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Trump

La ‘pace imperiale’ di Trump e Putin imposta all’Ucraina punta a sventrare l’Europa dall’interno

“Ci sono dei decenni in cui non accade nulla. E poi delle settimane in cui accadono decenni”. Una delle massime più celebri di Lenin, accusato il 22 febbraio 2022 dal presidente russo Vladimir Putin di essere il principale colpevole dell’esistenza dell’Ucraina, può essere facilmente traslata a ciò che è accaduto dallo scorso 12 febbraio, giorno della telefonata tra il presidente statunitense Donald Trump e Putin. 

Una settimana intensa e scioccante, sebbene prevedibile già durante la campagna elettorale trumpiana, che sta sconvolgendo la politica europea e globale alla vigilia del terzo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina.

Cosa è successo dalla telefonata tra Putin e Trump in poi?

Monaco di Baviera, Riyad, Parigi, Ankara. Questi i centri gravitazionali delle evoluzioni che stanno portando a quella che Nathalie Tocci ha definito la ricerca di una ‘pace imperiale’ alle spalle di Kyiv e Bruxelles. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che il vertice tra russi e americani in Arabia Saudita è stato “una sorpresa” appresa dai media, durante una visita al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo a sua volta ha detto che la Turchia sarebbe un “posto ideale” per lo svolgimento di futuri negoziati per terminare la guerra in Ucraina, ribadendo l’inviolabilità dell’integrità territoriale di Kyiv. 

Trattative a cui gli Stati Uniti promettono di includere prima o poi anche europei e ucraini. Tuttavia, nella prima fase – un meeting di quattro ore e mezzo a Riyad – si sono tenute solamente tra russi e americani, alla presenza del ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, e del consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaad bin Mohammed Al Aiban, che avrebbero però lasciato l’incontro anticipatamente.

A rappresentare gli Stati Uniti c’erano il segretario di Stato, Marco Rubio, il consigliere per la sicurezza, Mike Waltz, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha recentemente avuto un importante ruolo nel forzare il presidente Benjamin Netanyahu ad accettare un cessate il fuoco a Gaza. Spicca e pone delle domande l’assenza dell’inviato per Ucraina e Russia, Keith Kellogg, che nel frattempo incontrava la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Oltre al ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, e al consigliere per la politica estera, Yuri Ushakov, a guidare la delegazione russa era un personaggio poco noto al grande pubblico ma di fondamentale importanza. Kirill Dmitriev, noto nell’ambiente moscovita come Kiriusha e vicino alla figlia di Putin, è pure grande amico del principe saudita, Mohammad bin Salman Al Sa'ud, da cui ha ricevuto una medaglia al valore nel 2019, durante la presidenza Trump. Riyad è infatti un grande alleato sia per il tycoon che per Putin, e Dmitriev è soprattutto un uomo d’affari: è presidente del Russian Direct Investment Fund, fondo sovrano del Cremlino. 

E difatti, nonostante l’impegno per la creazione di gruppi di negoziazione, più che idee concrete per cercare quella pace “giusta e sostenibile [...] accettabile da tutte le parti in causa, incluse Ucraina, Europa e Russia,” come ha dichiarato Rubio, i partecipanti hanno discusso di uno dei temi preferiti dell’amministrazione Trump: le “opportunità economiche e di investimenti” possibili dopo la fine della guerra in Ucraina e una “normalizzazione” dei rapporti fra Washington e Mosca. E un primo affare, cruciale, per i russi potrebbe essere sbarazzarsi delle sanzioni imposte in questi tre (dieci) anni.

Nel frattempo, Zelensky che aveva annunciato proprio alla vigilia della caotica Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tenutasi tra il 14 e il 16 febbraio, una coincidente missione questa settimana negli Emirati Arabi, Turchia e proprio Arabia Saudita, ha cancellato la visita presso quest’ultima. Ha per di più aggiunto che non avrebbe partecipato al meeting nemmeno in caso di invito, reiterando il messaggio per cui un capo di Stato dovrebbe incontrare suoi pari, non presenti a Riyad. 

Putin non ha ufficialmente commentato l’esito dei colloqui, ma la portavoce del ministero degli Esteri Marija Zacharova, mentre rivolgeva l’ennesima minaccia a Sergio Mattarella, chiariva come una priorità di Mosca rimanesse “la cancellazione della dichiarazione del summit NATO a Bucarest del 2008” in cui si invitavano Ucraina e Georgia a entrare, in un futuro indefinito, nell’alleanza. Lavrov, invece, ha definito “inaccettabile” l’eventuale invio di forze di peacekeeping internazionali in Ucraina come parte delle richieste di sicurezza di Zelensky, ad ora raccolte in maniera credibile solo dal primo ministro britannico Keir Starmer (mentre Macron ha fatto un dietrofront sul ruolo francese).

Più in generale, è chiaro come l’obiettivo di Mosca sia ridiscutere l’intera architettura di sicurezza europea, un tema centrale nella retorica dell’invasione russa del 2022. Ciò che è nuovo è che per la prima volta riesce a farlo con il benestare di Washington. Trump, da una parte bastonando l’Unione Europea e accusando Kyiv dello scoppio della guerra, dall’altra annunciando un incontro col presidente russo entro fine mese, concede a Putin una vittoria comunicativa e politica che l’autocrate russo cercava da 25 anni: poter vendere al proprio pubblico interno, ma ancora di più all’estero, le relazioni USA-Russia come fra pari.

Una possibile, probabile e tragica pace imperiale che profuma di anni ‘30, per l’esclusione di Kyiv, ma che sa anche di Guerra Fredda, sebbene i rapporti di potere siano in realtà incomparabili, al di là della propaganda del Cremlino e delle concessioni di Trump. Nonostante la retorica, e seppur trainata dall’economia di guerra, Mosca impero non lo è più da tempo: e davanti alla facciata di grandezza appare chiara l’ombra cinese, non pronta tuttavia a formalizzare un’alleanza a lungo termine con due partner che ritiene inaffidabili come Russia e Corea del Nord, e piuttosto incline a voler sfruttare un disimpegno statunitense dall’Europa ma pure dall’Ucraina stessa.

Nel tentativo di coordinare una risposta, il presidente francese Emmanuel Macron ha organizzato una riunione emergenziale con Von der Leyen e i principali capi di Stato europei. Il tema sullo sfondo dell’incontro parigino era delineare una strategia chiara e condivisa per difendersi, a lungo termine, dall’aggressività di Mosca alla luce del disimpegno americano. I principali giornali europei, tra cui quelli più vicini a Bruxelles come Politico Europe, hanno sottolineato come i leader europei non abbiano trovato una “risposta pronta” alla bomba di Trump. 

Un obiettivo difficile, considerando pure le imminenti elezioni in Germania dove l’amministrazione trumpiana sostiene l’estrema destra di AfD, chiarendo in modo emblematico il piano globale di Trump – che poi è quello del Cremlino da metà anni ‘10: sfaldare l’Europa dall’interno, rendendola irrilevante di fronte al nuovo ordine globale, che più che di multipolarismo pare ora assumere la forma dell’anarchia. Un avvertimento parzialmente raccolto anche dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas. Una possibile alleanza tra Washington e Mosca, è un rischio esistenziale per l’Europa unita in quanto tale, avvertono i francesi.

In attesa di capire cosa sarà del piano da 700 miliardi euro per il sostegno all’Ucraina ipotizzato a Monaco, tra gli altri, dalla Ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock (a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato), ci sono state decisioni minori, come l’approvazione di un pacchetto di aiuti militari da 6 miliardi di euro. 

Ci si aspetta, però, che ulteriori risposte sulla strategia europea possano arrivare dal secondo meeting emergenziale di oggi 19 febbraio, di nuovo a Parigi, esteso a un gruppo più ampio di paesi, tra cui alleati ferrei di Kyiv come i paesi baltici, Canada e Norvegia. Durante il quale, idealmente, dovrebbero fare da faro le indicazioni di Mario Draghi per cui “l'UE è il principale nemico di sé stessa”: di fronte alla prospettiva concreta di rimanere soli, bisogna superare il tempo dei veti incrociati e delle attese.

Cosa sta cambiando?

Di certo non per decenni, ma per circa un anno la narrazione è stata quella di uno stallo sul campo di battaglia in Ucraina, dopo l’eroica resistenza di Kyiv tra il 2022 e l’inizio del 2023 che aveva portato alla difesa della capitale ucraina e alla liberazione di Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Kherson. 

Dopo la caduta di Bakhmut nella primavera del 2023, la guerra è diventata un lento logoramento che ha leggermente avvantaggiato il Cremlino, per lo meno dal punto di vista quantitativo - quel che conta di più per Putin, d’altronde.

Poche centinaia di metri quadrati al giorno, in media, di avanzata, al costo di centinaia di migliaia di vite perse - da una parte, come dall’altra. Secondo la maggioranza degli analisti, molte più per i russi che hanno pure dovuto cercare alleanze inedite come quella con la Corea del Nord nella difesa dell’oblast’ di Kursk, o con l’Iran a metà 2022 sui droni Shaheed, per portare avanti la distruzione di quello che la propaganda russa ha sempre definito un ‘paese fratello’.

In tre settimane Trump ha spazzato via l’incertezza che aleggiava negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden. Da diversi mesi si parlava di possibili quanto vaghi colloqui di pace riguardanti i territori occupati da Mosca, circa il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Ucraina. Trump e Vance hanno trasformato questa incertezza in caos durante la Conferenza di Monaco, tenutasi nello scorso fine settimana.

La nuova amministrazione repubblicana ha gradualmente alzato l’asticella comunicativa: da una parte bistrattando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, chiarendo come un obiettivo secondario di Trump sia sentenziare la sua morte politica, dall’altra usando più la carota che il bastone con il Cremlino - quest’ultima una tattica priva di credibilità e sostegno, soprattutto all’interno dell’UE e soprattutto a Kyiv. Zelensky continua a ripetere come l’Ucraina non accetterà alcun ultimatum da parte russa.

Prima di essere esclusa dal tavolo di Riyad, Bruxelles ha ricordato a Trump di dover essere considerata parte di eventuali trattative. Lo stesso aveva dovuto fare Zelensky dopo la telefonata fra il presidente russo e quello americano: gli avvenimenti del 12 febbraio hanno definito un ordine di autorità, se non di preferenza, fra le due parti nell’astratto (ma sempre più concreto e cinico) piano di pace di Trump: Putin prima, Zelensky poi. Una rivoluzione rispetto all’approccio di Biden e dell’amministrazione democratica. 

Una rivoluzione in parte scontata, ma ugualmente una doccia fredda per uno Zelensky che era apparso, fino alla scorsa settimana, più concessivo nei confronti della retorica trumpiana, ma negli scorsi giorni sempre più veementemente ha cominciato a esprimere la propria rabbia e frustrazione per la tattica americana.

All’attesa Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, iniziata venerdì 14 febbraio, il vice-presidente JD Vance ha offerto un esempio di quella strategia comunicativa teorizzata da Steve Bannon che, in un’intervista di qualche anno fa, disse: “Il partito di opposizione sono i media. E i media, poiché stupidi e pigri, possono concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto ciò che dobbiamo fare è inondarli. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una sola, e riusciremo a fare tutto ciò che vogliamo. [...] Ma dobbiamo iniziare alla velocità della luce”. 

Vance, che in campagna elettorale aveva detto che la guerra in Ucraina è un problema dell’Europa, ha aperto la Conferenza di Monaco ipotizzando l’invio di soldati statunitensi a supporto di Kyiv qualora Mosca sabotasse le trattative, smentendo peraltro le dichiarazioni di appena due giorni prima del suo segretario alla Difesa, Pete Hegseth. 

Poche ore dopo, Vance smentiva doppiamente sé stesso, dicendo come si potrebbe arrivare “a un accordo ragionevole” per entrambe le parti: è il gioco delle parti della diplomazia del nuovo ordine trumpiano, non solo tra diversi esponenti del cerchio ristretto del presidente (e autoevidente nel Grand Old Party nel suo complesso) ma anche fra le loro molteplici personalità, come dimostrato dallo show bavarese di Vance, che ne ha avuto per tutti, soprattutto l’Unione Europea intesa come coalizione di forze politiche diverse dall’estrema destra sostenuta oggi da Washington (e foraggiata nell’ultimo decennio dal Cremlino).

