Il 13 marzo, in un incontro con il Segretario generale della NATO Mark Rutte, Trump ha ribadito ancora una volta il suo desiderio di annettere e controllare la Groenlandia, citando la sua importanza per la sicurezza internazionale.
In risposta, il leader entrante della Groenlandia, Jens Frederik Nielsen, ha dichiarato chiaramente che i groenlandesi non vogliono essere americani o danesi, ma groenlandesi, e che in futuro cercheranno l’indipendenza per poter costruire il loro Paese da soli. Allo stesso modo, il leader uscente della Groenlandia, Mute Bourup Egede, ancora capo del governo ad interim, ha apertamente denunciato la retorica di Trump come una continua mancanza di rispetto nei confronti di una nazione che è inaccettabile e deve finire. Basta, ha detto, in quello che è stato il più fermo rifiuto dell’avventurismo di Trump da quando l’idea è stata ventilata per la prima volta nel 2019 e poi ripetuta nel 2024.
Quello che era iniziato come un blando rifiuto a una richiesta audace da parte del suo più stretto alleato, così oltraggiosa da risultare persino divertente, ha ora lasciato il posto a una risposta unificata e inequivocabile, nata dalla frustrazione e da un acuto senso di torto e mancanza di rispetto.
Venerdì 14 marzo, su richiesta di Egede, i segretari dei cinque partiti eletti al Parlamento groenlandese (Inatsisarsut) – Jens Frederik Nielsen di Demokraatit, Pele Broberg di Naleraq, Mute Bourup Egede di Inuit Ataqatigiit, Vivian Motzfeldt di Siumut e Aqqalu Jeremiassen di Atassut – si sono riuniti e hanno rilasciato una dichiarazione congiunta:
“Noi – tutti i segretari di partito – non possiamo accettare le ripetute dichiarazioni sull’annessione e il controllo della Groenlandia. Come segretari di partito, riteniamo questo comportamento inaccettabile nei confronti di amici e alleati in un’alleanza di difesa. Noi, come leader di tutti i partiti del Inatsisartut (parlamento) in Groenlandia, dobbiamo sottolineare che la Groenlandia continua il lavoro per la Groenlandia, che è già in corso attraverso i canali diplomatici in conformità con le leggi e i regolamenti internazionali. Tutti noi sosteniamo questo sforzo e ci opponiamo fermamente ai tentativi di creare discordia. La Groenlandia è un unico Paese, che tutti sosterranno”.
Nonostante le differenze politiche tra i cinque leader su altre questioni, una cosa è chiara come la luce del sole: sono tutti molto uniti nel rifiutare fermamente qualsiasi offerta degli Stati Uniti. Questa dichiarazione è significativa nel contesto dell’ondata di incomprensione e disinformazione che sta travolgendo gli Stati Uniti sull’argomento, con i sostenitori di Trump che intenzionalmente (e anche certi critici di Trump involontariamente) ritraggono alcuni partiti come più simpatici alle ambizioni di Trump rispetto agli altri, per far credere che l’idea di un’adesione della Groenlandia agli Stati Uniti goda di un sostegno locale maggiore di quello reale. La dichiarazione congiunta chiarisce che tutti e cinque i partiti ritengono la proposta inaccettabile e irrispettosa.
Considerando quella che sembra essere la tattica del campo di Trump di seminare zizzania e giocare con le divisioni, e di travisare grossolanamente l’interesse di pochi innamorati di Trump come l’aspirazione collettiva dei molti che chiaramente non lo sono, è del tutto comprensibile che il presidente groenlandese uscente abbia voluto convocare i leader di tutti i partiti per elaborare una dichiarazione congiunta che denunci fermamente tale mancanza di rispetto. Se il risultato delle elezioni rivela qualcosa, è che molti groenlandesi hanno a cuore le questioni dell’indipendenza politica dalla Danimarca e delle future relazioni con gli Stati Uniti, ma hanno altrettanto, se non di più, a cuore le questioni locali che riguardano la loro vita quotidiana, come la sanità, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e altro ancora. Si tratta di questioni in cui gli Stati Uniti sono molto indietro rispetto agli Stati nordici, quindi, a parte il fatto che la Groenlandia non è in vendita, la proposta di unirsi agli Stati Uniti non è semplicemente allettante.
Questo non significa che gli Stati Uniti non abbiano legittimi interessi di sicurezza in Groenlandia. Ha assolutamente ragione a riconoscere l’immensa importanza strategica della Groenlandia, come ha riconosciuto anche il Segretario generale della NATO Mark Rutte. È un peccato, però, che in un campo così ricco di opportunità, egli parli di acquisizione e annessione (del tutto inutile e sgradita) invece di limitarsi a coltivare la buona volontà verso gli Stati Uniti e a incoraggiare gli investimenti americani (effettivamente utili e graditi). In un momento in cui gli Stati Uniti hanno davvero bisogno della Groenlandia per tutte le numerose ragioni di sicurezza e di risorse che Trump giustamente individua, Trump sta facendo di più per danneggiare e minare le relazioni tra Stati Uniti e Groenlandia di qualsiasi suo predecessore, una strategia che si sta rivelando del tutto controproducente e che sta portando un cuneo tra i due alleati.
Commenti del dottor Dwayne Ryan Menezes, fondatore e direttore generale inglese dell’Iniziativa per la ricerca e la politica polare (PRPI)
Le dichiarazioni radicali del nuovo presidente americano hanno galvanizzato la società e il governo canadese. Hanno unito i canadesi e migliorato notevolmente le possibilità del partito liberale al governo di vincere le prossime elezioni. Il Presidente Trump ha minacciato di annettere il Canada, il che significherebbe più che raddoppiare il territorio degli Stati Uniti. Trump si è ripetutamente rivolto al primo ministro canadese chiamandolo “governatore del 51° Stato”. Ha anche introdotto nuovi e drastici dazi doganali (tariffe nel linguaggio di Trump) sulle importazioni dal Canada, una misura che ha un impatto negativo sull’economia canadese.
Queste turbolenze hanno messo in evidenza la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti. Non è la prima volta che i rischi di tale dipendenza diventano evidenti. Ad esempio, durante l’ epidemia di COVID-19, gli americani hanno sottratto forniture mediche vitali destinate al Canada. All’epoca sostenevo che il Canada avrebbe dovuto ridurre la sua dipendenza dal vicino meridionale e diversificare le sue catene di approvvigionamento e, più in generale, ristrutturare le sue relazioni economiche e finanziarie. Con il potere americano in declino, invitavo Ottawa a emanciparsi da Washington.
Tuttavia, il governo canadese non ha ascoltato l’appello lanciato, ovviamente, da molti altri oltre a me. Ciò è stato particolarmente ironico, dato che il Canada aveva a lungo consigliato all’Ucraina di prendere le distanze dal suo potente vicino, la Russia, fin dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991.
