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Torino

Presenza di pace a Torino

Da 155 settimane (tre anni), ogni sabato alle 11, in piazza Carignano di Torino, dall’inizio della guerra di Ucraina, poi di Gaza, si radunano con ogni tempo diverse decine di persone, per una “Presenza di Pace”: un’ora di letture, informazioni, riflessioni, proposte, collegamenti internazionali, contro le varie guerre in corso. Si termina con un minuto di silenzio per tutte le vittime.

In molte altre città d’Italia ogni settimana si tengono simili manifestazioni non clamorose né chiassose, ma serie e tenaci.

L’iniziativa è del coordinamento AGiTe, cui aderiscono molte associazioni locali che sono contro le armi nucleari, messe al bando dall’Onu nel trattato del 2017, che proibisce non solo l’uso, ma la semplice detenzione di tali armi, in vigore per tutti i paesi dal gennaio 2021. L’Italia, con la Nato, deplorevolmente non ha ancora voluto aderire a questo impegno contro la guerra.

Chiediamo ai media locali (giornali, tv, radio…) che hanno finora mancato completamente di dare notizia di informare su questa tenace e seria testimonianza della volontà popolare di pace.

Coordinamento AGiTe

Haidi Gaggio Giuliani: “non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue”

Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili.

Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.

La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si processa.

Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.

Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.

Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e tutti i giovani del mondo…

Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.

Non sono i nostri figli che si devono vergognareSono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”  (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di dirlo a voce alta.

Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.

Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.

Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima.

È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per noi”?!

In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.

Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).

Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta, agli industriali.

Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li persegue!

Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.

Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.

Haidi Gaggio Giuliani

 

“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it – https://www.facebook.com/mammeinpiazza

