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Unione Europea

I paesi europei e il piano di sicurezza dopo Trump

di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, La Stampa, OBCT, Italia), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Kim Son Hoang (Der Standard, Austria), Caleb Larson (Germania), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Krasen Nikolov (Mediapool, Bulgaria)

“Diciamoci la verità: l’Unione Europea è stata creata con l’intento di fregare gli Stati Uniti”, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fine febbraio, annunciando dazi del 25% nei confronti degli (ex?) alleati europei. “Era questo l’obiettivo, e ci sono riusciti. Ma ora il presidente sono io”. Le minacce verbali e le azioni di Trump negli ultimi due mesi hanno destabilizzato l’equilibrio della NATO e inasprito le tensioni tra gli Stati membri dell’UE, che ha tuttavia reagito tempestivamente a livello centrale.

​Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro Bianco della difesa, che include il piano "ReArm Europe" proposto dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. La risoluzione è stata approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni: le conclusioni del piano sono state adottate, tuttavia, in seno al Consiglio Europeo, che la scorsa settimana ha riunito i 27 leader dell’UE.

Uno degli elementi chiave del piano è la possibilità per gli Stati membri di incrementare la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli del Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nel periodo previsto. Circa 130 miliardi all’anno, divisi fra i 27 Stati Membri: in media, 5 miliardi all’anno per paese. Inoltre, è previsto un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti di innovazione nel settore della difesa.

Non ha trovato invece appoggio da parte dei leader europei, con poche sorprese, il piano da 40 miliardi (sono stati allocati, ad ora, solo 5 miliardi) proposto dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas per aiutare Kyiv: non solo per il veto dell’Ungheria, ma anche per i dubbi di alcuni stati sulla proporzionalità degli aiuti rispetto al Reddito nazionale lordo, osteggiato soprattutto da Francia e Italia, secondo Euronews.

Ma al di là degli equilibri europei e di ciò che succederà nei prossimi mesi in Ucraina, il tycoon può davvero rompere l’alleanza transatlantica, oppure sta solo bluffando? Secondo Heinz Gärtner, politologo austriaco dell’Università di Vienna ed esperto di politica estera americana e sicurezza internazionale, “l’alleanza transatlantica non finirà, perché tramite la NATO gli USA continuano ad avere un’influenza considerevole sui membri europei”. 

Tutti i presidenti USA, sottolinea Gärtner, hanno chiesto un aumento delle spese militari agli alleati europei: la differenza è che Trump sta adottando una retorica più aggressiva e minacciosa, in un contesto storico come mai delicato. 

“Trump ha semplicemente reso visibili le relazioni di dipendenza interne all’alleanza transatlantica”, dice Gärtner, sottolineando però come Joe Biden avesse rivendicato il ruolo guida degli Stati Uniti in un modo diverso: “a differenza dello stile di Trump, gli europei venivano almeno informati in anticipo sulle intenzioni americane”.

Durante il primo mandato di Trump, “gli europei avevano appoggiato tutte le principali decisioni di politica estera americana”, ricorda Gärtner, inclusa la politica verso la Corea del Nord “e la cena ad hamburger con Kim”, il cosiddetto “accordo del secolo” ideato dal genero di Trump Jared Kushner, così come il ritiro unilaterale dall'accordo nucleare con l’Iran. “Perfino i dazi vennero in qualche modo tollerati”, sottolinea Gärtner.

In un mutato contesto di riarmo ideologico e materiale, trascinato dalla deriva autoritaria statunitense evidente dalla retorica del secondo mandato di Trump, molti si chiedono però delle possibili conseguenze: come cambierà l’Europa tra cinque anni?

Secondo Gärtner, la storia ha dimostrato come “le zone di influenza si creino laddove si trovano gli eserciti”. È già in costruzione una moderna cortina di ferro: una barriera elettronica “intelligente” tra Finlandia e Russia. La Finlandia, che ha la frontiera più lunga dell’UE con Mosca, ha iniziato nel 2023 la costruzione di una recinzione di 200 km, da completare entro il 2027 o 2028.

L’obiettivo iniziale era contenere l’immigrazione — sia da paesi terzi extra-UE che dei russi in fuga dalla leva dopo il 2022. Ma ora le preoccupazioni sono ben più gravi. “Dobbiamo essere pronti a prevenire e rispondere a crisi, conflitti e persino agli scenari più gravi, come la guerra”, ha dichiarato la ministra dell’Interno finlandese, Mari Rantanen, in un incontro a Helsinki con il ministro danese per la Resilienza e Preparazione Torsten Schack Pedersen.

Nuovi sistemi d’arma vengono già installati da entrambe le parti del confine. Per Gärtner, uno scenario possibile è la formazione di una cortina che va dall’Artico al Mar Nero, passando per l’Ucraina. Il risultato: riarmo generalizzato e intensificazione del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, in cui ogni aumento della sicurezza di uno Stato alimenta l’insicurezza degli altri.

Lisa Musiol, direttrice del programma UE dell’International Crisis Group, è netta: “credo che gli europei abbiano chiaro che non si tornerà allo status quo precedente”. In un’intervista al media spagnolo El Confidencial, afferma che si è verificato un cambiamento fondamentale nella percezione della minaccia russa e nella fiducia nei confronti dell’alleato americano. “Gli europei riconoscono, o stanno cominciando a riconoscere, che gli Stati Uniti non sono il partner affidabile che avevano pensato”.

Un cambiamento storico destinato a rimanere impresso negli equilibri del futuro nel Vecchio Continente. L’Europa sta vivendo una trasformazione radicale nella propria politica di difesa. Il caso più emblematico è la Germania, dove Friedrich Merz, leader della CDU e prossimo cancelliere dopo la vittoria alle elezioni di fine febbraio, ha proposto di riformare le rigide regole sul debito per aumentare la spesa militare. L’obiettivo: creare un fondo da 500 miliardi di euro. La proposta prevede di esentare dal controllo del debito le spese per la difesa superiori all’1% del PIL.

Soprattutto in Germania, infatti, molti vedono nel riarmo un’opportunità industriale: le grandi aziende della difesa come Rheinmetall stanno riconvertendo impianti dell’automotive, tra cui gli impianti Volkswagen, per produrre carri armati, radar, sistemi antimissile. Il piano, però, dipende dal sostegno dei partiti — incluso quello dei Verdi, che però nelle ultime settimane hanno accettato un compromesso.

Sia a Berlino che a Bruxelles, però, il tempismo non è stato dei migliori: il riarmo non è iniziato nei tre anni di guerra in Ucraina, ma solo ora, spinto dalla retorica muscolare della nuova amministrazione USA che sta spingendo Putin a non arretrare di un passo dalle sue pretese iniziali.

“Entrambe le parti — Russia da un lato, Ucraina e UE dall’altro — si percepiscono come minacce”, dice Musiol. Un rapporto pubblicato da Crisis Group a gennaio 2025 sul futuro della sicurezza europea ha analizzato le percezioni reciproche: “Abbiamo osservato un’escalation simmetrica nelle capacità di difesa e deterrenza. Come organizzazione che si occupa di prevenzione dei conflitti, sappiamo che questo comporta grandi rischi”, aggiunge Musiol.

Un ordine di sicurezza europeo fondato sulla deterrenza richiederà, infatti, anche enormi sforzi diplomatici. Secondo Gärtner, esiste un’alternativa: un sistema di sicurezza comune post-bellico. Sarebbe necessaria “una grande conferenza internazionale” per definire un nuovo ordine in cui la sicurezza sia concepita come indivisibile. Ma un processo di questo tipo “non sarebbe possibile senza il coinvolgimento del Sud globale”. 

Per Musiol, “questo è un momento decisivo”. Le prossime settimane e mesi saranno cruciali, non solo per l’Ucraina, ma per la sicurezza europea. Sebbene Trump prema per un accordo rapido, se non superficiale, dell’invasione russa, il Crisis Group prevede che “i negoziati si prolungheranno” a lungo. Potrebbero esserci altri colloqui tra Stati Uniti e Russia, e forse anche con europei e ucraini. Musiol ritiene che Trump si accorgerà “che Putin non è realmente interessato a un accordo”, e dunque “lo scenario più probabile è un conflitto prolungato”.