Ci sono modi graduali e non bellicosi per ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti stringendo legami più stretti con altre potenze. Eppure, invece di migliorare le relazioni con Cina, India e Russia – tutte e tre con tassi di crescita economica impressionanti – il Canada le ha peggiorate. Il governo Trudeau ha invece compiuto tentativi apparentemente atavici di riavvicinamento all’Europa. Tuttavia, la salute economica in declino della maggior parte delle nazioni europee rende l’integrazione economica con esse poco vantaggiosa.
Le sanzioni europee contro la Russia – adottate per volere di Washington – e la distruzione di un importante gasdotto proveniente da quel Paese, molto probabilmente eseguita da parte degli Stati Uniti, hanno seriamente compromesso la Germania (tasso di crescita meno 0,3), tradizionalmente considerata la locomotiva industriale d’Europa. Le aperture del Canada verso l’Europa potrebbero quindi rivelarsi insufficienti a mitigare i danni causati dal potente vicino meridionale.
In uno dei suoi ultimi discorsi da primo ministro, Trudeau ha ribadito la determinazione del suo governo a resistere alle azioni punitive americane. Ha lamentato il fatto che “gli Stati Uniti hanno lanciato una guerra commerciale contro il Canada, il loro partner e alleato più stretto, il loro amico più caro. Allo stesso tempo, parlano di lavorare positivamente con la Russia, placando Vladimir Putin…”. È improbabile che questo tipo di rimprovero possa ammorbidire la posizione di Trump.
Sebbene il Canada si sia impegnato ad aumentare il proprio budget militare, ciò non ha lo scopo di scoraggiare l’esplicita minaccia di annessione da parte degli Stati Uniti, anche se nessun altro Paese sta cercando di porre fine all’esistenza stessa del Canada. La nuova enfasi sul rafforzamento delle forze armate è ufficialmente giustificata dalla percezione di una minaccia da parte di Cina e Russia, oltre che dalla necessità di aiutare l’Ucraina a sostenere il suo sforzo bellico.
Le forze canadesi rimangono profondamente integrate con le loro controparti americane e, in ogni caso, la resistenza armata è impensabile come mezzo per salvaguardare l’indipendenza del Canada. Pochi canadesi si offrirebbero volontari per ripetere il tragico errore dell’Ucraina di combattere il suo più potente vicino orientale. Per questo motivo, le risorse promesse ai militari dovrebbero essere utilizzate per rafforzare lo stato sociale canadese, soprattutto per aiutare gli indigenti, il cui numero è in costante aumento, e per riorientare l’attività economica verso le regioni in costante crescita.
Poiché il Canada si trova di fronte a una vera e propria minaccia esistenziale da parte degli Stati Uniti, il suo governo deve cercare alleanze alternative. Si può solo sperare che il nuovo governo liberale di Mark Carney trovi la forza di prendere iniziative coraggiose. L’annunciata revisione dell’acquisto di 88 caccia F-35 dalla Lockheed Martin sembra giustificare questa speranza. I cambiamenti radicali in atto a Washington richiedono una trasformazione altrettanto radicale delle relazioni internazionali di Ottawa.
Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali.
E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?
Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”. Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto?
Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa).
Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.
A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite.
Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.
Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere.
Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).
Come afferma CAN Europe: “Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.
Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino.
Transito del gas russo in Ucraina
Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina.
Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!
La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari.
Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione.
Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025.
Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca.
Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.
Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”
La guerra e lo scudo ucraino
Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino,
«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.»
Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.
Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump.
Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.
Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",
«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»
Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati.
Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione
L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza.
Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni.
L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).
La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso."
Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.
Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate.
Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni.
L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.
Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida.
Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà.
La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone.
La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?
Un nuovo ordine globale
Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.
Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!
Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.
L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!
Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.
Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.
In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First!
*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)
Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.
Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.
di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, La Stampa, OBCT, Italia), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Kim Son Hoang (Der Standard, Austria), Caleb Larson (Germania), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Krasen Nikolov (Mediapool, Bulgaria)
“Diciamoci la verità: l’Unione Europea è stata creata con l’intento di fregare gli Stati Uniti”, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fine febbraio, annunciando dazi del 25% nei confronti degli (ex?) alleati europei. “Era questo l’obiettivo, e ci sono riusciti. Ma ora il presidente sono io”. Le minacce verbali e le azioni di Trump negli ultimi due mesi hanno destabilizzato l’equilibrio della NATO e inasprito le tensioni tra gli Stati membri dell’UE, che ha tuttavia reagito tempestivamente a livello centrale.
Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro Bianco della difesa, che include il piano "ReArm Europe" proposto dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. La risoluzione è stata approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni: le conclusioni del piano sono state adottate, tuttavia, in seno al Consiglio Europeo, che la scorsa settimana ha riunito i 27 leader dell’UE.
Uno degli elementi chiave del piano è la possibilità per gli Stati membri di incrementare la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli del Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nel periodo previsto. Circa 130 miliardi all’anno, divisi fra i 27 Stati Membri: in media, 5 miliardi all’anno per paese. Inoltre, è previsto un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti di innovazione nel settore della difesa.
Non ha trovato invece appoggio da parte dei leader europei, con poche sorprese, il piano da 40 miliardi (sono stati allocati, ad ora, solo 5 miliardi) proposto dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas per aiutare Kyiv: non solo per il veto dell’Ungheria, ma anche per i dubbi di alcuni stati sulla proporzionalità degli aiuti rispetto al Reddito nazionale lordo, osteggiato soprattutto da Francia e Italia, secondoEuronews.
Ma al di là degli equilibri europei e di ciò che succederà nei prossimi mesi in Ucraina, il tycoon può davvero rompere l’alleanza transatlantica, oppure sta solo bluffando? Secondo Heinz Gärtner, politologo austriaco dell’Università di Vienna ed esperto di politica estera americana e sicurezza internazionale, “l’alleanza transatlantica non finirà, perché tramite la NATO gli USA continuano ad avere un’influenza considerevole sui membri europei”.
Tutti i presidenti USA, sottolinea Gärtner, hanno chiesto un aumento delle spese militari agli alleati europei: la differenza è che Trump sta adottando una retorica più aggressiva e minacciosa, in un contesto storico come mai delicato.
“Trump ha semplicemente reso visibili le relazioni di dipendenza interne all’alleanza transatlantica”, dice Gärtner, sottolineando però come Joe Biden avesse rivendicato il ruolo guida degli Stati Uniti in un modo diverso: “a differenza dello stile di Trump, gli europei venivano almeno informati in anticipo sulle intenzioni americane”.
Durante il primo mandato di Trump, “gli europei avevano appoggiato tutte le principali decisioni di politica estera americana”, ricorda Gärtner, inclusa la politica verso la Corea del Nord “e la cena ad hamburger con Kim”, il cosiddetto “accordo del secolo” ideato dal genero di Trump Jared Kushner, così come il ritiro unilaterale dall'accordo nucleare con l’Iran. “Perfino i dazi vennero in qualche modo tollerati”, sottolinea Gärtner.
