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Ucraina

Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via freemalaysiatoday.com

Il pacifismo a targhe alterne che vuole lasciare l’Ucraina in balia della Russia

Dal giorno dell’invasione dell’Ucraina la parola “pace” è stata invocata nelle piazze, nelle televisioni, nei giornali e nei social. Chi d'altronde potrebbe sostenere altro oppure volere la guerra?

Anche il voltafaccia di Trump e l’ambiguità con cui Putin ha rifiutato la tregua, sono motivati da entrambi in nome della “pace”. Lo stesso dibattito sulla necessità dell'Europa di avere una sua autonoma politica di difesa, e quindi di investimenti adeguati, avviene su diverse e spesso opposte concezioni di cosa significhi pace, di come si sia realizzata e di come vada assicurata nel futuro.

Tra i molti ad avere un'opinione opposta è utile segnalare Carlo Rovelli, per cui Trump ha persino un ruolo positivo nello scongiurare una possibile “Terza guerra mondiale” e una possibile forza di pace al servizio del disarmo globale. 

Il tema della pace però non coincide in automatico con il pacifismo, così come il pacifismo è cosa diversa dalla nonviolenza. Chi nella Seconda guerra mondiale sconfisse il nazifascismo voleva la pace senza essere pacifista. Pannella, il politico che ha fatto proprio lo strumento della nonviolenza in Italia, delineava la differenza netta con il pacifismo.

Non esiste un movimento pacifista che abbia il monopolio della pace. Non esiste una risposta a cosa sia, essendo diversa per luogo, epoca e da chi lo organizza. Il pacifismo ha sempre avuto un'azione collettiva di massa all’opposto della nonviolenza che si realizza anche con azioni individuali di disobbedienza civile.                                                                                                                

Si può però provare una suddivisione in “pacifismo assoluto” e “pacifismo relativo”. 

Possiamo pensare il pacifismo assoluto come una teoria ed una pratica coerente, utopico ed intransigente senza compromessi di sorta. Potrebbe essere derivato da una idea nonviolenta originata da una filosofia o una corrente religiosa. Più difficilmente da una scelta politica. Rifiutare l'uso della violenza senza compromessi di sorta, fino all'estremo di essere disposti a subirla, si basa sulla fiducia che l'altro, il nemico, sia capace di compiere la stessa valutazione. Che attraverso la parola e l'ascolto si disarmi ogni conflitto. 

Gandhi, durante la Prima guerra mondiale pensava che gli indiani dovessero contribuire alla difesa, poiché solo così avrebbe avuto senso chiedere uguali diritti come parte dell’Impero britannico. Il 12 dicembre del 1931 incontra Mussolini, che di lui dice “è un santone, un genio che usa la bontà come arma”. Verso Mussolini non nasconde ammirazione: “Molte delle riforme che ha fatto mi attirano, perché le ha fatte in nome e per l’interesse del suo popolo. Però le ha fatte col guanto di ferro e la costrizione”. Riconosce inoltre ai suoi discorsi un “nocciolo” di “sincerità e di amore appassionato per il suo popolo”, arrivando ad affermare che i suoi metodi non sono diversi da quelli di altri Stati democratici. 

Dopo l’accordo di Monaco del 1938, che consegna la regione dei Sudeti alla Germania prima difende Francia e Gran Bretagna, e dopo invita la Cecoslovacchia a non chiedere il loro intervento armato  fino a “perire disarmati”. Il 23 luglio del 1939 e il 24 dicembre del 1940 scrisse due lettere a Hitler chiamandolo “caro amico" invitandolo a fermare la guerra.

Rivolto ai britannici che si stanno difendendo dice: “abbandonate le armi che impugnate, [...] invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola, con tutto ciò che di grande e di bello contiene”. Vorrebbe offrire un appoggio morale e nonviolento alla resistenza britannica ma si trova contro gli stessi membri del congresso indiano. Media la sua opinione e afferma che l’India può partecipare alla guerra solo se insieme alla libertà per gli inglesi si sarebbe affermata la libertà per gli indiani. 

Quello di Gandhi è un percorso complesso e non lineare che, soprattutto quando attiene all’India, individua delle mediazioni ma progressivamente lo porta a una radicalità utopica della nonviolenza. 

La stessa Chiesa, che per secoli ha avuto le sue armate o benedetto quelle di altri, ha approfondito il tema del diritto alla  difesa. Durante la guerra in Bosnia, Papa Giovanni Paolo II disse:  

Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati attuati e, nonostante ciò, le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza [...] I principi di sovranità degli Stati e di non ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere.

Il 23 gennaio del 1994 durante l’Angelus affermò:

Non dobbiamo rassegnarci! Agli organismi competenti rimane la responsabilità di non tralasciare nulla di quanto è umanamente possibile per disarmare l'aggressore e creare le condizioni di una giusta e durevole pace.

Alexander Langer e Don Tonino Bello organizzano marce contro la Guerra del Golfo, ma si trovano impotenti davanti alla guerra in Bosnia e all’assedio di Sarajevo.

Langer, pacifista e nonviolento, promotore dell’appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo ricorda come chiedendo al Presidente francese Chirac per impedire i massacri e l’assedio di Sarajevo fosse invitato a non dividere il conflitto in buoni e cattivi. 

Don Tonino Bello, nel dicembre del 1992, dopo essere stato a Sarajevo “tornò pieno di dubbi, e non li nascose, aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione della pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, era sicuro di una cosa: che la pace, per affermarsi, ha bisogno anzitutto di persone pacifiche e mezzi pacifici”. 

Langer era convinto della possibilità di evitare ogni intervento armato, ma fu posto di fronte al dilemma di come impedire che l’uso della guerra costringesse i più deboli e indifesi a soccombere. Visse l'impossibilità di risolvere quel contrasto mettendo fine alla sua vita. Nel 2021 Alexander Langer è diventato cittadino onorario di Sarajevo. 

Sono tre esempi diversi che non tracciano una conclusione coerente, se non il dilemma che queste persone ebbero di fronte alla guerra e all’azione nonviolenta. Il pacifismo assoluto è quindi un'opzione utopica, mai messa in pratica in uno scenario bellico dove potrebbe arrestarsi davanti a una volontà opposta, contro la quale il diritto alla difesa non può non essere preso in esame.

Un pacifismo assoluto non può essere invece usato strumentalmente, diventare un escamotage per non decidere chi ha violato le regole del diritto internazionale o quale in un conflitto è la parte che va difesa e sostenuta. Aiuta queste riflessioni il libro di Norberto Bobbio Una guerra giusta? scritto dopo l’inizio della prima guerra del Golfo, e dove il filosofo risponde al quesito se quella guerra fosse giusta o ingiusta, se fosse efficace o inefficace. Approfondisce temi quali la sua proporzionalità nella risposta e i limiti per riconfermare il principio di legittimità.  

Il pacifismo relativo è all'opposto un pacifismo portato direttamente all'interno di più ampie scelte politiche e ideologiche. Ovviamente quando non ci sono guerre il pacifismo non genera un dibattito essendo la pace un principio, un valore assoluto. Ritorna solo quando lo si vuole contrapporre, con la sua aura di purezza, in opposizione a un fatto contingente che avviene. Dichiararsi pacifisti, individualmente o per mezzo di organizzazioni politiche o sociali, significa quasi sempre porsi immediatamente in ogni dibattito al di sopra, in una posizione di vantaggio anche psicologico. 

Chi si dichiara pacifista vuole la pace. Chi non lo è cosa vuole se non il suo opposto ovvero una guerra? Lo schema è insieme brutale, semplice e anche persuasivo. 

Prima della Seconda guerra mondiale gli Stati avevano tutti un ministero della guerra e spesso un ministero per ogni forza armata. La guerra era considerata non una eventualità remota, ma un'opzione inevitabile del proprio paese. Si era sempre pronti alla guerra che era il meccanismo naturale a cui anche i popoli erano preparati. La guerra faceva parte della vita delle persone. 

Dopo la Seconda guerra mondiale il cambiamento è stato radicale. Oggi esistono solo ministeri della Difesa (mai con militari al comando) e il loro ruolo è subordinato alla politica. 

Da ottanta anni nei paesi che fanno parte dell’Unione Europea abbiamo vissuto un periodo di pace nel primo periodo della sua storia senza guerre entro i confini. La domanda è: perché? Perché questi decenni sono il risultato profondo, insieme politico e filosofico, di una azione umana che ha costruito un nuovo diritto internazionale e una comunità istituzionale nata per raggiungere l'obiettivo della pace.

Organismi e strumenti imperfetti e che non hanno debellato il ricorso alla guerra nel mondo, ma che pure hanno costituito un cambio di paradigma e hanno retto un’idea diversa di civiltà, una promessa realizzabile.

Storie e culture diverse, ma certo il frutto di una lunga epoca sanguinosa da superare e che ha fatto nascere scelte e volontà di pace fin dalle intuizioni del Manifesto di Ventotene per l'Europa libera e unita.

La guerra non doveva più essere lo strumento di soluzione dei conflitti, economici o territoriali o religiosi, tra gli Stati. Per impedire il ripetersi delle guerre tra le Nazioni bisognava associarle in qualcosa di più grande. Non un destino nazionale ma europeo e sovranazionale. 

Il pacifismo del dopoguerra è stato invece uno strumento politico nettamente schierato. I Partigiani della pace usavano il lessico della pace, ma trovavano una sua collocazione politica sia dentro i paesi del blocco sovietico sia nei movimenti politici e nazionali, armati, del terzo mondo. Il pacifismo organizzato è stato collaterale a organizzazioni politiche o sociali o religiose e ha sempre scelto quali guerre avversare,meritevoli della protesta, e quali ritenere legittime o da giustificare. 

L’occupazione della Crimea nel 2014 e l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022 hanno rotto decenni di pace e anche di guerra fredda. Una guerra in cui la Russia ha finalità coloniali e imperiali che riportano ai miti sia zaristi che sovietici.

Da subito il movimento pacifista ha scelto con estrema ambiguità di parlare di pace senza però chiarire chi aveva violato quella pace. Non solo non scegliendo da che parte stare, ma non dando un giudizio sulle responsabilità della guerra, oppure ponendolo tra molti “ma”. 

Secondo questa prospettiva, usando concetti da pace assoluta, gli ucraini dovrebbero usare la nonviolenza e paesi come l’Italia non dovrebbero dare armi per difendersi e quindi favorire la guerra. Oppure si relativizza talmente il concetto da finire per usare gli stessi argomenti della propaganda russa.

Motivazioni che hanno resistito a qualunque obiezione e vengono ripetute ancora oggi. Dal “colpo di Stato del 2014”, alle minoranze russe represse, all’allargamento della NATO, al governo nazista, alla pace impedita ora da Zelensky, ora da Biden, ora da Boris Johnson.

Se la collocazione ideologica ha sempre e solo avversato l'occidente, risulta conseguente non vedere le responsabilità in altri Stati anche di fronte a una invasione. Così mentre si nega il diritto dell'Ucraina di difendersi non si chiede alla Russia di ritirarsi o di non usare armi iraniane o soldati della Corea del Nord. 

La stessa freddezza che ha accolto la possibile tregua di un mese è un segnale inequivocabile. “Cease fire” per Gaza, ma silenzio per l’Ucraina e nessun sit-in di fronte all’ambasciata russa.

Nello stesso momento due richieste opposte, ma coerenti nella visione di un pacifismo relativo che si nutre di una propaganda antioccidentale. In questi tre anni abbiamo visto identiche posizioni così sovrapponibili da non poter distinguere sia di movimenti di destra che di sinistra o populisti. Non esiste in Italia un movimento di massa che invochi il diritto internazionale per la lettura di conflitti, guerre e occupazioni, ma solo un suo arruolamento selettivo su base ideologica".

Sono parte - volontaria o meno - di una diversa guerra, quella ibrida condotta dalla Russia, per costruire consenso nell’occidente. Persino scelte nonviolente quali le sanzioni economiche sono bollate come inutili e controproducenti. Vi è evidente una oscillazione tra un pacifismo assoluto,“che dovrebbe essere sempre tale senza distinzione di luogo, tempo e soggetti coinvolti” e uno relativo, conseguenza invece delle scelte ideologiche o elettorali di chi le compie.

Una coerenza che vorrebbe imporre ad altri popoli la fine di una guerra al costo di perdite territoriali, sacrificando di fatto la propria indipendenza fino a giustificare le ragioni dell'invasore. 

Una incoerenza, sostenuta da una schiera di intellettuali di varia provenienza, che prima non ha creduto all'invasione e dopo ha attinto alle colpe “dell’occidente globale” come definito da Putin.   

Non è la NATO o l’Unione Europea che è andata a est. Ma è quell'est che è voluto diventare parte dell'Europa consapevole del proprio tragico passato uscendo dal dominio sovietico. In questo quadro è avvenuto il ribaltamento del ruolo e delle politiche degli Usa che vedono nell'Europa un nemico, arrivando a parlare di “annessione” della NATO per paesi come Finlandia e Svezia. 

