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Stati uniti

Le affinità elettive tra Putin e Trump

di Andrey Babitskiy (Coda Story)

In Russia impariamo presto che il potere corrompe in modo assoluto, che gli uomini forti sfoggiano le peggiori intenzioni come una medaglia al valore e che le atrocità si sviluppano a partire da minacce in apparenza irrilevanti. Dove sono cresciuto io, queste verità sono considerate evidenti.

Avendo trascorso la maggior parte della mia vita a guardare la Russia di Putin prendere forma, scorgo schemi ricorrenti nella politica americana di oggi. Tra chi segue Donald Trump, gira una teoria solo in parte scherzosa, secondo cui il Presidente degli Stati Uniti sarebbe una pedina del Cremlino, dal momento che smantella le alleanze tradizionali e semina il caos nel governo federale.

Capisco cosa intende chi dice così. Trump ripete costantemente i discorsi di Putin e i media di Stato russi celebrano Trump con insolito entusiasmo. Poiché i presidenti americani, di destra o di sinistra, sono raramente acclamati in Russia, si potrebbe sospettare una sorta di collaborazione.

Ma c'è una spiegazione più semplice: Trump e Putin sono uomini straordinariamente simili che si capiscono naturalmente. Non è necessario un complotto: Trump si sentirebbe a casa sua a Mosca.

Non si tratta di suggerire un'equivalenza morale. Trump, dopo tutto, non ha condotto una guerra genocida che ha causato centinaia di migliaia di vittime. Aspira alla dittatura, ma non è ancora riuscito a realizzarla. Non ha ucciso i suoi avversari politici o nazionalizzato grandi aziende per arricchire i suoi amici. Date le solide istituzioni americane, è improbabile che abbia mai l'opportunità di fare queste cose. In ogni caso, è probabile che non nutra tali obiettivi: sembra molto più gioviale di Putin.

Tuttavia, i parallelismi tra i due sono inconfondibili.

Entrambi sono emersi nell'ambiguità morale che ha seguito il breve periodo di chiarezza morale sorto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Condividono una visione del mondo in cui solo i paesi grandi e temuti meritano rispetto. Trump ha detto al giornalista Bob Woodward che “il vero potere è... la paura”. Sia negli affari interni che in quelli esteri, nessuno dei due sembra credere che le promesse contino o che l'empatia debba guidare il processo decisionale. Sebbene molti politici si comportino in modo simile, pochi presidenti sminuiscono così apertamente i paesi vicini e i loro leader come fanno abitualmente Trump e Putin.

Entrambi considerano la fedeltà - anche solo simulata - l'unica vera virtù. La grazia concessa da Trump agli insurrezionisti del 6 gennaio dimostra la sua conformità a questo principio. A differenza del suo primo mandato, quando i collaboratori spesso disertavano o esprimevano insoddisfazione, Trump ora predilige nei collaboratori che sceglie la lealtà rispetto alla competenza, esattamente come fa Putin.

Basta osservare la trasformazione di JD Vance. Durante il primo mandato di Trump, era un intellettuale dalla barba pulita in tournée che paragonava Trump a Hitler. Ora assomiglia a un erede al trono dell'Asia centrale e la sua postura quasi comicamente mascolina imita lo stile del suo capo. Questa capacità di mutare forma non dovrebbe sorprendere chi ha letto il libro di memorie di Vance, Hillbilly elegy, in cui descrive il suo talento infantile nell'adattarsi a diverse figure paterne. “Con Steve, un uomo che soffriva di crisi di mezza età e che aveva un orecchino per dimostrarlo“, scrive Vance, “facevo finta che gli orecchini fossero fighi... Con Chip, un poliziotto alcolizzato che vedeva il mio orecchino come un segno di ’femminilità’, avevo la pelle dura e amavo le auto della polizia”. Per uomini come Trump e Putin, la lealtà non è facoltativa: è esistenziale, e Vance ha imparato l'arte di diventare ciò che il suo attuale patrono richiede.