Centro Sereno Regis

Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano

Gianni è stato tante cose diverse. Era del 1938. Sua madre partorì in casa a Mombercelli. Lui era prematuro e gracile: la durezza degli anni della guerra facevano presagire che non avrebbe passato l’infanzia. Invece “Spinacino” ce l’ha fatta. In barba al freddo, alle bombe, alla fame e ai tanti malanni di quei primi anni, arriverà al 5 febbraio 2025, quando se ne è andato nel sonno.
Lasciato il paese, da cui riporterà il ricordo indelebile degli alberi, delle foglie, dell’aria di collina, con i genitori e il fratellino si trasferisce a Torino. Il panorama della città, nel primo dopoguerra è segnato dalle macerie delle case bombardate e dagli alberi dei viali tagliati per fare legna. I soldi sono pochi e la vita, in due stanze con il ballatoio ed il cesso fuori, è grama.
La scuola sarà per lui un mondo speciale, che amerà sin dai primi anni.
Al punto che sceglierà di fare il maestro. La laurea, che all’epoca non serviva per insegnare alle “elementari”, come si chiamavano allora, la prenderà anni dopo, con una tesi di pedagogia libertaria.
A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il giovane maestro viene allontanato dall’insegnamento per cinque lunghi anni, in cui verrà confinato in un ufficio. Le sue idee erano troppo sovversive.
A quell’epoca la scuola elementare era simile ad una piccola caserma. I bambini separati dalle bambine, le divise, lo stare sull’attenti, il recitare la preghiera, l’alzarsi in piedi quando entrava l’autorità, lo stare per ore immobili, “composti” nei banchi.
Gianni si nutre delle idee e delle esperienze di Celestin Freinet, del nativo canadese Wilfred Peltier, della scuola pedagogica statunitense.
Gianni, quando arriva in classe si fa dare del tu ai bambini, non li rinchiude nell’aula, li porta fuori a toccare con mano le cose: il fiume, gli alberi, ma anche la realtà sociale, quella dei profughi istriani delle Vallette, quella dei napoletani emigrati in gran numero a Cirié, all’imbocco delle valli di Lanzo, dove insegnerà a lungo dopo la pausa forzata imposta dal Ministero.
A Cirié, complice una mamma che sapeva riparare le bici, i bambini partono ad esplorare il territorio per capire la cosa più importante: le domande da fare, la curiosità che nasce dall’esperienza, il proprio percorso nella vita. Con le bici Gianni e i suoi bambini arrivano ad invadere la pista dell’aeroporto di Caselle, per vedere come erano fatti gli aerei, con i quali i più fortunati partivano per paesi favolosi, che ai ragazzini della Ciriè operaia erano preclusi. Tante imprese, tanti viaggi, soprattutto viaggi nella realtà sociale, dove si parla di lavoro e di licenziamenti punitivi. Una volta, con i bambini occupa l’ufficio del sindaco perché a scuola fa freddo.
Storie di frontiera in una scuola che oggi non è più fatta di autorità e disciplina anche grazie ai partigiani dei bambini come Gianni Milano.
Lui lo diceva a chiare lettere: “bisogna dar voce ai bambini: sono loro che decidono come apprendere meglio, e cosa fare”.
Gli ultimi anni a scuola, dove lavorerà per 40 anni, li trascorre a Lanzo dove insegna alle future maestre.
Quando i suoi capelli sono diventati tutti bianchi, ha continuato a portali lunghi e scarruffati, come ai tempi in cui si guadagnò il soprannome dispregiativo, ma portato con orgoglio, di “maestro capellone”.
Lui non ne parlava più di tanto, ma se date un’occhiata ai libri, alle riviste, alla storia di quegli anni speciali scoprirete che è stato tra i protagonisti della cultura beat nel nostro paese.
Era un fricchettone colto, scriveva poesie sulla sua lettera 32. Poesie che trovate sparse qua e là, di recente molte sono state raccolte in un volume per le edizioni Fenix.
D’estate, quando le scuole erano chiuse, autostop e via per il mondo. Ma poi tornava sempre a Torino, che non era più la città bigia e dura dei suoi primi anni, ma sempre la città in cui si sentiva a casa, all’ombra delle montagne.
Era amico di Fernanda Pivano e di Allen Ginsberg, è stato uno dei protagonisti della beat generation: pubblica Off Limits (1966), Guru (1967), Prana (1968), King Kong (1973), Uomo Nudo (Tampax, 1975). È tra i fondatori della Pitecantropus Editrice, un tentativo di unire le anime della cultura Beat.
Spirito profondamente libertario, specie negli ultimi anni si lega al movimento anarchico, attraversandone le lotte.
Abitava in fondo a corso Vercelli, a due passi dal Balon, dove lo incontravamo spesso in occasione di presidi e banchetti. Arrivava e parlava con tutti, indossando un fazzoletto rosso e nero, spacciando idee e libri. Vivace come un folletto, mai stanco, nonostante gli anni che passavano ed i nuovi malanni.
Lo ricordiamo in tanti 25 aprile, tanti primi maggio, portare con orgoglio la bandiera rossa e nera. Anche in valle ha intersecato tante volte le strade dei cortei e delle lotte, perché in quella lotta popolare, specie in certi anni, seppe riconoscere il tempo che muta, quando la gente comune, quella che non ci è avvezza, alza la testa.
Lo conoscevano tutt. Con la sua parlantina sciolta e il suo stile da vecchio maestro, lo trovavate nei posti dove la gente sceglie di essere protagonista, di alzarsi in piedi, di costruire da sé il proprio cammino.
Eravamo in tanti a salutarlo nel piazzale del Cimitero Maggiore di Torino, nonostante il freddo e la pioggerellina insistente. Il Cor’Occhio circondato da bandiere anarchiche, sullo sfondo uno striscione No Tav ha intonato i canti anarchici e quelli di chi diserta la guerra. Gianni che l’aveva conosciuta fu un antimilitarista convinto, senza sfumature.
Lo abbiamo ricordato con la musica, le parole, le sue poesie.
In questi tempi grami, con le scuole che rischiano di diventare nuovamente caserme, il ricordo del maestro capellone, che sfrecciava alla testa della sua ciurma di bambini liberati dai banchi per la campagna piemontese, resterà un’ancora che renderà più forte la determinazione a continuare a pedalare per cambiare il mondo intollerabile in cui siamo forzati a vivere.
Nel lungo percorso attraverso le grandi statue del monumentale siamo arrivati in una zona povera. Gianni, nato sulla terra, ha scelto di tornarvi. Sulla bara una bandiera nera e tanti garofani rossi.
Elfo di città, con un cuore contadino, continueremo a vederlo volteggiare a Torino e in Valle, o al Balon, dove si mescolava con gli anarchici e i senzapatria.