Se le prime due settimane di presidenza di Trump si sono concentrate a smantellare l’ordine interno e su Gaza per quanto riguarda la politica estera, febbraio segna il mese di Kyiv e Mosca. Nella strategia di Washington a breve termine, ciò implica l’esclusione della prima.

Cosa ci aspetta?

La nuova fase aperta ufficialmente il 12 febbraio, in qualche modo prevista dalle analisi delle settimane precedenti che ha confermato, seppur non ancora nei fatti quanto più sul piano simbolico, l’avvio di una nuova fase della guerra in Ucraina e più in generale dei mutevoli equilibri globali: la possibile, probabile e, per almeno una e mezza delle parti in causa, desiderabile spartizione di uno Stato sovrano, evento a cui assistiamo in diretta per la prima volta da 80 anni. 

Con conseguenze imprevedibili per l’ordine internazionale, e anche questo è stato ripetuto a lungo negli ultimi tre anni. Mentre, al contrario, viene spesso dimenticato il destino di quelle milioni di persone che a Mariupol’, Donec’k, Berdyans’k e Luhans’k ci abitano.

Prima le proposte, da parte di Trump, più strampalate, ad esempio il ricatto sulle terre rare, e la sua nemmeno troppo velata retorica neocoloniale, espressa nel piano segreto che puntava a ottenere un controllo economico quasi totale sull’Ucraina, chiedendo a Kyiv un “risarcimento” di 500 miliardi di dollari in merito agli aiuti americani degli ultimi tre anni. Una retorica che punta a colpevolizzare l’Ucraina, rinforzata dalle dichiarazioni di Trump per cui sarebbe il paese invaso e non il Cremlino ad aver provocato lo scoppio della guerra.

Tattiche comunicative e negoziali utili a confondere l’opinione pubblica e indebolire ulteriormente (nel tentativo ultimo di umiliare) la fragile posizione di Kyiv che si siederebbe al tavolo delle trattative in una posizione decisamente svantaggiata rispetto ad appena un anno fa. Nel farlo, il presidente americano ha persino dichiarato che “l’Ucraina potrebbe essere russa un giorno”, confermando paradossalmente i fondati timori sia ucraini che europei che le trattative annunciate saranno una tregua a orologeria, più che una pace duratura, nonostante le dichiarazioni dell’establishment americano puntino a narrare l’esatto opposto.

Il nuovo corso repubblicano getta benzina sul fuoco sulla difficile situazione interna di Kyiv, in cui il reclutamento è sempre più tortuoso (è d’altronde complicato trovare motivazioni, dopo tre anni di sofferenza, quando viene a mancare il senso complessivo della lotta di resistenza dopo il tradimento del principale alleato, che Zelensky ha paragonato a quello avvenuto in Afghanistan) e l’ordine politico sempre più caotico, come dimostrato dalle sanzioni ad personam verso l’ex presidente Petro Poroshenko, insieme ad altri oligarchi, approvate da Zelensky proprio il giorno successivo alla telefonata Putin-Trump.

Una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino, che persevera nella narrazione del ‘presidente illegittimo’.

Proprio il suo avversario Poroshenko, in un’intervista al media ucraino Censor.net dello scorso 16 febbraio, ha invitato “ad annotare questa data: 26 ottobre”. Poroshenko dichiara di avere le prove per cui le elezioni si terranno quel giorno: a quanto dice l’ex presidente ucraino la commissione elettorale centrale sta aggiornando i propri registri, mentre lo stabilimento tipografico 'Ucraina' “sta già elaborando quante schede elettorali saranno necessarie”.

Al di là della popolarità in discesa di Poroshenko, gli inside politici a Kyiv sono spesso manovrati dall’alto, e non sarebbe sorprendente se l’informazione sia arrivata all’ex presidente proprio da ambienti vicini all’attuale amministrazione per affossarne il futuro politico. In ogni caso, confermano come l’Ucraina stia entrando, probabilmente controvoglia, verso una nuova confrontazione politica interna. 

Mentre la guerra continua, e poche ore dopo Riyad alcuni droni russi dal Mar Nero attaccano quella che la propaganda del Cremlino definisce una delle città madri russe, Odessa, la stessa intelligence statunitense sottolinea come al momento non si scorgano reali volontà di Putin di fermare la guerra.

Le previsioni di Poroshenko d’altro canto affascinano gli amanti delle dietrologie e degli incastri celesti nella politica internazionale. Il 26 ottobre cade sei mesi dopo la data scelta da Trump, secondo Bloomberg, per il cessate il fuoco che aprirebbe a nuove elezioni. E dopo queste alla firma della pace da parte del nuovo governo ucraino, secondo fonti diplomatiche il più filorusso possibile nei desideri di Mosca e Washington, ispirate dallo ‘spirito di Riyad’.

La data è quella del 20 Aprile, celebrazione, quest’anno, della Pasqua sia di rito cattolico che ortodosso. Aspettando di comprendere fino in fondo quale mondo ci si troverà davanti fra due mesi: Trump si è insediato da meno della metà.

Immagine in anteprima: frame video FirstPost via YouTube

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

Immagine in anteprima: frame video Mediaset Infinity

Tutte le bugie di Trump su Zelensky e l’Ucraina

In questi giorni in cui proseguono i colloqui con la Russia di Putin per la ‘pace imperiale’ imposta all’Ucraina, alle spalle di Kyiv e Bruxelles, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha rilasciato una serie di dichiarazioni, nel migliore dei casi controverse e nel peggiore dei casi completamente false e fuorvianti, sull’Ucraina e su Zelensky. Diverse testate giornalistiche hanno verificato le affermazioni di Trump. Abbiamo raccolto le principali.

All'Ucraina: non avreste mai dovuto iniziare (la guerra)

Trump: “Ma oggi ho sentito: 'Oh, beh, non siamo stati invitati'. Beh, siete stati lì per tre anni. Avreste dovuto farla finita tre anni fa. Non avreste mai dovuto iniziare. Avreste potuto fare un accordo”.

I fatti: Le autorità ucraine hanno espresso insoddisfazione per non aver preso parte ai colloqui di Riad. Ma Trump ha respinto queste affermazioni, dicendo ai giornalisti che l'Ucraina aveva avuto tre anni per porre fine alla guerra, facendo intendere che è stata Kyiv a iniziare il conflitto. In buona sostanza Trump è parso riprendere le posizioni della Russia. Nel febbraio 2024 il presidente russo Putin ha detto al conduttore statunitense Tucker Carlson: “Sono stati loro ad iniziare la guerra nel 2014. Il nostro obiettivo è fermare questa guerra. E non abbiamo iniziato questa guerra nel 2022”.

L'invasione russa dell'Ucraina non è stata provocata ed è stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale come un atto di aggressione. La Russia ha lanciato un'invasione su vasta scala dell'Ucraina nel febbraio 2022, dopo aver annesso la Crimea nel 2014. Come ricostruisce la storica statunitense Heather Cox Richardson nella newsletter Letter from America, l’annessione è avvenuta dopo che il presidente filorusso dell'Ucraina, Yanukovich, era stato spodestato dopo mesi di manifestazioni popolari. I cittadini ucraini protestavano per la decisione dell’allora presidente di interrompere la cooperazione con l’Unione Europea e accettare un prestito della Russia di tre miliardi di dollari, prima tranche di un piano complessivo di salvataggio da 15 miliardi di dollari, come aveva sostenuto all'epoca il ministro delle finanze russo Anton Siluanov.

La Russia ha anche sostenuto le forze che hanno occupato alcune zone dell'Ucraina orientale e ha accusato il nuovo governo di Kyiv di discriminazione e genocidio contro i russofoni. Accuse respinte dalla Corte internazionale di giustizia.

Dopo il fallimento degli accordi che miravano a porre fine al conflitto post-2014, la Russia ha iniziato un massiccio spiegamento di truppe al confine con l'Ucraina nella primavera del 2021. Putin ha lanciato l'invasione il 24 febbraio 2022, affermando che lo scopo dell'operazione era “demilitarizzare e denazificare” il governo filo-occidentale di Volodymyr Zelensky e impedire al paese di aderire alla NATO. Ma nelle elezioni del 2019, i partiti di estrema destra avevano preso appena il 2% e va sottolineato che Zelensky è ebreo e il suo partito è stato considerato centrista. Per quanto riguarda la NATO, non è stato avviato alcun processo formale di adesione dell’Ucraina, sebbene nel 2019 il governo di Poroshenko abbia deciso di inserire in Costituzione l’adesione alla NATO.

Nel periodo precedente all'invasione russa dell'Ucraina, Zelensky si è offerto ripetutamente di incontrare la sua controparte russa. Cinque giorni prima che le truppe russe entrassero in Ucraina, Zelensky ha dichiarato: “Siamo pronti a sederci e parlare. Scegliete la piattaforma che preferite”.

Per dissuadere Mosca dal lanciare l'invasione, gli Stati Uniti hanno declassificato e pubblicato rapporti dei servizi segreti che rivelavano i piani di attacco della Russia, avvertendo che sarebbero seguite dure sanzioni economiche se il Cremlino avesse proceduto.

Nei giorni e nelle settimane successive all'invasione, i negoziatori ucraini e russi hanno tenuto diversi cicli di colloqui in Bielorussia e Turchia. Tuttavia, le richieste della Russia erano massimaliste, inclusa la parziale smilitarizzazione dell'Ucraina che avrebbe di fatto paralizzato la capacità del paese di difendersi in futuro.

Anche Mike Pence, vicepresidente di Trump durante il suo primo mandato, ha voluto precisare in un post su X: “Signor Presidente, l'Ucraina non ha ‘iniziato’ questa guerra. La Russia ha lanciato un'invasione brutale e non provocata, che ha causato centinaia di migliaia di vittime”.

Zelensky è impopolare e impedisce le elezioni

Trump: “Abbiamo una situazione in cui non abbiamo avuto elezioni in Ucraina. Beh, abbiamo la legge marziale, essenzialmente la legge marziale in Ucraina, dove il leader in Ucraina, voglio dire, odio dirlo, ma ha un indice di gradimento del 4% e dove un paese è stato fatto a pezzi. La maggior parte delle città sono distrutte.”

I fatti: Le parole di Trump ricalcano quanto affermato a più riprese dal Cremlino. Il 28 gennaio il presidente russo Putin ha definito Zelensky “illegittimo”, in un’intervista ai media russi, proprio perché il suo mandato è terminato.

In effetti, il mandato quinquennale di Zelensky avrebbe dovuto concludersi nel maggio 2024. Tuttavia, l'Ucraina è sotto legge marziale dall'invasione russa del febbraio 2022, il che significa che le elezioni sono sospese. Ma c’è un però.

Le leggi marziali in Ucraina non nascono con Zelensky, sono state redatte nel 2015, poco dopo l'annessione della penisola di Crimea da parte della Russia e anni prima che Zelensky e il suo partito salissero al potere. 

Per quanto riguarda il consenso, Zelensky è diventato presidente dell’Ucraina nel 2019, ottenendo al ballottaggio il 73% dei voti in elezioni definite dall’OSCE “competitive e [dove] le libertà fondamentali sono state generalmente rispettate”.

Sebbene la popolarità del presidente ucraino sia diminuita dall'inizio dell'invasione russa, un sondaggio di febbraio condotto dall'Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev ha rilevato che il 57% degli ucraini si fida del presidente, in aumento rispetto al 52% di dicembre.

Altri sondaggi sembrano vedere in vantaggio il più diretto rivale di Zelensky, l'ex capo dell'esercito Valerii Zaluzhnyi, e in ogni caso prospettano un ballottaggio tra i due.

Zelensky ha promesso di indire nuove elezioni una volta terminato il conflitto e deve ancora confermare la sua intenzione di candidarsi. Alcuni esperti hanno osservato che sarebbe praticamente impossibile tenere elezioni in Ucraina prima della fine del conflitto, poiché persistono gli attacchi russi su molte città e milioni di cittadini sono sfollati all'estero o vivono sotto l'occupazione russa.

“La nostra posizione è che durante una guerra non c'è spazio per la politica, e soprattutto non per le elezioni”, ha dichiarato Valentyn Nalyvaichenko, un parlamentare del partito Patria dell'ex primo ministro Yulia Tymoshenko ed ex capo dell'agenzia di sicurezza SBU. “Sarebbe la fine per l'Ucraina. Iniziare un'attività politica o elettorale significherebbe la vittoria di Putin il giorno dopo”.

L'ex presidente Poroshenko ha dichiarato di avere le prove per cui le elezioni si terranno il 26 ottobre. Resta da capire quanto le sue affermazioni siano solide. Resta il fatto che una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza che non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino.