Sia Putin che Trump nutrono una profonda sfiducia nelle istituzioni democratiche. La fissazione di Trump per le “elezioni rubate” del 2020 rispecchia il trauma di Putin per il suo tentativo fallito di manipolare a suo vantaggio le elezioni ucraine del 2005. Per entrambi le sconfitte politiche personali sono stati momenti trasformativi. Nel caso di Putin, ogni sfida alla sua autorità lo ha trasformato in una persona diversa, di solito peggiore.

Può sembrare paradossale che un uomo che non affronta mai una vera competizione elettorale cambi di mandato in mandato, eppure è così - e ogni versione è più pericolosa della precedente. Anche Trump è cambiato dal suo ultimo mandato. Può essere ancora imprevedibile, può essere ancora un venditore bugiardo, megalomane e troppo sicuro di sé. Ma chi di noi ha visto da vicino l'evoluzione autoritaria scorge in lui una trasformazione fondamentale. La rabbia di Trump per il tradimento istituzionale si è solidificata in convinzione, in una dottrina fondata sulla sfiducia.

Il trauma della sconfitta nel 2020 non ha solo ferito l'ego di Trump, ma lo ha convinto a considerare illegittimo l'intero apparato democratico. Questo cambiamento, questo indurimento della sua posizione non deve essere sottovalutato.

Un'altra cosa che Trump e Putin hanno in comune è che entrambi credono che la corruzione sia universale. In Trump ravviso una mentalità comune in Russia, persino fondamentale per il funzionamento del potere a Mosca. Trump non si limita a chiamare gli avversari “disonesti” per scherzo, ma sembra credere davvero che la corruzione, e solo la corruzione, motivi tutti. Per Trump, la corruzione non è solo un arricchimento personale, ma è l'unico mezzo efficace per governare, per esercitare il controllo. Questo approccio rende conveniente trattare con Putin: le trattative sono più semplici quando si crede che tutti abbiano un prezzo. Ma ho visto nel mio paese come questo transazionalismo alla fine si ritorca contro, creando nuove vie di corruzione istituzionale che coinvolgono ordini di grandezza maggiori di quanto potrebbe mai fare il semplice arricchimento personale.

Oltre a una comprensione intrinseca della corruzione, sia Trump che Putin comprendono, desiderano e creano deliberatamente il caos. Che si tratti di guerre, minacce nucleari, smantellamento di trattati o sconvolgimenti burocratici, il disordine offre una leva. Quando Elon Musk viene incaricato di distruggere la pubblica amministrazione, l'obiettivo è quello di rendere i dipendenti pubblici più malleabili per qualsiasi cosa venga dopo. Il danno, ovviamente, si estenderà oltre il mandato di Trump: dopo che avrà lasciato l'incarico, i dipendenti pubblici americani avranno perso la fiducia nell'intero sistema americano, nell'intera architettura del potere esecutivo, e non sarà facile ristabilire tale fiducia.

Molti osservatori americani ora sperano che le barriere costituzionali e le istituzioni democratiche facciano il loro lavoro. Questi osservatori credono che i pesi e contrappesi democratici possano contenere gli eccessi di Trump fino a quando le elezioni di metà mandato o le prossime elezioni arriveranno in soccorso. Non hanno tutti i torti: l'America è certamente meglio posizionata per resistere alla deriva autoritaria di quanto lo fosse la Russia nei primi anni di Putin.

La magistratura indipendente, la stampa libera, la struttura di potere federata e la lunga tradizione democratica dell'America forniscono veri e propri strati protettivi che mancano alla Russia. Ma ho anche visto come le istituzioni si sgretolino non attraverso un assalto frontale, ma attraverso una lenta erosione, quando burocrati, giudici e legislatori diventano complici per paura, ambizione o semplice stanchezza.

Quando leggo opinionisti come Ezra Klein sostenere che non dovremmo credere alle minacce di Trump perché il suo potere è più limitato di quanto lui stesso non voglia far credere, riconosco un modello familiare di wishful thinking. Klein suggerisce che, poiché Trump non ha il controllo del Congresso e un ampio sostegno pubblico, il suo potere esiste principalmente nella nostra immaginazione collettiva. Questa analisi presuppone che Trump operi entro i confini tradizionali della politica americana. Ma è proprio questo che i leader autoritari non fanno mai. Coloro che respingono la capacità di Trump di trasformare l'America commettono un fondamentale errore di prospettiva. Giudicano le sue capacità in base alle regole del sistema, mentre lui ha successo proprio perché smantella quelle regole.