Ciao Gianni!

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

 

Militanza Grafica per Gianni Milano

L'articolo Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano proviene da .

Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano

Gianni è stato tante cose diverse. Era del 1938. Sua madre partorì in casa a Mombercelli. Lui era prematuro e gracile: la durezza degli anni della guerra facevano presagire che non avrebbe passato l’infanzia. Invece “Spinacino” ce l’ha fatta. In barba al freddo, alle bombe, alla fame e ai tanti malanni di quei primi anni, arriverà al 5 febbraio 2025, quando se ne è andato nel sonno.
Lasciato il paese, da cui riporterà il ricordo indelebile degli alberi, delle foglie, dell’aria di collina, con i genitori e il fratellino si trasferisce a Torino. Il panorama della città, nel primo dopoguerra è segnato dalle macerie delle case bombardate e dagli alberi dei viali tagliati per fare legna. I soldi sono pochi e la vita, in due stanze con il ballatoio ed il cesso fuori, è grama.
La scuola sarà per lui un mondo speciale, che amerà sin dai primi anni.
Al punto che sceglierà di fare il maestro. La laurea, che all’epoca non serviva per insegnare alle “elementari”, come si chiamavano allora, la prenderà anni dopo, con una tesi di pedagogia libertaria.
A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il giovane maestro viene allontanato dall’insegnamento per cinque lunghi anni, in cui verrà confinato in un ufficio. Le sue idee erano troppo sovversive.
A quell’epoca la scuola elementare era simile ad una piccola caserma. I bambini separati dalle bambine, le divise, lo stare sull’attenti, il recitare la preghiera, l’alzarsi in piedi quando entrava l’autorità, lo stare per ore immobili, “composti” nei banchi.
Gianni si nutre delle idee e delle esperienze di Celestin Freinet, del nativo canadese Wilfred Peltier, della scuola pedagogica statunitense.
Gianni, quando arriva in classe si fa dare del tu ai bambini, non li rinchiude nell’aula, li porta fuori a toccare con mano le cose: il fiume, gli alberi, ma anche la realtà sociale, quella dei profughi istriani delle Vallette, quella dei napoletani emigrati in gran numero a Cirié, all’imbocco delle valli di Lanzo, dove insegnerà a lungo dopo la pausa forzata imposta dal Ministero.
A Cirié, complice una mamma che sapeva riparare le bici, i bambini partono ad esplorare il territorio per capire la cosa più importante: le domande da fare, la curiosità che nasce dall’esperienza, il proprio percorso nella vita. Con le bici Gianni e i suoi bambini arrivano ad invadere la pista dell’aeroporto di Caselle, per vedere come erano fatti gli aerei, con i quali i più fortunati partivano per paesi favolosi, che ai ragazzini della Ciriè operaia erano preclusi. Tante imprese, tanti viaggi, soprattutto viaggi nella realtà sociale, dove si parla di lavoro e di licenziamenti punitivi. Una volta, con i bambini occupa l’ufficio del sindaco perché a scuola fa freddo.
Storie di frontiera in una scuola che oggi non è più fatta di autorità e disciplina anche grazie ai partigiani dei bambini come Gianni Milano.
Lui lo diceva a chiare lettere: “bisogna dar voce ai bambini: sono loro che decidono come apprendere meglio, e cosa fare”.
Gli ultimi anni a scuola, dove lavorerà per 40 anni, li trascorre a Lanzo dove insegna alle future maestre.
Quando i suoi capelli sono diventati tutti bianchi, ha continuato a portali lunghi e scarruffati, come ai tempi in cui si guadagnò il soprannome dispregiativo, ma portato con orgoglio, di “maestro capellone”.
Lui non ne parlava più di tanto, ma se date un’occhiata ai libri, alle riviste, alla storia di quegli anni speciali scoprirete che è stato tra i protagonisti della cultura beat nel nostro paese.
Era un fricchettone colto, scriveva poesie sulla sua lettera 32. Poesie che trovate sparse qua e là, di recente molte sono state raccolte in un volume per le edizioni Fenix.
D’estate, quando le scuole erano chiuse, autostop e via per il mondo. Ma poi tornava sempre a Torino, che non era più la città bigia e dura dei suoi primi anni, ma sempre la città in cui si sentiva a casa, all’ombra delle montagne.
Era amico di Fernanda Pivano e di Allen Ginsberg, è stato uno dei protagonisti della beat generation: pubblica Off Limits (1966), Guru (1967), Prana (1968), King Kong (1973), Uomo Nudo (Tampax, 1975). È tra i fondatori della Pitecantropus Editrice, un tentativo di unire le anime della cultura Beat.
Spirito profondamente libertario, specie negli ultimi anni si lega al movimento anarchico, attraversandone le lotte.
Abitava in fondo a corso Vercelli, a due passi dal Balon, dove lo incontravamo spesso in occasione di presidi e banchetti. Arrivava e parlava con tutti, indossando un fazzoletto rosso e nero, spacciando idee e libri. Vivace come un folletto, mai stanco, nonostante gli anni che passavano ed i nuovi malanni.
Lo ricordiamo in tanti 25 aprile, tanti primi maggio, portare con orgoglio la bandiera rossa e nera. Anche in valle ha intersecato tante volte le strade dei cortei e delle lotte, perché in quella lotta popolare, specie in certi anni, seppe riconoscere il tempo che muta, quando la gente comune, quella che non ci è avvezza, alza la testa.
Lo conoscevano tutt. Con la sua parlantina sciolta e il suo stile da vecchio maestro, lo trovavate nei posti dove la gente sceglie di essere protagonista, di alzarsi in piedi, di costruire da sé il proprio cammino.
Eravamo in tanti a salutarlo nel piazzale del Cimitero Maggiore di Torino, nonostante il freddo e la pioggerellina insistente. Il Cor’Occhio circondato da bandiere anarchiche, sullo sfondo uno striscione No Tav ha intonato i canti anarchici e quelli di chi diserta la guerra. Gianni che l’aveva conosciuta fu un antimilitarista convinto, senza sfumature.
Lo abbiamo ricordato con la musica, le parole, le sue poesie.
In questi tempi grami, con le scuole che rischiano di diventare nuovamente caserme, il ricordo del maestro capellone, che sfrecciava alla testa della sua ciurma di bambini liberati dai banchi per la campagna piemontese, resterà un’ancora che renderà più forte la determinazione a continuare a pedalare per cambiare il mondo intollerabile in cui siamo forzati a vivere.
Nel lungo percorso attraverso le grandi statue del monumentale siamo arrivati in una zona povera. Gianni, nato sulla terra, ha scelto di tornarvi. Sulla bara una bandiera nera e tanti garofani rossi.
Elfo di città, con un cuore contadino, continueremo a vederlo volteggiare a Torino e in Valle, o al Balon, dove si mescolava con gli anarchici e i senzapatria.