Nel frattempo, le azioni della nuova amministrazione USA hanno acceso le tensioni interne all’UE, riportando alla luce rivalità antiche come quella tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. “Vorrei sapere a che titolo sei andato a Washington”, aveva chiesto in maniera polemica Meloni al presidente francese durante un vertice UE. Appena una settimana prima, la presidente del Consiglio italiana aveva partecipato alla convention degli ultraconservatori MAGA.

Nonostante il sostegno unanime dei 27 alla proposta di von der Leyen di investire 800 miliardi nella difesa nei prossimi quattro anni, le crepe interne sono destinate a farsi più evidenti.

Il Parlamento olandese ha già bocciato il piano. In Francia, Mélenchon parla di “disastro ecologico irreversibile”. Le quinte colonne del Cremlino in Europa, su tutti Le Pen e Salvini, sostengono che il vero pericolo non è Mosca ma il fondamentalismo islamico. Ma anche in Spagna alcuni partner di governo di Sánchez rifiutano il piano di riarmo proposto da von der Leyen, in maniera simile a una parte del Partito Democratico in Italia.

Due elezioni in Europa centro-orientale potrebbero ulteriormente cambiare il quadro europeo. In Polonia, dove si vota il prossimo 18 maggio, il presidente Duda chiede agli USA di trasferire armi nucleari nel paese: “La NATO si è spostata a est nel 1999. Ora, dopo 26 anni, anche la sua infrastruttura dovrebbe seguire l’allargamento geografico”, ha dichiarato Duda, che non potrà ricandidarsi, al Financial Times. Il nuovo candidato dei conservatori di Diritto e Giustizia, Karol Nawrocki, propone addirittura la rottura dei rapporti diplomatici con Mosca.

In Repubblica Ceca, il blocco governativo di centrodestra è europeista e in prima linea nel sostegno all’Ucraina, ma il partito ODS è contrario a una maggiore integrazione con l’UE. Il partito populista ANO, guidato dall’oligarca Andrej Babiš, considerato favorevole a Mosca, è dato per favorito alle elezioni di ottobre: è contro il riarmo, ma potrebbe cambiare idea se ci fossero incentivi finanziari dall’UE.

Di fronte alla tentazione dell’unilateralismo, arriva l’avvertimento del bulgaro Ruslan Stefanov, direttore del Centro per lo Studio della Democrazia e coautore di The Kremlin Handbook, che parafrasando Kissinger, scrive: “Povera Germania, troppo grande per l’Europa, e troppo piccola per il mondo”.

Secondo Stefanov, “l’UE (o meglio, i suoi Stati membri, ndr) deve rendersi conto che solo il suo potere economico aggregato ha peso globale”. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato a una maggiore federalizzazione europea, ma in ogni caso in un clima di crescenti divisioni all’interno dei singoli parlamenti nazionali.

Sergio Mattarella, in un discorso all’Università di Marsiglia, ha tracciato un parallelo con la crisi degli anni ’20 e ’30 del Novecento che alimentò protezionismo, unilateralismo e sgretolamento delle alleanze. Il risultato fu l’emergere di “fenomeni autoritari” ritenuti, erroneamente, più efficaci nel proteggere gli interessi nazionali.

Per alcuni analisti, come Nathalie Tocci, l’amministrazione Trump — con l’abbraccio a Putin e il sostegno sostegno a partiti estremisti come l’AfD in Germania — prosegue un progetto simile a quello iniziato dal Cremlino a partire dal 2015: smantellare l’Europa dall’interno, al fine di renderla irrilevante sullo scenario globale. Anche secondo Gärtner la destra radicale vede in Trump un alleato, “soprattutto per quanto riguarda le politiche anti-immigrazione”. 

Questo potrebbe spingere i governi europei filo-Trump, come quello italiano o ungherese, ad accettare di aumentare le spese militari ma acquistando armi (e gas liquido) dagli Stati Uniti per mantenere buoni rapporti con Washington. Generando così un evidente paradosso, rispetto all’obiettivo europeo di smarcarsi dalla dipendenza americana. É arrivato il momento di scelte definitive, in Italia, come nel resto d’Europa.

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali

Le politiche economiche di Trump potrebbero essere un’opportunità per l’Europa

Gli Stati Uniti non sono più l’alleato prediletto dell’Europa. Non c’è da leggere tra le righe: il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha più volte dichiarato che “l’Europa ci ha trattato davvero male” e che l’idea stessa di un’unione degli Stati europei è nata per minacciare il primato degli Stati Uniti. Oltre alle parole, non mancano i provvedimenti presi dall’amministrazione Trump. Basti pensare ai rapporti privilegiati con il Presidente della Russia  Vladimir Putin per quel che riguarda una fantomatica pace in Ucraina, lasciando l’Ucraina da sola e l’Europa in un angolo, ma anche ai dazi sull’acciaio e sull’alluminio al 25 per cento varati dall’amministrazione Trump il 12 di marzo. Questi dazi peseranno su un 5 per cento delle esportazioni dell’Europa negli Stati Uniti, per un valore di 26 miliardi di euro. 

Ovviamente i dazi avranno ripercussioni sull’economia europea. Secondo le stime, i dazi che Trump ha e intende imporre sui prodotti europei per compensare lo squilibrio della bilancia commerciale potrebbero portare a una contrazione del PIL dell’Eurozonastimato tra l’1 e l’1,6 per cento. 

Ma proprio questo mutamento nei rapporti tra i due paesi, assieme alle politiche economiche dell’amministrazione Trump, aprono varie opzioni per l’Europa, che a loro volta però non sono esenti da problematiche e rischi.  

Dalle esportazioni in USA al mercato interno

Per comprendere perché i dazi potrebbero, in parte, rivelarsi un’opportunità per l’Europa è utile tracciare un parallelismo con quanto successo con il riarmo. Per garantire la propria autonomia strategica nel campo della difesa a fronte di un’amministrazione sempre più ostile, la Commissione europea e gli Stati membri hanno compreso la necessità di una maggior unità nel settore delle difesa, abbandonando dogmi come il debito che attanagliano certi paesi europei. 

In modo tempestivo, al mutare degli eventi, l’Europa è stata in grado di virare la sua strategia per far fronte al mutato contesto geopolitico e allo stesso modo può fare nel caso dei dazi. 

Per farlo, però, è necessario riprendere le indicazioni e le analisi fornite da Mario Draghi. Durante un simposio del Centre for Economic Policy Research (CEPR) nel dicembre del 2024, Draghi ha illustrato i problemi strutturali di un approccio basato sull’export come quello seguito dall’Europa. Gli eventi cardine di questa problematica risiederebbero in due crisi gemelle (twin crises). 

La prima è lo shock di produttività avvenuto negli anni ‘90 con lo sviluppo di Internet che ha dato linfa vitale all’economia americana, mentre l’Europa è rimasta indietro su questo fronte. La seconda, invece, risiede nel differente approccio alla crisi del 2008 seguito dagli Stati Uniti e dall’Europa. Per contrastare la crisi finanziaria, gli USA sono ricorsi a politiche anticicliche che hanno iniettato risorse all’interno del sistema economico facendo leva sul debito. Ciò ha portato a una ripresa più rapida degli Stati Uniti che hanno visto, allo stesso tempo, un maggior afflusso di capitali. 

L'Europa ha seguito una strada diversa, quella appunto di un’economia basata sull’export e sulla contrazione della domanda interna. L'esempio cardine è proprio il modello tedesco, assunto a paradigma dagli Stati europei per migliorare la propria competitività durante gli anni della crisi economica, come spiegato in un documento della Fondazione Robert Schuman. I paesi europei, in parte, hanno supportato questo modello perché la combinazione di bassi salari ed esportazioni avrebbe reso più competitivo il sistema economico e, soprattutto, garantito guadagni alle imprese. 

La politica fiscale restrittiva ha giocato un ruolo fondamentale in questo processo. Come riferisce Draghi, tra il 2009 e il 2019 il governo statunitense ha iniettato nell’economia fondi quattordici volte superiori rispetto a quelli immessi in Europa.