Gli avvenimenti  dal 2022 a oggi hanno posto l’Europa davanti alla aggressività militare della Russia e a quella commerciale degli Stati Uniti, paesi che sembrano voler costruire e condividere un rapporto che implica la quasi esclusione della Ucraina e dell’Europa. 

Di fronte a uno sconvolgimento della storia l’Europa deve rapidamente decidere su temi su cui ha costruito il suo ruolo e le sue alleanze economiche e militari. Rapporti economici, regole commerciali, sistemi di difesa quali la NATO non sono oggi punti certi e non sarà facile capire come si muoveranno gli Stati Uniti.

Il tema della difesa è già diventato quello più urgente su cui gli stati e le opinioni pubbliche saranno costretti a confrontarsi e decidere. Oggi la Russia, su un bilancio statale di circa 400 miliardi di euro, ne destina 120 alla difesa. In Italia, invece, ne vanno circa 30 su 900 miliardi.

L'Europa deve avere un'idea politica che leghi difesa e pace non solo se e quanto  spendere. Lo hanno compreso i paesi confinanti con la Russia, a partire da quelli come la Moldavia, i Paesi Baltici, i Paesi Scandinavi (storicamente neutrali) e la Polonia. Una pace che difenda la nostra Europa mentre gli Stati Uniti ogni giorno stanno aggiungendo un mattone verso uno stato autocratico e illiberale, persino con minacce dirette a paesi come la Danimarca, attraverso i reiterati discorsi di Trump sull’annessione della Groenlandia.

Questa pace non può basarsi su falsi imitatori di Gandhi, dopo aver passato una vita ad emozionarsi e per ogni guerra di liberazione compresa la Resistenza, che nella migliore delle ipotesi si fermerebbero a scrivere una lettera al caro Putin, o a usare il pacifismo come argomento di propaganda anti-europea. 

La bandiera europea sventolava come vessillo identitario delle manifestazioni dei mesi scorsi in Georgia. Qualcuno pensa che sognano l'Europa come continente di guerra, o perché spazio di pace e democrazia opposto alla ideologia militare e nazionalista russa? 

Immagine in anteprima: Photo by Алесь Усцінаў via pexels.com

Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via freemalaysiatoday.com

Il pacifismo a targhe alterne che vuole lasciare l’Ucraina in balia della Russia

Dal giorno dell’invasione dell’Ucraina la parola “pace” è stata invocata nelle piazze, nelle televisioni, nei giornali e nei social. Chi d'altronde potrebbe sostenere altro oppure volere la guerra?

Anche il voltafaccia di Trump e l’ambiguità con cui Putin ha rifiutato la tregua, sono motivati da entrambi in nome della “pace”. Lo stesso dibattito sulla necessità dell'Europa di avere una sua autonoma politica di difesa, e quindi di investimenti adeguati, avviene su diverse e spesso opposte concezioni di cosa significhi pace, di come si sia realizzata e di come vada assicurata nel futuro.

Tra i molti ad avere un'opinione opposta è utile segnalare Carlo Rovelli, per cui Trump ha persino un ruolo positivo nello scongiurare una possibile “Terza guerra mondiale” e una possibile forza di pace al servizio del disarmo globale. 

Il tema della pace però non coincide in automatico con il pacifismo, così come il pacifismo è cosa diversa dalla nonviolenza. Chi nella Seconda guerra mondiale sconfisse il nazifascismo voleva la pace senza essere pacifista. Pannella, il politico che ha fatto proprio lo strumento della nonviolenza in Italia, delineava la differenza netta con il pacifismo.

Non esiste un movimento pacifista che abbia il monopolio della pace. Non esiste una risposta a cosa sia, essendo diversa per luogo, epoca e da chi lo organizza. Il pacifismo ha sempre avuto un'azione collettiva di massa all’opposto della nonviolenza che si realizza anche con azioni individuali di disobbedienza civile.                                                                                                                

Si può però provare una suddivisione in “pacifismo assoluto” e “pacifismo relativo”. 

Possiamo pensare il pacifismo assoluto come una teoria ed una pratica coerente, utopico ed intransigente senza compromessi di sorta. Potrebbe essere derivato da una idea nonviolenta originata da una filosofia o una corrente religiosa. Più difficilmente da una scelta politica. Rifiutare l'uso della violenza senza compromessi di sorta, fino all'estremo di essere disposti a subirla, si basa sulla fiducia che l'altro, il nemico, sia capace di compiere la stessa valutazione. Che attraverso la parola e l'ascolto si disarmi ogni conflitto. 

Gandhi, durante la Prima guerra mondiale pensava che gli indiani dovessero contribuire alla difesa, poiché solo così avrebbe avuto senso chiedere uguali diritti come parte dell’Impero britannico. Il 12 dicembre del 1931 incontra Mussolini, che di lui dice “è un santone, un genio che usa la bontà come arma”. Verso Mussolini non nasconde ammirazione: “Molte delle riforme che ha fatto mi attirano, perché le ha fatte in nome e per l’interesse del suo popolo. Però le ha fatte col guanto di ferro e la costrizione”. Riconosce inoltre ai suoi discorsi un “nocciolo” di “sincerità e di amore appassionato per il suo popolo”, arrivando ad affermare che i suoi metodi non sono diversi da quelli di altri Stati democratici. 

Dopo l’accordo di Monaco del 1938, che consegna la regione dei Sudeti alla Germania prima difende Francia e Gran Bretagna, e dopo invita la Cecoslovacchia a non chiedere il loro intervento armato  fino a “perire disarmati”. Il 23 luglio del 1939 e il 24 dicembre del 1940 scrisse due lettere a Hitler chiamandolo “caro amico" invitandolo a fermare la guerra.

Rivolto ai britannici che si stanno difendendo dice: “abbandonate le armi che impugnate, [...] invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola, con tutto ciò che di grande e di bello contiene”. Vorrebbe offrire un appoggio morale e nonviolento alla resistenza britannica ma si trova contro gli stessi membri del congresso indiano. Media la sua opinione e afferma che l’India può partecipare alla guerra solo se insieme alla libertà per gli inglesi si sarebbe affermata la libertà per gli indiani. 

Quello di Gandhi è un percorso complesso e non lineare che, soprattutto quando attiene all’India, individua delle mediazioni ma progressivamente lo porta a una radicalità utopica della nonviolenza. 

La stessa Chiesa, che per secoli ha avuto le sue armate o benedetto quelle di altri, ha approfondito il tema del diritto alla  difesa. Durante la guerra in Bosnia, Papa Giovanni Paolo II disse:  

Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati attuati e, nonostante ciò, le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza [...] I principi di sovranità degli Stati e di non ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere.

Il 23 gennaio del 1994 durante l’Angelus affermò:

Non dobbiamo rassegnarci! Agli organismi competenti rimane la responsabilità di non tralasciare nulla di quanto è umanamente possibile per disarmare l'aggressore e creare le condizioni di una giusta e durevole pace.

Alexander Langer e Don Tonino Bello organizzano marce contro la Guerra del Golfo, ma si trovano impotenti davanti alla guerra in Bosnia e all’assedio di Sarajevo.

Langer, pacifista e nonviolento, promotore dell’appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo ricorda come chiedendo al Presidente francese Chirac per impedire i massacri e l’assedio di Sarajevo fosse invitato a non dividere il conflitto in buoni e cattivi. 

Don Tonino Bello, nel dicembre del 1992, dopo essere stato a Sarajevo “tornò pieno di dubbi, e non li nascose, aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione della pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, era sicuro di una cosa: che la pace, per affermarsi, ha bisogno anzitutto di persone pacifiche e mezzi pacifici”. 

Langer era convinto della possibilità di evitare ogni intervento armato, ma fu posto di fronte al dilemma di come impedire che l’uso della guerra costringesse i più deboli e indifesi a soccombere. Visse l'impossibilità di risolvere quel contrasto mettendo fine alla sua vita. Nel 2021 Alexander Langer è diventato cittadino onorario di Sarajevo. 

Sono tre esempi diversi che non tracciano una conclusione coerente, se non il dilemma che queste persone ebbero di fronte alla guerra e all’azione nonviolenta. Il pacifismo assoluto è quindi un'opzione utopica, mai messa in pratica in uno scenario bellico dove potrebbe arrestarsi davanti a una volontà opposta, contro la quale il diritto alla difesa non può non essere preso in esame.

Un pacifismo assoluto non può essere invece usato strumentalmente, diventare un escamotage per non decidere chi ha violato le regole del diritto internazionale o quale in un conflitto è la parte che va difesa e sostenuta. Aiuta queste riflessioni il libro di Norberto Bobbio Una guerra giusta? scritto dopo l’inizio della prima guerra del Golfo, e dove il filosofo risponde al quesito se quella guerra fosse giusta o ingiusta, se fosse efficace o inefficace. Approfondisce temi quali la sua proporzionalità nella risposta e i limiti per riconfermare il principio di legittimità.  

Il pacifismo relativo è all'opposto un pacifismo portato direttamente all'interno di più ampie scelte politiche e ideologiche. Ovviamente quando non ci sono guerre il pacifismo non genera un dibattito essendo la pace un principio, un valore assoluto. Ritorna solo quando lo si vuole contrapporre, con la sua aura di purezza, in opposizione a un fatto contingente che avviene. Dichiararsi pacifisti, individualmente o per mezzo di organizzazioni politiche o sociali, significa quasi sempre porsi immediatamente in ogni dibattito al di sopra, in una posizione di vantaggio anche psicologico. 

Chi si dichiara pacifista vuole la pace. Chi non lo è cosa vuole se non il suo opposto ovvero una guerra? Lo schema è insieme brutale, semplice e anche persuasivo. 

Prima della Seconda guerra mondiale gli Stati avevano tutti un ministero della guerra e spesso un ministero per ogni forza armata. La guerra era considerata non una eventualità remota, ma un'opzione inevitabile del proprio paese. Si era sempre pronti alla guerra che era il meccanismo naturale a cui anche i popoli erano preparati. La guerra faceva parte della vita delle persone. 

Dopo la Seconda guerra mondiale il cambiamento è stato radicale. Oggi esistono solo ministeri della Difesa (mai con militari al comando) e il loro ruolo è subordinato alla politica. 

Da ottanta anni nei paesi che fanno parte dell’Unione Europea abbiamo vissuto un periodo di pace nel primo periodo della sua storia senza guerre entro i confini. La domanda è: perché? Perché questi decenni sono il risultato profondo, insieme politico e filosofico, di una azione umana che ha costruito un nuovo diritto internazionale e una comunità istituzionale nata per raggiungere l'obiettivo della pace.

Organismi e strumenti imperfetti e che non hanno debellato il ricorso alla guerra nel mondo, ma che pure hanno costituito un cambio di paradigma e hanno retto un’idea diversa di civiltà, una promessa realizzabile.

Storie e culture diverse, ma certo il frutto di una lunga epoca sanguinosa da superare e che ha fatto nascere scelte e volontà di pace fin dalle intuizioni del Manifesto di Ventotene per l'Europa libera e unita.

La guerra non doveva più essere lo strumento di soluzione dei conflitti, economici o territoriali o religiosi, tra gli Stati. Per impedire il ripetersi delle guerre tra le Nazioni bisognava associarle in qualcosa di più grande. Non un destino nazionale ma europeo e sovranazionale. 

Il pacifismo del dopoguerra è stato invece uno strumento politico nettamente schierato. I Partigiani della pace usavano il lessico della pace, ma trovavano una sua collocazione politica sia dentro i paesi del blocco sovietico sia nei movimenti politici e nazionali, armati, del terzo mondo. Il pacifismo organizzato è stato collaterale a organizzazioni politiche o sociali o religiose e ha sempre scelto quali guerre avversare,meritevoli della protesta, e quali ritenere legittime o da giustificare. 

L’occupazione della Crimea nel 2014 e l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022 hanno rotto decenni di pace e anche di guerra fredda. Una guerra in cui la Russia ha finalità coloniali e imperiali che riportano ai miti sia zaristi che sovietici.

Da subito il movimento pacifista ha scelto con estrema ambiguità di parlare di pace senza però chiarire chi aveva violato quella pace. Non solo non scegliendo da che parte stare, ma non dando un giudizio sulle responsabilità della guerra, oppure ponendolo tra molti “ma”. 

Secondo questa prospettiva, usando concetti da pace assoluta, gli ucraini dovrebbero usare la nonviolenza e paesi come l’Italia non dovrebbero dare armi per difendersi e quindi favorire la guerra. Oppure si relativizza talmente il concetto da finire per usare gli stessi argomenti della propaganda russa.