Trump ha pochi poteri costituzionali, è vero. Ma raramente gli autocrati acquisiscono il potere per via costituzionale, ed è proprio per questo che vogliono diventare autocrati: per evitare certe seccature. Trovano crepe nel sistema: un giudice corrotto qui, un legislatore servile là, un paio di burocrati oberati di lavoro disposti a guardare dall'altra parte.

Come se non bastasse, coloro che possono prevenire più efficacemente la cattura dello Stato sono i meno attrezzati per riconoscerla. Trump non sta cercando di sottomettere i liberal e gli attivisti, ma sta colpendo i funzionari pubblici non eletti, gli ufficiali militari e gli azionisti delle compagnie private. A prescindere dalle loro qualifiche, non si tratta di persone preparate alla disobbedienza civile: non è nelle loro mansioni. Fanno carriera eseguendo gli ordini senza pensarci troppo, non mettendo in discussione l'autorità. La resistenza che potrebbero opporre è stata ulteriormente ridotta dalla crociata di Musk contro il “deep State”.

Nel frattempo, i funzionari eletti che possono resistere spesso si arrendono volontariamente. Molti repubblicani che siedono al Congresso, a prescindere dai reali sentimenti e opinioni, si sono prostrati docilmente davanti al trono di Trump. I sistemi autocratici selezionano attivamente le persone obbedienti e senza principi. Se si confronta la seconda amministrazione di Trump con la prima, il criterio di selezione è già evidente.

E ora, se Trump e i suoi alleati fin troppo fedeli sembrano distaccati dalla realtà, allora la realtà diventa uno scherzo.

Finora, Trump ha vinto due volte le elezioni più competitive del pianeta e Musk è ufficialmente l'uomo più ricco del mondo, avendo costruito imprese che pochi pensavano possibili. JD Vance, oltre a essere diventato vicepresidente a 40 anni, ha scritto un bestseller a 31 anni. Tutti loro hanno alle spalle una storia di idee trasformate in realtà. Se pensate che il mondo non sia abbastanza pazzo da seguirli nell'abisso, dovreste riconsiderare le vostre ipotesi. Nella mia parte del mondo, almeno, è sempre stato abbastanza pazzo.

Anche se quasi tutte le affermazioni di Trump sono false, lui aderisce fedelmente a queste falsità. Le sue finzioni hanno molto in comune con quelle di Putin, e hanno dato a entrambi il controllo delle narrazioni nei rispettivi paesi - vere o meno non ha importanza. Quindi, nel valutare la minaccia di Trump, considerate la scommessa di Pascal: se passiamo quattro anni in stato di massima allerta per pericoli che non si materializzano mai, abbiamo sopportato uno stress inutile. Se ci rilassiamo e lasciamo che le sue peggiori ambizioni si realizzino, ci troviamo di fronte a una potenziale catastrofe. Il primo scenario è chiaramente preferibile.

Gli americani si chiedono spesso come possano i russi comuni sostenere il regime di Putin. Forse ora avete un quadro più chiaro. Il percorso dalla democrazia all'autocrazia non è segnato dai carri armati nelle strade, ma dalla lenta erosione delle norme, dalla sostituzione della competenza con la lealtà e dal metodico sfruttamento delle vulnerabilità istituzionali.

Trump ci ha avvertito in anticipo. Gli autoritari annunciano i loro crimini molto prima di commetterli. Anche gli uomini più spregiudicati hanno convinzioni profonde e manifestano tratti caratteriali che raramente cambiano. Non è teoria politica avanzata, è storia russa di base. Ora che lo sappiamo, però, la domanda è: cosa faremo?

Articolo originale pubblicato su Coda Story e tradotto con il permesso della redazione.
(Immagine anteprima via WikiMedia Commons)

 

Come muoiono le democrazie

di Natalia Antelava (Coda Story)

“Cosa facciamo quando il Dipartimento di Giustizia ignora gli ordini del tribunale?”, dice il messaggio di un amico americano sul mio telefono. “Niente di tutto questo sembra reale”, dice un altro.