In un mutato contesto di riarmo ideologico e materiale, trascinato dalla deriva autoritaria statunitense evidente dalla retorica del secondo mandato di Trump, molti si chiedono però delle possibili conseguenze: come cambierà l’Europa tra cinque anni? Secondo Gärtner, la storia ha dimostrato come “le zone di influenza si creino laddove si trovano gli eserciti”. È già in costruzione una moderna cortina di ferro: una barriera elettronica “intelligente” tra Finlandia e Russia. La Finlandia, che ha la frontiera più lunga dell’UE con Mosca, ha iniziato nel 2023 la costruzione di una recinzione di 200 km, da completare entro il 2027 o 2028.
L’obiettivo iniziale era contenere l’immigrazione — sia da paesi terzi extra-UE che dei russi in fuga dalla leva dopo il 2022. Ma ora le preoccupazioni sono ben più gravi. “Dobbiamo essere pronti a prevenire e rispondere a crisi, conflitti e persino agli scenari più gravi, come la guerra”, ha dichiarato la ministra dell’Interno finlandese, Mari Rantanen, in un incontro a Helsinki con il ministro danese per la Resilienza e Preparazione Torsten Schack Pedersen.
Nuovi sistemi d’arma vengono già installati da entrambe le parti del confine. Per Gärtner, uno scenario possibile è la formazione di una cortina che va dall’Artico al Mar Nero, passando per l’Ucraina. Il risultato: riarmo generalizzato e intensificazione del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, in cui ogni aumento della sicurezza di uno Stato alimenta l’insicurezza degli altri.
Lisa Musiol, direttrice del programma UE dell’International Crisis Group, è netta: “credo che gli europei abbiano chiaro che non si tornerà allo status quo precedente”. In un’intervista al media spagnolo El Confidencial, afferma che si è verificato un cambiamento fondamentale nella percezione della minaccia russa e nella fiducia nei confronti dell’alleato americano. “Gli europei riconoscono, o stanno cominciando a riconoscere, che gli Stati Uniti non sono il partner affidabile che avevano pensato”.
Un cambiamento storico destinato a rimanere impresso negli equilibri del futuro nel Vecchio Continente. L’Europa sta vivendo una trasformazione radicale nella propria politica di difesa. Il caso più emblematico è la Germania, dove Friedrich Merz, leader della CDU e prossimo cancelliere dopo la vittoria alle elezioni di fine febbraio, ha proposto di riformare le rigide regole sul debito per aumentare la spesa militare. L’obiettivo: creare un fondo da 500 miliardi di euro. La proposta prevede di esentare dal controllo del debito le spese per la difesa superiori all’1% del PIL.
Soprattutto in Germania, infatti, molti vedono nel riarmo un’opportunità industriale: le grandi aziende della difesa come Rheinmetall stanno riconvertendo impianti dell’automotive, tra cui gli impianti Volkswagen, per produrre carri armati, radar, sistemi antimissile. Il piano, però, dipende dal sostegno dei partiti — incluso quello dei Verdi, che però nelle ultime settimane hanno accettato un compromesso.
Sia a Berlino che a Bruxelles, però, il tempismo non è stato dei migliori: il riarmo non è iniziato nei tre anni di guerra in Ucraina, ma solo ora, spinto dalla retorica muscolare della nuova amministrazione USA che sta spingendo Putin a non arretrare di un passo dalle sue pretese iniziali.
“Entrambe le parti — Russia da un lato, Ucraina e UE dall’altro — si percepiscono come minacce”, dice Musiol. Un rapporto pubblicato da Crisis Group a gennaio 2025 sul futuro della sicurezza europea ha analizzato le percezioni reciproche: “Abbiamo osservato un’escalation simmetrica nelle capacità di difesa e deterrenza. Come organizzazione che si occupa di prevenzione dei conflitti, sappiamo che questo comporta grandi rischi”, aggiunge Musiol.
Un ordine di sicurezza europeo fondato sulla deterrenza richiederà, infatti, anche enormi sforzi diplomatici. Secondo Gärtner, esiste un’alternativa: un sistema di sicurezza comune post-bellico. Sarebbe necessaria “una grande conferenza internazionale” per definire un nuovo ordine in cui la sicurezza sia concepita come indivisibile. Ma un processo di questo tipo “non sarebbe possibile senza il coinvolgimento del Sud globale”.
Per Musiol, “questo è un momento decisivo”. Le prossime settimane e mesi saranno cruciali, non solo per l’Ucraina, ma per la sicurezza europea. Sebbene Trump prema per un accordo rapido, se non superficiale, dell’invasione russa, il Crisis Group prevede che “i negoziati si prolungheranno” a lungo. Potrebbero esserci altri colloqui tra Stati Uniti e Russia, e forse anche con europei e ucraini. Musiol ritiene che Trump si accorgerà “che Putin non è realmente interessato a un accordo”, e dunque “lo scenario più probabile è un conflitto prolungato”.
Nel frattempo, le azioni della nuova amministrazione USA hanno acceso le tensioni interne all’UE, riportando alla luce rivalità antiche come quella tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. “Vorrei sapere a che titolo sei andato a Washington”, aveva chiesto in maniera polemica Meloni al presidente francese durante un vertice UE. Appena una settimana prima, la presidente del Consiglio italiana aveva partecipato alla convention degli ultraconservatori MAGA.
Nonostante il sostegno unanime dei 27 alla proposta di von der Leyen di investire 800 miliardi nella difesa nei prossimi quattro anni, le crepe interne sono destinate a farsi più evidenti.
Il Parlamento olandese ha già bocciato il piano. In Francia, Mélenchon parla di “disastro ecologico irreversibile”. Le quinte colonne del Cremlino in Europa, su tutti Le Pen e Salvini, sostengono che il vero pericolo non è Mosca ma il fondamentalismo islamico. Ma anche in Spagna alcuni partner di governo di Sánchez rifiutano il piano di riarmo proposto da von der Leyen, in maniera simile a una parte del Partito Democratico in Italia.
Due elezioni in Europa centro-orientale potrebbero ulteriormente cambiare il quadro europeo. In Polonia, dove si vota il prossimo 18 maggio, il presidente Duda chiede agli USA di trasferire armi nucleari nel paese: “La NATO si è spostata a est nel 1999. Ora, dopo 26 anni, anche la sua infrastruttura dovrebbe seguire l’allargamento geografico”, ha dichiarato Duda, che non potrà ricandidarsi, al Financial Times. Il nuovo candidato dei conservatori di Diritto e Giustizia, Karol Nawrocki, propone addirittura la rottura dei rapporti diplomatici con Mosca.
In Repubblica Ceca, il blocco governativo di centrodestra è europeista e in prima linea nel sostegno all’Ucraina, ma il partito ODS è contrario a una maggiore integrazione con l’UE. Il partito populista ANO, guidato dall’oligarca Andrej Babiš, considerato favorevole a Mosca, è dato per favorito alle elezioni di ottobre: è contro il riarmo, ma potrebbe cambiare idea se ci fossero incentivi finanziari dall’UE.