Motivazioni che hanno resistito a qualunque obiezione e vengono ripetute ancora oggi. Dal “colpo di Stato del 2014”, alle minoranze russe represse, all’allargamento della NATO, al governo nazista, alla pace impedita ora da Zelensky, ora da Biden, ora da Boris Johnson.

Se la collocazione ideologica ha sempre e solo avversato l'occidente, risulta conseguente non vedere le responsabilità in altri Stati anche di fronte a una invasione. Così mentre si nega il diritto dell'Ucraina di difendersi non si chiede alla Russia di ritirarsi o di non usare armi iraniane o soldati della Corea del Nord. 

La stessa freddezza che ha accolto la possibile tregua di un mese è un segnale inequivocabile. “Cease fire” per Gaza, ma silenzio per l’Ucraina e nessun sit-in di fronte all’ambasciata russa.

Nello stesso momento due richieste opposte, ma coerenti nella visione di un pacifismo relativo che si nutre di una propaganda antioccidentale. In questi tre anni abbiamo visto identiche posizioni così sovrapponibili da non poter distinguere sia di movimenti di destra che di sinistra o populisti. Non esiste in Italia un movimento di massa che invochi il diritto internazionale per la lettura di conflitti, guerre e occupazioni, ma solo un suo arruolamento selettivo su base ideologica".

Sono parte - volontaria o meno - di una diversa guerra, quella ibrida condotta dalla Russia, per costruire consenso nell’occidente. Persino scelte nonviolente quali le sanzioni economiche sono bollate come inutili e controproducenti. Vi è evidente una oscillazione tra un pacifismo assoluto,“che dovrebbe essere sempre tale senza distinzione di luogo, tempo e soggetti coinvolti” e uno relativo, conseguenza invece delle scelte ideologiche o elettorali di chi le compie.

Una coerenza che vorrebbe imporre ad altri popoli la fine di una guerra al costo di perdite territoriali, sacrificando di fatto la propria indipendenza fino a giustificare le ragioni dell'invasore. 

Una incoerenza, sostenuta da una schiera di intellettuali di varia provenienza, che prima non ha creduto all'invasione e dopo ha attinto alle colpe “dell’occidente globale” come definito da Putin.   

Non è la NATO o l’Unione Europea che è andata a est. Ma è quell'est che è voluto diventare parte dell'Europa consapevole del proprio tragico passato uscendo dal dominio sovietico. In questo quadro è avvenuto il ribaltamento del ruolo e delle politiche degli Usa che vedono nell'Europa un nemico, arrivando a parlare di “annessione” della NATO per paesi come Finlandia e Svezia. 

Gli avvenimenti  dal 2022 a oggi hanno posto l’Europa davanti alla aggressività militare della Russia e a quella commerciale degli Stati Uniti, paesi che sembrano voler costruire e condividere un rapporto che implica la quasi esclusione della Ucraina e dell’Europa. 

Di fronte a uno sconvolgimento della storia l’Europa deve rapidamente decidere su temi su cui ha costruito il suo ruolo e le sue alleanze economiche e militari. Rapporti economici, regole commerciali, sistemi di difesa quali la NATO non sono oggi punti certi e non sarà facile capire come si muoveranno gli Stati Uniti.

Il tema della difesa è già diventato quello più urgente su cui gli stati e le opinioni pubbliche saranno costretti a confrontarsi e decidere. Oggi la Russia, su un bilancio statale di circa 400 miliardi di euro, ne destina 120 alla difesa. In Italia, invece, ne vanno circa 30 su 900 miliardi.

L'Europa deve avere un'idea politica che leghi difesa e pace non solo se e quanto  spendere. Lo hanno compreso i paesi confinanti con la Russia, a partire da quelli come la Moldavia, i Paesi Baltici, i Paesi Scandinavi (storicamente neutrali) e la Polonia. Una pace che difenda la nostra Europa mentre gli Stati Uniti ogni giorno stanno aggiungendo un mattone verso uno stato autocratico e illiberale, persino con minacce dirette a paesi come la Danimarca, attraverso i reiterati discorsi di Trump sull’annessione della Groenlandia.

Questa pace non può basarsi su falsi imitatori di Gandhi, dopo aver passato una vita ad emozionarsi e per ogni guerra di liberazione compresa la Resistenza, che nella migliore delle ipotesi si fermerebbero a scrivere una lettera al caro Putin, o a usare il pacifismo come argomento di propaganda anti-europea. 

La bandiera europea sventolava come vessillo identitario delle manifestazioni dei mesi scorsi in Georgia. Qualcuno pensa che sognano l'Europa come continente di guerra, o perché spazio di pace e democrazia opposto alla ideologia militare e nazionalista russa? 

Immagine in anteprima: Photo by Алесь Усцінаў via pexels.com

Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via freemalaysiatoday.com

Il pacifismo a targhe alterne che vuole lasciare l’Ucraina in balia della Russia

Dal giorno dell’invasione dell’Ucraina la parola “pace” è stata invocata nelle piazze, nelle televisioni, nei giornali e nei social. Chi d'altronde potrebbe sostenere altro oppure volere la guerra?

Anche il voltafaccia di Trump e l’ambiguità con cui Putin ha rifiutato la tregua, sono motivati da entrambi in nome della “pace”. Lo stesso dibattito sulla necessità dell'Europa di avere una sua autonoma politica di difesa, e quindi di investimenti adeguati, avviene su diverse e spesso opposte concezioni di cosa significhi pace, di come si sia realizzata e di come vada assicurata nel futuro.

Tra i molti ad avere un'opinione opposta è utile segnalare Carlo Rovelli, per cui Trump ha persino un ruolo positivo nello scongiurare una possibile “Terza guerra mondiale” e una possibile forza di pace al servizio del disarmo globale. 

Il tema della pace però non coincide in automatico con il pacifismo, così come il pacifismo è cosa diversa dalla nonviolenza. Chi nella Seconda guerra mondiale sconfisse il nazifascismo voleva la pace senza essere pacifista. Pannella, il politico che ha fatto proprio lo strumento della nonviolenza in Italia, delineava la differenza netta con il pacifismo.

Non esiste un movimento pacifista che abbia il monopolio della pace. Non esiste una risposta a cosa sia, essendo diversa per luogo, epoca e da chi lo organizza. Il pacifismo ha sempre avuto un'azione collettiva di massa all’opposto della nonviolenza che si realizza anche con azioni individuali di disobbedienza civile.                                                                                                                

Si può però provare una suddivisione in “pacifismo assoluto” e “pacifismo relativo”. 

Possiamo pensare il pacifismo assoluto come una teoria ed una pratica coerente, utopico ed intransigente senza compromessi di sorta. Potrebbe essere derivato da una idea nonviolenta originata da una filosofia o una corrente religiosa. Più difficilmente da una scelta politica. Rifiutare l'uso della violenza senza compromessi di sorta, fino all'estremo di essere disposti a subirla, si basa sulla fiducia che l'altro, il nemico, sia capace di compiere la stessa valutazione. Che attraverso la parola e l'ascolto si disarmi ogni conflitto. 

Gandhi, durante la Prima guerra mondiale pensava che gli indiani dovessero contribuire alla difesa, poiché solo così avrebbe avuto senso chiedere uguali diritti come parte dell’Impero britannico. Il 12 dicembre del 1931 incontra Mussolini, che di lui dice “è un santone, un genio che usa la bontà come arma”. Verso Mussolini non nasconde ammirazione: “Molte delle riforme che ha fatto mi attirano, perché le ha fatte in nome e per l’interesse del suo popolo. Però le ha fatte col guanto di ferro e la costrizione”. Riconosce inoltre ai suoi discorsi un “nocciolo” di “sincerità e di amore appassionato per il suo popolo”, arrivando ad affermare che i suoi metodi non sono diversi da quelli di altri Stati democratici. 

Dopo l’accordo di Monaco del 1938, che consegna la regione dei Sudeti alla Germania prima difende Francia e Gran Bretagna, e dopo invita la Cecoslovacchia a non chiedere il loro intervento armato  fino a “perire disarmati”. Il 23 luglio del 1939 e il 24 dicembre del 1940 scrisse due lettere a Hitler chiamandolo “caro amico" invitandolo a fermare la guerra.

Rivolto ai britannici che si stanno difendendo dice: “abbandonate le armi che impugnate, [...] invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola, con tutto ciò che di grande e di bello contiene”. Vorrebbe offrire un appoggio morale e nonviolento alla resistenza britannica ma si trova contro gli stessi membri del congresso indiano. Media la sua opinione e afferma che l’India può partecipare alla guerra solo se insieme alla libertà per gli inglesi si sarebbe affermata la libertà per gli indiani. 

Quello di Gandhi è un percorso complesso e non lineare che, soprattutto quando attiene all’India, individua delle mediazioni ma progressivamente lo porta a una radicalità utopica della nonviolenza. 

La stessa Chiesa, che per secoli ha avuto le sue armate o benedetto quelle di altri, ha approfondito il tema del diritto alla  difesa. Durante la guerra in Bosnia, Papa Giovanni Paolo II disse:  

Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati attuati e, nonostante ciò, le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza [...] I principi di sovranità degli Stati e di non ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere.

Il 23 gennaio del 1994 durante l’Angelus affermò:

Non dobbiamo rassegnarci! Agli organismi competenti rimane la responsabilità di non tralasciare nulla di quanto è umanamente possibile per disarmare l'aggressore e creare le condizioni di una giusta e durevole pace.

Alexander Langer e Don Tonino Bello organizzano marce contro la Guerra del Golfo, ma si trovano impotenti davanti alla guerra in Bosnia e all’assedio di Sarajevo.

Langer, pacifista e nonviolento, promotore dell’appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo ricorda come chiedendo al Presidente francese Chirac per impedire i massacri e l’assedio di Sarajevo fosse invitato a non dividere il conflitto in buoni e cattivi. 

Don Tonino Bello, nel dicembre del 1992, dopo essere stato a Sarajevo “tornò pieno di dubbi, e non li nascose, aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione della pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, era sicuro di una cosa: che la pace, per affermarsi, ha bisogno anzitutto di persone pacifiche e mezzi pacifici”. 

Langer era convinto della possibilità di evitare ogni intervento armato, ma fu posto di fronte al dilemma di come impedire che l’uso della guerra costringesse i più deboli e indifesi a soccombere. Visse l'impossibilità di risolvere quel contrasto mettendo fine alla sua vita. Nel 2021 Alexander Langer è diventato cittadino onorario di Sarajevo. 

Sono tre esempi diversi che non tracciano una conclusione coerente, se non il dilemma che queste persone ebbero di fronte alla guerra e all’azione nonviolenta. Il pacifismo assoluto è quindi un'opzione utopica, mai messa in pratica in uno scenario bellico dove potrebbe arrestarsi davanti a una volontà opposta, contro la quale il diritto alla difesa non può non essere preso in esame.

Un pacifismo assoluto non può essere invece usato strumentalmente, diventare un escamotage per non decidere chi ha violato le regole del diritto internazionale o quale in un conflitto è la parte che va difesa e sostenuta. Aiuta queste riflessioni il libro di Norberto Bobbio Una guerra giusta? scritto dopo l’inizio della prima guerra del Golfo, e dove il filosofo risponde al quesito se quella guerra fosse giusta o ingiusta, se fosse efficace o inefficace. Approfondisce temi quali la sua proporzionalità nella risposta e i limiti per riconfermare il principio di legittimità.  

Il pacifismo relativo è all'opposto un pacifismo portato direttamente all'interno di più ampie scelte politiche e ideologiche. Ovviamente quando non ci sono guerre il pacifismo non genera un dibattito essendo la pace un principio, un valore assoluto. Ritorna solo quando lo si vuole contrapporre, con la sua aura di purezza, in opposizione a un fatto contingente che avviene. Dichiararsi pacifisti, individualmente o per mezzo di organizzazioni politiche o sociali, significa quasi sempre porsi immediatamente in ogni dibattito al di sopra, in una posizione di vantaggio anche psicologico. 

Chi si dichiara pacifista vuole la pace. Chi non lo è cosa vuole se non il suo opposto ovvero una guerra? Lo schema è insieme brutale, semplice e anche persuasivo. 

Prima della Seconda guerra mondiale gli Stati avevano tutti un ministero della guerra e spesso un ministero per ogni forza armata. La guerra era considerata non una eventualità remota, ma un'opzione inevitabile del proprio paese. Si era sempre pronti alla guerra che era il meccanismo naturale a cui anche i popoli erano preparati. La guerra faceva parte della vita delle persone. 

Dopo la Seconda guerra mondiale il cambiamento è stato radicale. Oggi esistono solo ministeri della Difesa (mai con militari al comando) e il loro ruolo è subordinato alla politica. 

Da ottanta anni nei paesi che fanno parte dell’Unione Europea abbiamo vissuto un periodo di pace nel primo periodo della sua storia senza guerre entro i confini. La domanda è: perché? Perché questi decenni sono il risultato profondo, insieme politico e filosofico, di una azione umana che ha costruito un nuovo diritto internazionale e una comunità istituzionale nata per raggiungere l'obiettivo della pace.