Ciao Gianni!

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

 

Militanza Grafica per Gianni Milano

L'articolo Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano proviene da .

Presenza di pace a Torino

Da 155 settimane (tre anni), ogni sabato alle 11, in piazza Carignano di Torino, dall’inizio della guerra di Ucraina, poi di Gaza, si radunano con ogni tempo diverse decine di persone, per una “Presenza di Pace”: un’ora di letture, informazioni, riflessioni, proposte, collegamenti internazionali, contro le varie guerre in corso. Si termina con un minuto di silenzio per tutte le vittime.

In molte altre città d’Italia ogni settimana si tengono simili manifestazioni non clamorose né chiassose, ma serie e tenaci.

L’iniziativa è del coordinamento AGiTe, cui aderiscono molte associazioni locali che sono contro le armi nucleari, messe al bando dall’Onu nel trattato del 2017, che proibisce non solo l’uso, ma la semplice detenzione di tali armi, in vigore per tutti i paesi dal gennaio 2021. L’Italia, con la Nato, deplorevolmente non ha ancora voluto aderire a questo impegno contro la guerra.

Chiediamo ai media locali (giornali, tv, radio…) che hanno finora mancato completamente di dare notizia di informare su questa tenace e seria testimonianza della volontà popolare di pace.

Coordinamento AGiTe

Haidi Gaggio Giuliani: “non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue”

Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili.

Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.

La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si processa.

Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.

Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.

Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e tutti i giovani del mondo…

Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.

Non sono i nostri figli che si devono vergognareSono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”  (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di dirlo a voce alta.

Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.

Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.

Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima.

È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per noi”?!

In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.

Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).

Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta, agli industriali.

Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li persegue!

Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.

Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.

Haidi Gaggio Giuliani

 

“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it – https://www.facebook.com/mammeinpiazza