Gli Stati Uniti danno più aiuti all'Ucraina rispetto all'Europa

Trump: “Credo che il presidente Zelensky abbia detto la scorsa settimana di non sapere dove sia finita metà dei soldi che gli abbiamo dato. Beh, credo che gli abbiamo dato 350 miliardi di dollari, ma diciamo che è qualcosa di meno. Ma è molto, e dobbiamo pareggiare con l'Europa perché l'Europa ha dato una percentuale molto più piccola di quella.

Penso che l'Europa abbia donato 100 miliardi di dollari e noi abbiamo donato, diciamo, più di 300 miliardi, ed è più importante per loro che per noi. Abbiamo un oceano in mezzo e loro no. Ma dove sono finiti tutti i soldi donati? Dove stanno andando? E non ho mai visto un resoconto. Noi doniamo centinaia di miliardi di dollari”.

I fatti: Ci sono molti numeri che girano, con diverse metodologie utilizzate per calcolare i singoli contributi. Secondo l’Ukraine Support Tracker dell'Istituto Kiel per l'economia mondiale, l'Europa, considerata come la somma dell'UE e dei singoli Stati membri, ha stanziato 132,3 miliardi di euro in aiuti all'Ucraina, contro i 114,2 miliardi di euro degli Stati Uniti. A questi, sempre secondo il tracker, si aggiungerebbero altri 115 miliardi di euro.

I maggiori contributi in percentuale del PIL sono stati effettuati da Estonia e Danimarca (2,5%), Lituania (2,1%), Lettonia (1,8%), Finlandia (1,3%), Svezia e Polonia (1,2%).

Martedì, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto notare all'inviato USA in Ucraina, Keith Kellogg “il ruolo fondamentale dell'UE nel garantire la stabilità finanziaria e la difesa dell'Ucraina”, sottolineando “più di ogni altro alleato”.

Il segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha dichiarato la scorsa settimana che nel 2024: “Gli alleati della NATO hanno fornito oltre 50 miliardi di euro in assistenza alla sicurezza all'Ucraina, di cui quasi il 60% proveniente dall'Europa e dal Canada”.

Inoltre, quando Zelensky dice di non sapere dove siano finiti i soldi degli aiuti americani, sta in realtà mettendo in discussione le cifre fornite da Trump. Queste le parole del presidente ucraino all’Associated Press il 2 febbraio: “Come presidente di una nazione in guerra, posso dirvi che abbiamo ricevuto più di 75 miliardi di dollari. (...) Stiamo parlando di cose tangibili perché questo aiuto non è arrivato in contanti ma piuttosto sotto forma di armi, che ammontavano a circa 70 miliardi di dollari. Ma quando si dice che l'Ucraina ha ricevuto 200 miliardi di dollari per sostenere l'esercito durante la guerra, non è vero”, ha detto Zelensky. “Non so dove siano finiti tutti quei soldi. Forse è vero sulla carta con centinaia di programmi diversi, non lo metto in discussione, e siamo immensamente grati per tutto. Ma in realtà abbiamo ricevuto circa 76 miliardi di dollari. È un aiuto significativo, ma non sono 200 miliardi di dollari“. 

In sintesi, Zelensky non ha fatto altro che ribadire quanto diversi esperti negli Stati Uniti e altrove hanno ripetutamente sottolineato, e cioè che gran parte degli aiuti USA all’Ucraina non sono arrivati sotto forma di denaro consegnato al governo ucraino.

Come scriveva lo scorso maggio, ad esempio, il think tank Center for Strategic and International Studies: “Il concetto di ‘aiuto all'Ucraina’ è improprio. Nonostante le immagini di “pacchi di denaro” inviati all'Ucraina, circa il 72% di questo denaro in generale e l'86% degli aiuti militari saranno spesi negli Stati Uniti. La ragione di questa percentuale elevata è che le armi destinate all'Ucraina sono prodotte in fabbriche statunitensi, i pagamenti ai membri delle forze armate statunitensi sono per lo più spesi negli Stati Uniti e anche una parte degli aiuti umanitari viene spesa negli Stati Uniti”.

La Russia non sta schierando tutto il suo potenziale militare in Ucraina

Trump: “La Russia non intende distruggere Kiev, se avesse voluto, l'avrebbe già fatto. La Russia è in grado di spazzare via al 100% le città ucraine, compresa Kiev, ma al momento sta attaccando solo al 20%.”

I fatti: non ci sono indicazioni che la Russia abbia accumulato armi o trattenuto le sue capacità militari nella lotta. Anzi, in base alle informazioni a disposizione, la Russia ha scatenato tutta la sua forza militare, compresi missili e artiglieria a lungo raggio, sulle città ucraine, causando una distruzione diffusa, in particolare nella parte orientale.

Mentre le sue scorte diminuivano, Mosca ha fatto ricorso ai missili nordcoreani che continuano a colpire le città ucraine. 

La Russia vuole fermare la guerra

Trump: “Beh, molto più fiduciosi [sui colloqui]. Sono stati molto buoni. La Russia vuole fare qualcosa. Vogliono fermare la barbarie selvaggia”.

I fatti: i funzionari russi, compreso il presidente Vladimir Putin, hanno ripetutamente dichiarato che non fermeranno i combattimenti in Ucraina finché tutti gli obiettivi di Mosca non saranno raggiunti, sia attraverso la diplomazia che con la forza militare.

Putin ha già chiesto la “demilitarizzazione dell'Ucraina” e ha detto di volere il pieno controllo di quattro regioni dell'Ucraina orientale e meridionale – Donetsk, Kherson, Zaporizhzhia e Luhansk – che la Russia attualmente occupa in parte.

Secondo quattro funzionari dell'intelligence occidentale e due funzionari del Congresso degli Stati Uniti, le informazioni provenienti dagli Stati Uniti e dai paesi alleati, citate martedì dai media statunitensi, suggeriscono che Putin vuole ancora controllare tutta l'Ucraina.

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Quello di Donald Trump non è isolazionismo, è ‘mafia imperialism’

Nell’arco del primo mese della sua presidenza, Donald Trump sta distruggendo l’ordine legale internazionale che resisteva dal termine della seconda guerra mondiale: ha unilateralmente deciso di trattare con la Russia in merito all’invasione dell’Ucraina, ha parlato della necessità di costruire una “riviera di lusso” nella Striscia di Gaza, senza che i palestinesi possano più rivendicare alcun diritto sulla terra, ha cercato di acquistare la Groenlandia e di riottenere l’autorità sul Canale di Panama, ha minacciato dazi a Canada e Messico, ha chiesto ai paesi europei di alzare considerevolmente la loro spesa militare fino al 5% del PIL, ben più del 2% che l’Alleanza atlantica ha sempre richiesto.

Queste mosse generano ansia nei suoi alleati storici, che non vedono più negli Stati Uniti i garanti dell’ordine mondiale. Questo non implica però, come alcuni dicono, che Trump sia un presidente isolazionista, dato che interviene, anche in maniera estremamente muscolare, nelle vicende globali. Un intervento, però, non atto a garantire stabilità e legalità dell’ordine, ma a ottenere terre e risorse: un imperialismo sfruttatore di marca ottocentesca, in cui le nazioni più ricche potevano rubare risorse a quelle più povere in nome di una forza superiore. Mike Galsworthy, co-fondatore di Scientists for EU e Healthier IN the EU, lo ha definito 'mafia imperialism'.

Trump wants to land-grab in Ukraine— — just like Greenland, Gaza, Canada, Panama. He wants to grab other people’s land and natural resources all under the guise of “protection” and “development” of “the west” under his care. It’s pure mafia imperialism.

— Mike Galsworthy (@mikegalsworthy.bsky.social) 19 febbraio 2025 alle ore 07:43

L’ordine mondiale ereditato da Trump non era perfetto, ma aveva un vantaggio: le regole erano chiare. Tra queste, la principale riguardava il fatto che ogni paese rispettava la sovranità di tutti gli altri, e non avrebbe più tentato di acquisire territori per mezzo della forza: questo è il motivo per cui, dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, la Russia è stata velocemente allontanata dalla comunità internazionale e i maggiori paesi occidentali hanno approvato diversi pacchetti di sanzioni. Gli Stati Uniti, però, cercano oggi di riconsiderare quest’ordine, in virtù del fatto che si sentono i padroni assoluti dell’emisfero occidentale. Gli alleati, dopo decenni di affidamento sugli Stati Uniti nella gestione della difesa, si ritrovano soli e isolati: questo porterà necessariamente a nuovi tentativi di alleanze e al tentativo di rinforzare quelle già esistenti non a guida americana. 

Durante i discorsi del leader statunitense, è chiaro il tentativo di porre una grande attenzione sull’emisfero occidentale, un focus che ricorda da vicino la dottrina Monroe, posizione politica del quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, che affermava la padronanza statunitense sugli affari del continente americano. Monroe se la prendeva con le potenze europee, che cercavano di colonizzare terre che secondo gli Stati Uniti appartenevano alla loro sfera d’influenza, Trump principalmente con la Cina, che otterrebbe vantaggi commerciali dall’utilizzo del Canale di Panama e aggirerebbe i dazi statunitensi sulle automobili delocalizzando la propria produzione in Messico. Le direttrici entro cui si muove Trump nel riprioritizzare il continente americano sono due: da un lato attacchi in senso imperialistico, dall’altro la ricerca di una guerra commerciale.

A subire gli attacchi imperialistici sono principalmente Panama, paese indipendente dal 1903 e sul cui territorio è presente l’omonimo Canale, e la Groenlandia, regione artica oggi parte della Danimarca, che Trump vorrebbe acquistare sin dal suo primo mandato, ricevendo sempre dinieghi da Copenhagen. La tensione tra Trump e il presidente panamense Mulino si è alzata esponenzialmente durante queste settimane, col primo che rivorrebbe il controllo del Canale, ceduto dagli Stati Uniti nel 1977 e controllato da un’autorità del governo di Panama. Il Presidente americano li ha accusati di aver fatto sì che la Cina arrivasse a controllare l’Autorità che governa il canale, e per questo rivorrebbe una guida americana: non ci sono, però, prove che il governo cinese eserciti alcun tipo di controllo, nonostante negli anni ha molto investito in porti e terminal intorno al Canale, dato che le sue navi contano per il 21,4 per cento del traffico dell’area. 

Se Trump ha addotto una scusa per quanto concerne la questione panamense, non ci ha nemmeno provato riguardo alla Groenlandia. Trump ha asserito che il controllo della regione artica garantirebbe agli Stati Uniti una maggiore “sicurezza economica”, ma il motivo per cui ne è ossessionato è la gran quantità di risorse che otterrebbe: nickel, ferro e terre rare sono presenti in gran quantità in Groenlandia, poco sfruttate da una comunità Inuit di 56.000 residenti. L’obiettivo trumpiano grazie a queste nuove materie prime sarebbe quello di poter raggiungere l’indipendenza energetica e poter produrre internamente sempre più semiconduttori, utili per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale: un vero e proprio imperialismo di sfruttamento. La Danimarca si è rifiutata di sedersi a un tavolo delle trattative e le comunità del luogo non sono state minimamente interpellate: emissari americani sono andati nella regione e hanno regalato ad alcuni residenti un centinaio di dollari, una mossa vista dai cittadini come un ingeneroso tentativo di comprare la loro volontà. Gli Inuit che abitano la Groenlandia vorrebbero da anni staccarsi dalla Danimarca, che li controlla con metodi coloniali dal 1721, ma chiedono l’indipendenza, non di essere venduti a una nuova potenza. L’interesse per la posizione degli abitanti da parte degli Stati Uniti è nullo, tanto che i repubblicani hanno presentato al Congresso una legge per rinominare la Groenlandia “Terra bianca, rossa e blu”. (In inglese, Greenland sta per “terra verde” ndr). Per di più, se gli Stati Uniti possono decidere di modificare la sovranità dei paesi vicini, allora crolla il caposaldo che ha tenuto insieme l’ordine legale in questi decenni: verrebbe infatti meno ogni rimostranza mossa alla Cina ogni qualvolta esprime la volontà di assediare e conquistare l’isola di Taiwan.

Con i paesi più grandi del Nord America, Canada e Messico, Trump ha invece adottato la tattica di minacciare una guerra commerciale. Ha imposto dazi del 25% su tutti i beni importati dai due paesi, per poi revocarli non appena entrambi hanno concesso al presidente statunitense più truppe per controllare i confini.