Di fronte alla tentazione dell’unilateralismo, arriva l’avvertimento del bulgaro Ruslan Stefanov, direttore del Centro per lo Studio della Democrazia e coautore di The Kremlin Handbook, che parafrasando Kissinger, scrive: “Povera Germania, troppo grande per l’Europa, e troppo piccola per il mondo”.
Secondo Stefanov, “l’UE (o meglio, i suoi Stati membri, ndr) deve rendersi conto che solo il suo potere economico aggregato ha peso globale”. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato a una maggiore federalizzazione europea, ma in ogni caso in un clima di crescenti divisioni all’interno dei singoli parlamenti nazionali.
Sergio Mattarella, in un discorso all’Università di Marsiglia, ha tracciato un parallelo con la crisi degli anni ’20 e ’30 del Novecento che alimentò protezionismo, unilateralismo e sgretolamento delle alleanze. Il risultato fu l’emergere di “fenomeni autoritari” ritenuti, erroneamente, più efficaci nel proteggere gli interessi nazionali.
Per alcuni analisti, come Nathalie Tocci, l’amministrazione Trump — con l’abbraccio a Putin e il sostegno sostegno a partiti estremisti come l’AfD in Germania — prosegue un progetto simile a quello iniziato dal Cremlino a partire dal 2015: smantellare l’Europa dall’interno, al fine di renderla irrilevante sullo scenario globale. Anche secondo Gärtner la destra radicale vede in Trump un alleato, “soprattutto per quanto riguarda le politiche anti-immigrazione”.
Questo potrebbe spingere i governi europei filo-Trump, come quello italiano o ungherese, ad accettare di aumentare le spese militari ma acquistando armi (e gas liquido) dagli Stati Uniti per mantenere buoni rapporti con Washington. Generando così un evidente paradosso, rispetto all’obiettivo europeo di smarcarsi dalla dipendenza americana. É arrivato il momento di scelte definitive, in Italia, come nel resto d’Europa.
Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali
Il 13 marzo, in un incontro con il Segretario generale della NATO Mark Rutte, Trump ha ribadito ancora una volta il suo desiderio di annettere e controllare la Groenlandia, citando la sua importanza per la sicurezza internazionale.
In risposta, il leader entrante della Groenlandia, Jens Frederik Nielsen, ha dichiarato chiaramente che i groenlandesi non vogliono essere americani o danesi, ma groenlandesi, e che in futuro cercheranno l’indipendenza per poter costruire il loro Paese da soli. Allo stesso modo, il leader uscente della Groenlandia, Mute Bourup Egede, ancora capo del governo ad interim, ha apertamente denunciato la retorica di Trump come una continua mancanza di rispetto nei confronti di una nazione che è inaccettabile e deve finire. Basta, ha detto, in quello che è stato il più fermo rifiuto dell’avventurismo di Trump da quando l’idea è stata ventilata per la prima volta nel 2019 e poi ripetuta nel 2024.
Quello che era iniziato come un blando rifiuto a una richiesta audace da parte del suo più stretto alleato, così oltraggiosa da risultare persino divertente, ha ora lasciato il posto a una risposta unificata e inequivocabile, nata dalla frustrazione e da un acuto senso di torto e mancanza di rispetto.
Venerdì 14 marzo, su richiesta di Egede, i segretari dei cinque partiti eletti al Parlamento groenlandese (Inatsisarsut) – Jens Frederik Nielsen di Demokraatit, Pele Broberg di Naleraq, Mute Bourup Egede di Inuit Ataqatigiit, Vivian Motzfeldt di Siumut e Aqqalu Jeremiassen di Atassut – si sono riuniti e hanno rilasciato una dichiarazione congiunta:
“Noi – tutti i segretari di partito – non possiamo accettare le ripetute dichiarazioni sull’annessione e il controllo della Groenlandia. Come segretari di partito, riteniamo questo comportamento inaccettabile nei confronti di amici e alleati in un’alleanza di difesa. Noi, come leader di tutti i partiti del Inatsisartut (parlamento) in Groenlandia, dobbiamo sottolineare che la Groenlandia continua il lavoro per la Groenlandia, che è già in corso attraverso i canali diplomatici in conformità con le leggi e i regolamenti internazionali. Tutti noi sosteniamo questo sforzo e ci opponiamo fermamente ai tentativi di creare discordia. La Groenlandia è un unico Paese, che tutti sosterranno”.
Nonostante le differenze politiche tra i cinque leader su altre questioni, una cosa è chiara come la luce del sole: sono tutti molto uniti nel rifiutare fermamente qualsiasi offerta degli Stati Uniti. Questa dichiarazione è significativa nel contesto dell’ondata di incomprensione e disinformazione che sta travolgendo gli Stati Uniti sull’argomento, con i sostenitori di Trump che intenzionalmente (e anche certi critici di Trump involontariamente) ritraggono alcuni partiti come più simpatici alle ambizioni di Trump rispetto agli altri, per far credere che l’idea di un’adesione della Groenlandia agli Stati Uniti goda di un sostegno locale maggiore di quello reale. La dichiarazione congiunta chiarisce che tutti e cinque i partiti ritengono la proposta inaccettabile e irrispettosa.
Considerando quella che sembra essere la tattica del campo di Trump di seminare zizzania e giocare con le divisioni, e di travisare grossolanamente l’interesse di pochi innamorati di Trump come l’aspirazione collettiva dei molti che chiaramente non lo sono, è del tutto comprensibile che il presidente groenlandese uscente abbia voluto convocare i leader di tutti i partiti per elaborare una dichiarazione congiunta che denunci fermamente tale mancanza di rispetto. Se il risultato delle elezioni rivela qualcosa, è che molti groenlandesi hanno a cuore le questioni dell’indipendenza politica dalla Danimarca e delle future relazioni con gli Stati Uniti, ma hanno altrettanto, se non di più, a cuore le questioni locali che riguardano la loro vita quotidiana, come la sanità, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e altro ancora. Si tratta di questioni in cui gli Stati Uniti sono molto indietro rispetto agli Stati nordici, quindi, a parte il fatto che la Groenlandia non è in vendita, la proposta di unirsi agli Stati Uniti non è semplicemente allettante.
Questo non significa che gli Stati Uniti non abbiano legittimi interessi di sicurezza in Groenlandia. Ha assolutamente ragione a riconoscere l’immensa importanza strategica della Groenlandia, come ha riconosciuto anche il Segretario generale della NATO Mark Rutte. È un peccato, però, che in un campo così ricco di opportunità, egli parli di acquisizione e annessione (del tutto inutile e sgradita) invece di limitarsi a coltivare la buona volontà verso gli Stati Uniti e a incoraggiare gli investimenti americani (effettivamente utili e graditi). In un momento in cui gli Stati Uniti hanno davvero bisogno della Groenlandia per tutte le numerose ragioni di sicurezza e di risorse che Trump giustamente individua, Trump sta facendo di più per danneggiare e minare le relazioni tra Stati Uniti e Groenlandia di qualsiasi suo predecessore, una strategia che si sta rivelando del tutto controproducente e che sta portando un cuneo tra i due alleati.