Centro Sereno Regis

Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano

Gianni è stato tante cose diverse. Era del 1938. Sua madre partorì in casa a Mombercelli. Lui era prematuro e gracile: la durezza degli anni della guerra facevano presagire che non avrebbe passato l’infanzia. Invece “Spinacino” ce l’ha fatta. In barba al freddo, alle bombe, alla fame e ai tanti malanni di quei primi anni, arriverà al 5 febbraio 2025, quando se ne è andato nel sonno.
Lasciato il paese, da cui riporterà il ricordo indelebile degli alberi, delle foglie, dell’aria di collina, con i genitori e il fratellino si trasferisce a Torino. Il panorama della città, nel primo dopoguerra è segnato dalle macerie delle case bombardate e dagli alberi dei viali tagliati per fare legna. I soldi sono pochi e la vita, in due stanze con il ballatoio ed il cesso fuori, è grama.
La scuola sarà per lui un mondo speciale, che amerà sin dai primi anni.
Al punto che sceglierà di fare il maestro. La laurea, che all’epoca non serviva per insegnare alle “elementari”, come si chiamavano allora, la prenderà anni dopo, con una tesi di pedagogia libertaria.
A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il giovane maestro viene allontanato dall’insegnamento per cinque lunghi anni, in cui verrà confinato in un ufficio. Le sue idee erano troppo sovversive.
A quell’epoca la scuola elementare era simile ad una piccola caserma. I bambini separati dalle bambine, le divise, lo stare sull’attenti, il recitare la preghiera, l’alzarsi in piedi quando entrava l’autorità, lo stare per ore immobili, “composti” nei banchi.
Gianni si nutre delle idee e delle esperienze di Celestin Freinet, del nativo canadese Wilfred Peltier, della scuola pedagogica statunitense.
Gianni, quando arriva in classe si fa dare del tu ai bambini, non li rinchiude nell’aula, li porta fuori a toccare con mano le cose: il fiume, gli alberi, ma anche la realtà sociale, quella dei profughi istriani delle Vallette, quella dei napoletani emigrati in gran numero a Cirié, all’imbocco delle valli di Lanzo, dove insegnerà a lungo dopo la pausa forzata imposta dal Ministero.
A Cirié, complice una mamma che sapeva riparare le bici, i bambini partono ad esplorare il territorio per capire la cosa più importante: le domande da fare, la curiosità che nasce dall’esperienza, il proprio percorso nella vita. Con le bici Gianni e i suoi bambini arrivano ad invadere la pista dell’aeroporto di Caselle, per vedere come erano fatti gli aerei, con i quali i più fortunati partivano per paesi favolosi, che ai ragazzini della Ciriè operaia erano preclusi. Tante imprese, tanti viaggi, soprattutto viaggi nella realtà sociale, dove si parla di lavoro e di licenziamenti punitivi. Una volta, con i bambini occupa l’ufficio del sindaco perché a scuola fa freddo.
Storie di frontiera in una scuola che oggi non è più fatta di autorità e disciplina anche grazie ai partigiani dei bambini come Gianni Milano.
Lui lo diceva a chiare lettere: “bisogna dar voce ai bambini: sono loro che decidono come apprendere meglio, e cosa fare”.
Gli ultimi anni a scuola, dove lavorerà per 40 anni, li trascorre a Lanzo dove insegna alle future maestre.
Quando i suoi capelli sono diventati tutti bianchi, ha continuato a portali lunghi e scarruffati, come ai tempi in cui si guadagnò il soprannome dispregiativo, ma portato con orgoglio, di “maestro capellone”.
Lui non ne parlava più di tanto, ma se date un’occhiata ai libri, alle riviste, alla storia di quegli anni speciali scoprirete che è stato tra i protagonisti della cultura beat nel nostro paese.