Organismi e strumenti imperfetti e che non hanno debellato il ricorso alla guerra nel mondo, ma che pure hanno costituito un cambio di paradigma e hanno retto un’idea diversa di civiltà, una promessa realizzabile.

Storie e culture diverse, ma certo il frutto di una lunga epoca sanguinosa da superare e che ha fatto nascere scelte e volontà di pace fin dalle intuizioni del Manifesto di Ventotene per l'Europa libera e unita.

La guerra non doveva più essere lo strumento di soluzione dei conflitti, economici o territoriali o religiosi, tra gli Stati. Per impedire il ripetersi delle guerre tra le Nazioni bisognava associarle in qualcosa di più grande. Non un destino nazionale ma europeo e sovranazionale. 

Il pacifismo del dopoguerra è stato invece uno strumento politico nettamente schierato. I Partigiani della pace usavano il lessico della pace, ma trovavano una sua collocazione politica sia dentro i paesi del blocco sovietico sia nei movimenti politici e nazionali, armati, del terzo mondo. Il pacifismo organizzato è stato collaterale a organizzazioni politiche o sociali o religiose e ha sempre scelto quali guerre avversare,meritevoli della protesta, e quali ritenere legittime o da giustificare. 

L’occupazione della Crimea nel 2014 e l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022 hanno rotto decenni di pace e anche di guerra fredda. Una guerra in cui la Russia ha finalità coloniali e imperiali che riportano ai miti sia zaristi che sovietici.

Da subito il movimento pacifista ha scelto con estrema ambiguità di parlare di pace senza però chiarire chi aveva violato quella pace. Non solo non scegliendo da che parte stare, ma non dando un giudizio sulle responsabilità della guerra, oppure ponendolo tra molti “ma”. 

Secondo questa prospettiva, usando concetti da pace assoluta, gli ucraini dovrebbero usare la nonviolenza e paesi come l’Italia non dovrebbero dare armi per difendersi e quindi favorire la guerra. Oppure si relativizza talmente il concetto da finire per usare gli stessi argomenti della propaganda russa.

Motivazioni che hanno resistito a qualunque obiezione e vengono ripetute ancora oggi. Dal “colpo di Stato del 2014”, alle minoranze russe represse, all’allargamento della NATO, al governo nazista, alla pace impedita ora da Zelensky, ora da Biden, ora da Boris Johnson.

Se la collocazione ideologica ha sempre e solo avversato l'occidente, risulta conseguente non vedere le responsabilità in altri Stati anche di fronte a una invasione. Così mentre si nega il diritto dell'Ucraina di difendersi non si chiede alla Russia di ritirarsi o di non usare armi iraniane o soldati della Corea del Nord. 

La stessa freddezza che ha accolto la possibile tregua di un mese è un segnale inequivocabile. “Cease fire” per Gaza, ma silenzio per l’Ucraina e nessun sit-in di fronte all’ambasciata russa.

Nello stesso momento due richieste opposte, ma coerenti nella visione di un pacifismo relativo che si nutre di una propaganda antioccidentale. In questi tre anni abbiamo visto identiche posizioni così sovrapponibili da non poter distinguere sia di movimenti di destra che di sinistra o populisti. Non esiste in Italia un movimento di massa che invochi il diritto internazionale per la lettura di conflitti, guerre e occupazioni, ma solo un suo arruolamento selettivo su base ideologica".

Sono parte - volontaria o meno - di una diversa guerra, quella ibrida condotta dalla Russia, per costruire consenso nell’occidente. Persino scelte nonviolente quali le sanzioni economiche sono bollate come inutili e controproducenti. Vi è evidente una oscillazione tra un pacifismo assoluto,“che dovrebbe essere sempre tale senza distinzione di luogo, tempo e soggetti coinvolti” e uno relativo, conseguenza invece delle scelte ideologiche o elettorali di chi le compie.

Una coerenza che vorrebbe imporre ad altri popoli la fine di una guerra al costo di perdite territoriali, sacrificando di fatto la propria indipendenza fino a giustificare le ragioni dell'invasore. 

Una incoerenza, sostenuta da una schiera di intellettuali di varia provenienza, che prima non ha creduto all'invasione e dopo ha attinto alle colpe “dell’occidente globale” come definito da Putin.   

Non è la NATO o l’Unione Europea che è andata a est. Ma è quell'est che è voluto diventare parte dell'Europa consapevole del proprio tragico passato uscendo dal dominio sovietico. In questo quadro è avvenuto il ribaltamento del ruolo e delle politiche degli Usa che vedono nell'Europa un nemico, arrivando a parlare di “annessione” della NATO per paesi come Finlandia e Svezia. 

Gli avvenimenti  dal 2022 a oggi hanno posto l’Europa davanti alla aggressività militare della Russia e a quella commerciale degli Stati Uniti, paesi che sembrano voler costruire e condividere un rapporto che implica la quasi esclusione della Ucraina e dell’Europa. 

Di fronte a uno sconvolgimento della storia l’Europa deve rapidamente decidere su temi su cui ha costruito il suo ruolo e le sue alleanze economiche e militari. Rapporti economici, regole commerciali, sistemi di difesa quali la NATO non sono oggi punti certi e non sarà facile capire come si muoveranno gli Stati Uniti.

Il tema della difesa è già diventato quello più urgente su cui gli stati e le opinioni pubbliche saranno costretti a confrontarsi e decidere. Oggi la Russia, su un bilancio statale di circa 400 miliardi di euro, ne destina 120 alla difesa. In Italia, invece, ne vanno circa 30 su 900 miliardi.

L'Europa deve avere un'idea politica che leghi difesa e pace non solo se e quanto  spendere. Lo hanno compreso i paesi confinanti con la Russia, a partire da quelli come la Moldavia, i Paesi Baltici, i Paesi Scandinavi (storicamente neutrali) e la Polonia. Una pace che difenda la nostra Europa mentre gli Stati Uniti ogni giorno stanno aggiungendo un mattone verso uno stato autocratico e illiberale, persino con minacce dirette a paesi come la Danimarca, attraverso i reiterati discorsi di Trump sull’annessione della Groenlandia.

Questa pace non può basarsi su falsi imitatori di Gandhi, dopo aver passato una vita ad emozionarsi e per ogni guerra di liberazione compresa la Resistenza, che nella migliore delle ipotesi si fermerebbero a scrivere una lettera al caro Putin, o a usare il pacifismo come argomento di propaganda anti-europea. 

La bandiera europea sventolava come vessillo identitario delle manifestazioni dei mesi scorsi in Georgia. Qualcuno pensa che sognano l'Europa come continente di guerra, o perché spazio di pace e democrazia opposto alla ideologia militare e nazionalista russa? 

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Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

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Il pacifismo a targhe alterne che vuole lasciare l’Ucraina in balia della Russia

Dal giorno dell’invasione dell’Ucraina la parola “pace” è stata invocata nelle piazze, nelle televisioni, nei giornali e nei social. Chi d'altronde potrebbe sostenere altro oppure volere la guerra?

Anche il voltafaccia di Trump e l’ambiguità con cui Putin ha rifiutato la tregua, sono motivati da entrambi in nome della “pace”. Lo stesso dibattito sulla necessità dell'Europa di avere una sua autonoma politica di difesa, e quindi di investimenti adeguati, avviene su diverse e spesso opposte concezioni di cosa significhi pace, di come si sia realizzata e di come vada assicurata nel futuro.

Tra i molti ad avere un'opinione opposta è utile segnalare Carlo Rovelli, per cui Trump ha persino un ruolo positivo nello scongiurare una possibile “Terza guerra mondiale” e una possibile forza di pace al servizio del disarmo globale. 

Il tema della pace però non coincide in automatico con il pacifismo, così come il pacifismo è cosa diversa dalla nonviolenza. Chi nella Seconda guerra mondiale sconfisse il nazifascismo voleva la pace senza essere pacifista. Pannella, il politico che ha fatto proprio lo strumento della nonviolenza in Italia, delineava la differenza netta con il pacifismo.

Non esiste un movimento pacifista che abbia il monopolio della pace. Non esiste una risposta a cosa sia, essendo diversa per luogo, epoca e da chi lo organizza. Il pacifismo ha sempre avuto un'azione collettiva di massa all’opposto della nonviolenza che si realizza anche con azioni individuali di disobbedienza civile.                                                                                                                

Si può però provare una suddivisione in “pacifismo assoluto” e “pacifismo relativo”. 

Possiamo pensare il pacifismo assoluto come una teoria ed una pratica coerente, utopico ed intransigente senza compromessi di sorta. Potrebbe essere derivato da una idea nonviolenta originata da una filosofia o una corrente religiosa. Più difficilmente da una scelta politica. Rifiutare l'uso della violenza senza compromessi di sorta, fino all'estremo di essere disposti a subirla, si basa sulla fiducia che l'altro, il nemico, sia capace di compiere la stessa valutazione. Che attraverso la parola e l'ascolto si disarmi ogni conflitto. 

Gandhi, durante la Prima guerra mondiale pensava che gli indiani dovessero contribuire alla difesa, poiché solo così avrebbe avuto senso chiedere uguali diritti come parte dell’Impero britannico. Il 12 dicembre del 1931 incontra Mussolini, che di lui dice “è un santone, un genio che usa la bontà come arma”. Verso Mussolini non nasconde ammirazione: “Molte delle riforme che ha fatto mi attirano, perché le ha fatte in nome e per l’interesse del suo popolo. Però le ha fatte col guanto di ferro e la costrizione”. Riconosce inoltre ai suoi discorsi un “nocciolo” di “sincerità e di amore appassionato per il suo popolo”, arrivando ad affermare che i suoi metodi non sono diversi da quelli di altri Stati democratici. 

Dopo l’accordo di Monaco del 1938, che consegna la regione dei Sudeti alla Germania prima difende Francia e Gran Bretagna, e dopo invita la Cecoslovacchia a non chiedere il loro intervento armato  fino a “perire disarmati”. Il 23 luglio del 1939 e il 24 dicembre del 1940 scrisse due lettere a Hitler chiamandolo “caro amico" invitandolo a fermare la guerra.

Rivolto ai britannici che si stanno difendendo dice: “abbandonate le armi che impugnate, [...] invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola, con tutto ciò che di grande e di bello contiene”. Vorrebbe offrire un appoggio morale e nonviolento alla resistenza britannica ma si trova contro gli stessi membri del congresso indiano. Media la sua opinione e afferma che l’India può partecipare alla guerra solo se insieme alla libertà per gli inglesi si sarebbe affermata la libertà per gli indiani. 

Quello di Gandhi è un percorso complesso e non lineare che, soprattutto quando attiene all’India, individua delle mediazioni ma progressivamente lo porta a una radicalità utopica della nonviolenza. 

La stessa Chiesa, che per secoli ha avuto le sue armate o benedetto quelle di altri, ha approfondito il tema del diritto alla  difesa. Durante la guerra in Bosnia, Papa Giovanni Paolo II disse:  

Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati attuati e, nonostante ciò, le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza [...] I principi di sovranità degli Stati e di non ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere.

Il 23 gennaio del 1994 durante l’Angelus affermò:

Non dobbiamo rassegnarci! Agli organismi competenti rimane la responsabilità di non tralasciare nulla di quanto è umanamente possibile per disarmare l'aggressore e creare le condizioni di una giusta e durevole pace.

Alexander Langer e Don Tonino Bello organizzano marce contro la Guerra del Golfo, ma si trovano impotenti davanti alla guerra in Bosnia e all’assedio di Sarajevo.

Langer, pacifista e nonviolento, promotore dell’appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo ricorda come chiedendo al Presidente francese Chirac per impedire i massacri e l’assedio di Sarajevo fosse invitato a non dividere il conflitto in buoni e cattivi. 

Don Tonino Bello, nel dicembre del 1992, dopo essere stato a Sarajevo “tornò pieno di dubbi, e non li nascose, aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione della pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, era sicuro di una cosa: che la pace, per affermarsi, ha bisogno anzitutto di persone pacifiche e mezzi pacifici”. 

Langer era convinto della possibilità di evitare ogni intervento armato, ma fu posto di fronte al dilemma di come impedire che l’uso della guerra costringesse i più deboli e indifesi a soccombere. Visse l'impossibilità di risolvere quel contrasto mettendo fine alla sua vita. Nel 2021 Alexander Langer è diventato cittadino onorario di Sarajevo. 

Sono tre esempi diversi che non tracciano una conclusione coerente, se non il dilemma che queste persone ebbero di fronte alla guerra e all’azione nonviolenta. Il pacifismo assoluto è quindi un'opzione utopica, mai messa in pratica in uno scenario bellico dove potrebbe arrestarsi davanti a una volontà opposta, contro la quale il diritto alla difesa non può non essere preso in esame.