Commenti del dottor Dwayne Ryan Menezes, fondatore e direttore generale inglese dell’Iniziativa per la ricerca e la politica polare (PRPI)
Le dichiarazioni radicali del nuovo presidente americano hanno galvanizzato la società e il governo canadese. Hanno unito i canadesi e migliorato notevolmente le possibilità del partito liberale al governo di vincere le prossime elezioni. Il Presidente Trump ha minacciato di annettere il Canada, il che significherebbe più che raddoppiare il territorio degli Stati Uniti. Trump si è ripetutamente rivolto al primo ministro canadese chiamandolo “governatore del 51° Stato”. Ha anche introdotto nuovi e drastici dazi doganali (tariffe nel linguaggio di Trump) sulle importazioni dal Canada, una misura che ha un impatto negativo sull’economia canadese.
Queste turbolenze hanno messo in evidenza la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti. Non è la prima volta che i rischi di tale dipendenza diventano evidenti. Ad esempio, durante l’ epidemia di COVID-19, gli americani hanno sottratto forniture mediche vitali destinate al Canada. All’epoca sostenevo che il Canada avrebbe dovuto ridurre la sua dipendenza dal vicino meridionale e diversificare le sue catene di approvvigionamento e, più in generale, ristrutturare le sue relazioni economiche e finanziarie. Con il potere americano in declino, invitavo Ottawa a emanciparsi da Washington.
Tuttavia, il governo canadese non ha ascoltato l’appello lanciato, ovviamente, da molti altri oltre a me. Ciò è stato particolarmente ironico, dato che il Canada aveva a lungo consigliato all’Ucraina di prendere le distanze dal suo potente vicino, la Russia, fin dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991.
Ci sono modi graduali e non bellicosi per ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti stringendo legami più stretti con altre potenze. Eppure, invece di migliorare le relazioni con Cina, India e Russia – tutte e tre con tassi di crescita economica impressionanti – il Canada le ha peggiorate. Il governo Trudeau ha invece compiuto tentativi apparentemente atavici di riavvicinamento all’Europa. Tuttavia, la salute economica in declino della maggior parte delle nazioni europee rende l’integrazione economica con esse poco vantaggiosa.
Le sanzioni europee contro la Russia – adottate per volere di Washington – e la distruzione di un importante gasdotto proveniente da quel Paese, molto probabilmente eseguita da parte degli Stati Uniti, hanno seriamente compromesso la Germania (tasso di crescita meno 0,3), tradizionalmente considerata la locomotiva industriale d’Europa. Le aperture del Canada verso l’Europa potrebbero quindi rivelarsi insufficienti a mitigare i danni causati dal potente vicino meridionale.
In uno dei suoi ultimi discorsi da primo ministro, Trudeau ha ribadito la determinazione del suo governo a resistere alle azioni punitive americane. Ha lamentato il fatto che “gli Stati Uniti hanno lanciato una guerra commerciale contro il Canada, il loro partner e alleato più stretto, il loro amico più caro. Allo stesso tempo, parlano di lavorare positivamente con la Russia, placando Vladimir Putin…”. È improbabile che questo tipo di rimprovero possa ammorbidire la posizione di Trump.
Sebbene il Canada si sia impegnato ad aumentare il proprio budget militare, ciò non ha lo scopo di scoraggiare l’esplicita minaccia di annessione da parte degli Stati Uniti, anche se nessun altro Paese sta cercando di porre fine all’esistenza stessa del Canada. La nuova enfasi sul rafforzamento delle forze armate è ufficialmente giustificata dalla percezione di una minaccia da parte di Cina e Russia, oltre che dalla necessità di aiutare l’Ucraina a sostenere il suo sforzo bellico.
Le forze canadesi rimangono profondamente integrate con le loro controparti americane e, in ogni caso, la resistenza armata è impensabile come mezzo per salvaguardare l’indipendenza del Canada. Pochi canadesi si offrirebbero volontari per ripetere il tragico errore dell’Ucraina di combattere il suo più potente vicino orientale. Per questo motivo, le risorse promesse ai militari dovrebbero essere utilizzate per rafforzare lo stato sociale canadese, soprattutto per aiutare gli indigenti, il cui numero è in costante aumento, e per riorientare l’attività economica verso le regioni in costante crescita.
Poiché il Canada si trova di fronte a una vera e propria minaccia esistenziale da parte degli Stati Uniti, il suo governo deve cercare alleanze alternative. Si può solo sperare che il nuovo governo liberale di Mark Carney trovi la forza di prendere iniziative coraggiose. L’annunciata revisione dell’acquisto di 88 caccia F-35 dalla Lockheed Martin sembra giustificare questa speranza. I cambiamenti radicali in atto a Washington richiedono una trasformazione altrettanto radicale delle relazioni internazionali di Ottawa.
Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali.
E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?
Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”. Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto?
Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa).
Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.
A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite.
Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.
Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere.
Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).
Come afferma CAN Europe: “Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.
Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino.
Transito del gas russo in Ucraina
Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina.
Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!
La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari.
Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione.
Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025.
Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca.
Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.
Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”
La guerra e lo scudo ucraino
Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino,
«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.»
Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.
Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump.
Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.
Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",
«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»
Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati.
Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione
L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza.
Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni.
L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).
La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso."
Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.
Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate.
Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni.
L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.
Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida.
Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà.
La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone.
La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?
Un nuovo ordine globale
Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.
Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!
Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.
L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!
Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.
Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.
In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First!
*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)
Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.
Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.
di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, La Stampa, OBCT, Italia), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Kim Son Hoang (Der Standard, Austria), Caleb Larson (Germania), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Krasen Nikolov (Mediapool, Bulgaria)
“Diciamoci la verità: l’Unione Europea è stata creata con l’intento di fregare gli Stati Uniti”, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fine febbraio, annunciando dazi del 25% nei confronti degli (ex?) alleati europei. “Era questo l’obiettivo, e ci sono riusciti. Ma ora il presidente sono io”. Le minacce verbali e le azioni di Trump negli ultimi due mesi hanno destabilizzato l’equilibrio della NATO e inasprito le tensioni tra gli Stati membri dell’UE, che ha tuttavia reagito tempestivamente a livello centrale.
Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro Bianco della difesa, che include il piano "ReArm Europe" proposto dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. La risoluzione è stata approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni: le conclusioni del piano sono state adottate, tuttavia, in seno al Consiglio Europeo, che la scorsa settimana ha riunito i 27 leader dell’UE.
Uno degli elementi chiave del piano è la possibilità per gli Stati membri di incrementare la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli del Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nel periodo previsto. Circa 130 miliardi all’anno, divisi fra i 27 Stati Membri: in media, 5 miliardi all’anno per paese. Inoltre, è previsto un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti di innovazione nel settore della difesa.