Era un fricchettone colto, scriveva poesie sulla sua lettera 32. Poesie che trovate sparse qua e là, di recente molte sono state raccolte in un volume per le edizioni Fenix.
D’estate, quando le scuole erano chiuse, autostop e via per il mondo. Ma poi tornava sempre a Torino, che non era più la città bigia e dura dei suoi primi anni, ma sempre la città in cui si sentiva a casa, all’ombra delle montagne.
Era amico di Fernanda Pivano e di Allen Ginsberg, è stato uno dei protagonisti della beat generation: pubblica Off Limits (1966), Guru (1967), Prana (1968), King Kong (1973), Uomo Nudo (Tampax, 1975). È tra i fondatori della Pitecantropus Editrice, un tentativo di unire le anime della cultura Beat.
Spirito profondamente libertario, specie negli ultimi anni si lega al movimento anarchico, attraversandone le lotte.
Abitava in fondo a corso Vercelli, a due passi dal Balon, dove lo incontravamo spesso in occasione di presidi e banchetti. Arrivava e parlava con tutti, indossando un fazzoletto rosso e nero, spacciando idee e libri. Vivace come un folletto, mai stanco, nonostante gli anni che passavano ed i nuovi malanni.
Lo ricordiamo in tanti 25 aprile, tanti primi maggio, portare con orgoglio la bandiera rossa e nera. Anche in valle ha intersecato tante volte le strade dei cortei e delle lotte, perché in quella lotta popolare, specie in certi anni, seppe riconoscere il tempo che muta, quando la gente comune, quella che non ci è avvezza, alza la testa.
Lo conoscevano tutt. Con la sua parlantina sciolta e il suo stile da vecchio maestro, lo trovavate nei posti dove la gente sceglie di essere protagonista, di alzarsi in piedi, di costruire da sé il proprio cammino.
Eravamo in tanti a salutarlo nel piazzale del Cimitero Maggiore di Torino, nonostante il freddo e la pioggerellina insistente. Il Cor’Occhio circondato da bandiere anarchiche, sullo sfondo uno striscione No Tav ha intonato i canti anarchici e quelli di chi diserta la guerra. Gianni che l’aveva conosciuta fu un antimilitarista convinto, senza sfumature.
Lo abbiamo ricordato con la musica, le parole, le sue poesie.
In questi tempi grami, con le scuole che rischiano di diventare nuovamente caserme, il ricordo del maestro capellone, che sfrecciava alla testa della sua ciurma di bambini liberati dai banchi per la campagna piemontese, resterà un’ancora che renderà più forte la determinazione a continuare a pedalare per cambiare il mondo intollerabile in cui siamo forzati a vivere.
Nel lungo percorso attraverso le grandi statue del monumentale siamo arrivati in una zona povera. Gianni, nato sulla terra, ha scelto di tornarvi. Sulla bara una bandiera nera e tanti garofani rossi.
Elfo di città, con un cuore contadino, continueremo a vederlo volteggiare a Torino e in Valle, o al Balon, dove si mescolava con gli anarchici e i senzapatria.

Ciao Gianni!

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

 

Militanza Grafica per Gianni Milano

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Presenza di pace a Torino

Da 155 settimane (tre anni), ogni sabato alle 11, in piazza Carignano di Torino, dall’inizio della guerra di Ucraina, poi di Gaza, si radunano con ogni tempo diverse decine di persone, per una “Presenza di Pace”: un’ora di letture, informazioni, riflessioni, proposte, collegamenti internazionali, contro le varie guerre in corso. Si termina con un minuto di silenzio per tutte le vittime.