Un pacifismo assoluto non può essere invece usato strumentalmente, diventare un escamotage per non decidere chi ha violato le regole del diritto internazionale o quale in un conflitto è la parte che va difesa e sostenuta. Aiuta queste riflessioni il libro di Norberto Bobbio Una guerra giusta? scritto dopo l’inizio della prima guerra del Golfo, e dove il filosofo risponde al quesito se quella guerra fosse giusta o ingiusta, se fosse efficace o inefficace. Approfondisce temi quali la sua proporzionalità nella risposta e i limiti per riconfermare il principio di legittimità.  

Il pacifismo relativo è all'opposto un pacifismo portato direttamente all'interno di più ampie scelte politiche e ideologiche. Ovviamente quando non ci sono guerre il pacifismo non genera un dibattito essendo la pace un principio, un valore assoluto. Ritorna solo quando lo si vuole contrapporre, con la sua aura di purezza, in opposizione a un fatto contingente che avviene. Dichiararsi pacifisti, individualmente o per mezzo di organizzazioni politiche o sociali, significa quasi sempre porsi immediatamente in ogni dibattito al di sopra, in una posizione di vantaggio anche psicologico. 

Chi si dichiara pacifista vuole la pace. Chi non lo è cosa vuole se non il suo opposto ovvero una guerra? Lo schema è insieme brutale, semplice e anche persuasivo. 

Prima della Seconda guerra mondiale gli Stati avevano tutti un ministero della guerra e spesso un ministero per ogni forza armata. La guerra era considerata non una eventualità remota, ma un'opzione inevitabile del proprio paese. Si era sempre pronti alla guerra che era il meccanismo naturale a cui anche i popoli erano preparati. La guerra faceva parte della vita delle persone. 

Dopo la Seconda guerra mondiale il cambiamento è stato radicale. Oggi esistono solo ministeri della Difesa (mai con militari al comando) e il loro ruolo è subordinato alla politica. 

Da ottanta anni nei paesi che fanno parte dell’Unione Europea abbiamo vissuto un periodo di pace nel primo periodo della sua storia senza guerre entro i confini. La domanda è: perché? Perché questi decenni sono il risultato profondo, insieme politico e filosofico, di una azione umana che ha costruito un nuovo diritto internazionale e una comunità istituzionale nata per raggiungere l'obiettivo della pace.

Organismi e strumenti imperfetti e che non hanno debellato il ricorso alla guerra nel mondo, ma che pure hanno costituito un cambio di paradigma e hanno retto un’idea diversa di civiltà, una promessa realizzabile.

Storie e culture diverse, ma certo il frutto di una lunga epoca sanguinosa da superare e che ha fatto nascere scelte e volontà di pace fin dalle intuizioni del Manifesto di Ventotene per l'Europa libera e unita.

La guerra non doveva più essere lo strumento di soluzione dei conflitti, economici o territoriali o religiosi, tra gli Stati. Per impedire il ripetersi delle guerre tra le Nazioni bisognava associarle in qualcosa di più grande. Non un destino nazionale ma europeo e sovranazionale. 

Il pacifismo del dopoguerra è stato invece uno strumento politico nettamente schierato. I Partigiani della pace usavano il lessico della pace, ma trovavano una sua collocazione politica sia dentro i paesi del blocco sovietico sia nei movimenti politici e nazionali, armati, del terzo mondo. Il pacifismo organizzato è stato collaterale a organizzazioni politiche o sociali o religiose e ha sempre scelto quali guerre avversare,meritevoli della protesta, e quali ritenere legittime o da giustificare. 

L’occupazione della Crimea nel 2014 e l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022 hanno rotto decenni di pace e anche di guerra fredda. Una guerra in cui la Russia ha finalità coloniali e imperiali che riportano ai miti sia zaristi che sovietici.

Da subito il movimento pacifista ha scelto con estrema ambiguità di parlare di pace senza però chiarire chi aveva violato quella pace. Non solo non scegliendo da che parte stare, ma non dando un giudizio sulle responsabilità della guerra, oppure ponendolo tra molti “ma”. 

Secondo questa prospettiva, usando concetti da pace assoluta, gli ucraini dovrebbero usare la nonviolenza e paesi come l’Italia non dovrebbero dare armi per difendersi e quindi favorire la guerra. Oppure si relativizza talmente il concetto da finire per usare gli stessi argomenti della propaganda russa.

Motivazioni che hanno resistito a qualunque obiezione e vengono ripetute ancora oggi. Dal “colpo di Stato del 2014”, alle minoranze russe represse, all’allargamento della NATO, al governo nazista, alla pace impedita ora da Zelensky, ora da Biden, ora da Boris Johnson.

Se la collocazione ideologica ha sempre e solo avversato l'occidente, risulta conseguente non vedere le responsabilità in altri Stati anche di fronte a una invasione. Così mentre si nega il diritto dell'Ucraina di difendersi non si chiede alla Russia di ritirarsi o di non usare armi iraniane o soldati della Corea del Nord. 

La stessa freddezza che ha accolto la possibile tregua di un mese è un segnale inequivocabile. “Cease fire” per Gaza, ma silenzio per l’Ucraina e nessun sit-in di fronte all’ambasciata russa.

Nello stesso momento due richieste opposte, ma coerenti nella visione di un pacifismo relativo che si nutre di una propaganda antioccidentale. In questi tre anni abbiamo visto identiche posizioni così sovrapponibili da non poter distinguere sia di movimenti di destra che di sinistra o populisti. Non esiste in Italia un movimento di massa che invochi il diritto internazionale per la lettura di conflitti, guerre e occupazioni, ma solo un suo arruolamento selettivo su base ideologica".

Sono parte - volontaria o meno - di una diversa guerra, quella ibrida condotta dalla Russia, per costruire consenso nell’occidente. Persino scelte nonviolente quali le sanzioni economiche sono bollate come inutili e controproducenti. Vi è evidente una oscillazione tra un pacifismo assoluto,“che dovrebbe essere sempre tale senza distinzione di luogo, tempo e soggetti coinvolti” e uno relativo, conseguenza invece delle scelte ideologiche o elettorali di chi le compie.

Una coerenza che vorrebbe imporre ad altri popoli la fine di una guerra al costo di perdite territoriali, sacrificando di fatto la propria indipendenza fino a giustificare le ragioni dell'invasore. 

Una incoerenza, sostenuta da una schiera di intellettuali di varia provenienza, che prima non ha creduto all'invasione e dopo ha attinto alle colpe “dell’occidente globale” come definito da Putin.   

Non è la NATO o l’Unione Europea che è andata a est. Ma è quell'est che è voluto diventare parte dell'Europa consapevole del proprio tragico passato uscendo dal dominio sovietico. In questo quadro è avvenuto il ribaltamento del ruolo e delle politiche degli Usa che vedono nell'Europa un nemico, arrivando a parlare di “annessione” della NATO per paesi come Finlandia e Svezia. 

Gli avvenimenti  dal 2022 a oggi hanno posto l’Europa davanti alla aggressività militare della Russia e a quella commerciale degli Stati Uniti, paesi che sembrano voler costruire e condividere un rapporto che implica la quasi esclusione della Ucraina e dell’Europa. 

Di fronte a uno sconvolgimento della storia l’Europa deve rapidamente decidere su temi su cui ha costruito il suo ruolo e le sue alleanze economiche e militari. Rapporti economici, regole commerciali, sistemi di difesa quali la NATO non sono oggi punti certi e non sarà facile capire come si muoveranno gli Stati Uniti.

Il tema della difesa è già diventato quello più urgente su cui gli stati e le opinioni pubbliche saranno costretti a confrontarsi e decidere. Oggi la Russia, su un bilancio statale di circa 400 miliardi di euro, ne destina 120 alla difesa. In Italia, invece, ne vanno circa 30 su 900 miliardi.

L'Europa deve avere un'idea politica che leghi difesa e pace non solo se e quanto  spendere. Lo hanno compreso i paesi confinanti con la Russia, a partire da quelli come la Moldavia, i Paesi Baltici, i Paesi Scandinavi (storicamente neutrali) e la Polonia. Una pace che difenda la nostra Europa mentre gli Stati Uniti ogni giorno stanno aggiungendo un mattone verso uno stato autocratico e illiberale, persino con minacce dirette a paesi come la Danimarca, attraverso i reiterati discorsi di Trump sull’annessione della Groenlandia.

Questa pace non può basarsi su falsi imitatori di Gandhi, dopo aver passato una vita ad emozionarsi e per ogni guerra di liberazione compresa la Resistenza, che nella migliore delle ipotesi si fermerebbero a scrivere una lettera al caro Putin, o a usare il pacifismo come argomento di propaganda anti-europea. 

La bandiera europea sventolava come vessillo identitario delle manifestazioni dei mesi scorsi in Georgia. Qualcuno pensa che sognano l'Europa come continente di guerra, o perché spazio di pace e democrazia opposto alla ideologia militare e nazionalista russa? 

Immagine in anteprima: Photo by Алесь Усцінаў via pexels.com

Minerali critici e gas: Putin, Trump e la spartizione dell’Ucraina

di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Dall’invasione predatoria di Putin all’imperialismo mafioso dell’affarista Trump, dallo stare o meno al gioco delle parti di Zelensky alle reazioni ondivaghe e contraddittorie dell’Unione Europea: intorno all’Ucraina e al difficile processo di costruzione della pace emerge un nuovo modello geopolitico, dove gli affari dettano le relazioni internazionali. 

E dove la battaglia per l’approvvigionamento dei materiali critici, indispensabili per le transizioni verde e digitale, disegnerà il nuovo ordine mondiale. Chi la spunterà? Vincerà la forza, il profitto di pochi, o la cooperazione? Chi sarà all’altezza delle incombenti sfide globali, una su tutte quella crisi climatica oggi (quasi) scomparsa dai radar dei media?

UE: dal Green Deal al Clean Industrial Deal

Due anni fa, qui su Valigia Blu, abbiamo pubblicato “La guerra di Putin alla transizione energetica globale”.  Tesi dell’articolo era dimostrare i veri obiettivi strategici dell’invasione russa dell’Ucraina, aldilà della retorica della ‘denazificazione’ e del rompere ‘l’accerchiamento della NATO’. L’intento di Putin era invece, e ancora è, la manipolazione politica dei paesi più importanti dell’Unione Europea ai fini del suo disfacimento, o quantomeno del suo indebolimento. Ma cosa aveva provocato l’accelerazione al conflitto? 

Secondo la nostra analisi, il Green Deal - lanciato dalla UE nel 2019 e implementato nel luglio del 2021, attraverso il pacchetto Fit for 55 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione - rappresentava per Putin e i suoi accoliti (certamente per Gazprom) una vera minaccia, tanto in termini di business che di sfera d’influenza della Federazione Russa. L’arma utilizzata sino ad allora era, da una parte il gas a buon mercato fornito dal colosso Gazprom e, dall’altra, l’avidità dimostrata dal capitalismo liberale europeo (Germania e Italia in testa). 

Qual è la situazione oggi? La guerra in Ucraina ha certamente contribuito al rallentamento della transizione energetica nell’UE e ha, purtroppo, fatto moltiplicare le resistenze al Green Deal. Con l’impennata dei prezzi dell'energia dopo lo stop al gas russo e con l’intensificarsi della concorrenza da parte delle aziende cinesi fortemente sovvenzionate, le critiche alle regole europee sono aumentate. Si sono verificate tensioni tra gli Stati membri a causa dei diversi interessi e mix energetici domestici. Molti paesi hanno valutato un provvisorio ritorno al carbone e la riaccensione delle centrali nucleari. Le elezioni europee del 2024 hanno sottolineato il crescente malcontento per l'ambiziosa azione per il clima. Parallelamente, la guerra ha fortemente perturbato il nascente partenariato tra UE e Ucraina interrompendo, in particolare, il processo di costruzione di nuove catene di approvvigionamento dei ‘materiali critici’ (tra cui le ‘terre rare’), cruciali per le transizioni ecologica e digitale.

A poco più di tre anni dal lancio operativo del Green Deal, il ritmo di decarbonizzazione della UE resta ancora insufficiente. Questo, nonostante il rapporto tra PIL ed emissioni risulti sganciato (decoupling) fin dal 2010: alla crescita del primo non corrisponde più un aumento delle seconde. Per rispondere ai ritardi e al parziale fallimento del Green Deal, il 26 febbraio 2025 la nuova Commissione europea ha presentato il Clean Industrial Deal, una roadmap per la competitività e la decarbonizzazione. Tra gli obiettivi: facilitare la riduzione delle emissioni delle industrie più inquinanti (come quelle dell'acciaio e del cemento) e promuovere le tecnologie pulite. 