Per invertire la rotta serve però una maggior integrazione tra gli Stati membri, soprattutto per quel che riguarda la piena attuazione del Mercato Unico Europeo e una rimozione delle barriere interne. Secondo le stime dell’International Monetary Fund (IMF), le barriere interne al mercato unico sono equivalenti a un dazio del 45 per cento per il settore manifatturiero e del 110 per cento per quello dei servizi. Sempre secondo l’IMF, se il mercato europeo funzionasse come quello americano la produttività del lavoro sarebbe del 7 per cento più elevata dopo 7 anni. Queste stesse barriere possono poi ridurre l’efficacia della politica fiscale, il secondo strumento che Draghi reputa centrale per il rilancio dell’economia europea. 

Questi strumenti funzioneranno solo se saranno implementate delle riforme strutturali. Su questo aspetto il discorso di Draghi segna un punto di rottura che è necessario approfondire. Per anni, le riforme strutturali erano intese proprio come politiche per la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la compressione salariale. Nel 2011 lo stesso Draghi aveva sposato questa direzione  nella lettera scritta insieme a Jean-Claude Trichet (all’epoca Presidente della BCE). La situazione odierna richiede invece che queste politiche vadano a sostenere i lavoratori tramite la formazione, per aumentare la produttività. Draghi ha citato come paese di riferimento la Svezia e il suo modello di socialdemocrazia nordica. Agendo con la formazione dei lavoratori e stipendi elevati, il paese ha creato un sistema economico nel quale le imprese, per restare competitive sul mercato, non possono agire sulla compressione salariale o sulle tutele. Questo incentiva gli investimenti in capitale umano e innovazione, creando un’economia dinamica e innovativa che premia le aziende più efficienti. 

Tuttavia, la strada per implementare quanto sostenuto da Draghi è in salita. Per quanto la Commissione europea abbia cercato di adottare i consigli del suo report, le divisioni interne rischiano di far cadere nel vuoto le proposte. A oggi quindi l’opportunità per l’Europa di sfruttare il proprio mercato interno, appare più come wishful thinking. 

Rilanciare gli accordi commerciali: tra opportunità e limiti

L’export continuerà comunque a essere un componente importante dell’economia europea. Davanti ai dazi dell’amministrazione Trump sarà quindi necessario cercare altri partner commerciali per sostituire una parte delle esportazioni americane. Tra i due mercati più importanti con cui l’Europa è interessata a stringere rapporti ci sono il Mercosur, cioè il mercato composto da Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, e l’India. 

L’accordo, secondo le stime della commissione, avrebbe portato a una riduzione dei dazi del valore di 4 miliardi di euro, in un mercato che vale complessivamente 84 miliardi di export da parte dell’Europa. Prima dell’accordo, infatti, l’area del Mercosur presentava dazi a livello proibitivo per molte aziende, soprattutto nel settore manifatturiero: per il settore dell’automotive, si parlava di dazi del 35 per cento, mentre altri settori cruciali come farmaceutico e chimico arrivavano al 18 e 14 per cento rispettivamente. Inoltre l’accordo prevede la partecipazione da parte delle aziende europee ad appalti pubblici nei paesi. Di particolare importanza è il tema delle materie prime critiche, che sono al centro della strategia per la transizione dell’Europa. Gli Stati del Mercosur garantirebbero un maggior approvvigionamento per l’Europa a questo tipo di materiali, secondo l’accordo. 

Se la commissione europea è favorevole, per la retifica servirà poi l’approvazione degli Stati membri. Tra questi, sia l’Italia sia la Francia hanno manifestato più di qualche perplessità. Gli agricoltori francesi, infatti, ritengono che una maggiore integrazione con il Mercosur rischierebbe di inondare l’Europa di beni come la carne bovina a basso prezzo, con possibili danni per il settore. Questo perché le regole sui quei prodotti dei paesi come Argentina e Brasile sono meno stringenti rispetto a quelle europee, permettendo quindi agli agricoltori di rivenderle a un prezzo più competitivo rispetto a quelli domestici qualora fossero azzerati i dazi. I parlamentari francesi hanno raccolto queste preoccupazioni in una lettera aperta su Le Monde, firmata da oltre 600 di loro. L’appello, lanciato da Yannick Jadot degli Ecologisti, ha inoltre puntualizzato che vi sono tre aspetti che è necessario tenere presente per la firma di questi accordi: in primo luogo non aumentare la cosiddetta “deforestazione importata” per i paesi dell'UE, il rispetto degli accordi di Parigi sul clima e infine, appunto, misure più stringenti sui prodotti. 

Secondo i firmatari, questo tipo di accordi ha spinto i paesi dell’America Latina a destinare determinati campi alla coltivazione di soia e mangimi, andando ad aumentare la deforestazione e quindi aumentando l’emissione di gas serra. Non solo: anche le modalità di allevamento in questi paesi, che permettono mega fattorie e un utilizzo di antibiotici per favorire la crescita della massa del bovino, andrebbe a svantaggio degli allevatori europei. Proprio per far fronte a queste critiche il governo francese, nell'autunno dello scorso anno, ha ribadito alla commissione la contrarietà della Francia a questo tipo di accordo. 

Anche il nostro paese ha cambiato idea sull’accordo. Durante il G20 a Rio de Janeiro infatti il ministro dell'agricoltura Francesco Lollobrigida aveva dichiarato che il governo Meloni si sarebbe opposto al trattato. A giocare un ruolo fondamentale sarebbe stata la Coldiretti, che rappresenta gli interessi di categoria degli agricoltori. 

Dall’altra parte però ci sono paesi altrettanto importanti in Europa come la Germania. Per i tedeschi il mercato dell’automobile sudamericano è particolarmente interessante e per questo sono tra i più favorevoli all’accordo.

Tra le opzioni che la Commissione sta considerando per ratificare l’accordo c’è da una parte la creazione di sussidi per le categorie colpite, dall’altra la possibilità di spacchettare il voto sull’accordo. In questo caso, dal punto di vista giuridico, la Francia non potrebbe più mettere il veto in quanto il voto si svolgerebbe a maggioranza qualificata. 

Per quel che riguarda invece l’India, a inizio anno la presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha annunciato alla platea del World Economic Forum a Davos che si sarebbe recata nel paese per riavviare il dialogo su un potenziale accordo commerciale. Il paese asiatico è una delle novità economiche più importanti degli ultimi decenni. In particolare dopo gli anni ‘90, il Prodotto Interno Lordo indiano ha avuto una crescita estremamente rapida, con un tempo di raddoppio di circa cinque anni. Nonostante oggi le prospettive di crescita siano leggermente meno rosee, l’economia indiana è in una fase di forte consolidamento con una classe media più ricca e un mercato dei capitali più stabile. 

Per questo può rappresentare un mercato importante per l’Europa. Già nel 2021 vi erano stati dei primi passi verso un accordo, dopo che in passato i tentativi erano stati fallimentari. Il tema più importante riguarda, appunto, le barriere doganali e non che l’India impone sugli esportatori europei per salvaguardare la sua economia. Il fine dell’accordo, da parte europea, sarebbe proprio la riduzione di queste barriere al commercio che renderebbero più conveniente esportare verso l’India. 

Ma, se i problemi dell’accordo con il Mercosur sono di natura economica, il rischio con l’India è di natura politica. Da anni il paese è governato da Narendra Modi, che secondo gli osservatori ha portato a una regressione della democrazia nella penisola. Non solo sul fronte interno Modi rappresenta un alleato discutibile, ma anche per quel che riguarda il suo atteggiamento sullo scacchiere internazionale. 

L’India fa infatti parte dei BRICS, un raggruppamento di paesi che un tempo potevano essere classificati come economie emergenti e che punta a un mondo multipolare. All’interno dei BRICS, ci sono anche Russia e Cina, due paesi piuttosto ostili all’Europa. Ma mentre Modi continua a partecipare agli incontri dei BRICS e a spingere per un mondo multipolare, sa muoversi benissimo anche tra le cancellerie dei paesi occidentali. Questo atteggiamento ondivago non sembra preoccupare la commissione, che è intenzionata a finalizzare un primo accordo nella seconda metà dell’anno. Tutto dipenderà dalla situazione geopolitica internazionale e da quali saranno gli interessi di Modi al momento. 

