'attuazione del piano di crescita per i Balcani occidentali. Ha anche sottolineato “l'importanza della società civile e dei media indipendenti in questo processo", dimenticando, però, che in Serbia da quattro mesi la società civile è impegnata in manifestazioni contro il presidente serbo, mentre molti media pro-governativi, inclusa la radiotelevisione del servizio pubblico, svolgono un ruolo da portavoce del presidente stesso. Secondo un'indagine non-governativa CRTA, durante lo scorso anno, il presidente serbo ha partecipato 330 volte alle trasmissioni televisive.

Come spiega per Valigia Blu Dušan Janjić, del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, la situazione in Serbia è al limite e il comportamento delle autorità serbe contribuisce a questo processo, attirando l'attenzione anche della NATO, data l'importanza regionale del paese.

Per quanto riguarda la situazione tesa in Bosnia ed Erzegovina, Janjić ritiene che Vučić abbia ricevuto un avvertimento diplomatico, sottolineando che il tempo è scaduto e che non c'è più spazio per i cosiddetti "doppi giochi" di sostegno o mancato sostegno a figure come Milorad Dodik.

L’arresto di Dodik potrebbe essere il test per l’equilibrio istituzionale in Bosnia

La Bosnia ed Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine della guerra degli anni '90, con il crescente rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska e il governo centrale è esplosa dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, avvenuta il 27 febbraio scorso, accusato di minare l'ordine costituzionale. In risposta, le autorità della Republika Srpska hanno respinto la sentenza e ordinato il ritiro della polizia di Stato dal territorio a maggioranza serba, mentre il leader serbo-bosniaco ha detto “che la Bosnia non esisterà più”.

Questa escalation ha spinto la comunità internazionale a rafforzare le forze di peacekeeping, ma la situazione resta critica, soprattutto nella parte interna della Republika Srpska, dove lo stesso Dodik non ha più il sostegno dei cittadini. 

L'aspirazione di Dodik verso una maggiore autonomia, se non addirittura la secessione, è sempre stata forte, ma ora è più che mai pronunciata. Se le autorità dovessero tentare di arrestarlo, i rischi di violenza potrebbero diventare concreti, con gravi conseguenze per la stabilità non solo della Bosnia, ma dell'intera regione.

Chi può calmare le tensioni?

Nonostante, in questo momento, il presidente serbo Vučić stia affrontando una crisi politica grave, sicuramente proverà a spostare l'attenzione da quello che succede in Serbia, beneficiando dell’instabilità nella Bosnia-Erzegovina. Anche se dovesse formare un governo, il problema resterebbe che sempre meno membri della comunità internazionale si fidano di lui.

“Questo scetticismo persisterà finché non verrà avviata un'indagine internazionale sugli eventi del 15 marzo a Belgrado”, spiega ancora Janjić.

In sostanza, Bosnia e Serbia tornano al centro dello scenario internazionale, dove le alleanze geopolitiche giocano un ruolo fondamentale. Mentre Russia e Ungheria sostengono Dodik e Vučić, l'Unione Europea li condanna, ma solo ora, dopo un lungo periodo in cui ha agito da semplice osservatrice sulla situazione che perdura da mesi in Serbia.

Il ruolo cruciale potrebbe spettare agli Stati Uniti, in particolare sotto l'amministrazione Trump, che potrebbe essere decisiva nel fermare un conflitto potenzialmente in grado di oltrepassare i confini della regione. Tuttavia, la domanda resta, se il presidente americano rispetterà il diritto internazionale che tutela la sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina.

Immagine in anteprima: frame video Guardian

Fare memoria: Kosovo, 24 marzo 1999 – 24 marzo 2025

È notizia dello scorso 18 marzo la firma di una dichiarazione congiunta, nella capitale albanese Tirana, finalizzata alla cooperazione trilaterale (ma, in base alle dichiarazioni, potenzialmente aperta all’eventualità di coinvolgere anche altri Paesi della regione) in materia di difesa tra Croazia, Albania e Kosovo, attraverso la quale le parti contraenti si propongono di “rafforzare l’industria della difesa e della sicurezza, incrementare l’interoperabilità militare attraverso esercitazioni e addestramento congiunti, contrastare le minacce ibride e migliorare la sicurezza strategica, nonché promuovere il sostegno all’integrazione euro-atlantica”. La mossa ha suscitato una serie di reazioni e pone non pochi problemi, non solo di ordine pratico, in relazione alle possibilità effettive di implementazione e di sviluppo, ma anche di ordine formale, considerando, tra i tre contraenti, la particolare posizione del Kosovo, che non può dotarsi di una struttura della difesa comparabile a quella delle altre parti e che, prima ancora, non è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto tale.

Tra le reazioni, immediata, ovviamente, quella di Belgrado, che ha giudicato la firma della dichiarazione come una provocazione e, più ancora, una mossa capace di determinare effetti di insicurezza e destabilizzazione nella regione: “Adottando misure che minano la stabilità regionale, due Paesi, insieme al rappresentante delle istituzioni provvisorie di autogoverno a Prishtina, intraprendono azioni che costituiscono un grave rischio per la pace e la sicurezza nella regione”. Nella prospettiva dell’integrazione euro-atlantica, questa iniziativa viene a prefigurare la possibilità di ulteriori consolidamenti di carattere militare nell’Europa sud-orientale, sempre più rilevante e strategica, sullo sfondo della guerra in Ucraina, e di fronte ai tentativi di destabilizzazione che stanno attraversando la Serbia, alla pesante crisi politica e istituzionale in Bosnia-Erzegovina e alla situazione di tensione che caratterizza il Kosovo. Secondo la dichiarazione del Ministero della Difesa albanese, infatti, “in un ambiente di sicurezza fragile, condividiamo una valutazione comune delle minacce. Il nostro impegno per rafforzare le capacità di difesa è più forte che mai”. Non propriamente una dichiarazione di mitigazione delle tensioni.