Nonostante questo, la tensione col Canada è rimasta altissima, tanto che Trump ha più volte scritto che vorrebbe un’annessione agli Stati Uniti come cinquantunesimo Stato. Una posizione ovviamente irricevibile, atta a esacerbare lo scontro: Trump ritiene che la bilancia commerciale col Canada penda a svantaggio degli Stati Uniti per 250 miliardi di dollari e che Trudeau non faccia niente per contrastare l’arrivo del fentanyl, droga sintetica a base di oppioidi, negli Stati Uniti. Due affermazioni tendenziose, in quanto i dati sulla bilancia commerciale non tengono conto del fatto che le condutture di gas canadese passano all’interno del territorio statunitense e che solo lo 0,2% del fentanyl arriva dal Canada.

La minaccia di dazi così alti è poi, per la maggior parte degli economisti, un problema: con paesi come Messico e Canada gli USA sono molto interdipendenti. Nel settore automotive, per fare un esempio, alcuni pezzi di autovetture attraversano il confine varie volte prima che il prodotto sia completato, e ogni passaggio dovrebbe essere sottoposto a dazio. Questo alzerebbe esponenzialmente il prezzo delle auto negli Stati Uniti, e ricadrebbe tutto sul consumatore finale. Nonostante questo, per Trump i dazi imposti agli amici non sono altro che un monito: ricordare loro che non sono né alleati né amici degli Usa, ma semplicemente dei partner di minor peso, le cui economie possono essere messe in crisi in ogni momento.

Anche il rapporto con l’Unione Europea sta evolvendo in questo senso. Gli Stati Uniti stanno apertamente sconfessando i pilastri su cui è stata costruita l’Alleanza atlantica, e hanno iniziato a richiedere ai paesi europei una spesa in difesa difficile da attuare per le economie dell’Unione. Se nel primo mandato la richiesta era quella di adeguarsi alla spesa del 2% in relazione al PIL, obiettivo raggiungibile, oggi la richiesta è quella di passare velocemente al 5%, provocando uno scontro.

Inoltre, il vicepresidente Vance, parlando alla Conferenza di Monaco, ha apertamente avallato i partiti di estrema destra: ha incontrato Alice Weidel, leader di Afd, partito suprematista che le altre forze politiche tedesche vorrebbero tenere lontano dalle posizioni di governo, e ha criticato le politiche migratorie, climatiche e legate ai diritti LGBT europee. In più, Vance ha attaccato frontalmente il Digital Service Act (DSA) dell’Unione Europea che, a suo dire, regolamenterebbe troppo il settore dell’intelligenza artificiale, su cui gli Stati Uniti hanno molte meno regole; anche la moderazione eccessiva dei contenuti che si farebbe nel continente è stata definita una “censura autoritaria”.

Oltre a questo, la principale minaccia americana alle economie dell’Unione è quella dei dazi: Trump ha asserito che con la UE vuole costruire un sistema di tariffe reciproche, per cui tutti i balzelli che un bene americano deve subire nei confronti di un paese verranno applicati a tutti i beni di quel paese in ingresso negli Stati Uniti. Nel breve termine questo farà salire l’inflazione, che infatti a gennaio è già tornata a sforare il 3%, nonostante le promesse dell’amministrazione, e aprirà a molteplici trattati bilaterali e a possibili esenzioni per i leader che si dimostrano più vicini agli americani. 

A questa situazione critica si aggiunge il voltafaccia nella questione ucraina. Dopo un mese dall’insediamento, gli USA si sono appiattiti sulle posizioni della Russia, confermato anche dal rifiuto statunitense di fare da co-sponsor a una risoluzione ONU di condanna per il terzo anno dell’invasione. Una delegazione americana ha incontrato per la prima volta dal 2022 una delegazione russa a Riad, e questo è il viatico per un bilaterale tra Trump e Putin nel prossimo futuro. Nel frattempo, il Presidente ha fatto proprie le posizioni di Mosca, riaffermando la propaganda putiniana: ha definito Zelensky un “dittatore non eletto” che possiede “solo il 4% di sostegno nel paese” (un dato falso, in quanto le ultime rilevazioni lo attestano sopra il 50 per cento) e sta impedendo a Ucraina e Unione Europea di sedersi ai tavoli delle trattative che ha aperto con Mosca.

La motivazione con cui non permette alla UE di condividere il tavolo degli accordi è pretestuosa: Trump ritiene che gli USA hanno speso molto più degli altri paesi nel sostegno all’Ucraina. Questo è però falso, perché i paesi europei avrebbero speso 132 miliardi in aiuti, contro i 114 statunitensi. Inoltre, ha chiesto a Kyiv, in cambio di una non precisata “prosecuzione degli aiuti”, che gli vengano ceduti i diritti sulla metà dei profitti legati all’estrazione di risorse naturali nel paese in perpetuo. Questa proposta è stata commentata dal noto economista Paul Krugman come “puro imperialismo sfruttatore ottocentesco”: una vera e propria razzia di risorse, che Zelensky si è rifiutato di concedere.

La questione ucraina ha agitato molti senatori repubblicani, più vicini alle posizioni classiche del Partito in politica estera: il senatore Tillis ha per esempio affermato che la responsabilità è solo in capo a Putin. La speranza di molti analisti era la persona che Trump aveva scelto come segretario di Stato: Marco Rubio, senatore della Florida, proveniente da famiglia di esuli cubani, sempre dichiaratosi contro ogni forma di dittatura e, tra le altre cose, uno dei principali sfidanti di Trump alle primarie del 2016. Come analizzato da Politico, però, Rubio non ha peso nelle scelte dell’amministrazione, viene utilizzato per dire ovvietà e sta sempre in disparte rispetto a Trump e Musk, che plasmano con comunicati e lanci social tutta la politica estera. Una figura che doveva essere di garanzia, trasformata in una voce spenta e che ripete blandamente le posizioni del presidente. 

L’altro scenario in cui Trump dice di aver “fatto finire la guerra” è il Medio Oriente, in cui dopo pochi giorni dal suo insediamento Israele e Hamas hanno acconsentito a un cessate il fuoco, negoziato per mesi dall’amministrazione Biden ma ottenuto solo dopo il cambio di inquilino a Pennsylvania Avenue.

Il piano su cosa sarà della Striscia, sempre che la tregua regga in queste settimane, è stato attaccato da tutti i leader dei paesi arabi e da gran parte della comunità internazionale, e Trump è stato da più voci accusato, tra cui da 350 rabbini statunitensi, di aver proposto una pulizia etnica: il leader americano ha apertamente parlato di una Riviera di lusso nella Striscia di Gaza, con grandi alberghi e casinò, su cui i palestinesi non avranno più alcun diritto. Anzi, i profughi dovrebbero essere accolti da Egitto e Giordania, che si sono smarcati. I leader arabi sono fermi su un punto: c’è bisogno di uno Stato palestinese riconosciuto da tutti, posizione che però non sembra realizzabile con queste amministrazioni negli Stati Uniti e in Israele.

Tutte queste mosse attaccano direttamente l’ordine legale internazionale, non riconoscono le sovranità statali che dovrebbero essere garantite dalle Nazioni Unite e sconfessano la visione globalista a guida americana che ha dominato nella seconda parte del Novecento. A ottenere dividendi da queste posizioni è quello che Trump definisce il rivale principale degli Stati Uniti in quest’epoca: la Cina.

Tra gli ordini esecutivi che hanno contraddistinto il primo mese di amministrazione Trump – di cui abbiamo parlato estesamente su Valigia Blu - c’è stato lo svuotamento dei fondi per molte agenzie federali: tra queste USAID, che si occupa di sviluppo internazionale. Molti progetti esteri e aiuti internazionali, compresi quelli legati alla prevenzione della diffusione di virus letali come l’HIV, sono stati bloccati.

Di contro, la Cina sta cercando di intervenire e garantire questi aiuti attraverso China Aid: più gli Stati Uniti recedono dalla loro funzione di perno economico mondiale, più è il soft power cinese a ricoprire le stesse posizioni, garantendo però a Pechino un’influenza sempre maggiore. Tra le agenzie a cui sono stati tolti i fondi, poi, c’è anche China Labor Watch, che aveva il compito di indagare sullo sfruttamento dei lavoratori in Cina. Oltre a ricostruire in senso autoritario il paese internamente, Trump sta rivoluzionando anche la proiezione estera degli Stati Uniti: non più alleati né difensori dell’ordine, ma un mondo fatto di competitor a cui bisogna strappare accordi favorevoli, il tutto cercando di ottenere risorse dai paesi più deboli.

Tutto questo sta generando ansia e il tentativo di disallineamento dalle posizioni americane da parte di attori più o meno grandi, tra cui l’Unione Europea: sul breve termine, è la Cina a presentarsi di fronte alla comunità internazionale come una potenza responsabile, leader nelle rinnovabili e nell’aiuto umanitario, mentre gli Stati Uniti stanno diventando i distruttori dell’ordine che hanno contribuito a creare ottant’anni fa. Come ha scritto sull’Atlantic Anne Applebaum, “è il momento di riconoscere il cambiamento che stiamo vivendo, e dobbiamo trovare nuovi modi di vivere nel mondo che degli Stati Uniti diversi dal passato stanno contribuendo a creare”.

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Sostenere il disgelo fra Russia e Stati Uniti

Appello al movimento pacifista

Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo invadeva l’Ucraina. È stata una guerra che ha violato la Carta dell’Onu. Dopo tre anni emerge la concreta speranza di porre fine a uno spaventoso massacro.

21 febbraio 2025
Campagna contro l’invio di armi in Ucraina
Questo appello nasce da una posizione chiara: non è un sostegno né a Putin né a Trump, ma un appello alla pace e al dialogo come unica alternativa alla guerra e alla corsa agli armamenti.

APPELLO CONTRO LA GUERRA E PER LA PACE: SOSTENIAMO IL DIALOGO, RIFIUTIAMO IL RIARMO
1. Il dialogo avviato tra Stati Uniti e Russia rappresenta una svolta significativa rispetto ad anni di propaganda favorevole alla guerra, basata sulla contrapposizione frontale e sulla costruzione di Putin come nemico assoluto da fermare ad ogni costo. Questo cambiamento impone una riflessione critica sulla narrazione che ha giustificato il riarmo e l’escalation militare in Europa.

2. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una crescente retorica secondo cui i paesi europei devono armarsi e aumentare la spesa militare, spinti dall’idea che il conflitto con la Russia sia inevitabile. Questa prospettiva, adottata dai gruppi dirigenti europei e occidentali, si scontra oggi con la realtà del nuovo dialogo in corso tra Washington e Mosca.

3. Per questo facciamo appello affinché il 24 febbraio diventi una giornata di mobilitazione a sostegno del dialogo tra Stati Uniti e Russia. Un dialogo che, se portato avanti con serietà e concretezza, fa venir meno la ragione per cui è stato annunciato un piano di riarmo imponente, ormai privo di fondamento.

4. Diciamo NO all’invio di armi e truppe. Crediamo che la pace si costruisca con il negoziato e non con l’escalation militare. Inoltre, riteniamo che i pacifisti debbano opporsi all’adesione dell’Ucraina alla NATO, poiché questa rappresenta uno degli elementi chiave del conflitto e la sua rimozione costituirebbe un passo concreto verso la de-escalation.

5. Le prospettive di riarmo devono essere contestate con una campagna capillare sui territori. È necessario smontare, con un’operazione di verità, l’idea del nemico assoluto: il vero pericolo è rappresentato da chi guida la politica internazionale incitando a una guerra senza fine contro la Russia, alimentando tensioni e spese militari senza limiti.

6. Non possiamo condividere il discorso del Presidente Mattarella nella parte in cui accosta la Russia al Terzo Reich. Questo parallelismo non solo è storicamente improprio, ma contribuisce a esasperare il clima politico e a ostacolare il dialogo in corso.

7. Occorre una campagna ampia e continuativa, fondata sull’articolo 50 della Carta Costituzionale, per affermare con forza il NO al riarmo, alla luce del ruolo effettivo della Russia nel contesto internazionale e del suo peso nelle spese militari mondiali, che rappresentano il 5% del totale globale contro il 55% della spesa NATO.