Non ha trovato invece appoggio da parte dei leader europei, con poche sorprese, il piano da 40 miliardi (sono stati allocati, ad ora, solo 5 miliardi) proposto dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas per aiutare Kyiv: non solo per il veto dell’Ungheria, ma anche per i dubbi di alcuni stati sulla proporzionalità degli aiuti rispetto al Reddito nazionale lordo, osteggiato soprattutto da Francia e Italia, secondoEuronews.
Ma al di là degli equilibri europei e di ciò che succederà nei prossimi mesi in Ucraina, il tycoon può davvero rompere l’alleanza transatlantica, oppure sta solo bluffando? Secondo Heinz Gärtner, politologo austriaco dell’Università di Vienna ed esperto di politica estera americana e sicurezza internazionale, “l’alleanza transatlantica non finirà, perché tramite la NATO gli USA continuano ad avere un’influenza considerevole sui membri europei”.
Tutti i presidenti USA, sottolinea Gärtner, hanno chiesto un aumento delle spese militari agli alleati europei: la differenza è che Trump sta adottando una retorica più aggressiva e minacciosa, in un contesto storico come mai delicato.
“Trump ha semplicemente reso visibili le relazioni di dipendenza interne all’alleanza transatlantica”, dice Gärtner, sottolineando però come Joe Biden avesse rivendicato il ruolo guida degli Stati Uniti in un modo diverso: “a differenza dello stile di Trump, gli europei venivano almeno informati in anticipo sulle intenzioni americane”.
Durante il primo mandato di Trump, “gli europei avevano appoggiato tutte le principali decisioni di politica estera americana”, ricorda Gärtner, inclusa la politica verso la Corea del Nord “e la cena ad hamburger con Kim”, il cosiddetto “accordo del secolo” ideato dal genero di Trump Jared Kushner, così come il ritiro unilaterale dall'accordo nucleare con l’Iran. “Perfino i dazi vennero in qualche modo tollerati”, sottolinea Gärtner.
In un mutato contesto di riarmo ideologico e materiale, trascinato dalla deriva autoritaria statunitense evidente dalla retorica del secondo mandato di Trump, molti si chiedono però delle possibili conseguenze: come cambierà l’Europa tra cinque anni? Secondo Gärtner, la storia ha dimostrato come “le zone di influenza si creino laddove si trovano gli eserciti”. È già in costruzione una moderna cortina di ferro: una barriera elettronica “intelligente” tra Finlandia e Russia. La Finlandia, che ha la frontiera più lunga dell’UE con Mosca, ha iniziato nel 2023 la costruzione di una recinzione di 200 km, da completare entro il 2027 o 2028.
L’obiettivo iniziale era contenere l’immigrazione — sia da paesi terzi extra-UE che dei russi in fuga dalla leva dopo il 2022. Ma ora le preoccupazioni sono ben più gravi. “Dobbiamo essere pronti a prevenire e rispondere a crisi, conflitti e persino agli scenari più gravi, come la guerra”, ha dichiarato la ministra dell’Interno finlandese, Mari Rantanen, in un incontro a Helsinki con il ministro danese per la Resilienza e Preparazione Torsten Schack Pedersen.
Nuovi sistemi d’arma vengono già installati da entrambe le parti del confine. Per Gärtner, uno scenario possibile è la formazione di una cortina che va dall’Artico al Mar Nero, passando per l’Ucraina. Il risultato: riarmo generalizzato e intensificazione del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, in cui ogni aumento della sicurezza di uno Stato alimenta l’insicurezza degli altri.
Lisa Musiol, direttrice del programma UE dell’International Crisis Group, è netta: “credo che gli europei abbiano chiaro che non si tornerà allo status quo precedente”. In un’intervista al media spagnolo El Confidencial, afferma che si è verificato un cambiamento fondamentale nella percezione della minaccia russa e nella fiducia nei confronti dell’alleato americano. “Gli europei riconoscono, o stanno cominciando a riconoscere, che gli Stati Uniti non sono il partner affidabile che avevano pensato”.
Un cambiamento storico destinato a rimanere impresso negli equilibri del futuro nel Vecchio Continente. L’Europa sta vivendo una trasformazione radicale nella propria politica di difesa. Il caso più emblematico è la Germania, dove Friedrich Merz, leader della CDU e prossimo cancelliere dopo la vittoria alle elezioni di fine febbraio, ha proposto di riformare le rigide regole sul debito per aumentare la spesa militare. L’obiettivo: creare un fondo da 500 miliardi di euro. La proposta prevede di esentare dal controllo del debito le spese per la difesa superiori all’1% del PIL.
Soprattutto in Germania, infatti, molti vedono nel riarmo un’opportunità industriale: le grandi aziende della difesa come Rheinmetall stanno riconvertendo impianti dell’automotive, tra cui gli impianti Volkswagen, per produrre carri armati, radar, sistemi antimissile. Il piano, però, dipende dal sostegno dei partiti — incluso quello dei Verdi, che però nelle ultime settimane hanno accettato un compromesso.
Sia a Berlino che a Bruxelles, però, il tempismo non è stato dei migliori: il riarmo non è iniziato nei tre anni di guerra in Ucraina, ma solo ora, spinto dalla retorica muscolare della nuova amministrazione USA che sta spingendo Putin a non arretrare di un passo dalle sue pretese iniziali.
“Entrambe le parti — Russia da un lato, Ucraina e UE dall’altro — si percepiscono come minacce”, dice Musiol. Un rapporto pubblicato da Crisis Group a gennaio 2025 sul futuro della sicurezza europea ha analizzato le percezioni reciproche: “Abbiamo osservato un’escalation simmetrica nelle capacità di difesa e deterrenza. Come organizzazione che si occupa di prevenzione dei conflitti, sappiamo che questo comporta grandi rischi”, aggiunge Musiol.
Un ordine di sicurezza europeo fondato sulla deterrenza richiederà, infatti, anche enormi sforzi diplomatici. Secondo Gärtner, esiste un’alternativa: un sistema di sicurezza comune post-bellico. Sarebbe necessaria “una grande conferenza internazionale” per definire un nuovo ordine in cui la sicurezza sia concepita come indivisibile. Ma un processo di questo tipo “non sarebbe possibile senza il coinvolgimento del Sud globale”.
Per Musiol, “questo è un momento decisivo”. Le prossime settimane e mesi saranno cruciali, non solo per l’Ucraina, ma per la sicurezza europea. Sebbene Trump prema per un accordo rapido, se non superficiale, dell’invasione russa, il Crisis Group prevede che “i negoziati si prolungheranno” a lungo. Potrebbero esserci altri colloqui tra Stati Uniti e Russia, e forse anche con europei e ucraini. Musiol ritiene che Trump si accorgerà “che Putin non è realmente interessato a un accordo”, e dunque “lo scenario più probabile è un conflitto prolungato”.