È possibile considerare questa dichiarazione, al netto delle sue possibili ulteriori implementazioni, sotto tre diversi punti di vista. Intanto, di per sé, restringendo l’area della cooperazione militare a due Paesi e una regione la cui statualità è controversa – Paesi e regioni peraltro non confinanti – la dichiarazione concorre alla frammentazione molto più che alla convergenza. In ultima analisi, inserisce un ulteriore fattore di rischio, di divisione e di disarticolazione nel quadro, già particolarmente teso e complesso, dei rapporti bilaterali e multilaterali, in quello che si potrebbe chiamare lo spazio post-jugoslavo e, comprendendo anche l’Albania, dei Balcani occidentali. Inoltre, come conseguenza di questa posizione, non aiuta la costruzione di rapporti positivi né il miglioramento del clima di fiducia nei Balcani, aspetto, quest’ultimo, tanto più grave nel momento in cui si assiste a uno stallo nel processo del dialogo tra Belgrado e Prishtina, volto alla soluzione della questione del Kosovo sotto la mediazione Ue, e nel momento stesso in cui si assiste a un grave deterioramento del processo di Dayton e di costruzione di rapporti positivi volti al miglioramento della situazione in Bosnia-Erzegovina.

Come ha messo in evidenza Branka Latinović, membro del Forum per le relazioni internazionali del Movimento europeo in Serbia, “la fiducia è stata violata, e la fiducia è necessaria per fare qualsiasi progresso nella regione. E se non c’è dialogo e non c’è fiducia reciproca, la sicurezza nella regione diventa fragile. Inoltre, la Dichiarazione è, in primo luogo, volta a rafforzare i legami tra il Kosovo e la Nato”. E questo è il terzo aspetto da considerare: l’Albania e la Croazia sono entrate nella Nato nel 2009, rappresentano fattori importanti, dal punto di vista euro-atlantico, ai fini del potenziamento del fianco sud-orientale e della presenza e della proiezione della Nato in questo scenario, sempre più rilevante e strategico. Per quanto il quadro di diritto internazionale impedirebbe tale esito, le autorità albanesi kosovare non fanno mistero di voler entrare nella Nato, peraltro già presente nella regione con una propria missione militare (Kfor) a seguito dell’approvazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E qui si giunge al quadro di diritto e di giustizia internazionale.

Com’è noto, infatti, la posizione internazionale del Kosovo è regolata dal Parere (Consultivo) del 22 luglio 2010 della Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto che la dichiarazione di indipendenza kosovara non ha rappresentato, di per sé, una violazione del diritto internazionale, e, soprattutto, dalla Risoluzione (vincolante, almeno teoricamente) 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, che ribadisce la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava, oggi Serbia, e prescrive, per il Kosovo, non l’indipendenza, bensì «una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione». Il Kosovo è riconosciuto da 103 su 193 Paesi membri delle Nazioni Unite (il 53% del totale), non ha un seggio in Assemblea Generale, e non è riconosciuto dall’Unione Europea in quanto tale, dal momento che cinque Paesi membri non lo riconoscono (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro). Sono undici gli Stati che hanno ritirato il riconoscimento inizialmente dato.

Il 24 marzo cade l’anniversario dell’aggressione della Nato nei confronti dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Alla fine della guerra del Kosovo, durata sino al 10 giugno 1999, si contavano 2.500 civili innocenti uccisi, oltre 12.000 feriti e circa 4.500 persone scomparse, senza contare i danni derivati dall’uso, da parte della Nato, di bombe a grappolo, di missili a uranio impoverito e di bombe alla grafite contro gli impianti elettrici della Serbia. Non è davvero di nuove dichiarazioni e misure di carattere militare, sullo sfondo del gigantesco piano di riarmo dell’UE da 800 miliardi di dollari, che vi sarebbe bisogno, ma al contrario di ricostruire occasioni e spazi di dialogo e di diplomazia, di ricomporre il terreno della fiducia reciproca e della cooperazione in ambito civile, di rilanciare il negoziato e delineare, finalmente, una soluzione di pace, con diritti e con giustizia.

Riferimenti:

Marija Stojanović, “What is the aim of the Declaration on military cooperation between Croatia, Albania and Kosovo?”, European Western Balkans, 24.03.2025: https://europeanwesternbalkans.com/2025/03/24/what-is-the-aim-of-the-declaration-on-military-cooperation-between-croatia-albania-and-kosovo

Gianmarco Pisa, “Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina”, Pressenza, 18.03.2025: https://www.pressenza.com/it/2025/03/se-la-crisi-precipita-sulla-bosnia-erzegovina

Risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza: https://unmik.unmissions.org/united-nations-resolution-1244.

 

Gianmarco Pisa

Serbia e Bosnia, le manifestazioni studentesche e una polveriera pronta a esplodere

Il 15 marzo scorso a Belgrado quando centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo serbo e il presidente Aleksandar Vučić, non è stato il “dan D” ovvero il giorno della svolta dopo il quale nulla sarà più lo stesso in Serbia. Sicuramente è stata la più grande manifestazione pacifica nella storia del paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone che hanno riempito le piazze della capitale. Dalla Grande Serbia, Belgrado è rimasta troppo piccola per poter ospitare cittadini provenienti da ogni parte del paese, per sostenere gli studenti e manifestare contro il presidente serbo, al potere da 12 anni e che da oltre quattro mesi, da quando sono iniziate le proteste studentesche, continua a ignorare la crisi politica. Una crisi che i media occidentali hanno definito la più grave dai tempi della caduta del governo di Slobodan Milošević nel 2000.

Gli organizzatori avevano promesso che sarebbe stato un raduno pacifico, concentrato davanti alla sede del parlamento. Molti cittadini si aspettavano che il governo di Vučić cadesse dopo le manifestazioni, mentre altri erano pronti a provocare scontri e violenze, finendo per favorire il presidente serbo. Coloro che sono realmente caduti a terra nelle strade non erano agitatori, ma manifestanti pacifici che sono stati colti di sorpresa da un suono assordante, descritto dai presenti come simile a un'esplosione o al rumore di un proiettile o di una caduta aerea, mentre stavano commemorando in silenzio per 15 minuti le vittime della stazione di Novi Sad. Nonostante i video diffusi sui social media mostrassero la folla disperdersi impaurita, un dettaglio che, secondo molti analisti militari, potrebbe suggerire l'uso di un presunto “cannone sonoro” a disposizione delle forze di sicurezza serbe, sia il presidente Aleksandar Vučić che il ministro degli Interni Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo e successore politico di Slobodan Milošević, hanno negato non solo l'impiego di tale arma, ma persino la sua esistenza, affermando che la polizia serba non ne sarebbe mai stata in possesso.