Mentre navighiamo tra i titoli a effetto che escono ogni giorno dalla Washington di Trump, mi ritrovo spesso a pensare a Oksana Baulina, che si è unita al nostro team nel 2019 per produrre una serie di documentari sui sopravvissuti ai Gulag di Stalin. A quel tempo, i media statali russi stavano attivamente riabilitando l'immagine di Stalin, ritraendo il dittatore sovietico come un “manager efficiente” che aveva fatto sacrifici necessari per la patria. Sentivamo l'urgente necessità di preservare le testimonianze dei pochi sopravvissuti rimasti, uomini e donne di ottanta e novant'anni, i cui racconti di prima mano avrebbero potuto contrastare questo revisionismo storico.

Non era più sicuro per me viaggiare a Mosca per lavorare con Oksana allo sviluppo del progetto, così ci siamo incontrate nella vicina Georgia, a Tbilisi, la mia città natale. Oksana è arrivata vestita come la redattrice di riviste di moda che era stata in passato a Vogue Russia, prima di diventare un'attivista dell'opposizione e una giornalista.

Una sera, davanti a un bicchiere di vino, mi ha descritto il costante gioco del gatto col del topo che aveva sperimentato lavorando con la fondazione anticorruzione di Alexei Navalny. Ha raccontato di come il team di Navalny abbia dovuto costantemente reinventarsi, adattandosi a ogni nuova restrizione escogitata dal Cremlino. Quando le autorità hanno bloccato i loro siti web, sono passati a YouTube e ai social media. Quando i funzionari hanno fatto irruzione nei loro uffici, hanno decentrato le operazioni. Quando il governo ha bloccato i loro conti bancari, hanno trovato metodi di finanziamento alternativi. Lo spazio per il dissenso si riduceva di giorno in giorno, ha spiegato, e con ogni nuova limitazione dovevano innovare, inventare nuove tattiche per continuare a denunciare la corruzione in Russia e chiedere conto a Putin delle sue azioni.

“Le pareti si stanno restringendo”, mi disse, "e la maggior parte delle persone non se ne accorge finché non è troppo tardo".

Le sue parole risuonano in maniera sconcertante, mentre osservo la trasformazione in atto nel panorama politico americano. Quando faccio questi paralleli ai miei amici americani, spesso vedo nei loro occhi una familiare resistenza. Alcuni diranno che paragonare l'America a Stati autoritari è allarmistico, che le differenze tra queste società sono troppo grandi. “Sono mele e pere”, obietteranno. Ma l'anatomia della repressione - i metodi usati dai potenti per smantellare le istituzioni democratiche - rimangono straordinariamente simili nel tempo e oltre i confini.

C'è un motivo per cui chi ha vissuto sotto sistemi autoritari riconosce così chiaramente i segnali di pericolo. Per gli americani, questa traiettoria sembra inimmaginabile, un allontanamento da tutto ciò che conoscono. Ma per persone come Oksana, che hanno assistito all'erosione democratica, è più che altro un ritorno al futuro: un modello dolorosamente familiare che si ripresenta sotto nuove forme.

Di recente, un'amica in Georgia ha ricevuto una convocazione che ha colto l'essenza della vita in uno Stato autoritario: presentarsi a un'udienza della commissione statale e rischiare di diventare un bersaglio, oppure non presentarsi e rischiare il carcere. Un decennio fa, questo sarebbe stato impensabile in Georgia, un paese che una volta esemplificava le possibilità della trasformazione democratica post-sovietica. È così che funziona l'autoritarismo: avanza trasformando l'impensabile in inevitabile.

L'autoritarismo spesso adotta un approccio preciso e tecnico per smantellare la democrazia. Non si tratta sempre di prese di potere improvvise e violente. Di solito, l'arretramento democratico è un attento processo di erosione, in cui ogni piccolo passo fa apparire normale ciò che un tempo era scandaloso. Ciò che rende questo processo particolarmente insidioso è il modo in cui sovverte gli strumenti stessi della democrazia - elezioni, parlamenti, tribunali e media - mettendoli contro gli stessi sistemi che sono stati progettati per sostenere.