In molte altre città d’Italia ogni settimana si tengono simili manifestazioni non clamorose né chiassose, ma serie e tenaci.

L’iniziativa è del coordinamento AGiTe, cui aderiscono molte associazioni locali che sono contro le armi nucleari, messe al bando dall’Onu nel trattato del 2017, che proibisce non solo l’uso, ma la semplice detenzione di tali armi, in vigore per tutti i paesi dal gennaio 2021. L’Italia, con la Nato, deplorevolmente non ha ancora voluto aderire a questo impegno contro la guerra.

Chiediamo ai media locali (giornali, tv, radio…) che hanno finora mancato completamente di dare notizia di informare su questa tenace e seria testimonianza della volontà popolare di pace.

Coordinamento AGiTe

Haidi Gaggio Giuliani: “non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue”

Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili.

Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.

La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si processa.

Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.

Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.

Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e tutti i giovani del mondo…

Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.

Non sono i nostri figli che si devono vergognareSono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”  (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di dirlo a voce alta.

Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.

Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.

Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima.

È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per noi”?!

In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.

Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).

Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta, agli industriali.

Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li persegue!

Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.

Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.

Haidi Gaggio Giuliani

 

“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it – https://www.facebook.com/mammeinpiazza

Centro Sereno Regis

Il maestro e le margherite – ricordando Gianni Milano

Gianni è stato tante cose diverse. Era del 1938. Sua madre partorì in casa a Mombercelli. Lui era prematuro e gracile: la durezza degli anni della guerra facevano presagire che non avrebbe passato l’infanzia. Invece “Spinacino” ce l’ha fatta. In barba al freddo, alle bombe, alla fame e ai tanti malanni di quei primi anni, arriverà al 5 febbraio 2025, quando se ne è andato nel sonno.
Lasciato il paese, da cui riporterà il ricordo indelebile degli alberi, delle foglie, dell’aria di collina, con i genitori e il fratellino si trasferisce a Torino. Il panorama della città, nel primo dopoguerra è segnato dalle macerie delle case bombardate e dagli alberi dei viali tagliati per fare legna. I soldi sono pochi e la vita, in due stanze con il ballatoio ed il cesso fuori, è grama.
La scuola sarà per lui un mondo speciale, che amerà sin dai primi anni.
Al punto che sceglierà di fare il maestro. La laurea, che all’epoca non serviva per insegnare alle “elementari”, come si chiamavano allora, la prenderà anni dopo, con una tesi di pedagogia libertaria.
A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il giovane maestro viene allontanato dall’insegnamento per cinque lunghi anni, in cui verrà confinato in un ufficio. Le sue idee erano troppo sovversive.
A quell’epoca la scuola elementare era simile ad una piccola caserma. I bambini separati dalle bambine, le divise, lo stare sull’attenti, il recitare la preghiera, l’alzarsi in piedi quando entrava l’autorità, lo stare per ore immobili, “composti” nei banchi.
Gianni si nutre delle idee e delle esperienze di Celestin Freinet, del nativo canadese Wilfred Peltier, della scuola pedagogica statunitense.
Gianni, quando arriva in classe si fa dare del tu ai bambini, non li rinchiude nell’aula, li porta fuori a toccare con mano le cose: il fiume, gli alberi, ma anche la realtà sociale, quella dei profughi istriani delle Vallette, quella dei napoletani emigrati in gran numero a Cirié, all’imbocco delle valli di Lanzo, dove insegnerà a lungo dopo la pausa forzata imposta dal Ministero.