8. È il momento di sostenere il dialogo e il disgelo fra Russia e Stati Uniti. Il movimento pacifista non può che sostenere questa apertura, lavorando affinché si traduca in una concreta riduzione delle tensioni che allontani lo spettro di una guerra nucleare e in una prospettiva di pace duratura. É il momento di porre nuovamente al centro l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Seguono firme

L’appello è stato approvato dall’assemblea del Coordinamento della Campagna contro l’invio di armi in Ucraina e pubblicato sul sito di peacelink.it

“Sostenere il disgelo fra Russia e Stati Uniti”

Redazione Italia

La maniera forte. La “pace” di Trump somiglia alla guerra di Biden

Alla fine di gennaio Scott Ritter ha pubblicato un articolo assai interessante sul prezzo del petrolio russo.

Scott Ritter è un ex membro del servizio segreto del corpo dei marines USA ed ex ispettore dell’ONU; ha preso spesso posizioni critiche verso la politica estera USA. In questo articolo se la prende con il post di Trump in cui il neopresidente annunciava il suo piano di pace per l’Ucraina. Secondo Ritter questo piano non ha alcuna speranza di essere accolto e al presidente USA non resterebbe che applicare la maniera forte, già minacciata nel post.

In cosa consisterebbe questa “maniera forte”?

Secondo Scott Bessent, nuovo segretario al Tesoro di Donald Trump, la risposta sta nell’inasprimento delle sanzioni contro l’industria petrolifera russa. Ma Bessent dovrà fare i conti con una narrazione con cui gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno venduto in modo eccessivo le sanzioni come strumento per distruggere l’economia russa. Inoltre, dato lo status della Russia come principale produttore di petrolio, qualsiasi applicazione di sanzioni potrebbe avere un impatto economico negativo sugli Stati Uniti.

Questo aspetto sembra essere sfuggito all’attenzione di Keith Kellogg, il guru degli “accordi di pace” di Trump. Osservando che, sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno imposto un tetto di 60 dollari al barile al petrolio russo (il prezzo di mercato del petrolio si aggira intorno ai 78 dollari al barile), Kellogg ha osservato che, nonostante ciò, “la Russia guadagna miliardi di dollari dalle vendite di petrolio”.

“E se”, ha aggiunto Kellogg durante un’intervista a Fox News, ‘si abbassasse il prezzo a 45 dollari al barile, che è essenzialmente il punto di pareggio?’.

La domanda è: “punto di pareggio” per chi?

Il concetto di “punto di pareggio”, quando si parla di Russia, ha un aspetto duplice. Il primo aspetto è rappresentato dal prezzo del petrolio che la Russia, che dipende fortemente dalla vendita di petrolio per la sua economia nazionale, deve raggiungere per pareggiare il bilancio nazionale. Questo prezzo è stimato intorno ai 77 dollari al barile per il 2025. Non ci sono dubbi: se il prezzo del petrolio scendesse a 45 dollari al barile, la Russia si troverebbe ad affrontare una crisi di bilancio. Ma non una crisi di produzione petrolifera.

Il secondo aspetto del “punto di pareggio” per la Russia è il costo di produzione di un barile di petrolio, che attualmente è fissato a 41 dollari al barile. La Russia sarebbe in grado di produrre petrolio senza interruzioni se Kellogg riuscisse a raggiungere il suo obiettivo di ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile.

Per raggiungere l’obiettivo, Trump dovrebbe far salire i sauditi sul carro della manipolazione del prezzo del petrolio. Il problema è che i sauditi hanno il loro “punto di pareggio”. Per pareggiare il bilancio, l’Arabia Saudita ha bisogno che il petrolio sia venduto a circa 85 dollari al barile. Ma il costo di produzione del petrolio in Arabia Saudita è molto basso, intorno ai 10 dollari al barile. Se volesse, l’Arabia Saudita potrebbe semplicemente inondare il mercato di petrolio a basso costo. Anche la Russia potrebbe farlo.

E gli Stati Uniti? Il bacino di Permian, nel Texas occidentale, rappresenta la totalità della crescita della produzione petrolifera statunitense dal 2020. Nel 2024, per rendere redditizi i nuovi pozzi nel Bacino Permiano, il punto di pareggio era di circa 62 dollari al barile. Per i pozzi esistenti, la cifra era di circa 38 dollari al barile. Se le trivellazioni venissero interrotte nel Bacino permiano, la produzione di petrolio degli Stati Uniti diminuirebbe del 30% nell’arco di due anni.

In breve, se Keith Kellogg riuscisse ad attuare il suo “piano” per ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile, distruggerebbe di fatto l’economia petrolifera statunitense. E, conclude Ritter, se si distrugge l’economia petrolifera statunitense, si distrugge l’economia degli Stati Uniti.

Questa uscita di Ritter a proposito delle sanzioni si capisce meglio se si ricorda che il 10 gennaio il presidente uscente Biden ha inasprito le sanzioni contro la Russia, che hanno sconvolto temporaneamente il mercato del petrolio.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha riferito questa settimana la sua ultima previsione per l’offerta e la domanda di petrolio, osservando che le ultime sanzioni si riveleranno solo un ostacolo temporaneo per le esportazioni di petrolio russo. Non solo questo, ma l’AIE ha anche stimato, per gennaio, la produzione petrolifera della Russia in rialzo di 100.000 bpd per un totale di 9,2 milioni di barili al giorno. L’AIE ha dovuto rivedere le sue stime di produzione petrolifera russa in numerose occasioni.

L’idea che l’industria dei combustibili fossili sia l’industria principale degli Stati Uniti, e che ogni danno ad essa sia un danno per l’economia statunitense nel suo complesso sembra essere un’idea sorpassata.

L’elezione di Donald Trump è stata salutata con un aumento del valore di borsa delle corporation dei suoi principali sostenitori. Secondo quanto scrive Davide Magliuolo su “Investireoggi” riportando i dati di Bloomberg Billionaires Index, tra i maggiori beneficiari della vittoria di Trump ci sarebbe ovviamente Elon Musk, che ha visto il proprio patrimonio crescere di ben 26,5 miliardi di dollari, raggiungendo il totale di 290 miliardi di dollari. Dopo di lui Jeff Bezos ha visto aumentare il proprio di oltre 7 miliardi di dollari. Anche Larry Ellison, ex amministratore delegato di Oracle, ha registrato un aumento del suo patrimonio di quasi 10 miliardi, arrivando a un totale di 193 miliardi di dollari. Da segnalare che Mark Zuckerberg ha visto calare il suo patrimonio di più di 80 milioni di dollari, la cosa probabilmente ha influito sulla scelta di Meta di attenuare la politica di moderazione dei contenuti su Facebook.

Questo risultato è il prodotto delle attese politiche a sostegno delle imprese tecnologiche che ormai hanno sostituito il petrolio nelle scelte strategiche dell’amministrazione USA. I grandi oligarchi tecnologici della Silicon Valley temono le aziende cinesi di intelligenza artificiale come “Ricerca Approfondita”. Il miliardario Peter Thiel, sostenitore di Donald Trump, ammette che vogliono i monopoli, sostenendo che “la concorrenza è per i perdenti”. L’amministratore delegato di Anthropic, Dario Amodei, ha affermato che gli Stati Uniti devono mantenere un “mondo unipolare”.

Questa centralità assunta dalla tecnologia nella politica imperiale di Washington spiega come mai per l’amministrazione Trump le terre rare possedute dall’Ucraina (in parte nelle zone occupate dalla Federazione Russa) siano diventate più importanti del petrolio.

Da una parte abbiamo il presidente degli Stati Uniti che si dichiara disposto a continuare l’appoggio militare a Zelensky a condizione che questi garantisca la consegna di 500 miliardi di dollari in terre rare, dall’altra abbiamo Zelensky, il presidente ucraino, che si rifiuta di firmare l’accordo proposto per dare agli Stati Uniti l’accesso ai minerali di terre rare dell’Ucraina perché il documento era troppo incentrato sugli interessi statunitensi. Zelensky ha affermato che qualsiasi sfruttamento minerario da parte degli Stati Uniti dovrà essere legato a garanzie di sicurezza per l’Ucraina che scoraggino future aggressioni russe. Evidentemente la trattativa è in corso ed ognuno dei contendenti punta ad avere dei vantaggi.

L’impressione comunque è che l’attuale presidenza abbia ormai i giorni contati, e sia pronto un cambio di regime in Ucraina. La figura di Zelensky è troppo screditata a livello di massa a causa della politica di guerra e di compressione delle libertà e del tenore di vita dei ceti popolari, è troppo collegata alla narrazione dell’indipendenza ucraina per poter essere usata in una trattativa di scambio fra gli opposti imperialismi. L’uscita di scena di Zelensky permetterebbe a Putin di dichiarare compiuta la denazificazione dell’Ucraina, che potrebbe essere festeggiata il 9 maggio. Se la Russia non accetta le condizioni degli Stati Uniti, non c’è niente che lasci credere che la pace sia l’obiettivo ad ogni costo della politica degli Stati Uniti.

Lo scenario che si sta delineando è il peggiore possibile per le persone che hanno venduto la loro anima per la sconfitta di Putin, propagandando l’arruolamento nell’esercito di Kiev a fianco e agli ordini dei nazisti, raccogliendo soldi per permettere a Zelensky di continuare la guerra e vendere il proprio paese al miglior offerente occidentale. Come ho scritto fin da prima dell’inizio dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, gli Stati Uniti non possono permettersi che Putin perda. Una Russia forte rimane un potenziale alleato nella contesa per la Cina, e l’Ucraina è solo uno dei tanti campi di battaglia sulla scacchiera del mondo, dove muoiono a centinaia di migliaia i pedoni, mentre i re se ne stanno arroccati, in attesa di un accordo sempre possibile con il re avversario.

Così la “pace” di Trump finirebbe per assomigliare alla guerra di Biden.

 

Tiziano Antonelli

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La maniera forte. La “pace” di Trump somiglia alla guerra di Biden

Alla fine di gennaio Scott Ritter ha pubblicato un articolo assai interessante sul prezzo del petrolio russo.

Scott Ritter è un ex membro del servizio segreto del corpo dei marines USA ed ex ispettore dell’ONU; ha preso spesso posizioni critiche verso la politica estera USA. In questo articolo se la prende con il post di Trump in cui il neopresidente annunciava il suo piano di pace per l’Ucraina. Secondo Ritter questo piano non ha alcuna speranza di essere accolto e al presidente USA non resterebbe che applicare la maniera forte, già minacciata nel post.

In cosa consisterebbe questa “maniera forte”?

Secondo Scott Bessent, nuovo segretario al Tesoro di Donald Trump, la risposta sta nell’inasprimento delle sanzioni contro l’industria petrolifera russa. Ma Bessent dovrà fare i conti con una narrazione con cui gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno venduto in modo eccessivo le sanzioni come strumento per distruggere l’economia russa. Inoltre, dato lo status della Russia come principale produttore di petrolio, qualsiasi applicazione di sanzioni potrebbe avere un impatto economico negativo sugli Stati Uniti.

Questo aspetto sembra essere sfuggito all’attenzione di Keith Kellogg, il guru degli “accordi di pace” di Trump. Osservando che, sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno imposto un tetto di 60 dollari al barile al petrolio russo (il prezzo di mercato del petrolio si aggira intorno ai 78 dollari al barile), Kellogg ha osservato che, nonostante ciò, “la Russia guadagna miliardi di dollari dalle vendite di petrolio”.

“E se”, ha aggiunto Kellogg durante un’intervista a Fox News, ‘si abbassasse il prezzo a 45 dollari al barile, che è essenzialmente il punto di pareggio?’.

La domanda è: “punto di pareggio” per chi?

Il concetto di “punto di pareggio”, quando si parla di Russia, ha un aspetto duplice. Il primo aspetto è rappresentato dal prezzo del petrolio che la Russia, che dipende fortemente dalla vendita di petrolio per la sua economia nazionale, deve raggiungere per pareggiare il bilancio nazionale. Questo prezzo è stimato intorno ai 77 dollari al barile per il 2025. Non ci sono dubbi: se il prezzo del petrolio scendesse a 45 dollari al barile, la Russia si troverebbe ad affrontare una crisi di bilancio. Ma non una crisi di produzione petrolifera.

Il secondo aspetto del “punto di pareggio” per la Russia è il costo di produzione di un barile di petrolio, che attualmente è fissato a 41 dollari al barile. La Russia sarebbe in grado di produrre petrolio senza interruzioni se Kellogg riuscisse a raggiungere il suo obiettivo di ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile.