Una cosa assolutamente non vera, come ha dimostra l’immagine presentata il giorno dopo la manifestazione dai leader di opposizione e del partito “La Libertà e Giustizia”, Marinika Tepić, in cui si vede chiaramente un cannone sonoro, ovvero un dispositivo acustico a lungo raggio (LRAD) del marchio Vortex, il cui impiego è vietato dalla legge serba, parcheggiato dietro il Parlamento. Dopo la diffusione di quell'immagine, il ministro Dačić ha ammesso che lo Stato possiede un'arma di quel tipo, ma ha negato che sia stata utilizzata contro i manifestanti. Il presidente Vučić, invece, ha detto che se emergeranno prove che è stato utilizzato un cannone sonico, non sarà più il presidente.

Parole poco credibili, soprattutto perché, quello stesso giorno, Vučić ha annunciato l'intenzione di formare un nuovo governo entro il 15 aprile. Ha aggiunto che, nel caso non ci riuscisse, indirebbe nuove elezioni a giugno, escludendo però categoricamente la possibilità di un governo di transizione. Ha poi dichiarato che non lascerà il paese "in mano ai terroristi", come ha definito i leader dell’opposizione.

"Finché sono vivo, non accetterò nessun governo di transizione. Se vogliono sostituirmi, devono uccidermi", ha dichiarato Vučić al suo rientro da Bruxelles, dove il 19 marzo ha incontrato il segretario generale della NATO, Mark Rutte. Durante il colloquio, hanno discusso della situazione in Kosovo, ma anche delle tensioni in Bosnia ed Erzegovina, ma così alte dai tempi della guerra degli anni ’90. La situazione è precipitata dopo l’emissione del mandato di arresto per il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’intensificarsi delle manovre dei rappresentanti serbi per ottenere la secessione da Sarajevo, nella speranza di ricevere il sostegno non solo da Putin, ma anche da Trump.

Il sostegno al regime di Vučić non è più la garanzia per la stabilità regionale

Le proteste in Serbia, così come le tensioni in Bosnia ed Erzegovina, hanno inevitabilmente attirato l’attenzione della politica internazionale. Dopo mesi di silenzio sulla rivolta studentesca e cittadina, alcuni politici occidentali hanno finalmente preso posizione. Oltre a ribadire il loro sostegno all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, hanno commentato con cautela anche l’ondata di malcontento che sta attraversando le strade serbe.

Sembra ormai evidente che il sostegno alla "stabilocrazia" di Aleksandar Vučić non rappresenti una garanzia assoluta per la stabilità regionale. Di conseguenza, gli incontri diretti tra alcuni funzionari internazionali e il presidente serbo sono diventati sempre più frequenti.

Tuttavia, la commissaria europea per l'allargamento, Marta Kos, ha definito "costruttivo" l'incontro a Bruxelles con Vučić, spiegando che si è discusso di passi concreti nel percorso della Serbia verso l'UE e dell'attuazione del piano di crescita per i Balcani occidentali. Ha anche sottolineato “l'importanza della società civile e dei media indipendenti in questo processo", dimenticando, però, che in Serbia da quattro mesi la società civile è impegnata in manifestazioni contro il presidente serbo, mentre molti media pro-governativi, inclusa la radiotelevisione del servizio pubblico, svolgono un ruolo da portavoce del presidente stesso. Secondo un'indagine non-governativa CRTA, durante lo scorso anno, il presidente serbo ha partecipato 330 volte alle trasmissioni televisive.

Come spiega per Valigia Blu Dušan Janjić, del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, la situazione in Serbia è al limite e il comportamento delle autorità serbe contribuisce a questo processo, attirando l'attenzione anche della NATO, data l'importanza regionale del paese.

Per quanto riguarda la situazione tesa in Bosnia ed Erzegovina, Janjić ritiene che Vučić abbia ricevuto un avvertimento diplomatico, sottolineando che il tempo è scaduto e che non c'è più spazio per i cosiddetti "doppi giochi" di sostegno o mancato sostegno a figure come Milorad Dodik.

L’arresto di Dodik potrebbe essere il test per l’equilibrio istituzionale in Bosnia

La Bosnia ed Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine della guerra degli anni '90, con il crescente rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska e il governo centrale è esplosa dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, avvenuta il 27 febbraio scorso, accusato di minare l'ordine costituzionale. In risposta, le autorità della Republika Srpska hanno respinto la sentenza e ordinato il ritiro della polizia di Stato dal territorio a maggioranza serba, mentre il leader serbo-bosniaco ha detto “che la Bosnia non esisterà più”.

Questa escalation ha spinto la comunità internazionale a rafforzare le forze di peacekeeping, ma la situazione resta critica, soprattutto nella parte interna della Republika Srpska, dove lo stesso Dodik non ha più il sostegno dei cittadini. 

L'aspirazione di Dodik verso una maggiore autonomia, se non addirittura la secessione, è sempre stata forte, ma ora è più che mai pronunciata. Se le autorità dovessero tentare di arrestarlo, i rischi di violenza potrebbero diventare concreti, con gravi conseguenze per la stabilità non solo della Bosnia, ma dell'intera regione.

Chi può calmare le tensioni?

Nonostante, in questo momento, il presidente serbo Vučić stia affrontando una crisi politica grave, sicuramente proverà a spostare l'attenzione da quello che succede in Serbia, beneficiando dell’instabilità nella Bosnia-Erzegovina. Anche se dovesse formare un governo, il problema resterebbe che sempre meno membri della comunità internazionale si fidano di lui.

“Questo scetticismo persisterà finché non verrà avviata un'indagine internazionale sugli eventi del 15 marzo a Belgrado”, spiega ancora Janjić.

In sostanza, Bosnia e Serbia tornano al centro dello scenario internazionale, dove le alleanze geopolitiche giocano un ruolo fondamentale. Mentre Russia e Ungheria sostengono Dodik e Vučić, l'Unione Europea li condanna, ma solo ora, dopo un lungo periodo in cui ha agito da semplice osservatrice sulla situazione che perdura da mesi in Serbia.