Un equilibrio tra pragmatismo e idealismo

Per quanto l’impatto dei dazi voluti da Trump, così come la nuova direzione seguita dall’amministrazione americana a livello economico, sarà probabilmente negativo almeno nel breve periodo, l’Europa si trova di fronte a nuove opportunità di crescita. La prima è un cambiamento radicale nell’organizzazione stessa del mercato e della visione dell’Europa a livello economico. Non si può pensare di competere con Stati come Cina e Stati Uniti se si è soltanto un raggruppamento di paesi spesso non allineati tra di loro: è necessario un mercato unico più efficace, con una strategia che punta a rilanciare l’innovazione attraverso la domanda e salari più alti, abbandonando quindi strategie di compressione salariale ed economia basata sull’export

L’ostacolo tra quello che l’Europa di oggi e quella di domani, però, sta tutta nella volontà degli Stati membri. Davanti a una minaccia esistenziale come quella di  un mondo dominato da super potenze come Cina e Stati Uniti, l’Europa deve scegliere se abbandonarsi a un destino di decadenza, come avviene oggi, o reagire. 

La seconda opportunità riguarda la diversificazione dei partner commerciali, con gli accordi di libero scambio con Mercosur e India. Come abbiamo visto, entrambe le aree economiche presentano problematiche di non poco conto. Quello che si trova ad affrontare l’Europa, in questo caso, è cercare un equilibrio tra il pragmatismo- che vede in questi accordi nuove potenzialità di crescita- e l’idealismo- che sottolinea invece le problematicità. Non si tratta di una scelta facile, anzi. Ma è fondamentale comprendere quanto, in un mondo come quello di oggi, le decisioni siano lontane dall’essere semplici: meglio accettare le condizioni di Trump o pensare a una diversificazione dei partner commerciali, consapevoli che in entrambi ci sarà un prezzo da pagare. Soprattutto per quanto riguarda l’accordo con il Mercosur, tutto dipenderà anche da come l’Europa deciderà di compensare gli eventuali settori colpiti, senza cadere in un mito da globalizzazione anni ‘90 che ha portato le fasce più colpite a spostarsi verso movimenti reazionari e nazionalisti. 

(Immagine anteprima via Flickr)

 

I paesi europei e il piano di sicurezza dopo Trump

di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, La Stampa, OBCT, Italia), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Kim Son Hoang (Der Standard, Austria), Caleb Larson (Germania), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Krasen Nikolov (Mediapool, Bulgaria)

“Diciamoci la verità: l’Unione Europea è stata creata con l’intento di fregare gli Stati Uniti”, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fine febbraio, annunciando dazi del 25% nei confronti degli (ex?) alleati europei. “Era questo l’obiettivo, e ci sono riusciti. Ma ora il presidente sono io”. Le minacce verbali e le azioni di Trump negli ultimi due mesi hanno destabilizzato l’equilibrio della NATO e inasprito le tensioni tra gli Stati membri dell’UE, che ha tuttavia reagito tempestivamente a livello centrale.

​Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro Bianco della difesa, che include il piano "ReArm Europe" proposto dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. La risoluzione è stata approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni: le conclusioni del piano sono state adottate, tuttavia, in seno al Consiglio Europeo, che la scorsa settimana ha riunito i 27 leader dell’UE.

Uno degli elementi chiave del piano è la possibilità per gli Stati membri di incrementare la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli del Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nel periodo previsto. Circa 130 miliardi all’anno, divisi fra i 27 Stati Membri: in media, 5 miliardi all’anno per paese. Inoltre, è previsto un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti di innovazione nel settore della difesa.

Non ha trovato invece appoggio da parte dei leader europei, con poche sorprese, il piano da 40 miliardi (sono stati allocati, ad ora, solo 5 miliardi) proposto dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas per aiutare Kyiv: non solo per il veto dell’Ungheria, ma anche per i dubbi di alcuni stati sulla proporzionalità degli aiuti rispetto al Reddito nazionale lordo, osteggiato soprattutto da Francia e Italia, secondo Euronews.

Ma al di là degli equilibri europei e di ciò che succederà nei prossimi mesi in Ucraina, il tycoon può davvero rompere l’alleanza transatlantica, oppure sta solo bluffando? Secondo Heinz Gärtner, politologo austriaco dell’Università di Vienna ed esperto di politica estera americana e sicurezza internazionale, “l’alleanza transatlantica non finirà, perché tramite la NATO gli USA continuano ad avere un’influenza considerevole sui membri europei”. 

Tutti i presidenti USA, sottolinea Gärtner, hanno chiesto un aumento delle spese militari agli alleati europei: la differenza è che Trump sta adottando una retorica più aggressiva e minacciosa, in un contesto storico come mai delicato. 

“Trump ha semplicemente reso visibili le relazioni di dipendenza interne all’alleanza transatlantica”, dice Gärtner, sottolineando però come Joe Biden avesse rivendicato il ruolo guida degli Stati Uniti in un modo diverso: “a differenza dello stile di Trump, gli europei venivano almeno informati in anticipo sulle intenzioni americane”.

Durante il primo mandato di Trump, “gli europei avevano appoggiato tutte le principali decisioni di politica estera americana”, ricorda Gärtner, inclusa la politica verso la Corea del Nord “e la cena ad hamburger con Kim”, il cosiddetto “accordo del secolo” ideato dal genero di Trump Jared Kushner, così come il ritiro unilaterale dall'accordo nucleare con l’Iran. “Perfino i dazi vennero in qualche modo tollerati”, sottolinea Gärtner.

In un mutato contesto di riarmo ideologico e materiale, trascinato dalla deriva autoritaria statunitense evidente dalla retorica del secondo mandato di Trump, molti si chiedono però delle possibili conseguenze: come cambierà l’Europa tra cinque anni?

Secondo Gärtner, la storia ha dimostrato come “le zone di influenza si creino laddove si trovano gli eserciti”. È già in costruzione una moderna cortina di ferro: una barriera elettronica “intelligente” tra Finlandia e Russia. La Finlandia, che ha la frontiera più lunga dell’UE con Mosca, ha iniziato nel 2023 la costruzione di una recinzione di 200 km, da completare entro il 2027 o 2028.

L’obiettivo iniziale era contenere l’immigrazione — sia da paesi terzi extra-UE che dei russi in fuga dalla leva dopo il 2022. Ma ora le preoccupazioni sono ben più gravi. “Dobbiamo essere pronti a prevenire e rispondere a crisi, conflitti e persino agli scenari più gravi, come la guerra”, ha dichiarato la ministra dell’Interno finlandese, Mari Rantanen, in un incontro a Helsinki con il ministro danese per la Resilienza e Preparazione Torsten Schack Pedersen.

Nuovi sistemi d’arma vengono già installati da entrambe le parti del confine. Per Gärtner, uno scenario possibile è la formazione di una cortina che va dall’Artico al Mar Nero, passando per l’Ucraina. Il risultato: riarmo generalizzato e intensificazione del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, in cui ogni aumento della sicurezza di uno Stato alimenta l’insicurezza degli altri.

Lisa Musiol, direttrice del programma UE dell’International Crisis Group, è netta: “credo che gli europei abbiano chiaro che non si tornerà allo status quo precedente”. In un’intervista al media spagnolo El Confidencial, afferma che si è verificato un cambiamento fondamentale nella percezione della minaccia russa e nella fiducia nei confronti dell’alleato americano. “Gli europei riconoscono, o stanno cominciando a riconoscere, che gli Stati Uniti non sono il partner affidabile che avevano pensato”.

Un cambiamento storico destinato a rimanere impresso negli equilibri del futuro nel Vecchio Continente. L’Europa sta vivendo una trasformazione radicale nella propria politica di difesa. Il caso più emblematico è la Germania, dove Friedrich Merz, leader della CDU e prossimo cancelliere dopo la vittoria alle elezioni di fine febbraio, ha proposto di riformare le rigide regole sul debito per aumentare la spesa militare. L’obiettivo: creare un fondo da 500 miliardi di euro. La proposta prevede di esentare dal controllo del debito le spese per la difesa superiori all’1% del PIL.