Per raggiungere l’obiettivo, Trump dovrebbe far salire i sauditi sul carro della manipolazione del prezzo del petrolio. Il problema è che i sauditi hanno il loro “punto di pareggio”. Per pareggiare il bilancio, l’Arabia Saudita ha bisogno che il petrolio sia venduto a circa 85 dollari al barile. Ma il costo di produzione del petrolio in Arabia Saudita è molto basso, intorno ai 10 dollari al barile. Se volesse, l’Arabia Saudita potrebbe semplicemente inondare il mercato di petrolio a basso costo. Anche la Russia potrebbe farlo.

E gli Stati Uniti? Il bacino di Permian, nel Texas occidentale, rappresenta la totalità della crescita della produzione petrolifera statunitense dal 2020. Nel 2024, per rendere redditizi i nuovi pozzi nel Bacino Permiano, il punto di pareggio era di circa 62 dollari al barile. Per i pozzi esistenti, la cifra era di circa 38 dollari al barile. Se le trivellazioni venissero interrotte nel Bacino permiano, la produzione di petrolio degli Stati Uniti diminuirebbe del 30% nell’arco di due anni.

In breve, se Keith Kellogg riuscisse ad attuare il suo “piano” per ridurre il prezzo del petrolio a 45 dollari al barile, distruggerebbe di fatto l’economia petrolifera statunitense. E, conclude Ritter, se si distrugge l’economia petrolifera statunitense, si distrugge l’economia degli Stati Uniti.

Questa uscita di Ritter a proposito delle sanzioni si capisce meglio se si ricorda che il 10 gennaio il presidente uscente Biden ha inasprito le sanzioni contro la Russia, che hanno sconvolto temporaneamente il mercato del petrolio.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) ha riferito questa settimana la sua ultima previsione per l’offerta e la domanda di petrolio, osservando che le ultime sanzioni si riveleranno solo un ostacolo temporaneo per le esportazioni di petrolio russo. Non solo questo, ma l’AIE ha anche stimato, per gennaio, la produzione petrolifera della Russia in rialzo di 100.000 bpd per un totale di 9,2 milioni di barili al giorno. L’AIE ha dovuto rivedere le sue stime di produzione petrolifera russa in numerose occasioni.

L’idea che l’industria dei combustibili fossili sia l’industria principale degli Stati Uniti, e che ogni danno ad essa sia un danno per l’economia statunitense nel suo complesso sembra essere un’idea sorpassata.

L’elezione di Donald Trump è stata salutata con un aumento del valore di borsa delle corporation dei suoi principali sostenitori. Secondo quanto scrive Davide Magliuolo su “Investireoggi” riportando i dati di Bloomberg Billionaires Index, tra i maggiori beneficiari della vittoria di Trump ci sarebbe ovviamente Elon Musk, che ha visto il proprio patrimonio crescere di ben 26,5 miliardi di dollari, raggiungendo il totale di 290 miliardi di dollari. Dopo di lui Jeff Bezos ha visto aumentare il proprio di oltre 7 miliardi di dollari. Anche Larry Ellison, ex amministratore delegato di Oracle, ha registrato un aumento del suo patrimonio di quasi 10 miliardi, arrivando a un totale di 193 miliardi di dollari. Da segnalare che Mark Zuckerberg ha visto calare il suo patrimonio di più di 80 milioni di dollari, la cosa probabilmente ha influito sulla scelta di Meta di attenuare la politica di moderazione dei contenuti su Facebook.

Questo risultato è il prodotto delle attese politiche a sostegno delle imprese tecnologiche che ormai hanno sostituito il petrolio nelle scelte strategiche dell’amministrazione USA. I grandi oligarchi tecnologici della Silicon Valley temono le aziende cinesi di intelligenza artificiale come “Ricerca Approfondita”. Il miliardario Peter Thiel, sostenitore di Donald Trump, ammette che vogliono i monopoli, sostenendo che “la concorrenza è per i perdenti”. L’amministratore delegato di Anthropic, Dario Amodei, ha affermato che gli Stati Uniti devono mantenere un “mondo unipolare”.

Questa centralità assunta dalla tecnologia nella politica imperiale di Washington spiega come mai per l’amministrazione Trump le terre rare possedute dall’Ucraina (in parte nelle zone occupate dalla Federazione Russa) siano diventate più importanti del petrolio.

Da una parte abbiamo il presidente degli Stati Uniti che si dichiara disposto a continuare l’appoggio militare a Zelensky a condizione che questi garantisca la consegna di 500 miliardi di dollari in terre rare, dall’altra abbiamo Zelensky, il presidente ucraino, che si rifiuta di firmare l’accordo proposto per dare agli Stati Uniti l’accesso ai minerali di terre rare dell’Ucraina perché il documento era troppo incentrato sugli interessi statunitensi. Zelensky ha affermato che qualsiasi sfruttamento minerario da parte degli Stati Uniti dovrà essere legato a garanzie di sicurezza per l’Ucraina che scoraggino future aggressioni russe. Evidentemente la trattativa è in corso ed ognuno dei contendenti punta ad avere dei vantaggi.

L’impressione comunque è che l’attuale presidenza abbia ormai i giorni contati, e sia pronto un cambio di regime in Ucraina. La figura di Zelensky è troppo screditata a livello di massa a causa della politica di guerra e di compressione delle libertà e del tenore di vita dei ceti popolari, è troppo collegata alla narrazione dell’indipendenza ucraina per poter essere usata in una trattativa di scambio fra gli opposti imperialismi. L’uscita di scena di Zelensky permetterebbe a Putin di dichiarare compiuta la denazificazione dell’Ucraina, che potrebbe essere festeggiata il 9 maggio. Se la Russia non accetta le condizioni degli Stati Uniti, non c’è niente che lasci credere che la pace sia l’obiettivo ad ogni costo della politica degli Stati Uniti.

Lo scenario che si sta delineando è il peggiore possibile per le persone che hanno venduto la loro anima per la sconfitta di Putin, propagandando l’arruolamento nell’esercito di Kiev a fianco e agli ordini dei nazisti, raccogliendo soldi per permettere a Zelensky di continuare la guerra e vendere il proprio paese al miglior offerente occidentale. Come ho scritto fin da prima dell’inizio dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, gli Stati Uniti non possono permettersi che Putin perda. Una Russia forte rimane un potenziale alleato nella contesa per la Cina, e l’Ucraina è solo uno dei tanti campi di battaglia sulla scacchiera del mondo, dove muoiono a centinaia di migliaia i pedoni, mentre i re se ne stanno arroccati, in attesa di un accordo sempre possibile con il re avversario.

Così la “pace” di Trump finirebbe per assomigliare alla guerra di Biden.

 

Tiziano Antonelli

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La ‘pace imperiale’ di Trump e Putin imposta all’Ucraina punta a sventrare l’Europa dall’interno

“Ci sono dei decenni in cui non accade nulla. E poi delle settimane in cui accadono decenni”. Una delle massime più celebri di Lenin, accusato il 22 febbraio 2022 dal presidente russo Vladimir Putin di essere il principale colpevole dell’esistenza dell’Ucraina, può essere facilmente traslata a ciò che è accaduto dallo scorso 12 febbraio, giorno della telefonata tra il presidente statunitense Donald Trump e Putin. 

Una settimana intensa e scioccante, sebbene prevedibile già durante la campagna elettorale trumpiana, che sta sconvolgendo la politica europea e globale alla vigilia del terzo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina.

Cosa è successo dalla telefonata tra Putin e Trump in poi?

Monaco di Baviera, Riyad, Parigi, Ankara. Questi i centri gravitazionali delle evoluzioni che stanno portando a quella che Nathalie Tocci ha definito la ricerca di una ‘pace imperiale’ alle spalle di Kyiv e Bruxelles. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che il vertice tra russi e americani in Arabia Saudita è stato “una sorpresa” appresa dai media, durante una visita al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo a sua volta ha detto che la Turchia sarebbe un “posto ideale” per lo svolgimento di futuri negoziati per terminare la guerra in Ucraina, ribadendo l’inviolabilità dell’integrità territoriale di Kyiv. 

Trattative a cui gli Stati Uniti promettono di includere prima o poi anche europei e ucraini. Tuttavia, nella prima fase – un meeting di quattro ore e mezzo a Riyad – si sono tenute solamente tra russi e americani, alla presenza del ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, e del consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaad bin Mohammed Al Aiban, che avrebbero però lasciato l’incontro anticipatamente.

A rappresentare gli Stati Uniti c’erano il segretario di Stato, Marco Rubio, il consigliere per la sicurezza, Mike Waltz, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha recentemente avuto un importante ruolo nel forzare il presidente Benjamin Netanyahu ad accettare un cessate il fuoco a Gaza. Spicca e pone delle domande l’assenza dell’inviato per Ucraina e Russia, Keith Kellogg, che nel frattempo incontrava la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Oltre al ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, e al consigliere per la politica estera, Yuri Ushakov, a guidare la delegazione russa era un personaggio poco noto al grande pubblico ma di fondamentale importanza. Kirill Dmitriev, noto nell’ambiente moscovita come Kiriusha e vicino alla figlia di Putin, è pure grande amico del principe saudita, Mohammad bin Salman Al Sa'ud, da cui ha ricevuto una medaglia al valore nel 2019, durante la presidenza Trump. Riyad è infatti un grande alleato sia per il tycoon che per Putin, e Dmitriev è soprattutto un uomo d’affari: è presidente del Russian Direct Investment Fund, fondo sovrano del Cremlino. 

E difatti, nonostante l’impegno per la creazione di gruppi di negoziazione, più che idee concrete per cercare quella pace “giusta e sostenibile [...] accettabile da tutte le parti in causa, incluse Ucraina, Europa e Russia,” come ha dichiarato Rubio, i partecipanti hanno discusso di uno dei temi preferiti dell’amministrazione Trump: le “opportunità economiche e di investimenti” possibili dopo la fine della guerra in Ucraina e una “normalizzazione” dei rapporti fra Washington e Mosca. E un primo affare, cruciale, per i russi potrebbe essere sbarazzarsi delle sanzioni imposte in questi tre (dieci) anni.

Nel frattempo, Zelensky che aveva annunciato proprio alla vigilia della caotica Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tenutasi tra il 14 e il 16 febbraio, una coincidente missione questa settimana negli Emirati Arabi, Turchia e proprio Arabia Saudita, ha cancellato la visita presso quest’ultima. Ha per di più aggiunto che non avrebbe partecipato al meeting nemmeno in caso di invito, reiterando il messaggio per cui un capo di Stato dovrebbe incontrare suoi pari, non presenti a Riyad. 

Putin non ha ufficialmente commentato l’esito dei colloqui, ma la portavoce del ministero degli Esteri Marija Zacharova, mentre rivolgeva l’ennesima minaccia a Sergio Mattarella, chiariva come una priorità di Mosca rimanesse “la cancellazione della dichiarazione del summit NATO a Bucarest del 2008” in cui si invitavano Ucraina e Georgia a entrare, in un futuro indefinito, nell’alleanza. Lavrov, invece, ha definito “inaccettabile” l’eventuale invio di forze di peacekeeping internazionali in Ucraina come parte delle richieste di sicurezza di Zelensky, ad ora raccolte in maniera credibile solo dal primo ministro britannico Keir Starmer (mentre Macron ha fatto un dietrofront sul ruolo francese).

Più in generale, è chiaro come l’obiettivo di Mosca sia ridiscutere l’intera architettura di sicurezza europea, un tema centrale nella retorica dell’invasione russa del 2022. Ciò che è nuovo è che per la prima volta riesce a farlo con il benestare di Washington. Trump, da una parte bastonando l’Unione Europea e accusando Kyiv dello scoppio della guerra, dall’altra annunciando un incontro col presidente russo entro fine mese, concede a Putin una vittoria comunicativa e politica che l’autocrate russo cercava da 25 anni: poter vendere al proprio pubblico interno, ma ancora di più all’estero, le relazioni USA-Russia come fra pari.

Una possibile, probabile e tragica pace imperiale che profuma di anni ‘30, per l’esclusione di Kyiv, ma che sa anche di Guerra Fredda, sebbene i rapporti di potere siano in realtà incomparabili, al di là della propaganda del Cremlino e delle concessioni di Trump. Nonostante la retorica, e seppur trainata dall’economia di guerra, Mosca impero non lo è più da tempo: e davanti alla facciata di grandezza appare chiara l’ombra cinese, non pronta tuttavia a formalizzare un’alleanza a lungo termine con due partner che ritiene inaffidabili come Russia e Corea del Nord, e piuttosto incline a voler sfruttare un disimpegno statunitense dall’Europa ma pure dall’Ucraina stessa.