Il ruolo cruciale potrebbe spettare agli Stati Uniti, in particolare sotto l'amministrazione Trump, che potrebbe essere decisiva nel fermare un conflitto potenzialmente in grado di oltrepassare i confini della regione. Tuttavia, la domanda resta, se il presidente americano rispetterà il diritto internazionale che tutela la sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina.

Immagine in anteprima: frame video Guardian

Fare memoria: Kosovo, 24 marzo 1999 – 24 marzo 2025

È notizia dello scorso 18 marzo la firma di una dichiarazione congiunta, nella capitale albanese Tirana, finalizzata alla cooperazione trilaterale (ma, in base alle dichiarazioni, potenzialmente aperta all’eventualità di coinvolgere anche altri Paesi della regione) in materia di difesa tra Croazia, Albania e Kosovo, attraverso la quale le parti contraenti si propongono di “rafforzare l’industria della difesa e della sicurezza, incrementare l’interoperabilità militare attraverso esercitazioni e addestramento congiunti, contrastare le minacce ibride e migliorare la sicurezza strategica, nonché promuovere il sostegno all’integrazione euro-atlantica”. La mossa ha suscitato una serie di reazioni e pone non pochi problemi, non solo di ordine pratico, in relazione alle possibilità effettive di implementazione e di sviluppo, ma anche di ordine formale, considerando, tra i tre contraenti, la particolare posizione del Kosovo, che non può dotarsi di una struttura della difesa comparabile a quella delle altre parti e che, prima ancora, non è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto tale.

Tra le reazioni, immediata, ovviamente, quella di Belgrado, che ha giudicato la firma della dichiarazione come una provocazione e, più ancora, una mossa capace di determinare effetti di insicurezza e destabilizzazione nella regione: “Adottando misure che minano la stabilità regionale, due Paesi, insieme al rappresentante delle istituzioni provvisorie di autogoverno a Prishtina, intraprendono azioni che costituiscono un grave rischio per la pace e la sicurezza nella regione”. Nella prospettiva dell’integrazione euro-atlantica, questa iniziativa viene a prefigurare la possibilità di ulteriori consolidamenti di carattere militare nell’Europa sud-orientale, sempre più rilevante e strategica, sullo sfondo della guerra in Ucraina, e di fronte ai tentativi di destabilizzazione che stanno attraversando la Serbia, alla pesante crisi politica e istituzionale in Bosnia-Erzegovina e alla situazione di tensione che caratterizza il Kosovo. Secondo la dichiarazione del Ministero della Difesa albanese, infatti, “in un ambiente di sicurezza fragile, condividiamo una valutazione comune delle minacce. Il nostro impegno per rafforzare le capacità di difesa è più forte che mai”. Non propriamente una dichiarazione di mitigazione delle tensioni.

È possibile considerare questa dichiarazione, al netto delle sue possibili ulteriori implementazioni, sotto tre diversi punti di vista. Intanto, di per sé, restringendo l’area della cooperazione militare a due Paesi e una regione la cui statualità è controversa – Paesi e regioni peraltro non confinanti – la dichiarazione concorre alla frammentazione molto più che alla convergenza. In ultima analisi, inserisce un ulteriore fattore di rischio, di divisione e di disarticolazione nel quadro, già particolarmente teso e complesso, dei rapporti bilaterali e multilaterali, in quello che si potrebbe chiamare lo spazio post-jugoslavo e, comprendendo anche l’Albania, dei Balcani occidentali. Inoltre, come conseguenza di questa posizione, non aiuta la costruzione di rapporti positivi né il miglioramento del clima di fiducia nei Balcani, aspetto, quest’ultimo, tanto più grave nel momento in cui si assiste a uno stallo nel processo del dialogo tra Belgrado e Prishtina, volto alla soluzione della questione del Kosovo sotto la mediazione Ue, e nel momento stesso in cui si assiste a un grave deterioramento del processo di Dayton e di costruzione di rapporti positivi volti al miglioramento della situazione in Bosnia-Erzegovina.

Come ha messo in evidenza Branka Latinović, membro del Forum per le relazioni internazionali del Movimento europeo in Serbia, “la fiducia è stata violata, e la fiducia è necessaria per fare qualsiasi progresso nella regione. E se non c’è dialogo e non c’è fiducia reciproca, la sicurezza nella regione diventa fragile. Inoltre, la Dichiarazione è, in primo luogo, volta a rafforzare i legami tra il Kosovo e la Nato”. E questo è il terzo aspetto da considerare: l’Albania e la Croazia sono entrate nella Nato nel 2009, rappresentano fattori importanti, dal punto di vista euro-atlantico, ai fini del potenziamento del fianco sud-orientale e della presenza e della proiezione della Nato in questo scenario, sempre più rilevante e strategico. Per quanto il quadro di diritto internazionale impedirebbe tale esito, le autorità albanesi kosovare non fanno mistero di voler entrare nella Nato, peraltro già presente nella regione con una propria missione militare (Kfor) a seguito dell’approvazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E qui si giunge al quadro di diritto e di giustizia internazionale.

Com’è noto, infatti, la posizione internazionale del Kosovo è regolata dal Parere (Consultivo) del 22 luglio 2010 della Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto che la dichiarazione di indipendenza kosovara non ha rappresentato, di per sé, una violazione del diritto internazionale, e, soprattutto, dalla Risoluzione (vincolante, almeno teoricamente) 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, che ribadisce la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava, oggi Serbia, e prescrive, per il Kosovo, non l’indipendenza, bensì «una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione». Il Kosovo è riconosciuto da 103 su 193 Paesi membri delle Nazioni Unite (il 53% del totale), non ha un seggio in Assemblea Generale, e non è riconosciuto dall’Unione Europea in quanto tale, dal momento che cinque Paesi membri non lo riconoscono (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro). Sono undici gli Stati che hanno ritirato il riconoscimento inizialmente dato.

Il 24 marzo cade l’anniversario dell’aggressione della Nato nei confronti dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Alla fine della guerra del Kosovo, durata sino al 10 giugno 1999, si contavano 2.500 civili innocenti uccisi, oltre 12.000 feriti e circa 4.500 persone scomparse, senza contare i danni derivati dall’uso, da parte della Nato, di bombe a grappolo, di missili a uranio impoverito e di bombe alla grafite contro gli impianti elettrici della Serbia. Non è davvero di nuove dichiarazioni e misure di carattere militare, sullo sfondo del gigantesco piano di riarmo dell’UE da 800 miliardi di dollari, che vi sarebbe bisogno, ma al contrario di ricostruire occasioni e spazi di dialogo e di diplomazia, di ricomporre il terreno della fiducia reciproca e della cooperazione in ambito civile, di rilanciare il negoziato e delineare, finalmente, una soluzione di pace, con diritti e con giustizia.