Il Piano ribadisce la volontà dell'UE di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040. Presenta inoltre 40 diverse misure per accelerare la transizione verde, tra cui autorizzazioni più rapide per parchi eolici e altre infrastrutture, e la modifica delle norme sugli appalti pubblici per favorire le tecnologie pulite ‘made in Europe’: si intende produrre almeno il 40% dei componenti-chiave delle tecnologie pulite all'interno della UE e, contestualmente, favorire la competitività dell’Unione.

Il Clean Industrial Deal è stato pubblicato insieme a un “Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili”, che mira a risparmiare 260 miliardi di euro all'anno entro il 2040. Gli attivisti per l'ambiente hanno accolto con favore le iniziative per ridurre le bollette e accelerare l'elettrificazione, ma hanno espresso allarme per la proposta di finanziare la costruzione di impianti di importazione e distribuzione del gas naturale liquefatto (GNL). Bruxelles, infatti, sostiene gli investimenti di tali infrastrutture e mira a concludere contratti a più lungo termine per il GNL. Una virata di 180 gradi rispetto agli obiettivi del Fit for 55 del 2021. Una vera débacle per l’ecologia, a nostro parere. 

Non la prima batosta, a dire il vero. Secondo un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), l'UE ha speso più soldi per i combustibili fossili russi che per gli aiuti finanziari all'Ucraina. E ciò, in totale contraddizione con gli sforzi per eliminare la dipendenza dell’Unione dai combustibili che finanziano la guerra di Vladimir Putin. Nel 2024, gli Stati membri hanno acquistato 21,9 miliardi di euro di petrolio e gas russi. L'importo è di un sesto superiore ai 18,7 miliardi di euro che l'UE ha stanziato nello stesso anno in aiuti finanziari per l'Ucraina (esclusi i contributi militari o umanitari).

Come afferma CAN Europe“Tre anni dopo l'invasione dell'Ucraina, che ha svelato la dipendenza su larga scala dell'Europa dal gas russo e ha innescato una crisi energetica senza precedenti, l'UE è ancora fortemente dipendente dal gas fossile”.

Né il Green Deal, né i suoi recenti sviluppi (Clean Industrial Deal) sono riusciti per ora, concretamente, a liberare l’Unione Europea dalla dipendenza dai fossili e, in particolare, dal gas russo. Questo, non solo ha limitato l’efficacia delle sanzioni e di altre misure prese da Bruxelles per rispondere all'invasione dell'Ucraina, ma fa sì che la UE continui di fatto a finanziare la brutale macchina da guerra del Cremlino. 

Transito del gas russo in Ucraina

Il 31 dicembre 2024 si è concluso un importante contratto che regolamentava il transito del gas russo attraverso l'Ucraina dal 2019, con implicazioni significative per le restanti esportazioni di gas russo verso alcuni paesi dell'Unione europea. Nonostante la guerra in Ucraina, il gas ha continuato a fluire attraverso un gasdotto di proprietà della russa Gazprom e gestito dall’operatore ucraino OGTSU. Ciò, senza che si siano verificate interruzioni significative di queste forniture, anche se Kyiv, nell'ambito della sua incursione nella regione russa di Kursk, ha assunto il controllo di Sudzha, l'unica stazione di misurazione attiva per l'ingresso del gas russo in Ucraina. 

Durante gli sconvolgimenti dei tre anni di guerra, il gas russo ha continuato a entrare direttamente in Europa attraverso due rotte, ognuna delle quali ha trasportato circa 14 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La prima è attraverso il gasdotto TurkStream e la sua estensione, Balkan Stream, sotto il Mar Nero fino a Turchia, Bulgaria, Serbia e Ungheria. Il secondo percorso era un corridoio attraverso l'Ucraina fino alla Slovacchia. I principali acquirenti di questa seconda rotta sono stati Slovacchia, Ungheria, Austria e Italia. Ancora una volta a fare la differenza è stata la convenienza economica del gas russo rispetto al GNL, soprattutto durante le impennate dei prezzi. Anche se tutti gli Stati membri hanno aderito al programma REPowerEU, che prevede di eliminare completamente il gas russo dal proprio mix energetico entro il 2027, alcuni di essi sono stati riluttanti a smettere di acquistarlo: Business First!

La fine del contratto di transito ha segnato un cambiamento importante. L'impatto si è fatto sentire soprattutto in Austria, Ungheria e Slovacchia, per le quali la rotta di transito ucraina aveva soddisfatto il 65% della domanda di gas nel 2023. Nel complesso, la quota di transito ucraino nelle importazioni di gas dell'UE è scesa dall'11% nel 2021 a circa il 5% nel 2024. Dal punto di vista dei profitti, le entrate delle tariffe di transito per l'Ucraina sono state pari a 1,2 miliardi di dollari nel 2022 (quando l’invasione russa era già in corso), a 0,8 miliardi di dollari nel 2023 e a 0,4 miliardi di dollari nel 2024. Il tutto per un ammontare pari a circa lo 0,5% del PIL ucraino. I profitti per Gazprom nei 5 anni di validità del contratto di transito sono stati di 6,5 miliardi di dollari

Cerchiamo di immaginare, quindi, quali siano stati i motivi per cui non sia stato interrotto il transito del gas russo dopo l’invasione, rompendo anticipatamente il contratto, né sia stata sabotata l’infrastruttura, come è avvenuto per il Nord Stream. Da una parte, l'Ucraina avrebbe rischiato di perdere entrate importanti, pari a circa lo 0,5% del suo PIL, anche se pagate dall’invasore russo contro cui stava combattendo. Dall’altra, non sono da escludere pressioni da parte di quei paesi europei che, a fronte di uno stop immediato delle forniture, avrebbero perso l'accesso privilegiato al gas russo, trovandosi potenzialmente in posizione di svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi dell'Unione. 

Un’ulteriore spiegazione, però, potrebbe anche essere che Kyiv abbia voluto preservare infrastruttura, transito e stoccaggio del gas russo come moneta di scambio per negoziare una possibile tregua, o prefigurando una serie di scenari post-bellici: uno strumento di pressione verso la Federazione Russa, ma anche verso la UE. Per quest’ultima, infatti, la fine del contratto ucraino di transito del gas si traduce nella necessità di importare 140 TWh aggiuntivi di energia all'anno, a partire dal 1º gennaio 2025. 

Secondo il think-tank Bruegel, ciò apre a tre possibili scenari: 1) La sostituzione delle forniture russe all'Europa centro-orientale con il GNL; 2) La sostituzione delle forniture ‘russe’ con gas ‘azero’ attraverso gasdotto ucraino; 3) Un nuovo tipo di accordo sul gas tra UE, Ucraina e Federazione Russa. Nel secondo scenario, già oggi Kyiv potrebbe offrire la sua capacità di trasporto e stoccaggio secondo le regole europee, senza alcun accordo con Gazprom: le aziende europee acquisterebbero gas al confine tra Russia e Ucraina e lo consegnerebbero all'Ucraina per il trasporto. Finora, non c'è alcun segno di piani di questo tipo, forse perché Kyiv - seguendo la terza opzione - considera la possibilità di riprendere il transito del gas come carta vincente nei futuri negoziati con Mosca. 

Tuttavia, va sottolineato che per la Russia il valore del mercato europeo del gas è oggi in calo. Il REPowerEU prevede la completa indipendenza da tutti i tipi di combustibile russo entro il 2027 e, anche se l'attuazione del piano è significativamente ritardata, la domanda europea di gas russo è destinata nel tempo a diminuire a causa: degli investimenti già effettuati nelle rinnovabili; della chiusura e delocalizzazione delle industrie ad alta intensità energetica a seguito della crisi energetica del 2021-2023; grazie, infine, alla costruzione di nuovi terminali GNL.

Lo scorso gennaio, nel comunicare la chiusura del corridoio di transito Gazprom, il presidente Volodymyr Zelensky aveva affermato con enfasi che la Russia non avrebbe più potuto "guadagnare miliardi con il nostro sangue". In realtà, l’Ucraina sembra ben attenta a non minare il proprio ruolo strategico come partner energetico per l'Europa, anche solo come fornitore di stoccaggio del gas e/o come gestore del gasdotto. Ancora una volta, “Business first!”

La guerra e lo scudo ucraino 

Per tentare di comprendere appieno quanto avviene oggi intorno all’Ucraina, il processo di pace e i possibili futuri sviluppi, è indispensabile ‘riavvolgere il nastro’ - come si sarebbe detto un tempo - e riandare al 24 febbraio 2022, a poche ore dall'invasione dell'Ucraina. Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella nel suo La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino

«l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. L’area totale è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerali generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo.» 

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Suo obiettivo - spiega ancora Sabella - è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin ambisce alla conquista dello ‘scudo ucraino’. Con ogni mezzo. Ma, come registra la recente cronaca internazionale, non è certo il solo: la ricchezza mineraria non sfruttata dell’Ucraina - che si stima comprenda il 5% delle risorse minerarie totali del mondo, presenti in circa 20.000 giacimenti - è diventata oggi strumento della geopolitica ‘muscolare’ di Trump, camuffata da ‘operazione speciale’ di peacekeeping.

Non si tratta solo delle ormai celebri ‘terre rare’ (su cui torneremo in seguito), ma anche di titanio, litio, uranio, manganese, nichel, cobalto... Prima dell'invasione su vasta scala della Russia, 3.055 di questi giacimenti (15%) erano attivi. I dati anteguerra del Ministero dell’Economia ucraino indicano, per esempio, che le sole esportazioni di titanio generavano 500 milioni di dollari all’anno, una cifra che già allora si stimava potesse triplicare con tecniche di estrazione moderne e un accesso stabile al mercato. Risorse assai appetibili, dunque, anche se in parte - per ora - solo potenziali. Minerali strategici su cui l’Unione europea stessa, ma anche Cina e Australia, avevano già manifestato interesse ben prima della guerra, in totale cooperazione con il governo ucraino però. A differenza di Putin e Trump. 

Tra i minerali strategici, un altro esempio promettente è quello del litio: si stima che il paese ne abbia nelle sue viscere 500 mila tonnellate, ovvero circa il 3% delle riserve totali globali. Alcuni grandi giacimenti di questo minerale sono stati scoperti proprio poco prima dell’invasione. A novembre del 2021, la società australiana European Lithium aveva dichiarato di essere vicina ad assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio nella regione di Donetsk (Ucraina orientale) e a Kirovograd, al centro del paese. Nello stesso periodo, anche la cinese Chengxin Lithium partecipava a un’asta del governo ucraino per acquisire i diritti di sfruttamento su altri due importanti siti. Intenzione dichiarata dell’azienda cinese: “Mettere un piede nell’industria europea del litio”. Oggi il 25% del litio ucraino si troverebbe nelle zone orientali occupate dai russi.

Come vedremo meglio in seguito, gli Stati Uniti stanno tentando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, fornitore dominante mondiale di materie prime strategiche: si stima che tra il 2019 e il 2022 gli USA abbiano importato più del 95% delle terre rare consumate. Nello stesso periodo, prima della guerra, altre società di investimento cinesi già operavano in Ucraina nel settore minerario. Secondo Francesco D'Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli",  

«Il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino di accreditarsi come un interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa, ed il recente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina ha completamente cancellato queste ambizioni.»

Col senno di poi, oggi si capisce come le cospicue risorse minerarie, assieme all’importante rete di gasdotti che attraversano il paese, abbiano nutrito sia le legittime speranze di riscatto di Kyiv, sia gli appetiti di nemici e alleati. 

Trump, Putin e gli altri: la grande spartizione 

L'interesse per le ricchezze minerarie dell'Ucraina è sia economico che geopolitico. Il sottosuolo del paese è ricco infatti di ‘minerali critici’, cruciali per la transizione verde e digitale e - più in generale - per  l’industria manifatturiera ad alta tecnologia e per i sistemi di difesa avanzati. Gli Stati Uniti ne designano circa cinquanta. L’Unione Europea ha classificato come strategici, 34 minerali, 22 dei quali presenti nelle miniere ucraine. Tra questi, cospicue riserve di titanio e significativi depositi di litio, uranio, manganese, grafite... Potenzialmente l'Ucraina potrebbe dunque garantire all'Occidente un’importante, nuova filiera di approvvigionamento, ma lo sfruttamento delle sue risorse richiede la fine della guerra e la risoluzione di sfide logistiche, finanziarie e di sicurezza. 

Il conflitto, infatti, ha bloccato l'industria estrattiva, distrutto infrastrutture, costretto al reclutamento e trasferito la manodopera qualificata, interrompendo così le catene di approvvigionamento pregresse. Secondo le stime del think-tank ucraino We Build Ukraine e dell'Istituto nazionale di studi strategici, che citano dati fino alla prima metà del 2024, circa il 40% delle risorse metalliche dell'Ucraina è ora sotto l'occupazione russa (compresi due importanti siti di litio a Donetsk e Zaporizhzhya). Presto o tardi, la transizione verde incrementerà notevolmente la domanda di materie come il litio e il cobalto, vitali per la produzione di batterie e motori elettrici. Goldman Sachs prevede che entro il 2030 il 72% delle vendite di nuovi veicoli nella UE e il 50% negli Stati Uniti saranno elettrici. Di conseguenza, la domanda di litio nella sola UE potrebbe aumentare fino a 21 volte rispetto ai livelli del 2020. Il tutto a fronte di una capacità mineraria interna che rimane limitata e costringe gli Stati membri a dipendere fortemente dalle importazioni. 