Nel tentativo di coordinare una risposta, il presidente francese Emmanuel Macron ha organizzato una riunione emergenziale con Von der Leyen e i principali capi di Stato europei. Il tema sullo sfondo dell’incontro parigino era delineare una strategia chiara e condivisa per difendersi, a lungo termine, dall’aggressività di Mosca alla luce del disimpegno americano. I principali giornali europei, tra cui quelli più vicini a Bruxelles come Politico Europe, hanno sottolineato come i leader europei non abbiano trovato una “risposta pronta” alla bomba di Trump. 

Un obiettivo difficile, considerando pure le imminenti elezioni in Germania dove l’amministrazione trumpiana sostiene l’estrema destra di AfD, chiarendo in modo emblematico il piano globale di Trump – che poi è quello del Cremlino da metà anni ‘10: sfaldare l’Europa dall’interno, rendendola irrilevante di fronte al nuovo ordine globale, che più che di multipolarismo pare ora assumere la forma dell’anarchia. Un avvertimento parzialmente raccolto anche dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas. Una possibile alleanza tra Washington e Mosca, è un rischio esistenziale per l’Europa unita in quanto tale, avvertono i francesi.

In attesa di capire cosa sarà del piano da 700 miliardi euro per il sostegno all’Ucraina ipotizzato a Monaco, tra gli altri, dalla Ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock (a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato), ci sono state decisioni minori, come l’approvazione di un pacchetto di aiuti militari da 6 miliardi di euro. 

Ci si aspetta, però, che ulteriori risposte sulla strategia europea possano arrivare dal secondo meeting emergenziale di oggi 19 febbraio, di nuovo a Parigi, esteso a un gruppo più ampio di paesi, tra cui alleati ferrei di Kyiv come i paesi baltici, Canada e Norvegia. Durante il quale, idealmente, dovrebbero fare da faro le indicazioni di Mario Draghi per cui “l'UE è il principale nemico di sé stessa”: di fronte alla prospettiva concreta di rimanere soli, bisogna superare il tempo dei veti incrociati e delle attese.

Cosa sta cambiando?

Di certo non per decenni, ma per circa un anno la narrazione è stata quella di uno stallo sul campo di battaglia in Ucraina, dopo l’eroica resistenza di Kyiv tra il 2022 e l’inizio del 2023 che aveva portato alla difesa della capitale ucraina e alla liberazione di Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Kherson. 

Dopo la caduta di Bakhmut nella primavera del 2023, la guerra è diventata un lento logoramento che ha leggermente avvantaggiato il Cremlino, per lo meno dal punto di vista quantitativo - quel che conta di più per Putin, d’altronde.

Poche centinaia di metri quadrati al giorno, in media, di avanzata, al costo di centinaia di migliaia di vite perse - da una parte, come dall’altra. Secondo la maggioranza degli analisti, molte più per i russi che hanno pure dovuto cercare alleanze inedite come quella con la Corea del Nord nella difesa dell’oblast’ di Kursk, o con l’Iran a metà 2022 sui droni Shaheed, per portare avanti la distruzione di quello che la propaganda russa ha sempre definito un ‘paese fratello’.

In tre settimane Trump ha spazzato via l’incertezza che aleggiava negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden. Da diversi mesi si parlava di possibili quanto vaghi colloqui di pace riguardanti i territori occupati da Mosca, circa il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Ucraina. Trump e Vance hanno trasformato questa incertezza in caos durante la Conferenza di Monaco, tenutasi nello scorso fine settimana.

La nuova amministrazione repubblicana ha gradualmente alzato l’asticella comunicativa: da una parte bistrattando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, chiarendo come un obiettivo secondario di Trump sia sentenziare la sua morte politica, dall’altra usando più la carota che il bastone con il Cremlino - quest’ultima una tattica priva di credibilità e sostegno, soprattutto all’interno dell’UE e soprattutto a Kyiv. Zelensky continua a ripetere come l’Ucraina non accetterà alcun ultimatum da parte russa.

Prima di essere esclusa dal tavolo di Riyad, Bruxelles ha ricordato a Trump di dover essere considerata parte di eventuali trattative. Lo stesso aveva dovuto fare Zelensky dopo la telefonata fra il presidente russo e quello americano: gli avvenimenti del 12 febbraio hanno definito un ordine di autorità, se non di preferenza, fra le due parti nell’astratto (ma sempre più concreto e cinico) piano di pace di Trump: Putin prima, Zelensky poi. Una rivoluzione rispetto all’approccio di Biden e dell’amministrazione democratica. 

Una rivoluzione in parte scontata, ma ugualmente una doccia fredda per uno Zelensky che era apparso, fino alla scorsa settimana, più concessivo nei confronti della retorica trumpiana, ma negli scorsi giorni sempre più veementemente ha cominciato a esprimere la propria rabbia e frustrazione per la tattica americana.

All’attesa Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, iniziata venerdì 14 febbraio, il vice-presidente JD Vance ha offerto un esempio di quella strategia comunicativa teorizzata da Steve Bannon che, in un’intervista di qualche anno fa, disse: “Il partito di opposizione sono i media. E i media, poiché stupidi e pigri, possono concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto ciò che dobbiamo fare è inondarli. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una sola, e riusciremo a fare tutto ciò che vogliamo. [...] Ma dobbiamo iniziare alla velocità della luce”. 

Vance, che in campagna elettorale aveva detto che la guerra in Ucraina è un problema dell’Europa, ha aperto la Conferenza di Monaco ipotizzando l’invio di soldati statunitensi a supporto di Kyiv qualora Mosca sabotasse le trattative, smentendo peraltro le dichiarazioni di appena due giorni prima del suo segretario alla Difesa, Pete Hegseth. 

Poche ore dopo, Vance smentiva doppiamente sé stesso, dicendo come si potrebbe arrivare “a un accordo ragionevole” per entrambe le parti: è il gioco delle parti della diplomazia del nuovo ordine trumpiano, non solo tra diversi esponenti del cerchio ristretto del presidente (e autoevidente nel Grand Old Party nel suo complesso) ma anche fra le loro molteplici personalità, come dimostrato dallo show bavarese di Vance, che ne ha avuto per tutti, soprattutto l’Unione Europea intesa come coalizione di forze politiche diverse dall’estrema destra sostenuta oggi da Washington (e foraggiata nell’ultimo decennio dal Cremlino).

Se le prime due settimane di presidenza di Trump si sono concentrate a smantellare l’ordine interno e su Gaza per quanto riguarda la politica estera, febbraio segna il mese di Kyiv e Mosca. Nella strategia di Washington a breve termine, ciò implica l’esclusione della prima.

Cosa ci aspetta?

La nuova fase aperta ufficialmente il 12 febbraio, in qualche modo prevista dalle analisi delle settimane precedenti che ha confermato, seppur non ancora nei fatti quanto più sul piano simbolico, l’avvio di una nuova fase della guerra in Ucraina e più in generale dei mutevoli equilibri globali: la possibile, probabile e, per almeno una e mezza delle parti in causa, desiderabile spartizione di uno Stato sovrano, evento a cui assistiamo in diretta per la prima volta da 80 anni. 

Con conseguenze imprevedibili per l’ordine internazionale, e anche questo è stato ripetuto a lungo negli ultimi tre anni. Mentre, al contrario, viene spesso dimenticato il destino di quelle milioni di persone che a Mariupol’, Donec’k, Berdyans’k e Luhans’k ci abitano.

Prima le proposte, da parte di Trump, più strampalate, ad esempio il ricatto sulle terre rare, e la sua nemmeno troppo velata retorica neocoloniale, espressa nel piano segreto che puntava a ottenere un controllo economico quasi totale sull’Ucraina, chiedendo a Kyiv un “risarcimento” di 500 miliardi di dollari in merito agli aiuti americani degli ultimi tre anni. Una retorica che punta a colpevolizzare l’Ucraina, rinforzata dalle dichiarazioni di Trump per cui sarebbe il paese invaso e non il Cremlino ad aver provocato lo scoppio della guerra.

Tattiche comunicative e negoziali utili a confondere l’opinione pubblica e indebolire ulteriormente (nel tentativo ultimo di umiliare) la fragile posizione di Kyiv che si siederebbe al tavolo delle trattative in una posizione decisamente svantaggiata rispetto ad appena un anno fa. Nel farlo, il presidente americano ha persino dichiarato che “l’Ucraina potrebbe essere russa un giorno”, confermando paradossalmente i fondati timori sia ucraini che europei che le trattative annunciate saranno una tregua a orologeria, più che una pace duratura, nonostante le dichiarazioni dell’establishment americano puntino a narrare l’esatto opposto.

Il nuovo corso repubblicano getta benzina sul fuoco sulla difficile situazione interna di Kyiv, in cui il reclutamento è sempre più tortuoso (è d’altronde complicato trovare motivazioni, dopo tre anni di sofferenza, quando viene a mancare il senso complessivo della lotta di resistenza dopo il tradimento del principale alleato, che Zelensky ha paragonato a quello avvenuto in Afghanistan) e l’ordine politico sempre più caotico, come dimostrato dalle sanzioni ad personam verso l’ex presidente Petro Poroshenko, insieme ad altri oligarchi, approvate da Zelensky proprio il giorno successivo alla telefonata Putin-Trump.

Una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino, che persevera nella narrazione del ‘presidente illegittimo’.

Proprio il suo avversario Poroshenko, in un’intervista al media ucraino Censor.net dello scorso 16 febbraio, ha invitato “ad annotare questa data: 26 ottobre”. Poroshenko dichiara di avere le prove per cui le elezioni si terranno quel giorno: a quanto dice l’ex presidente ucraino la commissione elettorale centrale sta aggiornando i propri registri, mentre lo stabilimento tipografico 'Ucraina' “sta già elaborando quante schede elettorali saranno necessarie”.

Al di là della popolarità in discesa di Poroshenko, gli inside politici a Kyiv sono spesso manovrati dall’alto, e non sarebbe sorprendente se l’informazione sia arrivata all’ex presidente proprio da ambienti vicini all’attuale amministrazione per affossarne il futuro politico. In ogni caso, confermano come l’Ucraina stia entrando, probabilmente controvoglia, verso una nuova confrontazione politica interna. 

Mentre la guerra continua, e poche ore dopo Riyad alcuni droni russi dal Mar Nero attaccano quella che la propaganda del Cremlino definisce una delle città madri russe, Odessa, la stessa intelligence statunitense sottolinea come al momento non si scorgano reali volontà di Putin di fermare la guerra.

Le previsioni di Poroshenko d’altro canto affascinano gli amanti delle dietrologie e degli incastri celesti nella politica internazionale. Il 26 ottobre cade sei mesi dopo la data scelta da Trump, secondo Bloomberg, per il cessate il fuoco che aprirebbe a nuove elezioni. E dopo queste alla firma della pace da parte del nuovo governo ucraino, secondo fonti diplomatiche il più filorusso possibile nei desideri di Mosca e Washington, ispirate dallo ‘spirito di Riyad’.

La data è quella del 20 Aprile, celebrazione, quest’anno, della Pasqua sia di rito cattolico che ortodosso. Aspettando di comprendere fino in fondo quale mondo ci si troverà davanti fra due mesi: Trump si è insediato da meno della metà.

Immagine in anteprima: frame video FirstPost via YouTube

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

Immagine in anteprima: frame video Mediaset Infinity

Tutte le bugie di Trump su Zelensky e l’Ucraina

In questi giorni in cui proseguono i colloqui con la Russia di Putin per la ‘pace imperiale’ imposta all’Ucraina, alle spalle di Kyiv e Bruxelles, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha rilasciato una serie di dichiarazioni, nel migliore dei casi controverse e nel peggiore dei casi completamente false e fuorvianti, sull’Ucraina e su Zelensky. Diverse testate giornalistiche hanno verificato le affermazioni di Trump. Abbiamo raccolto le principali.

All'Ucraina: non avreste mai dovuto iniziare (la guerra)

Trump: “Ma oggi ho sentito: 'Oh, beh, non siamo stati invitati'. Beh, siete stati lì per tre anni. Avreste dovuto farla finita tre anni fa. Non avreste mai dovuto iniziare. Avreste potuto fare un accordo”.