Riferimenti:

Marija Stojanović, “What is the aim of the Declaration on military cooperation between Croatia, Albania and Kosovo?”, European Western Balkans, 24.03.2025: https://europeanwesternbalkans.com/2025/03/24/what-is-the-aim-of-the-declaration-on-military-cooperation-between-croatia-albania-and-kosovo

Gianmarco Pisa, “Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina”, Pressenza, 18.03.2025: https://www.pressenza.com/it/2025/03/se-la-crisi-precipita-sulla-bosnia-erzegovina

Risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza: https://unmik.unmissions.org/united-nations-resolution-1244.

 

Gianmarco Pisa

Serbia e Bosnia, le manifestazioni studentesche e una polveriera pronta a esplodere

Il 15 marzo scorso a Belgrado quando centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo serbo e il presidente Aleksandar Vučić, non è stato il “dan D” ovvero il giorno della svolta dopo il quale nulla sarà più lo stesso in Serbia. Sicuramente è stata la più grande manifestazione pacifica nella storia del paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone che hanno riempito le piazze della capitale. Dalla Grande Serbia, Belgrado è rimasta troppo piccola per poter ospitare cittadini provenienti da ogni parte del paese, per sostenere gli studenti e manifestare contro il presidente serbo, al potere da 12 anni e che da oltre quattro mesi, da quando sono iniziate le proteste studentesche, continua a ignorare la crisi politica. Una crisi che i media occidentali hanno definito la più grave dai tempi della caduta del governo di Slobodan Milošević nel 2000.

Gli organizzatori avevano promesso che sarebbe stato un raduno pacifico, concentrato davanti alla sede del parlamento. Molti cittadini si aspettavano che il governo di Vučić cadesse dopo le manifestazioni, mentre altri erano pronti a provocare scontri e violenze, finendo per favorire il presidente serbo. Coloro che sono realmente caduti a terra nelle strade non erano agitatori, ma manifestanti pacifici che sono stati colti di sorpresa da un suono assordante, descritto dai presenti come simile a un'esplosione o al rumore di un proiettile o di una caduta aerea, mentre stavano commemorando in silenzio per 15 minuti le vittime della stazione di Novi Sad. Nonostante i video diffusi sui social media mostrassero la folla disperdersi impaurita, un dettaglio che, secondo molti analisti militari, potrebbe suggerire l'uso di un presunto “cannone sonoro” a disposizione delle forze di sicurezza serbe, sia il presidente Aleksandar Vučić che il ministro degli Interni Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo e successore politico di Slobodan Milošević, hanno negato non solo l'impiego di tale arma, ma persino la sua esistenza, affermando che la polizia serba non ne sarebbe mai stata in possesso.

Una cosa assolutamente non vera, come ha dimostra l’immagine presentata il giorno dopo la manifestazione dai leader di opposizione e del partito “La Libertà e Giustizia”, Marinika Tepić, in cui si vede chiaramente un cannone sonoro, ovvero un dispositivo acustico a lungo raggio (LRAD) del marchio Vortex, il cui impiego è vietato dalla legge serba, parcheggiato dietro il Parlamento. Dopo la diffusione di quell'immagine, il ministro Dačić ha ammesso che lo Stato possiede un'arma di quel tipo, ma ha negato che sia stata utilizzata contro i manifestanti. Il presidente Vučić, invece, ha detto che se emergeranno prove che è stato utilizzato un cannone sonico, non sarà più il presidente.

Parole poco credibili, soprattutto perché, quello stesso giorno, Vučić ha annunciato l'intenzione di formare un nuovo governo entro il 15 aprile. Ha aggiunto che, nel caso non ci riuscisse, indirebbe nuove elezioni a giugno, escludendo però categoricamente la possibilità di un governo di transizione. Ha poi dichiarato che non lascerà il paese "in mano ai terroristi", come ha definito i leader dell’opposizione.

"Finché sono vivo, non accetterò nessun governo di transizione. Se vogliono sostituirmi, devono uccidermi", ha dichiarato Vučić al suo rientro da Bruxelles, dove il 19 marzo ha incontrato il segretario generale della NATO, Mark Rutte. Durante il colloquio, hanno discusso della situazione in Kosovo, ma anche delle tensioni in Bosnia ed Erzegovina, ma così alte dai tempi della guerra degli anni ’90. La situazione è precipitata dopo l’emissione del mandato di arresto per il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’intensificarsi delle manovre dei rappresentanti serbi per ottenere la secessione da Sarajevo, nella speranza di ricevere il sostegno non solo da Putin, ma anche da Trump.

Il sostegno al regime di Vučić non è più la garanzia per la stabilità regionale

Le proteste in Serbia, così come le tensioni in Bosnia ed Erzegovina, hanno inevitabilmente attirato l’attenzione della politica internazionale. Dopo mesi di silenzio sulla rivolta studentesca e cittadina, alcuni politici occidentali hanno finalmente preso posizione. Oltre a ribadire il loro sostegno all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, hanno commentato con cautela anche l’ondata di malcontento che sta attraversando le strade serbe.

Sembra ormai evidente che il sostegno alla "stabilocrazia" di Aleksandar Vučić non rappresenti una garanzia assoluta per la stabilità regionale. Di conseguenza, gli incontri diretti tra alcuni funzionari internazionali e il presidente serbo sono diventati sempre più frequenti.

Tuttavia, la commissaria europea per l'allargamento, Marta Kos, ha definito "costruttivo" l'incontro a Bruxelles con Vučić, spiegando che si è discusso di passi concreti nel percorso della Serbia verso l'UE e dell'attuazione del piano di crescita per i Balcani occidentali. Ha anche sottolineato “l'importanza della società civile e dei media indipendenti in questo processo", dimenticando, però, che in Serbia da quattro mesi la società civile è impegnata in manifestazioni contro il presidente serbo, mentre molti media pro-governativi, inclusa la radiotelevisione del servizio pubblico, svolgono un ruolo da portavoce del presidente stesso. Secondo un'indagine non-governativa CRTA, durante lo scorso anno, il presidente serbo ha partecipato 330 volte alle trasmissioni televisive.