A Cirié, complice una mamma che sapeva riparare le bici, i bambini partono ad esplorare il territorio per capire la cosa più importante: le domande da fare, la curiosità che nasce dall’esperienza, il proprio percorso nella vita. Con le bici Gianni e i suoi bambini arrivano ad invadere la pista dell’aeroporto di Caselle, per vedere come erano fatti gli aerei, con i quali i più fortunati partivano per paesi favolosi, che ai ragazzini della Ciriè operaia erano preclusi. Tante imprese, tanti viaggi, soprattutto viaggi nella realtà sociale, dove si parla di lavoro e di licenziamenti punitivi. Una volta, con i bambini occupa l’ufficio del sindaco perché a scuola fa freddo.
Storie di frontiera in una scuola che oggi non è più fatta di autorità e disciplina anche grazie ai partigiani dei bambini come Gianni Milano.
Lui lo diceva a chiare lettere: “bisogna dar voce ai bambini: sono loro che decidono come apprendere meglio, e cosa fare”.
Gli ultimi anni a scuola, dove lavorerà per 40 anni, li trascorre a Lanzo dove insegna alle future maestre.
Quando i suoi capelli sono diventati tutti bianchi, ha continuato a portali lunghi e scarruffati, come ai tempi in cui si guadagnò il soprannome dispregiativo, ma portato con orgoglio, di “maestro capellone”.
Lui non ne parlava più di tanto, ma se date un’occhiata ai libri, alle riviste, alla storia di quegli anni speciali scoprirete che è stato tra i protagonisti della cultura beat nel nostro paese.
Era un fricchettone colto, scriveva poesie sulla sua lettera 32. Poesie che trovate sparse qua e là, di recente molte sono state raccolte in un volume per le edizioni Fenix.
D’estate, quando le scuole erano chiuse, autostop e via per il mondo. Ma poi tornava sempre a Torino, che non era più la città bigia e dura dei suoi primi anni, ma sempre la città in cui si sentiva a casa, all’ombra delle montagne.
Era amico di Fernanda Pivano e di Allen Ginsberg, è stato uno dei protagonisti della beat generation: pubblica Off Limits (1966), Guru (1967), Prana (1968), King Kong (1973), Uomo Nudo (Tampax, 1975). È tra i fondatori della Pitecantropus Editrice, un tentativo di unire le anime della cultura Beat.
Spirito profondamente libertario, specie negli ultimi anni si lega al movimento anarchico, attraversandone le lotte.
Abitava in fondo a corso Vercelli, a due passi dal Balon, dove lo incontravamo spesso in occasione di presidi e banchetti. Arrivava e parlava con tutti, indossando un fazzoletto rosso e nero, spacciando idee e libri. Vivace come un folletto, mai stanco, nonostante gli anni che passavano ed i nuovi malanni.
Lo ricordiamo in tanti 25 aprile, tanti primi maggio, portare con orgoglio la bandiera rossa e nera. Anche in valle ha intersecato tante volte le strade dei cortei e delle lotte, perché in quella lotta popolare, specie in certi anni, seppe riconoscere il tempo che muta, quando la gente comune, quella che non ci è avvezza, alza la testa.
Lo conoscevano tutt. Con la sua parlantina sciolta e il suo stile da vecchio maestro, lo trovavate nei posti dove la gente sceglie di essere protagonista, di alzarsi in piedi, di costruire da sé il proprio cammino.
Eravamo in tanti a salutarlo nel piazzale del Cimitero Maggiore di Torino, nonostante il freddo e la pioggerellina insistente. Il Cor’Occhio circondato da bandiere anarchiche, sullo sfondo uno striscione No Tav ha intonato i canti anarchici e quelli di chi diserta la guerra. Gianni che l’aveva conosciuta fu un antimilitarista convinto, senza sfumature.
Lo abbiamo ricordato con la musica, le parole, le sue poesie.
In questi tempi grami, con le scuole che rischiano di diventare nuovamente caserme, il ricordo del maestro capellone, che sfrecciava alla testa della sua ciurma di bambini liberati dai banchi per la campagna piemontese, resterà un’ancora che renderà più forte la determinazione a continuare a pedalare per cambiare il mondo intollerabile in cui siamo forzati a vivere.
Nel lungo percorso attraverso le grandi statue del monumentale siamo arrivati in una zona povera. Gianni, nato sulla terra, ha scelto di tornarvi. Sulla bara una bandiera nera e tanti garofani rossi.
Elfo di città, con un cuore contadino, continueremo a vederlo volteggiare a Torino e in Valle, o al Balon, dove si mescolava con gli anarchici e i senzapatria.

Ciao Gianni!

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

 

Militanza Grafica per Gianni Milano

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