Soprattutto in Germania, infatti, molti vedono nel riarmo un’opportunità industriale: le grandi aziende della difesa come Rheinmetall stanno riconvertendo impianti dell’automotive, tra cui gli impianti Volkswagen, per produrre carri armati, radar, sistemi antimissile. Il piano, però, dipende dal sostegno dei partiti — incluso quello dei Verdi, che però nelle ultime settimane hanno accettato un compromesso.

Sia a Berlino che a Bruxelles, però, il tempismo non è stato dei migliori: il riarmo non è iniziato nei tre anni di guerra in Ucraina, ma solo ora, spinto dalla retorica muscolare della nuova amministrazione USA che sta spingendo Putin a non arretrare di un passo dalle sue pretese iniziali.

“Entrambe le parti — Russia da un lato, Ucraina e UE dall’altro — si percepiscono come minacce”, dice Musiol. Un rapporto pubblicato da Crisis Group a gennaio 2025 sul futuro della sicurezza europea ha analizzato le percezioni reciproche: “Abbiamo osservato un’escalation simmetrica nelle capacità di difesa e deterrenza. Come organizzazione che si occupa di prevenzione dei conflitti, sappiamo che questo comporta grandi rischi”, aggiunge Musiol.

Un ordine di sicurezza europeo fondato sulla deterrenza richiederà, infatti, anche enormi sforzi diplomatici. Secondo Gärtner, esiste un’alternativa: un sistema di sicurezza comune post-bellico. Sarebbe necessaria “una grande conferenza internazionale” per definire un nuovo ordine in cui la sicurezza sia concepita come indivisibile. Ma un processo di questo tipo “non sarebbe possibile senza il coinvolgimento del Sud globale”. 

Per Musiol, “questo è un momento decisivo”. Le prossime settimane e mesi saranno cruciali, non solo per l’Ucraina, ma per la sicurezza europea. Sebbene Trump prema per un accordo rapido, se non superficiale, dell’invasione russa, il Crisis Group prevede che “i negoziati si prolungheranno” a lungo. Potrebbero esserci altri colloqui tra Stati Uniti e Russia, e forse anche con europei e ucraini. Musiol ritiene che Trump si accorgerà “che Putin non è realmente interessato a un accordo”, e dunque “lo scenario più probabile è un conflitto prolungato”.

Nel frattempo, le azioni della nuova amministrazione USA hanno acceso le tensioni interne all’UE, riportando alla luce rivalità antiche come quella tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. “Vorrei sapere a che titolo sei andato a Washington”, aveva chiesto in maniera polemica Meloni al presidente francese durante un vertice UE. Appena una settimana prima, la presidente del Consiglio italiana aveva partecipato alla convention degli ultraconservatori MAGA.

Nonostante il sostegno unanime dei 27 alla proposta di von der Leyen di investire 800 miliardi nella difesa nei prossimi quattro anni, le crepe interne sono destinate a farsi più evidenti.

Il Parlamento olandese ha già bocciato il piano. In Francia, Mélenchon parla di “disastro ecologico irreversibile”. Le quinte colonne del Cremlino in Europa, su tutti Le Pen e Salvini, sostengono che il vero pericolo non è Mosca ma il fondamentalismo islamico. Ma anche in Spagna alcuni partner di governo di Sánchez rifiutano il piano di riarmo proposto da von der Leyen, in maniera simile a una parte del Partito Democratico in Italia.

Due elezioni in Europa centro-orientale potrebbero ulteriormente cambiare il quadro europeo. In Polonia, dove si vota il prossimo 18 maggio, il presidente Duda chiede agli USA di trasferire armi nucleari nel paese: “La NATO si è spostata a est nel 1999. Ora, dopo 26 anni, anche la sua infrastruttura dovrebbe seguire l’allargamento geografico”, ha dichiarato Duda, che non potrà ricandidarsi, al Financial Times. Il nuovo candidato dei conservatori di Diritto e Giustizia, Karol Nawrocki, propone addirittura la rottura dei rapporti diplomatici con Mosca.

In Repubblica Ceca, il blocco governativo di centrodestra è europeista e in prima linea nel sostegno all’Ucraina, ma il partito ODS è contrario a una maggiore integrazione con l’UE. Il partito populista ANO, guidato dall’oligarca Andrej Babiš, considerato favorevole a Mosca, è dato per favorito alle elezioni di ottobre: è contro il riarmo, ma potrebbe cambiare idea se ci fossero incentivi finanziari dall’UE.

Di fronte alla tentazione dell’unilateralismo, arriva l’avvertimento del bulgaro Ruslan Stefanov, direttore del Centro per lo Studio della Democrazia e coautore di The Kremlin Handbook, che parafrasando Kissinger, scrive: “Povera Germania, troppo grande per l’Europa, e troppo piccola per il mondo”.

Secondo Stefanov, “l’UE (o meglio, i suoi Stati membri, ndr) deve rendersi conto che solo il suo potere economico aggregato ha peso globale”. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato a una maggiore federalizzazione europea, ma in ogni caso in un clima di crescenti divisioni all’interno dei singoli parlamenti nazionali.

Sergio Mattarella, in un discorso all’Università di Marsiglia, ha tracciato un parallelo con la crisi degli anni ’20 e ’30 del Novecento che alimentò protezionismo, unilateralismo e sgretolamento delle alleanze. Il risultato fu l’emergere di “fenomeni autoritari” ritenuti, erroneamente, più efficaci nel proteggere gli interessi nazionali.

Per alcuni analisti, come Nathalie Tocci, l’amministrazione Trump — con l’abbraccio a Putin e il sostegno sostegno a partiti estremisti come l’AfD in Germania — prosegue un progetto simile a quello iniziato dal Cremlino a partire dal 2015: smantellare l’Europa dall’interno, al fine di renderla irrilevante sullo scenario globale. Anche secondo Gärtner la destra radicale vede in Trump un alleato, “soprattutto per quanto riguarda le politiche anti-immigrazione”. 

Questo potrebbe spingere i governi europei filo-Trump, come quello italiano o ungherese, ad accettare di aumentare le spese militari ma acquistando armi (e gas liquido) dagli Stati Uniti per mantenere buoni rapporti con Washington. Generando così un evidente paradosso, rispetto all’obiettivo europeo di smarcarsi dalla dipendenza americana. É arrivato il momento di scelte definitive, in Italia, come nel resto d’Europa.

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali

Le politiche economiche di Trump potrebbero essere un’opportunità per l’Europa

Gli Stati Uniti non sono più l’alleato prediletto dell’Europa. Non c’è da leggere tra le righe: il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha più volte dichiarato che “l’Europa ci ha trattato davvero male” e che l’idea stessa di un’unione degli Stati europei è nata per minacciare il primato degli Stati Uniti. Oltre alle parole, non mancano i provvedimenti presi dall’amministrazione Trump. Basti pensare ai rapporti privilegiati con il Presidente della Russia  Vladimir Putin per quel che riguarda una fantomatica pace in Ucraina, lasciando l’Ucraina da sola e l’Europa in un angolo, ma anche ai dazi sull’acciaio e sull’alluminio al 25 per cento varati dall’amministrazione Trump il 12 di marzo. Questi dazi peseranno su un 5 per cento delle esportazioni dell’Europa negli Stati Uniti, per un valore di 26 miliardi di euro. 

Ovviamente i dazi avranno ripercussioni sull’economia europea. Secondo le stime, i dazi che Trump ha e intende imporre sui prodotti europei per compensare lo squilibrio della bilancia commerciale potrebbero portare a una contrazione del PIL dell’Eurozonastimato tra l’1 e l’1,6 per cento. 

Ma proprio questo mutamento nei rapporti tra i due paesi, assieme alle politiche economiche dell’amministrazione Trump, aprono varie opzioni per l’Europa, che a loro volta però non sono esenti da problematiche e rischi.  