Come spiega per Valigia Blu Dušan Janjić, del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, la situazione in Serbia è al limite e il comportamento delle autorità serbe contribuisce a questo processo, attirando l'attenzione anche della NATO, data l'importanza regionale del paese.

Per quanto riguarda la situazione tesa in Bosnia ed Erzegovina, Janjić ritiene che Vučić abbia ricevuto un avvertimento diplomatico, sottolineando che il tempo è scaduto e che non c'è più spazio per i cosiddetti "doppi giochi" di sostegno o mancato sostegno a figure come Milorad Dodik.

L’arresto di Dodik potrebbe essere il test per l’equilibrio istituzionale in Bosnia

La Bosnia ed Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine della guerra degli anni '90, con il crescente rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska e il governo centrale è esplosa dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, avvenuta il 27 febbraio scorso, accusato di minare l'ordine costituzionale. In risposta, le autorità della Republika Srpska hanno respinto la sentenza e ordinato il ritiro della polizia di Stato dal territorio a maggioranza serba, mentre il leader serbo-bosniaco ha detto “che la Bosnia non esisterà più”.

Questa escalation ha spinto la comunità internazionale a rafforzare le forze di peacekeeping, ma la situazione resta critica, soprattutto nella parte interna della Republika Srpska, dove lo stesso Dodik non ha più il sostegno dei cittadini. 

L'aspirazione di Dodik verso una maggiore autonomia, se non addirittura la secessione, è sempre stata forte, ma ora è più che mai pronunciata. Se le autorità dovessero tentare di arrestarlo, i rischi di violenza potrebbero diventare concreti, con gravi conseguenze per la stabilità non solo della Bosnia, ma dell'intera regione.

Chi può calmare le tensioni?

Nonostante, in questo momento, il presidente serbo Vučić stia affrontando una crisi politica grave, sicuramente proverà a spostare l'attenzione da quello che succede in Serbia, beneficiando dell’instabilità nella Bosnia-Erzegovina. Anche se dovesse formare un governo, il problema resterebbe che sempre meno membri della comunità internazionale si fidano di lui.

“Questo scetticismo persisterà finché non verrà avviata un'indagine internazionale sugli eventi del 15 marzo a Belgrado”, spiega ancora Janjić.

In sostanza, Bosnia e Serbia tornano al centro dello scenario internazionale, dove le alleanze geopolitiche giocano un ruolo fondamentale. Mentre Russia e Ungheria sostengono Dodik e Vučić, l'Unione Europea li condanna, ma solo ora, dopo un lungo periodo in cui ha agito da semplice osservatrice sulla situazione che perdura da mesi in Serbia.

Il ruolo cruciale potrebbe spettare agli Stati Uniti, in particolare sotto l'amministrazione Trump, che potrebbe essere decisiva nel fermare un conflitto potenzialmente in grado di oltrepassare i confini della regione. Tuttavia, la domanda resta, se il presidente americano rispetterà il diritto internazionale che tutela la sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina.

Immagine in anteprima: frame video Guardian

Fare memoria: Kosovo, 24 marzo 1999 – 24 marzo 2025

È notizia dello scorso 18 marzo la firma di una dichiarazione congiunta, nella capitale albanese Tirana, finalizzata alla cooperazione trilaterale (ma, in base alle dichiarazioni, potenzialmente aperta all’eventualità di coinvolgere anche altri Paesi della regione) in materia di difesa tra Croazia, Albania e Kosovo, attraverso la quale le parti contraenti si propongono di “rafforzare l’industria della difesa e della sicurezza, incrementare l’interoperabilità militare attraverso esercitazioni e addestramento congiunti, contrastare le minacce ibride e migliorare la sicurezza strategica, nonché promuovere il sostegno all’integrazione euro-atlantica”. La mossa ha suscitato una serie di reazioni e pone non pochi problemi, non solo di ordine pratico, in relazione alle possibilità effettive di implementazione e di sviluppo, ma anche di ordine formale, considerando, tra i tre contraenti, la particolare posizione del Kosovo, che non può dotarsi di una struttura della difesa comparabile a quella delle altre parti e che, prima ancora, non è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto tale.

Tra le reazioni, immediata, ovviamente, quella di Belgrado, che ha giudicato la firma della dichiarazione come una provocazione e, più ancora, una mossa capace di determinare effetti di insicurezza e destabilizzazione nella regione: “Adottando misure che minano la stabilità regionale, due Paesi, insieme al rappresentante delle istituzioni provvisorie di autogoverno a Prishtina, intraprendono azioni che costituiscono un grave rischio per la pace e la sicurezza nella regione”. Nella prospettiva dell’integrazione euro-atlantica, questa iniziativa viene a prefigurare la possibilità di ulteriori consolidamenti di carattere militare nell’Europa sud-orientale, sempre più rilevante e strategica, sullo sfondo della guerra in Ucraina, e di fronte ai tentativi di destabilizzazione che stanno attraversando la Serbia, alla pesante crisi politica e istituzionale in Bosnia-Erzegovina e alla situazione di tensione che caratterizza il Kosovo. Secondo la dichiarazione del Ministero della Difesa albanese, infatti, “in un ambiente di sicurezza fragile, condividiamo una valutazione comune delle minacce. Il nostro impegno per rafforzare le capacità di difesa è più forte che mai”. Non propriamente una dichiarazione di mitigazione delle tensioni.

È possibile considerare questa dichiarazione, al netto delle sue possibili ulteriori implementazioni, sotto tre diversi punti di vista. Intanto, di per sé, restringendo l’area della cooperazione militare a due Paesi e una regione la cui statualità è controversa – Paesi e regioni peraltro non confinanti – la dichiarazione concorre alla frammentazione molto più che alla convergenza. In ultima analisi, inserisce un ulteriore fattore di rischio, di divisione e di disarticolazione nel quadro, già particolarmente teso e complesso, dei rapporti bilaterali e multilaterali, in quello che si potrebbe chiamare lo spazio post-jugoslavo e, comprendendo anche l’Albania, dei Balcani occidentali. Inoltre, come conseguenza di questa posizione, non aiuta la costruzione di rapporti positivi né il miglioramento del clima di fiducia nei Balcani, aspetto, quest’ultimo, tanto più grave nel momento in cui si assiste a uno stallo nel processo del dialogo tra Belgrado e Prishtina, volto alla soluzione della questione del Kosovo sotto la mediazione Ue, e nel momento stesso in cui si assiste a un grave deterioramento del processo di Dayton e di costruzione di rapporti positivi volti al miglioramento della situazione in Bosnia-Erzegovina.