Fin dall'inizio, con Coda abbiamo seguito i cambiamenti nel panorama del potere: la geografia dell'autoritarismo, l'abuso della tecnologia, l'ascesa dell'oligarchia e la strumentalizzazione della storia. Il nostro approccio editoriale, unico nel suo genere, identifica le “correnti” - gli schemi ricorrenti che pulsano sotto i titoli dei quotidiani - permettendoci di individuare le tendenze emergenti prima che diventino manifeste. Attraverso questa lente, abbiamo osservato che, mentre i regimi autoritari mettono in campo tattiche diverse, tre elementi essenziali del manuale si ripetono con notevole coerenza in contesti e continenti diversi.

La prima mossa è sempre la manipolazione della memoria e della nostalgia. Vladimir Putin lo ha capito meglio di altri. Il suo regime non si è limitato a trasformare Stalin da tiranno a “manager efficiente”, ma ha minato organizzazioni come Memorial, che documentavano i crimini sovietici, bollandole come “agenti stranieri” prima di chiuderle del tutto.

Per Oksana, come per molti altri del nostro team, il progetto del documentario sul Gulag era profondamente personale. La sua famiglia aveva vissuto direttamente la repressione politica sotto il regime sovietico. Per la versione in lingua russa ha scelto un titolo diverso da “Generazione Gulag”. L'ha chiamato: “La repressione non conosce fine”.

Lo stesso modello è visibile negli Stati Uniti, dove il movimento “Make America Great Again” fa leva sulla nostalgia di un passato immaginario, in cui le strutture di potere non erano messe in discussione e concetti come l'uguaglianza non “complicavano” l'ordine naturale. Non si tratta solo di uno slogan politico, ma di una narrazione accuratamente elaborata che crea condizioni sociali tali da rendere pericoloso sfidare il passato mitico.

Lo abbiamo visto nell'Ungheria di Viktor Orbán, dove i libri di testo scolastici sono stati riscritti per glorificare il passato imperiale del paese e minimizzare la sua complicità nell'Olocausto. In India, dove il governo di Narendra Modi ha sistematicamente rimodellato l'educazione storica per centrare le narrazioni nazionaliste indù e sminuire i contributi musulmani. E in Florida, dove le restrizioni all'insegnamento degli studi afroamericani e della storia della razzializzazione seguono lo stesso schema: controllare il modo in cui le società comprendono il loro passato per rendere più facile rimodellare il loro futuro.

Ma riscrivere il passato è solo il primo atto. La fase successiva consiste nel trasformare questa nostalgia in un'arma che ridefinisca la fedeltà alla nazione. Una volta stabilita la mitica età dell'oro, metterla in discussione diventa non solo disaccordo ma anche tradimento. In Russia, per esempio, si è cominicato a bollare come sospetto chiunque osava mettere in discussione i glorificati miti dell'era sovietica, tacciandolo di essere un potenziale traditore, o un agente straniero.

Mentre Oksana viaggiava per la Russia filmando le interviste con i sopravvissuti ai Gulag, molti si sono detti sconvolti nel vedere come, durante gli ultimi anni delle loro vite, le narrazioni che credevano screditate stavano guadagnando di nuovo terreno. Gli autori dei crimini contro di loro - i boia, le guardie carcerarie - erano glorificati dai media di Stato e dalle narrazioni ufficiali.

È l'ultima forma di ingiustizia, che fa eco a ciò che molti dei miei amici neri americani mi dicono di provare oggi, mentre assistono all'inversione di decenni di progressi faticosamente raggiunti verso l'equità. Dopo aver lottato per smantellare le statue dei generali confederati e dei proprietari di schiavi, ora assistono alla riabilitazione del suprematismo bianco, mentre chi si oppone è bollato come antipatriottico.

Naturalmente, non si tratta di paragoni diretti. Ogni paese segue il proprio percorso. Forse l'economia di mercato americana si dimostrerà resistente alla presa autoritaria. Forse le sue istituzioni resisteranno all'assalto meglio delle loro controparti altrove. Forse il sistema federalizzato fornirà barriere che non erano disponibili in Stati più centralizzati.