L’ingresso dell'Ucraina nell'ERMA (European Raw Materials Alliance), nel luglio 2021, ha saldato una forte cooperazione tra Unione Europea e Ucraina, consentendo una più stretta integrazione nel mercato delle materie prime critiche. Ciò, assicura vantaggi reciproci, in particolare nell'identificazione e gestione di joint-venture tra attori industriali e investitori. ll primo dei progetti realizzati concretamente, già nel 2021, è stata la creazione di una mappa interattiva online, grazie alla quale vengono individuati e localizzati tutti i minerali strategici ucraini. L'applicazione fornisce dati su licenze, depositi ed eventi minerari riguardanti mille siti. Kyiv sta oggi ulteriormente sviluppando tale piattaforma virtuale, accessibile alle aziende globali, per facilitare la ricostruzione postbellica del paese. Tutto ciò ha, certamente, giocato un ruolo rilevante nel portare la UE, il 21 giugno 2024, ad aprire i negoziati per permettere all’Ucraina di divenire membro dell’Unione (Accession country).

La Commissione Europea ha riconosciuto l'Ucraina come importante fornitore globale di titanio e come potenziale fonte di approvvigionamento dell’UE per oltre 20 materie prime critiche. In tale contesto, nel 2023 è stata lanciata una partnership strategica  per integrare la fornitura di materie prime ucraine nella emergente catena di approvvigionamento delle batterie. Una conferma della rilevanza di tale cooperazione si è avuta il 25 febbraio scorso quando Stéphane Séjourné, Commissario europeo per la Strategia industriale, ha dichiarato di aver presentato la proposta della UE sulle terre rare ai funzionari ucraini, incontrati a Kyiv durante una visita della Commissione europea per celebrare il terzo anniversario dell'invasione su vasta scala della Russia: “Si tratta di una situazione win-win.” - ha affermato il Commissario - "Il valore aggiunto offerto dall'Europa è che non chiederemo mai un accordo che non sia reciprocamente vantaggioso." 

Ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti - ςa va sans dire - NON è puramente casuale. Poco dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza, infatti, la discussione sulla guerra in Ucraina e sulle prospettive di pacificazione si è di fatto spostata sullo sfruttamento dei minerali critici e, in particolare,delle terre rare ucraine. Dall’entusiasmo iniziale, i toni di Trump hanno via-via virato in direzione del ricatto, piuttosto che dell’accordo win-win. Kyiv aveva infatti proposto le proprie risorse, sperando di ricevere in cambio sia denaro per la ripresa economica che garanzie di sicurezza da parte degli USA. Da Trump per ora ha invece ottenuto solo la sospensione degli aiuti militari e di intelligence. Dal canto suo, Putin ha risposto entrando a gamba tesa tra i due litiganti con una controproposta: candidandosi come miglior partner nel deal con Trump, ha sottolineato che Mosca ha "risorse significativamente maggiori" dell'Ucraina, comprese quelle - ha lasciato provocatoriamente intendere - delle regioni ucraine che ha annesso.

Per molte ragioni, tuttavia, l’attuazione di qualsiasi accordo in questo settore è in pratica impossibile fino a quando non si raggiunga una pace stabile e duratura. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare, infatti, è un processo ad alta intensità di capitale, che richiede almeno 500-700 milioni di dollari di investimento iniziale, senza tenere conto dei costi delle attività associate. 

Le terre rare, inoltre, si trovano solo come minerali complessi multicomponente, molto difficili da separare. Il processo richiede tecnologie specifiche, in cui quasi nessuno - tranne la Cina - ha investito negli ultimi trent'anni. 

L'estrazione di terre rare, infine, può causare gravi danni ambientali. Bayan Obo, nella regione cinese della Mongolia interna, è il più grande giacimento del mondo ed è anche uno dei luoghi più inquinati della Terra. Dati gli evidenti costi sociali di tale inquinamento, fino a oggi era quasi impossibile sviluppare queste industrie nelle democrazie occidentali. Solo recentemente si sono sviluppate tecnologie relativamente pulite, forse applicabili in ecosistemi a minore rischio.

Anche se si riuscisse in qualche modo a raggiungere un accordo di pace, ci saranno ancora molti problemi nel breve e lungo termine. L'estrazione e la lavorazione delle terre rare è, infatti, estremamente dispendiosa in termini di energia. Nei tre anni di guerra, come abbiamo visto, le infrastrutture energetiche ucraine sono state decimate. Ogni progetto richiederebbe la costruzione o il ripristino di una propria centrale elettrica, il che farebbe aumentare ulteriormente i costi. Molto difficile, sia per gli ucraini che per i russi, essere all'altezza di una tale sfida. 

Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a lavorare con le aziende americane nei giacimenti di terre rare sia in Russia che nelle parti dell'Ucraina occupata. L'accordo con la Russia, tuttavia, comporterebbe problemi apparentemente insormontabili: gli Stati Uniti potrebbero in teoria investire in giacimenti russi lontani dalle linee del fronte, ma ciò solleverebbe immediatamente interrogativi sull'accessibilità (sono molto lontani dalle principali rotte commerciali), sul ricorso alla tecnologia (sono tutti attualmente sotto sanzioni) e, soprattutto, sui diritti di proprietà. 

La proposta di Putin equivale anche a pugnalare alle spalle Pechino. Xi Jinping potrebbe aversene a male, dopo il ruolo chiave svolto da Pechino nella stabilizzazione dell'economia russa durante la guerra. Inoltre, il dominio della Cina nella produzione di terre rare, sostenuto da decenni di investimenti strategici e da standard normativi poco rigorosi, avevano permesso a Pechino - come abbiamo già visto - di accreditarsi come interlocutore silenzioso nell’economia delle risorse ucraine prima dell’invasione russa. Questa, e il conseguente intervento occidentale a difesa dell’Ucraina, hanno completamente cancellato le ambizioni del Dragone. 

La Cina, alleato strategico della Federazione Russa, accetterà il riallineamento minerario guidato dagli Stati Uniti e dalla Russia stessa in Ucraina, o metterà in atto ritorsioni economiche, tattiche ibride e contromisure alternative per contrastarlo?   

Un nuovo ordine globale

Ciò che sta accadendo in Ucraina (e intorno a essa) è paradigmatico di un nuovo approccio alla geopolitica. Quella che si sta disputando intorno a noi, infatti, è la delicatissima partita per un nuovo ordine globale. A muovere i giochi è un intreccio di interessi colossali, spesso in conflitto tra di loro. Il quadro è, al momento, assai confuso ma già si delineano almeno due tendenze.

Da una parte, la ‘geopolitica muscolare’ di Putin e Trump, dove a guidare le relazioni internazionali e la politica estera sono gli affari. Gli interessi della nazione e quelli personali del leader coincidono perfettamente. Emergono, in altre parole, varie forme di autocrazia (o di ‘democrazia post-liberale’, a bassa intensità, se si preferisce) predatoria, imperialista, colonialista, sessista, negazionista della crisi climatica e molto, molto attenta a monetizzare profitti ed eventuali perdite nel più breve termine possibile. Business First!

Dall’altra, la ‘geopolitica cooperativa’, democratica, solidale, femminista, ambientalista. Una galassia frammentata - e certo non priva di contraddizioni - che intende difendere con ogni mezzo la democrazia (per quanto imperfetta possa essere) e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. E che, ςa va sans dire, si è da subito mobilitata in difesa dell’Ucraina contro il suo invasore.

L’Unione Europea, dal canto suo, si trova pericolosamente in mezzo al guado. E non da oggi. Prima del conflitto, ha permesso a Putin/Gazprom di usare l’avidità di pochi come cavallo di Troia per destabilizzare il continente, incapace di vigilare e resistere ai voraci appetiti domestici per il gas russo a basso prezzo (Germania e Italia, tra i migliori clienti). In seguito, attraverso coraggiose politiche per la decarbonizzazione come il Green Deal, la UE ha tentato di contrastare la dipendenza dai fossili russi. Queste politiche però non hanno resistito al conflitto: le scomposte reazioni dei 27 alla vampata dei prezzi energetici, infatti, ha portato la Commissione a cedere alle pressioni di alcuni governi, a loro volta incalzati dalle lobby dei fossili. Con il Clean Industrial Deal, vengono di fatto depotenziati il Green Deal e quel ‘Fit for 55’, che tanto avevano spaventato il Cremlino. La UE, da apripista della transizione energetica, è ora a rimorchio dei paladini degli ultimi profitti dei combustibili fossili. Putin/Gazprom ringraziano, immaginiamo. Business First!

Tre anni di guerra sono lunghi e spossanti. Fatto salvo il carico di dolore per le vite perdute (umane e non), le distruzioni, la devastazione ambientale, lo spreco di risorse che qualsiasi guerra porta con sé, Zelensky si trova anche a dover fronteggiare il teatrino indecente che le potenze stanno giocando per spartirsi i famosi ‘materiali critici’ di cui il mondo ha un disperato bisogno per la transizione energetica e digitale, certo, ma anche – non dimentichiamolo – per i sistemi avanzati di difesa. Alla corsa per la ‘Grande spartizione’ partecipano in parecchi.

Alcuni, come Trump e Putin, non hanno pudori a usare la forza. Coercizione e ricatto rappresentano soltanto un ‘metodo negoziale’ come un altro. L’importante è concludere il deal. Presto e bene (per loro, naturalmente). Altri, come la UE e come la Cina (per ora sottotraccia) preferiscono la cooperazione ed evocano progetti win-win.

In questo contesto, non stupisce che Zelensky abbia scelto di portare avanti una specie di ‘gioco del Monopoli’ tentando di tenersi in equilibrio tra i vari contendenti. Prima salvare la pelle, poi si vedrà. Legittimo, no? Anche a costo di unirsi allo strano silenzio di tutti i convitati su un processo di sfruttamento delle terre rare in gran parte inesistente e ancora tutto da costruire. O evitare ogni riferimento a investimenti di capitale così ingenti da far tremare i polsi a chiunque (americani inclusi). O, ancora, tacere sui tempi lunghi di messa a punto di quelle nuove tecnologie di raffinazione meno inquinanti e più performanti, indispensabili in un paese come l’Ucraina, densamente popolata e al centro dell’Europa. Ma, si sa... Business First! 

*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via freemalaysiatoday.com

Il pacifismo a targhe alterne che vuole lasciare l’Ucraina in balia della Russia

Dal giorno dell’invasione dell’Ucraina la parola “pace” è stata invocata nelle piazze, nelle televisioni, nei giornali e nei social. Chi d'altronde potrebbe sostenere altro oppure volere la guerra?

Anche il voltafaccia di Trump e l’ambiguità con cui Putin ha rifiutato la tregua, sono motivati da entrambi in nome della “pace”. Lo stesso dibattito sulla necessità dell'Europa di avere una sua autonoma politica di difesa, e quindi di investimenti adeguati, avviene su diverse e spesso opposte concezioni di cosa significhi pace, di come si sia realizzata e di come vada assicurata nel futuro.

Tra i molti ad avere un'opinione opposta è utile segnalare Carlo Rovelli, per cui Trump ha persino un ruolo positivo nello scongiurare una possibile “Terza guerra mondiale” e una possibile forza di pace al servizio del disarmo globale. 

Il tema della pace però non coincide in automatico con il pacifismo, così come il pacifismo è cosa diversa dalla nonviolenza. Chi nella Seconda guerra mondiale sconfisse il nazifascismo voleva la pace senza essere pacifista. Pannella, il politico che ha fatto proprio lo strumento della nonviolenza in Italia, delineava la differenza netta con il pacifismo.

Non esiste un movimento pacifista che abbia il monopolio della pace. Non esiste una risposta a cosa sia, essendo diversa per luogo, epoca e da chi lo organizza. Il pacifismo ha sempre avuto un'azione collettiva di massa all’opposto della nonviolenza che si realizza anche con azioni individuali di disobbedienza civile.                                                                                                                

Si può però provare una suddivisione in “pacifismo assoluto” e “pacifismo relativo”. 

Possiamo pensare il pacifismo assoluto come una teoria ed una pratica coerente, utopico ed intransigente senza compromessi di sorta. Potrebbe essere derivato da una idea nonviolenta originata da una filosofia o una corrente religiosa. Più difficilmente da una scelta politica. Rifiutare l'uso della violenza senza compromessi di sorta, fino all'estremo di essere disposti a subirla, si basa sulla fiducia che l'altro, il nemico, sia capace di compiere la stessa valutazione. Che attraverso la parola e l'ascolto si disarmi ogni conflitto. 