Come ha messo in evidenza Branka Latinović, membro del Forum per le relazioni internazionali del Movimento europeo in Serbia, “la fiducia è stata violata, e la fiducia è necessaria per fare qualsiasi progresso nella regione. E se non c’è dialogo e non c’è fiducia reciproca, la sicurezza nella regione diventa fragile. Inoltre, la Dichiarazione è, in primo luogo, volta a rafforzare i legami tra il Kosovo e la Nato”. E questo è il terzo aspetto da considerare: l’Albania e la Croazia sono entrate nella Nato nel 2009, rappresentano fattori importanti, dal punto di vista euro-atlantico, ai fini del potenziamento del fianco sud-orientale e della presenza e della proiezione della Nato in questo scenario, sempre più rilevante e strategico. Per quanto il quadro di diritto internazionale impedirebbe tale esito, le autorità albanesi kosovare non fanno mistero di voler entrare nella Nato, peraltro già presente nella regione con una propria missione militare (Kfor) a seguito dell’approvazione della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E qui si giunge al quadro di diritto e di giustizia internazionale.

Com’è noto, infatti, la posizione internazionale del Kosovo è regolata dal Parere (Consultivo) del 22 luglio 2010 della Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto che la dichiarazione di indipendenza kosovara non ha rappresentato, di per sé, una violazione del diritto internazionale, e, soprattutto, dalla Risoluzione (vincolante, almeno teoricamente) 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, che ribadisce la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava, oggi Serbia, e prescrive, per il Kosovo, non l’indipendenza, bensì «una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione». Il Kosovo è riconosciuto da 103 su 193 Paesi membri delle Nazioni Unite (il 53% del totale), non ha un seggio in Assemblea Generale, e non è riconosciuto dall’Unione Europea in quanto tale, dal momento che cinque Paesi membri non lo riconoscono (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro). Sono undici gli Stati che hanno ritirato il riconoscimento inizialmente dato.

Il 24 marzo cade l’anniversario dell’aggressione della Nato nei confronti dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Alla fine della guerra del Kosovo, durata sino al 10 giugno 1999, si contavano 2.500 civili innocenti uccisi, oltre 12.000 feriti e circa 4.500 persone scomparse, senza contare i danni derivati dall’uso, da parte della Nato, di bombe a grappolo, di missili a uranio impoverito e di bombe alla grafite contro gli impianti elettrici della Serbia. Non è davvero di nuove dichiarazioni e misure di carattere militare, sullo sfondo del gigantesco piano di riarmo dell’UE da 800 miliardi di dollari, che vi sarebbe bisogno, ma al contrario di ricostruire occasioni e spazi di dialogo e di diplomazia, di ricomporre il terreno della fiducia reciproca e della cooperazione in ambito civile, di rilanciare il negoziato e delineare, finalmente, una soluzione di pace, con diritti e con giustizia.

Riferimenti:

Marija Stojanović, “What is the aim of the Declaration on military cooperation between Croatia, Albania and Kosovo?”, European Western Balkans, 24.03.2025: https://europeanwesternbalkans.com/2025/03/24/what-is-the-aim-of-the-declaration-on-military-cooperation-between-croatia-albania-and-kosovo

Gianmarco Pisa, “Se la crisi precipita sulla Bosnia-Erzegovina”, Pressenza, 18.03.2025: https://www.pressenza.com/it/2025/03/se-la-crisi-precipita-sulla-bosnia-erzegovina

Risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza: https://unmik.unmissions.org/united-nations-resolution-1244.

 

Gianmarco Pisa

Serbia e Bosnia, le manifestazioni studentesche e una polveriera pronta a esplodere

Il 15 marzo scorso a Belgrado quando centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo serbo e il presidente Aleksandar Vučić, non è stato il “dan D” ovvero il giorno della svolta dopo il quale nulla sarà più lo stesso in Serbia. Sicuramente è stata la più grande manifestazione pacifica nella storia del paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone che hanno riempito le piazze della capitale. Dalla Grande Serbia, Belgrado è rimasta troppo piccola per poter ospitare cittadini provenienti da ogni parte del paese, per sostenere gli studenti e manifestare contro il presidente serbo, al potere da 12 anni e che da oltre quattro mesi, da quando sono iniziate le proteste studentesche, continua a ignorare la crisi politica. Una crisi che i media occidentali hanno definito la più grave dai tempi della caduta del governo di Slobodan Milošević nel 2000.

Gli organizzatori avevano promesso che sarebbe stato un raduno pacifico, concentrato davanti alla sede del parlamento. Molti cittadini si aspettavano che il governo di Vučić cadesse dopo le manifestazioni, mentre altri erano pronti a provocare scontri e violenze, finendo per favorire il presidente serbo. Coloro che sono realmente caduti a terra nelle strade non erano agitatori, ma manifestanti pacifici che sono stati colti di sorpresa da un suono assordante, descritto dai presenti come simile a un'esplosione o al rumore di un proiettile o di una caduta aerea, mentre stavano commemorando in silenzio per 15 minuti le vittime della stazione di Novi Sad. Nonostante i video diffusi sui social media mostrassero la folla disperdersi impaurita, un dettaglio che, secondo molti analisti militari, potrebbe suggerire l'uso di un presunto “cannone sonoro” a disposizione delle forze di sicurezza serbe, sia il presidente Aleksandar Vučić che il ministro degli Interni Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo e successore politico di Slobodan Milošević, hanno negato non solo l'impiego di tale arma, ma persino la sua esistenza, affermando che la polizia serba non ne sarebbe mai stata in possesso.