Ma, ripensando alle innumerevoli conversazioni con amici che hanno vissuto transizioni autoritarie, mi viene in mente quanto gradualmente l'acqua si riscaldi intorno a tutti noi mentre va verso il punto di ebollizione. Ogni piccola resa, ogni momento di silenzio nasce da un pensiero del tutto ragionevole: “Non mi riguarderà personalmente”.

Tra le 35 vittime dei gulag staliniani che Oksana ha intervistato c'è Irina Verblovskaya. È stata una storia d'amore a portare Irina in carcere. “Non ho mai pensato che sarebbero venuti a prendermi”, ha detto a Oksana, con la voce ferma ma con gli occhi che mostravano ancora il dolore di ferite vecchie di decenni. Non ha mai pensato di essere così politicizzata da essere notata.

Gli amici americani mi chiedono spesso cosa fare, come reagire quando questi modelli di repressione diventano evidenti. Esito a rispondere con certezza. I casi che conosco più intimamente sono casi di fallimento. Quasi tutto ciò per cui i miei genitori dissidenti hanno combattuto in Georgia è stato cancellato nel corso della mia vita. Eppure, paradossalmente, la loro lotta continua a essere d'ispirazione, proprio perché non è mai veramente finita. Oggi, a Tbilisi, le persone sono rimaste in piedi al freddo per più di cento notti, protestando contro leggi che rispecchiano la normativa autoritaria russa.

Dopo aver seguito per anni guerre e crisi politiche, ho notato che i soldati sul campo comprendono le sorti della battaglia prima dei generali. Un tassista spesso ha una conoscenza migliore delle dinamiche cittadine rispetto al sindaco. La mia prima regola è quella di ascoltare sempre le persone che sono nel vivo della situazione, di prestare attenzione a coloro che possono essere ai margini del potere ma che sono i primi a sentirne gli effetti. Il nostro fallimento raramente sta nella mancanza di profeti, ma nel rifiuto di ascoltare i loro avvertimenti.

Chi sono i profeti dell'America di oggi? Sono le persone abitualmente liquidate come allarmisti: studiosi della Costituzione che mettono in guardia dalla cattura giudiziaria, leader dei diritti civili che individuano modelli di soppressione degli elettori, giornalisti che documentano la normalizzazione della retorica estremista e immigrati che riconoscono le repressioni con cui hanno familiarizzato nei paesi da cui sono fuggiti. I loro avvertimenti non sono iperboli politiche, ma si basano su ricerche rigorose, relazioni ed esperienze vissute. E così come sono i primi a percepire i segnali d'allarme, sono spesso i primi a essere presi di mira quando si svolge l'atto finale della commedia.

L'ultima tattica vincente del gioco autoritario è la criminalizzazione del dissenso. Questo processo inizia con le parole: l'uso crescente di termini come “nemico dello Stato”, “minaccia alla sicurezza nazionale” o “tradimento” per descrivere i propri avversari politici. Osservate come queste etichette proliferano nei media di estrema destra. Si noti come il disaccordo venga sempre più spesso inquadrato come tradimento. Per chiunque abbia vissuto l'autoritarismo, questo linguaggio non è solo retorica: è preparatorio. Il piano del Progetto 2025 per rimodellare il Dipartimento di Giustizia segue questo schema: creare sistemi in cui la lealtà politica sostituisce l'indipendenza istituzionale.

I meccanismi possono essersi evoluti, ma l'approccio fondamentale rimane invariato. In Russia, nessuno ha incarnato questa progressione in tre atti più chiaramente di Alexei Navalny. Nel 2014 era ancora in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone nelle strade di Mosca contro Putin e la corruzione del Cremlino. I suoi avvertimenti sul crescente autoritarismo della Russia sono stati ampiamente liquidati in Occidente come esagerati. Eppure il cappio si è stretto intorno a lui: prima gli arresti, poi l'avvelenamento, l'imprigionamento e infine la morte. Rappresentava una minaccia troppo grande e il sistema non poteva tollerare la sua esistenza.