Dalle esportazioni in USA al mercato interno

Per comprendere perché i dazi potrebbero, in parte, rivelarsi un’opportunità per l’Europa è utile tracciare un parallelismo con quanto successo con il riarmo. Per garantire la propria autonomia strategica nel campo della difesa a fronte di un’amministrazione sempre più ostile, la Commissione europea e gli Stati membri hanno compreso la necessità di una maggior unità nel settore delle difesa, abbandonando dogmi come il debito che attanagliano certi paesi europei. 

In modo tempestivo, al mutare degli eventi, l’Europa è stata in grado di virare la sua strategia per far fronte al mutato contesto geopolitico e allo stesso modo può fare nel caso dei dazi. 

Per farlo, però, è necessario riprendere le indicazioni e le analisi fornite da Mario Draghi. Durante un simposio del Centre for Economic Policy Research (CEPR) nel dicembre del 2024, Draghi ha illustrato i problemi strutturali di un approccio basato sull’export come quello seguito dall’Europa. Gli eventi cardine di questa problematica risiederebbero in due crisi gemelle (twin crises). 

La prima è lo shock di produttività avvenuto negli anni ‘90 con lo sviluppo di Internet che ha dato linfa vitale all’economia americana, mentre l’Europa è rimasta indietro su questo fronte. La seconda, invece, risiede nel differente approccio alla crisi del 2008 seguito dagli Stati Uniti e dall’Europa. Per contrastare la crisi finanziaria, gli USA sono ricorsi a politiche anticicliche che hanno iniettato risorse all’interno del sistema economico facendo leva sul debito. Ciò ha portato a una ripresa più rapida degli Stati Uniti che hanno visto, allo stesso tempo, un maggior afflusso di capitali. 

L'Europa ha seguito una strada diversa, quella appunto di un’economia basata sull’export e sulla contrazione della domanda interna. L'esempio cardine è proprio il modello tedesco, assunto a paradigma dagli Stati europei per migliorare la propria competitività durante gli anni della crisi economica, come spiegato in un documento della Fondazione Robert Schuman. I paesi europei, in parte, hanno supportato questo modello perché la combinazione di bassi salari ed esportazioni avrebbe reso più competitivo il sistema economico e, soprattutto, garantito guadagni alle imprese. 

La politica fiscale restrittiva ha giocato un ruolo fondamentale in questo processo. Come riferisce Draghi, tra il 2009 e il 2019 il governo statunitense ha iniettato nell’economia fondi quattordici volte superiori rispetto a quelli immessi in Europa.

Per invertire la rotta serve però una maggior integrazione tra gli Stati membri, soprattutto per quel che riguarda la piena attuazione del Mercato Unico Europeo e una rimozione delle barriere interne. Secondo le stime dell’International Monetary Fund (IMF), le barriere interne al mercato unico sono equivalenti a un dazio del 45 per cento per il settore manifatturiero e del 110 per cento per quello dei servizi. Sempre secondo l’IMF, se il mercato europeo funzionasse come quello americano la produttività del lavoro sarebbe del 7 per cento più elevata dopo 7 anni. Queste stesse barriere possono poi ridurre l’efficacia della politica fiscale, il secondo strumento che Draghi reputa centrale per il rilancio dell’economia europea. 

Questi strumenti funzioneranno solo se saranno implementate delle riforme strutturali. Su questo aspetto il discorso di Draghi segna un punto di rottura che è necessario approfondire. Per anni, le riforme strutturali erano intese proprio come politiche per la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la compressione salariale. Nel 2011 lo stesso Draghi aveva sposato questa direzione  nella lettera scritta insieme a Jean-Claude Trichet (all’epoca Presidente della BCE). La situazione odierna richiede invece che queste politiche vadano a sostenere i lavoratori tramite la formazione, per aumentare la produttività. Draghi ha citato come paese di riferimento la Svezia e il suo modello di socialdemocrazia nordica. Agendo con la formazione dei lavoratori e stipendi elevati, il paese ha creato un sistema economico nel quale le imprese, per restare competitive sul mercato, non possono agire sulla compressione salariale o sulle tutele. Questo incentiva gli investimenti in capitale umano e innovazione, creando un’economia dinamica e innovativa che premia le aziende più efficienti. 

Tuttavia, la strada per implementare quanto sostenuto da Draghi è in salita. Per quanto la Commissione europea abbia cercato di adottare i consigli del suo report, le divisioni interne rischiano di far cadere nel vuoto le proposte. A oggi quindi l’opportunità per l’Europa di sfruttare il proprio mercato interno, appare più come wishful thinking. 

Rilanciare gli accordi commerciali: tra opportunità e limiti

L’export continuerà comunque a essere un componente importante dell’economia europea. Davanti ai dazi dell’amministrazione Trump sarà quindi necessario cercare altri partner commerciali per sostituire una parte delle esportazioni americane. Tra i due mercati più importanti con cui l’Europa è interessata a stringere rapporti ci sono il Mercosur, cioè il mercato composto da Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, e l’India. 

L’accordo, secondo le stime della commissione, avrebbe portato a una riduzione dei dazi del valore di 4 miliardi di euro, in un mercato che vale complessivamente 84 miliardi di export da parte dell’Europa. Prima dell’accordo, infatti, l’area del Mercosur presentava dazi a livello proibitivo per molte aziende, soprattutto nel settore manifatturiero: per il settore dell’automotive, si parlava di dazi del 35 per cento, mentre altri settori cruciali come farmaceutico e chimico arrivavano al 18 e 14 per cento rispettivamente. Inoltre l’accordo prevede la partecipazione da parte delle aziende europee ad appalti pubblici nei paesi. Di particolare importanza è il tema delle materie prime critiche, che sono al centro della strategia per la transizione dell’Europa. Gli Stati del Mercosur garantirebbero un maggior approvvigionamento per l’Europa a questo tipo di materiali, secondo l’accordo. 

Se la commissione europea è favorevole, per la retifica servirà poi l’approvazione degli Stati membri. Tra questi, sia l’Italia sia la Francia hanno manifestato più di qualche perplessità. Gli agricoltori francesi, infatti, ritengono che una maggiore integrazione con il Mercosur rischierebbe di inondare l’Europa di beni come la carne bovina a basso prezzo, con possibili danni per il settore. Questo perché le regole sui quei prodotti dei paesi come Argentina e Brasile sono meno stringenti rispetto a quelle europee, permettendo quindi agli agricoltori di rivenderle a un prezzo più competitivo rispetto a quelli domestici qualora fossero azzerati i dazi. I parlamentari francesi hanno raccolto queste preoccupazioni in una lettera aperta su Le Monde, firmata da oltre 600 di loro. L’appello, lanciato da Yannick Jadot degli Ecologisti, ha inoltre puntualizzato che vi sono tre aspetti che è necessario tenere presente per la firma di questi accordi: in primo luogo non aumentare la cosiddetta “deforestazione importata” per i paesi dell'UE, il rispetto degli accordi di Parigi sul clima e infine, appunto, misure più stringenti sui prodotti. 

Secondo i firmatari, questo tipo di accordi ha spinto i paesi dell’America Latina a destinare determinati campi alla coltivazione di soia e mangimi, andando ad aumentare la deforestazione e quindi aumentando l’emissione di gas serra. Non solo: anche le modalità di allevamento in questi paesi, che permettono mega fattorie e un utilizzo di antibiotici per favorire la crescita della massa del bovino, andrebbe a svantaggio degli allevatori europei. Proprio per far fronte a queste critiche il governo francese, nell'autunno dello scorso anno, ha ribadito alla commissione la contrarietà della Francia a questo tipo di accordo. 

Anche il nostro paese ha cambiato idea sull’accordo. Durante il G20 a Rio de Janeiro infatti il ministro dell'agricoltura Francesco Lollobrigida aveva dichiarato che il governo Meloni si sarebbe opposto al trattato. A giocare un ruolo fondamentale sarebbe stata la Coldiretti, che rappresenta gli interessi di categoria degli agricoltori. 

Dall’altra parte però ci sono paesi altrettanto importanti in Europa come la Germania. Per i tedeschi il mercato dell’automobile sudamericano è particolarmente interessante e per questo sono tra i più favorevoli all’accordo.