I fatti: Le autorità ucraine hanno espresso insoddisfazione per non aver preso parte ai colloqui di Riad. Ma Trump ha respinto queste affermazioni, dicendo ai giornalisti che l'Ucraina aveva avuto tre anni per porre fine alla guerra, facendo intendere che è stata Kyiv a iniziare il conflitto. In buona sostanza Trump è parso riprendere le posizioni della Russia. Nel febbraio 2024 il presidente russo Putin ha detto al conduttore statunitense Tucker Carlson: “Sono stati loro ad iniziare la guerra nel 2014. Il nostro obiettivo è fermare questa guerra. E non abbiamo iniziato questa guerra nel 2022”.

L'invasione russa dell'Ucraina non è stata provocata ed è stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale come un atto di aggressione. La Russia ha lanciato un'invasione su vasta scala dell'Ucraina nel febbraio 2022, dopo aver annesso la Crimea nel 2014. Come ricostruisce la storica statunitense Heather Cox Richardson nella newsletter Letter from America, l’annessione è avvenuta dopo che il presidente filorusso dell'Ucraina, Yanukovich, era stato spodestato dopo mesi di manifestazioni popolari. I cittadini ucraini protestavano per la decisione dell’allora presidente di interrompere la cooperazione con l’Unione Europea e accettare un prestito della Russia di tre miliardi di dollari, prima tranche di un piano complessivo di salvataggio da 15 miliardi di dollari, come aveva sostenuto all'epoca il ministro delle finanze russo Anton Siluanov.

La Russia ha anche sostenuto le forze che hanno occupato alcune zone dell'Ucraina orientale e ha accusato il nuovo governo di Kyiv di discriminazione e genocidio contro i russofoni. Accuse respinte dalla Corte internazionale di giustizia.

Dopo il fallimento degli accordi che miravano a porre fine al conflitto post-2014, la Russia ha iniziato un massiccio spiegamento di truppe al confine con l'Ucraina nella primavera del 2021. Putin ha lanciato l'invasione il 24 febbraio 2022, affermando che lo scopo dell'operazione era “demilitarizzare e denazificare” il governo filo-occidentale di Volodymyr Zelensky e impedire al paese di aderire alla NATO. Ma nelle elezioni del 2019, i partiti di estrema destra avevano preso appena il 2% e va sottolineato che Zelensky è ebreo e il suo partito è stato considerato centrista. Per quanto riguarda la NATO, non è stato avviato alcun processo formale di adesione dell’Ucraina, sebbene nel 2019 il governo di Poroshenko abbia deciso di inserire in Costituzione l’adesione alla NATO.

Nel periodo precedente all'invasione russa dell'Ucraina, Zelensky si è offerto ripetutamente di incontrare la sua controparte russa. Cinque giorni prima che le truppe russe entrassero in Ucraina, Zelensky ha dichiarato: “Siamo pronti a sederci e parlare. Scegliete la piattaforma che preferite”.

Per dissuadere Mosca dal lanciare l'invasione, gli Stati Uniti hanno declassificato e pubblicato rapporti dei servizi segreti che rivelavano i piani di attacco della Russia, avvertendo che sarebbero seguite dure sanzioni economiche se il Cremlino avesse proceduto.

Nei giorni e nelle settimane successive all'invasione, i negoziatori ucraini e russi hanno tenuto diversi cicli di colloqui in Bielorussia e Turchia. Tuttavia, le richieste della Russia erano massimaliste, inclusa la parziale smilitarizzazione dell'Ucraina che avrebbe di fatto paralizzato la capacità del paese di difendersi in futuro.

Anche Mike Pence, vicepresidente di Trump durante il suo primo mandato, ha voluto precisare in un post su X: “Signor Presidente, l'Ucraina non ha ‘iniziato’ questa guerra. La Russia ha lanciato un'invasione brutale e non provocata, che ha causato centinaia di migliaia di vittime”.

Zelensky è impopolare e impedisce le elezioni

Trump: “Abbiamo una situazione in cui non abbiamo avuto elezioni in Ucraina. Beh, abbiamo la legge marziale, essenzialmente la legge marziale in Ucraina, dove il leader in Ucraina, voglio dire, odio dirlo, ma ha un indice di gradimento del 4% e dove un paese è stato fatto a pezzi. La maggior parte delle città sono distrutte.”

I fatti: Le parole di Trump ricalcano quanto affermato a più riprese dal Cremlino. Il 28 gennaio il presidente russo Putin ha definito Zelensky “illegittimo”, in un’intervista ai media russi, proprio perché il suo mandato è terminato.

In effetti, il mandato quinquennale di Zelensky avrebbe dovuto concludersi nel maggio 2024. Tuttavia, l'Ucraina è sotto legge marziale dall'invasione russa del febbraio 2022, il che significa che le elezioni sono sospese. Ma c’è un però.

Le leggi marziali in Ucraina non nascono con Zelensky, sono state redatte nel 2015, poco dopo l'annessione della penisola di Crimea da parte della Russia e anni prima che Zelensky e il suo partito salissero al potere. 

Per quanto riguarda il consenso, Zelensky è diventato presidente dell’Ucraina nel 2019, ottenendo al ballottaggio il 73% dei voti in elezioni definite dall’OSCE “competitive e [dove] le libertà fondamentali sono state generalmente rispettate”.

Sebbene la popolarità del presidente ucraino sia diminuita dall'inizio dell'invasione russa, un sondaggio di febbraio condotto dall'Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev ha rilevato che il 57% degli ucraini si fida del presidente, in aumento rispetto al 52% di dicembre.

Altri sondaggi sembrano vedere in vantaggio il più diretto rivale di Zelensky, l'ex capo dell'esercito Valerii Zaluzhnyi, e in ogni caso prospettano un ballottaggio tra i due.

Zelensky ha promesso di indire nuove elezioni una volta terminato il conflitto e deve ancora confermare la sua intenzione di candidarsi. Alcuni esperti hanno osservato che sarebbe praticamente impossibile tenere elezioni in Ucraina prima della fine del conflitto, poiché persistono gli attacchi russi su molte città e milioni di cittadini sono sfollati all'estero o vivono sotto l'occupazione russa.

“La nostra posizione è che durante una guerra non c'è spazio per la politica, e soprattutto non per le elezioni”, ha dichiarato Valentyn Nalyvaichenko, un parlamentare del partito Patria dell'ex primo ministro Yulia Tymoshenko ed ex capo dell'agenzia di sicurezza SBU. “Sarebbe la fine per l'Ucraina. Iniziare un'attività politica o elettorale significherebbe la vittoria di Putin il giorno dopo”.

L'ex presidente Poroshenko ha dichiarato di avere le prove per cui le elezioni si terranno il 26 ottobre. Resta da capire quanto le sue affermazioni siano solide. Resta il fatto che una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza che non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino.

Gli Stati Uniti danno più aiuti all'Ucraina rispetto all'Europa

Trump: “Credo che il presidente Zelensky abbia detto la scorsa settimana di non sapere dove sia finita metà dei soldi che gli abbiamo dato. Beh, credo che gli abbiamo dato 350 miliardi di dollari, ma diciamo che è qualcosa di meno. Ma è molto, e dobbiamo pareggiare con l'Europa perché l'Europa ha dato una percentuale molto più piccola di quella.

Penso che l'Europa abbia donato 100 miliardi di dollari e noi abbiamo donato, diciamo, più di 300 miliardi, ed è più importante per loro che per noi. Abbiamo un oceano in mezzo e loro no. Ma dove sono finiti tutti i soldi donati? Dove stanno andando? E non ho mai visto un resoconto. Noi doniamo centinaia di miliardi di dollari”.

I fatti: Ci sono molti numeri che girano, con diverse metodologie utilizzate per calcolare i singoli contributi. Secondo l’Ukraine Support Tracker dell'Istituto Kiel per l'economia mondiale, l'Europa, considerata come la somma dell'UE e dei singoli Stati membri, ha stanziato 132,3 miliardi di euro in aiuti all'Ucraina, contro i 114,2 miliardi di euro degli Stati Uniti. A questi, sempre secondo il tracker, si aggiungerebbero altri 115 miliardi di euro.

I maggiori contributi in percentuale del PIL sono stati effettuati da Estonia e Danimarca (2,5%), Lituania (2,1%), Lettonia (1,8%), Finlandia (1,3%), Svezia e Polonia (1,2%).

Martedì, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto notare all'inviato USA in Ucraina, Keith Kellogg “il ruolo fondamentale dell'UE nel garantire la stabilità finanziaria e la difesa dell'Ucraina”, sottolineando “più di ogni altro alleato”.

Il segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha dichiarato la scorsa settimana che nel 2024: “Gli alleati della NATO hanno fornito oltre 50 miliardi di euro in assistenza alla sicurezza all'Ucraina, di cui quasi il 60% proveniente dall'Europa e dal Canada”.

Inoltre, quando Zelensky dice di non sapere dove siano finiti i soldi degli aiuti americani, sta in realtà mettendo in discussione le cifre fornite da Trump. Queste le parole del presidente ucraino all’Associated Press il 2 febbraio: “Come presidente di una nazione in guerra, posso dirvi che abbiamo ricevuto più di 75 miliardi di dollari. (...) Stiamo parlando di cose tangibili perché questo aiuto non è arrivato in contanti ma piuttosto sotto forma di armi, che ammontavano a circa 70 miliardi di dollari. Ma quando si dice che l'Ucraina ha ricevuto 200 miliardi di dollari per sostenere l'esercito durante la guerra, non è vero”, ha detto Zelensky. “Non so dove siano finiti tutti quei soldi. Forse è vero sulla carta con centinaia di programmi diversi, non lo metto in discussione, e siamo immensamente grati per tutto. Ma in realtà abbiamo ricevuto circa 76 miliardi di dollari. È un aiuto significativo, ma non sono 200 miliardi di dollari“. 

In sintesi, Zelensky non ha fatto altro che ribadire quanto diversi esperti negli Stati Uniti e altrove hanno ripetutamente sottolineato, e cioè che gran parte degli aiuti USA all’Ucraina non sono arrivati sotto forma di denaro consegnato al governo ucraino.

Come scriveva lo scorso maggio, ad esempio, il think tank Center for Strategic and International Studies: “Il concetto di ‘aiuto all'Ucraina’ è improprio. Nonostante le immagini di “pacchi di denaro” inviati all'Ucraina, circa il 72% di questo denaro in generale e l'86% degli aiuti militari saranno spesi negli Stati Uniti. La ragione di questa percentuale elevata è che le armi destinate all'Ucraina sono prodotte in fabbriche statunitensi, i pagamenti ai membri delle forze armate statunitensi sono per lo più spesi negli Stati Uniti e anche una parte degli aiuti umanitari viene spesa negli Stati Uniti”.

La Russia non sta schierando tutto il suo potenziale militare in Ucraina

Trump: “La Russia non intende distruggere Kiev, se avesse voluto, l'avrebbe già fatto. La Russia è in grado di spazzare via al 100% le città ucraine, compresa Kiev, ma al momento sta attaccando solo al 20%.”

I fatti: non ci sono indicazioni che la Russia abbia accumulato armi o trattenuto le sue capacità militari nella lotta. Anzi, in base alle informazioni a disposizione, la Russia ha scatenato tutta la sua forza militare, compresi missili e artiglieria a lungo raggio, sulle città ucraine, causando una distruzione diffusa, in particolare nella parte orientale.

Mentre le sue scorte diminuivano, Mosca ha fatto ricorso ai missili nordcoreani che continuano a colpire le città ucraine. 

La Russia vuole fermare la guerra

Trump: “Beh, molto più fiduciosi [sui colloqui]. Sono stati molto buoni. La Russia vuole fare qualcosa. Vogliono fermare la barbarie selvaggia”.

I fatti: i funzionari russi, compreso il presidente Vladimir Putin, hanno ripetutamente dichiarato che non fermeranno i combattimenti in Ucraina finché tutti gli obiettivi di Mosca non saranno raggiunti, sia attraverso la diplomazia che con la forza militare.

Putin ha già chiesto la “demilitarizzazione dell'Ucraina” e ha detto di volere il pieno controllo di quattro regioni dell'Ucraina orientale e meridionale – Donetsk, Kherson, Zaporizhzhia e Luhansk – che la Russia attualmente occupa in parte.

Secondo quattro funzionari dell'intelligence occidentale e due funzionari del Congresso degli Stati Uniti, le informazioni provenienti dagli Stati Uniti e dai paesi alleati, citate martedì dai media statunitensi, suggeriscono che Putin vuole ancora controllare tutta l'Ucraina.

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