Nel frattempo, le azioni della nuova amministrazione USA hanno acceso le tensioni interne all’UE, riportando alla luce rivalità antiche come quella tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. “Vorrei sapere a che titolo sei andato a Washington”, aveva chiesto in maniera polemica Meloni al presidente francese durante un vertice UE. Appena una settimana prima, la presidente del Consiglio italiana aveva partecipato alla convention degli ultraconservatori MAGA.
Nonostante il sostegno unanime dei 27 alla proposta di von der Leyen di investire 800 miliardi nella difesa nei prossimi quattro anni, le crepe interne sono destinate a farsi più evidenti.
Il Parlamento olandese ha già bocciato il piano. In Francia, Mélenchon parla di “disastro ecologico irreversibile”. Le quinte colonne del Cremlino in Europa, su tutti Le Pen e Salvini, sostengono che il vero pericolo non è Mosca ma il fondamentalismo islamico. Ma anche in Spagna alcuni partner di governo di Sánchez rifiutano il piano di riarmo proposto da von der Leyen, in maniera simile a una parte del Partito Democratico in Italia.
Due elezioni in Europa centro-orientale potrebbero ulteriormente cambiare il quadro europeo. In Polonia, dove si vota il prossimo 18 maggio, il presidente Duda chiede agli USA di trasferire armi nucleari nel paese: “La NATO si è spostata a est nel 1999. Ora, dopo 26 anni, anche la sua infrastruttura dovrebbe seguire l’allargamento geografico”, ha dichiarato Duda, che non potrà ricandidarsi, al Financial Times. Il nuovo candidato dei conservatori di Diritto e Giustizia, Karol Nawrocki, propone addirittura la rottura dei rapporti diplomatici con Mosca.
In Repubblica Ceca, il blocco governativo di centrodestra è europeista e in prima linea nel sostegno all’Ucraina, ma il partito ODS è contrario a una maggiore integrazione con l’UE. Il partito populista ANO, guidato dall’oligarca Andrej Babiš, considerato favorevole a Mosca, è dato per favorito alle elezioni di ottobre: è contro il riarmo, ma potrebbe cambiare idea se ci fossero incentivi finanziari dall’UE.
Di fronte alla tentazione dell’unilateralismo, arriva l’avvertimento del bulgaro Ruslan Stefanov, direttore del Centro per lo Studio della Democrazia e coautore di The Kremlin Handbook, che parafrasando Kissinger, scrive: “Povera Germania, troppo grande per l’Europa, e troppo piccola per il mondo”.
Secondo Stefanov, “l’UE (o meglio, i suoi Stati membri, ndr) deve rendersi conto che solo il suo potere economico aggregato ha peso globale”. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato a una maggiore federalizzazione europea, ma in ogni caso in un clima di crescenti divisioni all’interno dei singoli parlamenti nazionali.
Sergio Mattarella, in un discorso all’Università di Marsiglia, ha tracciato un parallelo con la crisi degli anni ’20 e ’30 del Novecento che alimentò protezionismo, unilateralismo e sgretolamento delle alleanze. Il risultato fu l’emergere di “fenomeni autoritari” ritenuti, erroneamente, più efficaci nel proteggere gli interessi nazionali.
Per alcuni analisti, come Nathalie Tocci, l’amministrazione Trump — con l’abbraccio a Putin e il sostegno sostegno a partiti estremisti come l’AfD in Germania — prosegue un progetto simile a quello iniziato dal Cremlino a partire dal 2015: smantellare l’Europa dall’interno, al fine di renderla irrilevante sullo scenario globale. Anche secondo Gärtner la destra radicale vede in Trump un alleato, “soprattutto per quanto riguarda le politiche anti-immigrazione”.
Questo potrebbe spingere i governi europei filo-Trump, come quello italiano o ungherese, ad accettare di aumentare le spese militari ma acquistando armi (e gas liquido) dagli Stati Uniti per mantenere buoni rapporti con Washington. Generando così un evidente paradosso, rispetto all’obiettivo europeo di smarcarsi dalla dipendenza americana. É arrivato il momento di scelte definitive, in Italia, come nel resto d’Europa.
Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali
Il 13 marzo, in un incontro con il Segretario generale della NATO Mark Rutte, Trump ha ribadito ancora una volta il suo desiderio di annettere e controllare la Groenlandia, citando la sua importanza per la sicurezza internazionale.
In risposta, il leader entrante della Groenlandia, Jens Frederik Nielsen, ha dichiarato chiaramente che i groenlandesi non vogliono essere americani o danesi, ma groenlandesi, e che in futuro cercheranno l’indipendenza per poter costruire il loro Paese da soli. Allo stesso modo, il leader uscente della Groenlandia, Mute Bourup Egede, ancora capo del governo ad interim, ha apertamente denunciato la retorica di Trump come una continua mancanza di rispetto nei confronti di una nazione che è inaccettabile e deve finire. Basta, ha detto, in quello che è stato il più fermo rifiuto dell’avventurismo di Trump da quando l’idea è stata ventilata per la prima volta nel 2019 e poi ripetuta nel 2024.
Quello che era iniziato come un blando rifiuto a una richiesta audace da parte del suo più stretto alleato, così oltraggiosa da risultare persino divertente, ha ora lasciato il posto a una risposta unificata e inequivocabile, nata dalla frustrazione e da un acuto senso di torto e mancanza di rispetto.
Venerdì 14 marzo, su richiesta di Egede, i segretari dei cinque partiti eletti al Parlamento groenlandese (Inatsisarsut) – Jens Frederik Nielsen di Demokraatit, Pele Broberg di Naleraq, Mute Bourup Egede di Inuit Ataqatigiit, Vivian Motzfeldt di Siumut e Aqqalu Jeremiassen di Atassut – si sono riuniti e hanno rilasciato una dichiarazione congiunta:
“Noi – tutti i segretari di partito – non possiamo accettare le ripetute dichiarazioni sull’annessione e il controllo della Groenlandia. Come segretari di partito, riteniamo questo comportamento inaccettabile nei confronti di amici e alleati in un’alleanza di difesa. Noi, come leader di tutti i partiti del Inatsisartut (parlamento) in Groenlandia, dobbiamo sottolineare che la Groenlandia continua il lavoro per la Groenlandia, che è già in corso attraverso i canali diplomatici in conformità con le leggi e i regolamenti internazionali. Tutti noi sosteniamo questo sforzo e ci opponiamo fermamente ai tentativi di creare discordia. La Groenlandia è un unico Paese, che tutti sosterranno”.
Nonostante le differenze politiche tra i cinque leader su altre questioni, una cosa è chiara come la luce del sole: sono tutti molto uniti nel rifiutare fermamente qualsiasi offerta degli Stati Uniti. Questa dichiarazione è significativa nel contesto dell’ondata di incomprensione e disinformazione che sta travolgendo gli Stati Uniti sull’argomento, con i sostenitori di Trump che intenzionalmente (e anche certi critici di Trump involontariamente) ritraggono alcuni partiti come più simpatici alle ambizioni di Trump rispetto agli altri, per far credere che l’idea di un’adesione della Groenlandia agli Stati Uniti goda di un sostegno locale maggiore di quello reale. La dichiarazione congiunta chiarisce che tutti e cinque i partiti ritengono la proposta inaccettabile e irrispettosa.