Una cosa assolutamente non vera, come ha dimostra l’immagine presentata il giorno dopo la manifestazione dai leader di opposizione e del partito “La Libertà e Giustizia”, Marinika Tepić, in cui si vede chiaramente un cannone sonoro, ovvero un dispositivo acustico a lungo raggio (LRAD) del marchio Vortex, il cui impiego è vietato dalla legge serba, parcheggiato dietro il Parlamento. Dopo la diffusione di quell'immagine, il ministro Dačić ha ammesso che lo Stato possiede un'arma di quel tipo, ma ha negato che sia stata utilizzata contro i manifestanti. Il presidente Vučić, invece, ha detto che se emergeranno prove che è stato utilizzato un cannone sonico, non sarà più il presidente.

Parole poco credibili, soprattutto perché, quello stesso giorno, Vučić ha annunciato l'intenzione di formare un nuovo governo entro il 15 aprile. Ha aggiunto che, nel caso non ci riuscisse, indirebbe nuove elezioni a giugno, escludendo però categoricamente la possibilità di un governo di transizione. Ha poi dichiarato che non lascerà il paese "in mano ai terroristi", come ha definito i leader dell’opposizione.

"Finché sono vivo, non accetterò nessun governo di transizione. Se vogliono sostituirmi, devono uccidermi", ha dichiarato Vučić al suo rientro da Bruxelles, dove il 19 marzo ha incontrato il segretario generale della NATO, Mark Rutte. Durante il colloquio, hanno discusso della situazione in Kosovo, ma anche delle tensioni in Bosnia ed Erzegovina, ma così alte dai tempi della guerra degli anni ’90. La situazione è precipitata dopo l’emissione del mandato di arresto per il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’intensificarsi delle manovre dei rappresentanti serbi per ottenere la secessione da Sarajevo, nella speranza di ricevere il sostegno non solo da Putin, ma anche da Trump.

Il sostegno al regime di Vučić non è più la garanzia per la stabilità regionale

Le proteste in Serbia, così come le tensioni in Bosnia ed Erzegovina, hanno inevitabilmente attirato l’attenzione della politica internazionale. Dopo mesi di silenzio sulla rivolta studentesca e cittadina, alcuni politici occidentali hanno finalmente preso posizione. Oltre a ribadire il loro sostegno all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, hanno commentato con cautela anche l’ondata di malcontento che sta attraversando le strade serbe.

Sembra ormai evidente che il sostegno alla "stabilocrazia" di Aleksandar Vučić non rappresenti una garanzia assoluta per la stabilità regionale. Di conseguenza, gli incontri diretti tra alcuni funzionari internazionali e il presidente serbo sono diventati sempre più frequenti.

Tuttavia, la commissaria europea per l'allargamento, Marta Kos, ha definito "costruttivo" l'incontro a Bruxelles con Vučić, spiegando che si è discusso di passi concreti nel percorso della Serbia verso l'UE e dell'attuazione del piano di crescita per i Balcani occidentali. Ha anche sottolineato “l'importanza della società civile e dei media indipendenti in questo processo", dimenticando, però, che in Serbia da quattro mesi la società civile è impegnata in manifestazioni contro il presidente serbo, mentre molti media pro-governativi, inclusa la radiotelevisione del servizio pubblico, svolgono un ruolo da portavoce del presidente stesso. Secondo un'indagine non-governativa CRTA, durante lo scorso anno, il presidente serbo ha partecipato 330 volte alle trasmissioni televisive.

Come spiega per Valigia Blu Dušan Janjić, del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, la situazione in Serbia è al limite e il comportamento delle autorità serbe contribuisce a questo processo, attirando l'attenzione anche della NATO, data l'importanza regionale del paese.

Per quanto riguarda la situazione tesa in Bosnia ed Erzegovina, Janjić ritiene che Vučić abbia ricevuto un avvertimento diplomatico, sottolineando che il tempo è scaduto e che non c'è più spazio per i cosiddetti "doppi giochi" di sostegno o mancato sostegno a figure come Milorad Dodik.

L’arresto di Dodik potrebbe essere il test per l’equilibrio istituzionale in Bosnia

La Bosnia ed Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine della guerra degli anni '90, con il crescente rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska e il governo centrale è esplosa dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, avvenuta il 27 febbraio scorso, accusato di minare l'ordine costituzionale. In risposta, le autorità della Republika Srpska hanno respinto la sentenza e ordinato il ritiro della polizia di Stato dal territorio a maggioranza serba, mentre il leader serbo-bosniaco ha detto “che la Bosnia non esisterà più”.

Questa escalation ha spinto la comunità internazionale a rafforzare le forze di peacekeeping, ma la situazione resta critica, soprattutto nella parte interna della Republika Srpska, dove lo stesso Dodik non ha più il sostegno dei cittadini. 

L'aspirazione di Dodik verso una maggiore autonomia, se non addirittura la secessione, è sempre stata forte, ma ora è più che mai pronunciata. Se le autorità dovessero tentare di arrestarlo, i rischi di violenza potrebbero diventare concreti, con gravi conseguenze per la stabilità non solo della Bosnia, ma dell'intera regione.

Chi può calmare le tensioni?

Nonostante, in questo momento, il presidente serbo Vučić stia affrontando una crisi politica grave, sicuramente proverà a spostare l'attenzione da quello che succede in Serbia, beneficiando dell’instabilità nella Bosnia-Erzegovina. Anche se dovesse formare un governo, il problema resterebbe che sempre meno membri della comunità internazionale si fidano di lui.

“Questo scetticismo persisterà finché non verrà avviata un'indagine internazionale sugli eventi del 15 marzo a Belgrado”, spiega ancora Janjić.

In sostanza, Bosnia e Serbia tornano al centro dello scenario internazionale, dove le alleanze geopolitiche giocano un ruolo fondamentale. Mentre Russia e Ungheria sostengono Dodik e Vučić, l'Unione Europea li condanna, ma solo ora, dopo un lungo periodo in cui ha agito da semplice osservatrice sulla situazione che perdura da mesi in Serbia.

Il ruolo cruciale potrebbe spettare agli Stati Uniti, in particolare sotto l'amministrazione Trump, che potrebbe essere decisiva nel fermare un conflitto potenzialmente in grado di oltrepassare i confini della regione. Tuttavia, la domanda resta, se il presidente americano rispetterà il diritto internazionale che tutela la sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina.

Immagine in anteprima: frame video Guardian