Tra le opzioni che la Commissione sta considerando per ratificare l’accordo c’è da una parte la creazione di sussidi per le categorie colpite, dall’altra la possibilità di spacchettare il voto sull’accordo. In questo caso, dal punto di vista giuridico, la Francia non potrebbe più mettere il veto in quanto il voto si svolgerebbe a maggioranza qualificata. 

Per quel che riguarda invece l’India, a inizio anno la presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha annunciato alla platea del World Economic Forum a Davos che si sarebbe recata nel paese per riavviare il dialogo su un potenziale accordo commerciale. Il paese asiatico è una delle novità economiche più importanti degli ultimi decenni. In particolare dopo gli anni ‘90, il Prodotto Interno Lordo indiano ha avuto una crescita estremamente rapida, con un tempo di raddoppio di circa cinque anni. Nonostante oggi le prospettive di crescita siano leggermente meno rosee, l’economia indiana è in una fase di forte consolidamento con una classe media più ricca e un mercato dei capitali più stabile. 

Per questo può rappresentare un mercato importante per l’Europa. Già nel 2021 vi erano stati dei primi passi verso un accordo, dopo che in passato i tentativi erano stati fallimentari. Il tema più importante riguarda, appunto, le barriere doganali e non che l’India impone sugli esportatori europei per salvaguardare la sua economia. Il fine dell’accordo, da parte europea, sarebbe proprio la riduzione di queste barriere al commercio che renderebbero più conveniente esportare verso l’India. 

Ma, se i problemi dell’accordo con il Mercosur sono di natura economica, il rischio con l’India è di natura politica. Da anni il paese è governato da Narendra Modi, che secondo gli osservatori ha portato a una regressione della democrazia nella penisola. Non solo sul fronte interno Modi rappresenta un alleato discutibile, ma anche per quel che riguarda il suo atteggiamento sullo scacchiere internazionale. 

L’India fa infatti parte dei BRICS, un raggruppamento di paesi che un tempo potevano essere classificati come economie emergenti e che punta a un mondo multipolare. All’interno dei BRICS, ci sono anche Russia e Cina, due paesi piuttosto ostili all’Europa. Ma mentre Modi continua a partecipare agli incontri dei BRICS e a spingere per un mondo multipolare, sa muoversi benissimo anche tra le cancellerie dei paesi occidentali. Questo atteggiamento ondivago non sembra preoccupare la commissione, che è intenzionata a finalizzare un primo accordo nella seconda metà dell’anno. Tutto dipenderà dalla situazione geopolitica internazionale e da quali saranno gli interessi di Modi al momento. 

Un equilibrio tra pragmatismo e idealismo

Per quanto l’impatto dei dazi voluti da Trump, così come la nuova direzione seguita dall’amministrazione americana a livello economico, sarà probabilmente negativo almeno nel breve periodo, l’Europa si trova di fronte a nuove opportunità di crescita. La prima è un cambiamento radicale nell’organizzazione stessa del mercato e della visione dell’Europa a livello economico. Non si può pensare di competere con Stati come Cina e Stati Uniti se si è soltanto un raggruppamento di paesi spesso non allineati tra di loro: è necessario un mercato unico più efficace, con una strategia che punta a rilanciare l’innovazione attraverso la domanda e salari più alti, abbandonando quindi strategie di compressione salariale ed economia basata sull’export

L’ostacolo tra quello che l’Europa di oggi e quella di domani, però, sta tutta nella volontà degli Stati membri. Davanti a una minaccia esistenziale come quella di  un mondo dominato da super potenze come Cina e Stati Uniti, l’Europa deve scegliere se abbandonarsi a un destino di decadenza, come avviene oggi, o reagire. 

La seconda opportunità riguarda la diversificazione dei partner commerciali, con gli accordi di libero scambio con Mercosur e India. Come abbiamo visto, entrambe le aree economiche presentano problematiche di non poco conto. Quello che si trova ad affrontare l’Europa, in questo caso, è cercare un equilibrio tra il pragmatismo- che vede in questi accordi nuove potenzialità di crescita- e l’idealismo- che sottolinea invece le problematicità. Non si tratta di una scelta facile, anzi. Ma è fondamentale comprendere quanto, in un mondo come quello di oggi, le decisioni siano lontane dall’essere semplici: meglio accettare le condizioni di Trump o pensare a una diversificazione dei partner commerciali, consapevoli che in entrambi ci sarà un prezzo da pagare. Soprattutto per quanto riguarda l’accordo con il Mercosur, tutto dipenderà anche da come l’Europa deciderà di compensare gli eventuali settori colpiti, senza cadere in un mito da globalizzazione anni ‘90 che ha portato le fasce più colpite a spostarsi verso movimenti reazionari e nazionalisti. 

(Immagine anteprima via Flickr)

 

Spagna, manifesto contro il riarmo e la guerra in Europa

Diverse organizzazioni pacifiste e il Comitato di coordinamento delle ONG spagnole contro il riarmo e la guerra hanno lanciato il manifesto “No al riarmo e alla guerra in Europa”.

Da Pressenza, ci uniamo nell’evidenziare il grave momento che stiamo attraversando, in cui i leader dell’Unione Europea e i suoi governi – appoggiati da alcuni media – stanno diffondendo una narrazione falsa e egoistica per giustificare il riarmo, seminando paura per prendere decisioni senza trasparenza, con urgenza e ignorando differenti prospettive.

Stanno diffondendo una storia che parla di presunti nemici e di una possibile invasione… tutto questo per giustificare l’aumento delle spese militari, che si tradurrà in grandi benefici per alcune élite economiche e in minori investimenti nell’istruzione, nella sanità… e nella libertà di espressione, come sta già accadendo.

Ecco il link diretto per firmare (si può firmare anche dall’Italia): https://forms.komun.org/manifiesto-contra-el-rearme-y-la-guerra-en-europa


Manifesto

“No al riarmo e alla guerra in Europa”

Esiste qualcuno, in Europa o in qualsiasi altra parte del mondo, che non desideri proteggere i propri cari da una possibile minaccia? Chi non vorrebbe allontanare la terribile ombra della violenza dalla propria vita e da quella dei propri cari? Chi non sogna un futuro in cui i propri figli e le proprie figlie, quelli degli amici e vicini, possano vivere in pace, crescere come individui, avere un lavoro dignitoso, abitare un pianeta sano, avere un tetto sopra la testa, accedere alla cultura e a relazioni sociali arricchenti e costruttive, e vivere una vita libera da qualsiasi forma di violenza?

La società ha bisogno della sicurezza che deriva da un sistema sanitario e scolastico pubblico di qualità per tutti. I giovani necessitano di una casa in cui vivere e i nostri anziani non vogliono vedere minacciate le loro pensioni. E, soprattutto, non vogliamo che i nostri figli e nipoti siano costretti a vivere l’orrore della guerra.

In che misura, esattamente, l’aumento sfrenato delle spese militari che i governi europei propongono di approvare senza dibattito pubblico, senza trasparenza o dettagli e con urgenza, contribuisce a questo futuro di pace? Quanto di questi miliardi sarà destinato a migliorare l’istruzione, la salute, la terribile situazione abitativa, la precarietà culturale, l’armonia ambientale o la solidarietà internazionale? Non sarebbe forse necessario investire in maggiori sforzi politici e diplomatici che, di fronte alle minacce di aggressione, cerchino nuove strade di dialogo?

È stupido, semplicistico o ingenuo desiderare questo, difendere la pace e la giustizia sociale? È forse più intelligente, elaborato e maturo credere che i venti di guerra, il linguaggio guerrafondaio e l’impegno per le armi porteranno un futuro migliore?

No, non accettiamo la guerra. Il riarmo dell’Europa non porterà pace, non contribuirà al miglioramento dei rapporti, ma ci avvicinerà alla guerra. I contesti militaristi sono spesso accompagnati da un regresso dei diritti, delle libertà e delle politiche sociali, alimentano paura e preoccupazione nella società, creando l’ambiente ideale per la normalizzazione dei meccanismi di repressione e autoritarismo, come stiamo già cominciando a vedere.