Considerando quella che sembra essere la tattica del campo di Trump di seminare zizzania e giocare con le divisioni, e di travisare grossolanamente l’interesse di pochi innamorati di Trump come l’aspirazione collettiva dei molti che chiaramente non lo sono, è del tutto comprensibile che il presidente groenlandese uscente abbia voluto convocare i leader di tutti i partiti per elaborare una dichiarazione congiunta che denunci fermamente tale mancanza di rispetto. Se il risultato delle elezioni rivela qualcosa, è che molti groenlandesi hanno a cuore le questioni dell’indipendenza politica dalla Danimarca e delle future relazioni con gli Stati Uniti, ma hanno altrettanto, se non di più, a cuore le questioni locali che riguardano la loro vita quotidiana, come la sanità, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e altro ancora. Si tratta di questioni in cui gli Stati Uniti sono molto indietro rispetto agli Stati nordici, quindi, a parte il fatto che la Groenlandia non è in vendita, la proposta di unirsi agli Stati Uniti non è semplicemente allettante.
Questo non significa che gli Stati Uniti non abbiano legittimi interessi di sicurezza in Groenlandia. Ha assolutamente ragione a riconoscere l’immensa importanza strategica della Groenlandia, come ha riconosciuto anche il Segretario generale della NATO Mark Rutte. È un peccato, però, che in un campo così ricco di opportunità, egli parli di acquisizione e annessione (del tutto inutile e sgradita) invece di limitarsi a coltivare la buona volontà verso gli Stati Uniti e a incoraggiare gli investimenti americani (effettivamente utili e graditi). In un momento in cui gli Stati Uniti hanno davvero bisogno della Groenlandia per tutte le numerose ragioni di sicurezza e di risorse che Trump giustamente individua, Trump sta facendo di più per danneggiare e minare le relazioni tra Stati Uniti e Groenlandia di qualsiasi suo predecessore, una strategia che si sta rivelando del tutto controproducente e che sta portando un cuneo tra i due alleati.
Commenti del dottor Dwayne Ryan Menezes, fondatore e direttore generale inglese dell’Iniziativa per la ricerca e la politica polare (PRPI)
Le dichiarazioni radicali del nuovo presidente americano hanno galvanizzato la società e il governo canadese. Hanno unito i canadesi e migliorato notevolmente le possibilità del partito liberale al governo di vincere le prossime elezioni. Il Presidente Trump ha minacciato di annettere il Canada, il che significherebbe più che raddoppiare il territorio degli Stati Uniti. Trump si è ripetutamente rivolto al primo ministro canadese chiamandolo “governatore del 51° Stato”. Ha anche introdotto nuovi e drastici dazi doganali (tariffe nel linguaggio di Trump) sulle importazioni dal Canada, una misura che ha un impatto negativo sull’economia canadese.
Queste turbolenze hanno messo in evidenza la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti. Non è la prima volta che i rischi di tale dipendenza diventano evidenti. Ad esempio, durante l’ epidemia di COVID-19, gli americani hanno sottratto forniture mediche vitali destinate al Canada. All’epoca sostenevo che il Canada avrebbe dovuto ridurre la sua dipendenza dal vicino meridionale e diversificare le sue catene di approvvigionamento e, più in generale, ristrutturare le sue relazioni economiche e finanziarie. Con il potere americano in declino, invitavo Ottawa a emanciparsi da Washington.
Tuttavia, il governo canadese non ha ascoltato l’appello lanciato, ovviamente, da molti altri oltre a me. Ciò è stato particolarmente ironico, dato che il Canada aveva a lungo consigliato all’Ucraina di prendere le distanze dal suo potente vicino, la Russia, fin dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991.
Ci sono modi graduali e non bellicosi per ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti stringendo legami più stretti con altre potenze. Eppure, invece di migliorare le relazioni con Cina, India e Russia – tutte e tre con tassi di crescita economica impressionanti – il Canada le ha peggiorate. Il governo Trudeau ha invece compiuto tentativi apparentemente atavici di riavvicinamento all’Europa. Tuttavia, la salute economica in declino della maggior parte delle nazioni europee rende l’integrazione economica con esse poco vantaggiosa.
Le sanzioni europee contro la Russia – adottate per volere di Washington – e la distruzione di un importante gasdotto proveniente da quel Paese, molto probabilmente eseguita da parte degli Stati Uniti, hanno seriamente compromesso la Germania (tasso di crescita meno 0,3), tradizionalmente considerata la locomotiva industriale d’Europa. Le aperture del Canada verso l’Europa potrebbero quindi rivelarsi insufficienti a mitigare i danni causati dal potente vicino meridionale.
In uno dei suoi ultimi discorsi da primo ministro, Trudeau ha ribadito la determinazione del suo governo a resistere alle azioni punitive americane. Ha lamentato il fatto che “gli Stati Uniti hanno lanciato una guerra commerciale contro il Canada, il loro partner e alleato più stretto, il loro amico più caro. Allo stesso tempo, parlano di lavorare positivamente con la Russia, placando Vladimir Putin…”. È improbabile che questo tipo di rimprovero possa ammorbidire la posizione di Trump.
Sebbene il Canada si sia impegnato ad aumentare il proprio budget militare, ciò non ha lo scopo di scoraggiare l’esplicita minaccia di annessione da parte degli Stati Uniti, anche se nessun altro Paese sta cercando di porre fine all’esistenza stessa del Canada. La nuova enfasi sul rafforzamento delle forze armate è ufficialmente giustificata dalla percezione di una minaccia da parte di Cina e Russia, oltre che dalla necessità di aiutare l’Ucraina a sostenere il suo sforzo bellico.
Le forze canadesi rimangono profondamente integrate con le loro controparti americane e, in ogni caso, la resistenza armata è impensabile come mezzo per salvaguardare l’indipendenza del Canada. Pochi canadesi si offrirebbero volontari per ripetere il tragico errore dell’Ucraina di combattere il suo più potente vicino orientale. Per questo motivo, le risorse promesse ai militari dovrebbero essere utilizzate per rafforzare lo stato sociale canadese, soprattutto per aiutare gli indigenti, il cui numero è in costante aumento, e per riorientare l’attività economica verso le regioni in costante crescita.
Poiché il Canada si trova di fronte a una vera e propria minaccia esistenziale da parte degli Stati Uniti, il suo governo deve cercare alleanze alternative. Si può solo sperare che il nuovo governo liberale di Mark Carney trovi la forza di prendere iniziative coraggiose. L’annunciata revisione dell’acquisto di 88 caccia F-35 dalla Lockheed Martin sembra giustificare questa speranza. I cambiamenti radicali in atto a Washington richiedono una trasformazione altrettanto radicale delle relazioni internazionali di Ottawa.