Gandhi, durante la Prima guerra mondiale pensava che gli indiani dovessero contribuire alla difesa, poiché solo così avrebbe avuto senso chiedere uguali diritti come parte dell’Impero britannico. Il 12 dicembre del 1931 incontra Mussolini, che di lui dice “è un santone, un genio che usa la bontà come arma”. Verso Mussolini non nasconde ammirazione: “Molte delle riforme che ha fatto mi attirano, perché le ha fatte in nome e per l’interesse del suo popolo. Però le ha fatte col guanto di ferro e la costrizione”. Riconosce inoltre ai suoi discorsi un “nocciolo” di “sincerità e di amore appassionato per il suo popolo”, arrivando ad affermare che i suoi metodi non sono diversi da quelli di altri Stati democratici. 

Dopo l’accordo di Monaco del 1938, che consegna la regione dei Sudeti alla Germania prima difende Francia e Gran Bretagna, e dopo invita la Cecoslovacchia a non chiedere il loro intervento armato  fino a “perire disarmati”. Il 23 luglio del 1939 e il 24 dicembre del 1940 scrisse due lettere a Hitler chiamandolo “caro amico" invitandolo a fermare la guerra.

Rivolto ai britannici che si stanno difendendo dice: “abbandonate le armi che impugnate, [...] invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola, con tutto ciò che di grande e di bello contiene”. Vorrebbe offrire un appoggio morale e nonviolento alla resistenza britannica ma si trova contro gli stessi membri del congresso indiano. Media la sua opinione e afferma che l’India può partecipare alla guerra solo se insieme alla libertà per gli inglesi si sarebbe affermata la libertà per gli indiani. 

Quello di Gandhi è un percorso complesso e non lineare che, soprattutto quando attiene all’India, individua delle mediazioni ma progressivamente lo porta a una radicalità utopica della nonviolenza. 

La stessa Chiesa, che per secoli ha avuto le sue armate o benedetto quelle di altri, ha approfondito il tema del diritto alla  difesa. Durante la guerra in Bosnia, Papa Giovanni Paolo II disse:  

Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati attuati e, nonostante ciò, le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza [...] I principi di sovranità degli Stati e di non ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere.

Il 23 gennaio del 1994 durante l’Angelus affermò:

Non dobbiamo rassegnarci! Agli organismi competenti rimane la responsabilità di non tralasciare nulla di quanto è umanamente possibile per disarmare l'aggressore e creare le condizioni di una giusta e durevole pace.

Alexander Langer e Don Tonino Bello organizzano marce contro la Guerra del Golfo, ma si trovano impotenti davanti alla guerra in Bosnia e all’assedio di Sarajevo.

Langer, pacifista e nonviolento, promotore dell’appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo ricorda come chiedendo al Presidente francese Chirac per impedire i massacri e l’assedio di Sarajevo fosse invitato a non dividere il conflitto in buoni e cattivi. 

Don Tonino Bello, nel dicembre del 1992, dopo essere stato a Sarajevo “tornò pieno di dubbi, e non li nascose, aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione della pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, era sicuro di una cosa: che la pace, per affermarsi, ha bisogno anzitutto di persone pacifiche e mezzi pacifici”. 

Langer era convinto della possibilità di evitare ogni intervento armato, ma fu posto di fronte al dilemma di come impedire che l’uso della guerra costringesse i più deboli e indifesi a soccombere. Visse l'impossibilità di risolvere quel contrasto mettendo fine alla sua vita. Nel 2021 Alexander Langer è diventato cittadino onorario di Sarajevo. 

Sono tre esempi diversi che non tracciano una conclusione coerente, se non il dilemma che queste persone ebbero di fronte alla guerra e all’azione nonviolenta. Il pacifismo assoluto è quindi un'opzione utopica, mai messa in pratica in uno scenario bellico dove potrebbe arrestarsi davanti a una volontà opposta, contro la quale il diritto alla difesa non può non essere preso in esame.

Un pacifismo assoluto non può essere invece usato strumentalmente, diventare un escamotage per non decidere chi ha violato le regole del diritto internazionale o quale in un conflitto è la parte che va difesa e sostenuta. Aiuta queste riflessioni il libro di Norberto Bobbio Una guerra giusta? scritto dopo l’inizio della prima guerra del Golfo, e dove il filosofo risponde al quesito se quella guerra fosse giusta o ingiusta, se fosse efficace o inefficace. Approfondisce temi quali la sua proporzionalità nella risposta e i limiti per riconfermare il principio di legittimità.  

Il pacifismo relativo è all'opposto un pacifismo portato direttamente all'interno di più ampie scelte politiche e ideologiche. Ovviamente quando non ci sono guerre il pacifismo non genera un dibattito essendo la pace un principio, un valore assoluto. Ritorna solo quando lo si vuole contrapporre, con la sua aura di purezza, in opposizione a un fatto contingente che avviene. Dichiararsi pacifisti, individualmente o per mezzo di organizzazioni politiche o sociali, significa quasi sempre porsi immediatamente in ogni dibattito al di sopra, in una posizione di vantaggio anche psicologico. 

Chi si dichiara pacifista vuole la pace. Chi non lo è cosa vuole se non il suo opposto ovvero una guerra? Lo schema è insieme brutale, semplice e anche persuasivo. 

Prima della Seconda guerra mondiale gli Stati avevano tutti un ministero della guerra e spesso un ministero per ogni forza armata. La guerra era considerata non una eventualità remota, ma un'opzione inevitabile del proprio paese. Si era sempre pronti alla guerra che era il meccanismo naturale a cui anche i popoli erano preparati. La guerra faceva parte della vita delle persone. 

Dopo la Seconda guerra mondiale il cambiamento è stato radicale. Oggi esistono solo ministeri della Difesa (mai con militari al comando) e il loro ruolo è subordinato alla politica. 

Da ottanta anni nei paesi che fanno parte dell’Unione Europea abbiamo vissuto un periodo di pace nel primo periodo della sua storia senza guerre entro i confini. La domanda è: perché? Perché questi decenni sono il risultato profondo, insieme politico e filosofico, di una azione umana che ha costruito un nuovo diritto internazionale e una comunità istituzionale nata per raggiungere l'obiettivo della pace.

Organismi e strumenti imperfetti e che non hanno debellato il ricorso alla guerra nel mondo, ma che pure hanno costituito un cambio di paradigma e hanno retto un’idea diversa di civiltà, una promessa realizzabile.

Storie e culture diverse, ma certo il frutto di una lunga epoca sanguinosa da superare e che ha fatto nascere scelte e volontà di pace fin dalle intuizioni del Manifesto di Ventotene per l'Europa libera e unita.

La guerra non doveva più essere lo strumento di soluzione dei conflitti, economici o territoriali o religiosi, tra gli Stati. Per impedire il ripetersi delle guerre tra le Nazioni bisognava associarle in qualcosa di più grande. Non un destino nazionale ma europeo e sovranazionale. 

Il pacifismo del dopoguerra è stato invece uno strumento politico nettamente schierato. I Partigiani della pace usavano il lessico della pace, ma trovavano una sua collocazione politica sia dentro i paesi del blocco sovietico sia nei movimenti politici e nazionali, armati, del terzo mondo. Il pacifismo organizzato è stato collaterale a organizzazioni politiche o sociali o religiose e ha sempre scelto quali guerre avversare,meritevoli della protesta, e quali ritenere legittime o da giustificare. 

L’occupazione della Crimea nel 2014 e l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022 hanno rotto decenni di pace e anche di guerra fredda. Una guerra in cui la Russia ha finalità coloniali e imperiali che riportano ai miti sia zaristi che sovietici.

Da subito il movimento pacifista ha scelto con estrema ambiguità di parlare di pace senza però chiarire chi aveva violato quella pace. Non solo non scegliendo da che parte stare, ma non dando un giudizio sulle responsabilità della guerra, oppure ponendolo tra molti “ma”. 

Secondo questa prospettiva, usando concetti da pace assoluta, gli ucraini dovrebbero usare la nonviolenza e paesi come l’Italia non dovrebbero dare armi per difendersi e quindi favorire la guerra. Oppure si relativizza talmente il concetto da finire per usare gli stessi argomenti della propaganda russa.

Motivazioni che hanno resistito a qualunque obiezione e vengono ripetute ancora oggi. Dal “colpo di Stato del 2014”, alle minoranze russe represse, all’allargamento della NATO, al governo nazista, alla pace impedita ora da Zelensky, ora da Biden, ora da Boris Johnson.

Se la collocazione ideologica ha sempre e solo avversato l'occidente, risulta conseguente non vedere le responsabilità in altri Stati anche di fronte a una invasione. Così mentre si nega il diritto dell'Ucraina di difendersi non si chiede alla Russia di ritirarsi o di non usare armi iraniane o soldati della Corea del Nord. 

La stessa freddezza che ha accolto la possibile tregua di un mese è un segnale inequivocabile. “Cease fire” per Gaza, ma silenzio per l’Ucraina e nessun sit-in di fronte all’ambasciata russa.

Nello stesso momento due richieste opposte, ma coerenti nella visione di un pacifismo relativo che si nutre di una propaganda antioccidentale. In questi tre anni abbiamo visto identiche posizioni così sovrapponibili da non poter distinguere sia di movimenti di destra che di sinistra o populisti. Non esiste in Italia un movimento di massa che invochi il diritto internazionale per la lettura di conflitti, guerre e occupazioni, ma solo un suo arruolamento selettivo su base ideologica".

Sono parte - volontaria o meno - di una diversa guerra, quella ibrida condotta dalla Russia, per costruire consenso nell’occidente. Persino scelte nonviolente quali le sanzioni economiche sono bollate come inutili e controproducenti. Vi è evidente una oscillazione tra un pacifismo assoluto,“che dovrebbe essere sempre tale senza distinzione di luogo, tempo e soggetti coinvolti” e uno relativo, conseguenza invece delle scelte ideologiche o elettorali di chi le compie.

Una coerenza che vorrebbe imporre ad altri popoli la fine di una guerra al costo di perdite territoriali, sacrificando di fatto la propria indipendenza fino a giustificare le ragioni dell'invasore. 

Una incoerenza, sostenuta da una schiera di intellettuali di varia provenienza, che prima non ha creduto all'invasione e dopo ha attinto alle colpe “dell’occidente globale” come definito da Putin.   

Non è la NATO o l’Unione Europea che è andata a est. Ma è quell'est che è voluto diventare parte dell'Europa consapevole del proprio tragico passato uscendo dal dominio sovietico. In questo quadro è avvenuto il ribaltamento del ruolo e delle politiche degli Usa che vedono nell'Europa un nemico, arrivando a parlare di “annessione” della NATO per paesi come Finlandia e Svezia. 

Gli avvenimenti  dal 2022 a oggi hanno posto l’Europa davanti alla aggressività militare della Russia e a quella commerciale degli Stati Uniti, paesi che sembrano voler costruire e condividere un rapporto che implica la quasi esclusione della Ucraina e dell’Europa. 

Di fronte a uno sconvolgimento della storia l’Europa deve rapidamente decidere su temi su cui ha costruito il suo ruolo e le sue alleanze economiche e militari. Rapporti economici, regole commerciali, sistemi di difesa quali la NATO non sono oggi punti certi e non sarà facile capire come si muoveranno gli Stati Uniti.

Il tema della difesa è già diventato quello più urgente su cui gli stati e le opinioni pubbliche saranno costretti a confrontarsi e decidere. Oggi la Russia, su un bilancio statale di circa 400 miliardi di euro, ne destina 120 alla difesa. In Italia, invece, ne vanno circa 30 su 900 miliardi.

L'Europa deve avere un'idea politica che leghi difesa e pace non solo se e quanto  spendere. Lo hanno compreso i paesi confinanti con la Russia, a partire da quelli come la Moldavia, i Paesi Baltici, i Paesi Scandinavi (storicamente neutrali) e la Polonia. Una pace che difenda la nostra Europa mentre gli Stati Uniti ogni giorno stanno aggiungendo un mattone verso uno stato autocratico e illiberale, persino con minacce dirette a paesi come la Danimarca, attraverso i reiterati discorsi di Trump sull’annessione della Groenlandia.

Questa pace non può basarsi su falsi imitatori di Gandhi, dopo aver passato una vita ad emozionarsi e per ogni guerra di liberazione compresa la Resistenza, che nella migliore delle ipotesi si fermerebbero a scrivere una lettera al caro Putin, o a usare il pacifismo come argomento di propaganda anti-europea. 

La bandiera europea sventolava come vessillo identitario delle manifestazioni dei mesi scorsi in Georgia. Qualcuno pensa che sognano l'Europa come continente di guerra, o perché spazio di pace e democrazia opposto alla ideologia militare e nazionalista russa? 

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