Quella sera a Tbilisi, nel 2019, Oksana parlò molto di come fosse lavorare con la squadra di Navalny, per mobilitare i russi contro Putin. Abbiamo discusso se Navalny fosse o meno razzista. Nonostante il suo coraggio nella lotta alla corruzione, Navalny aveva fatto commenti sprezzanti sulle persone provenienti dall'Asia centrale e dal Caucaso, definendo i georgiani “roditori” che dovevano essere “sterminati”. Come lei, sono cresciuta con il crollo sovietico come sfondo della mia giovinezza - avevamo la stessa età - ma le mie esperienze provenivano da un movimento georgiano che combatteva non solo il sistema sovietico ma anche il colonialismo russo.

La nostra discussione, accompagnata dal vino, alla fine si risolse in un consenso sul fatto che la democrazia liberale occidentale, pur con tutti i suoi difetti, rimaneva il miglior sistema disponibile, l'opzione più giusta e più libera che conoscevamo. Solo ora riconosco il mio atteggiamento di superiorità verso il suo orgoglio di attivista. Dopo anni di lavoro nei media occidentali, ero stata quasi vaccinata contro l'idea di essere un'attivista: il giornalismo doveva essere puro, obiettivo, distaccato.

Mi sbagliavo. Oksana aveva capito qualcosa che io non avevo ancora compreso: in ambienti in cui la verità stessa è attaccata, il giornalismo diventa inevitabilmente una forma di resistenza. Per lei non si trattava di teoria, ma della realtà quotidiana. Il confine che ho mantenuto con tanta cura era un lusso che lei non poteva permettersi, e ora non ci credo più.

L'avvertimento finale

Un anno dopo, dopo aver filmato circa 30 interviste con i sopravvissuti alle purghe staliniane in tutta la Russia, Oksana tornò per mostrare ad alcuni di loro il risultato del nostro lavoro. Abbiamo un video di Oksana che fa visita a Olga Shirokaya, una 96enne sopravvissuta al Gulag che era stata arrestata quando aveva 27 anni. Si siedono sul divano di Olga per guardare il film, gli occhi di Olga si allargano quando vede la sua storia reimmaginata attraverso l'animazione.

“Mi sembra di poter respirare di nuovo”, dice a Oksana, con la voce tremante. “Non pensavo che in un'opera così breve si potesse trovare in modo così autentico l'essenza di tutte le cose che ti ho raccontato”.

Ora quel filmato mi perseguita. Oksana è seduta lì, luminosa ed elegante, mentre questa sopravvissuta al terrore staliniano guarda la sua stessa testimonianza. A quel tempo, Navalny era già in prigione. Mancavano poche settimane all'invasione totale dell'Ucraina. Oksana aveva intuito cosa stava per accadere? Sapeva che stava documentando non solo il passato di Olga, ma anche il suo stesso futuro?

Quando Putin lanciò l'invasione dell'Ucraina nel febbraio 2022, Oksana lasciò la Russia. Si è recata a Kyiv per raccontare la guerra a un'emittente russa indipendente - il suo ultimo atto di resistenza. Il 23 marzo, quasi un mese esatto dall'inizio della guerra, mentre documentava i danni ai civili causati dai bombardamenti russi, Oksana è stata uccisa da un missile russo. Aveva 42 anni.

"La repressione non conosce fine” non era solo il titolo che aveva scelto per la versione russa del nostro progetto documentario. È stato il modo in cui ha compreso i modelli della storia, gli stessi che avrebbero causato la sua morte.

Abbiamo già visto questo film in contesti e continenti diversi. La sceneggiatura è familiare, la trama per lo più prevedibile. Ma non sappiamo ancora come va a finire, soprattutto in un paese con le tradizioni democratiche, le garanzie costituzionali e le strutture di potere decentralizzate dell'America.

Così, quando gli amici mi chiedono “che cosa facciamo”, io dico loro: “Guardate l'esempio di chi ci è già passato”. La democrazia non si salva con grandi gesti, ma con migliaia di piccoli atti di coraggio. Mostrandosi, parlando e rifiutando di distogliere lo sguardo da ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. Riconoscendo che il manuale per instaurare dittature funziona proprio perché ogni piccola tattica sembra troppo piccola per resistere.

Abbiamo già visto questo film. Ma non siamo solo un pubblico passivo, siamo anche attori. E abbiamo ancora il potere di cambiare il finale.

Articolo originale pubblicato su Coda Story e tradotto con il permesso della redazione.
(Immagine anteprima: Gage Skidmore)