Temiamo che questa strategia porti a una lunga guerra con la Russia, che non sarà portata avanti per difendere il diritto umanitario internazionale, la libertà, i diritti umani o proteggere i più deboli. Se così fosse, l’atteggiamento verso Netanyahu sarebbe lo stesso di quello verso Putin. Questa Europa che tace o, peggio, sostiene Israele nel suo genocidio a Gaza e in Cisgiordania e addirittura perseguita chi lo denuncia, deve ridefinire chiaramente quali sono i valori comuni la cui difesa viene addotta come giustificazione per il riarmo.

I cittadini del nostro Paese hanno ampiamente dimostrato in passato il loro impegno per la pace e le politiche contro la guerra. La nostra memoria collettiva recente comprende le massicce manifestazioni contro la guerra in Iraq, promossa illegalmente dal governo di José María Aznar, il movimento per rifiutare la permanenza del nostro Paese nella NATO, che ha mobilitato più del 43% dei voti in quel lontano referendum, e il movimento contro il servizio militare obbligatorio fino alla sua eliminazione nel 2001.

L’aumento della spesa militare europea – fino a 800 miliardi di euro in quattro anni – annunciato dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, sarà realizzato attraverso un meccanismo di eccezione che eviterà il dibattito nei parlamenti e, in generale, un’informazione chiara e dettagliata per i cittadini europei.

Non possiamo e non vogliamo accettare che i fondi destinati ai nostri ospedali pubblici, alle scuole e università pubbliche, al sistema di assistenza per le persone non autosufficienti, alle politiche di protezione sociale per i momenti di difficoltà, alla lotta contro il cambiamento climatico, alla violenza di genere, al razzismo, alla protezione dalle emergenze e alla cooperazione vengano invece utilizzati per acquistare carri armati, fucili, aerei da combattimento e missili per la guerra, solo perché così hanno deciso le élite guerrafondaie che attualmente governano l’Europa e gli Stati Uniti.

La vera sicurezza di cui abbiamo bisogno è quella che ci garantisce le nostre pensioni pubbliche, i medici di base, le cure gratuite negli ospedali pubblici per ogni malattia o disturbo, l’istruzione nelle scuole e università pubbliche che assicurano uguaglianza, il sistema di borse di studio, i sussidi di disoccupazione in caso di bisogno, il Reddito Minimo Vitale, i vigili del fuoco che intervengono sugli incendi nelle nostre montagne o soccorrono le persone in emergenza nelle città, oltre allo sviluppo di politiche pubbliche femministe per difendere e proteggere i diritti delle donne e combattere la violenza sessista.

I conflitti bellici vengono progettati in comodi uffici, ma sono le persone a pagarne le conseguenze. Ecco perché questo è un momento estremamente importante per dissipare la crescente tensione e difendere un modello di pace, di benessere sociale e di estensione dei diritti per tutti. Il momento attuale richiede responsabilità, politiche coraggiose, lungimiranza e una cultura di pace.

Ci opponiamo alla guerra, perché non vogliamo la pace dei cimiteri, perché la storia ci dimostra che l’unica via realistica per raggiungere la pace non è quella militare, ma quella politica. Mettetevi al lavoro e lavorate per la pace, lo esigiamo.


Traduzione dallo spagnolo di Laura Proja. Revisione di Thomas Schmid.

Redacción España

I paesi europei e il piano di sicurezza dopo Trump

di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, La Stampa, OBCT, Italia), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Kim Son Hoang (Der Standard, Austria), Caleb Larson (Germania), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Krasen Nikolov (Mediapool, Bulgaria)

“Diciamoci la verità: l’Unione Europea è stata creata con l’intento di fregare gli Stati Uniti”, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fine febbraio, annunciando dazi del 25% nei confronti degli (ex?) alleati europei. “Era questo l’obiettivo, e ci sono riusciti. Ma ora il presidente sono io”. Le minacce verbali e le azioni di Trump negli ultimi due mesi hanno destabilizzato l’equilibrio della NATO e inasprito le tensioni tra gli Stati membri dell’UE, che ha tuttavia reagito tempestivamente a livello centrale.

​Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro Bianco della difesa, che include il piano "ReArm Europe" proposto dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. La risoluzione è stata approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni: le conclusioni del piano sono state adottate, tuttavia, in seno al Consiglio Europeo, che la scorsa settimana ha riunito i 27 leader dell’UE.

Uno degli elementi chiave del piano è la possibilità per gli Stati membri di incrementare la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli del Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nel periodo previsto. Circa 130 miliardi all’anno, divisi fra i 27 Stati Membri: in media, 5 miliardi all’anno per paese. Inoltre, è previsto un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti di innovazione nel settore della difesa.

Non ha trovato invece appoggio da parte dei leader europei, con poche sorprese, il piano da 40 miliardi (sono stati allocati, ad ora, solo 5 miliardi) proposto dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas per aiutare Kyiv: non solo per il veto dell’Ungheria, ma anche per i dubbi di alcuni stati sulla proporzionalità degli aiuti rispetto al Reddito nazionale lordo, osteggiato soprattutto da Francia e Italia, secondo Euronews.

Ma al di là degli equilibri europei e di ciò che succederà nei prossimi mesi in Ucraina, il tycoon può davvero rompere l’alleanza transatlantica, oppure sta solo bluffando? Secondo Heinz Gärtner, politologo austriaco dell’Università di Vienna ed esperto di politica estera americana e sicurezza internazionale, “l’alleanza transatlantica non finirà, perché tramite la NATO gli USA continuano ad avere un’influenza considerevole sui membri europei”. 

Tutti i presidenti USA, sottolinea Gärtner, hanno chiesto un aumento delle spese militari agli alleati europei: la differenza è che Trump sta adottando una retorica più aggressiva e minacciosa, in un contesto storico come mai delicato. 

“Trump ha semplicemente reso visibili le relazioni di dipendenza interne all’alleanza transatlantica”, dice Gärtner, sottolineando però come Joe Biden avesse rivendicato il ruolo guida degli Stati Uniti in un modo diverso: “a differenza dello stile di Trump, gli europei venivano almeno informati in anticipo sulle intenzioni americane”.

Durante il primo mandato di Trump, “gli europei avevano appoggiato tutte le principali decisioni di politica estera americana”, ricorda Gärtner, inclusa la politica verso la Corea del Nord “e la cena ad hamburger con Kim”, il cosiddetto “accordo del secolo” ideato dal genero di Trump Jared Kushner, così come il ritiro unilaterale dall'accordo nucleare con l’Iran. “Perfino i dazi vennero in qualche modo tollerati”, sottolinea Gärtner.

In un mutato contesto di riarmo ideologico e materiale, trascinato dalla deriva autoritaria statunitense evidente dalla retorica del secondo mandato di Trump, molti si chiedono però delle possibili conseguenze: come cambierà l’Europa tra cinque anni?

Secondo Gärtner, la storia ha dimostrato come “le zone di influenza si creino laddove si trovano gli eserciti”. È già in costruzione una moderna cortina di ferro: una barriera elettronica “intelligente” tra Finlandia e Russia. La Finlandia, che ha la frontiera più lunga dell’UE con Mosca, ha iniziato nel 2023 la costruzione di una recinzione di 200 km, da completare entro il 2027 o 2028.

L’obiettivo iniziale era contenere l’immigrazione — sia da paesi terzi extra-UE che dei russi in fuga dalla leva dopo il 2022. Ma ora le preoccupazioni sono ben più gravi. “Dobbiamo essere pronti a prevenire e rispondere a crisi, conflitti e persino agli scenari più gravi, come la guerra”, ha dichiarato la ministra dell’Interno finlandese, Mari Rantanen, in un incontro a Helsinki con il ministro danese per la Resilienza e Preparazione Torsten Schack Pedersen.

Nuovi sistemi d’arma vengono già installati da entrambe le parti del confine. Per Gärtner, uno scenario possibile è la formazione di una cortina che va dall’Artico al Mar Nero, passando per l’Ucraina. Il risultato: riarmo generalizzato e intensificazione del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, in cui ogni aumento della sicurezza di uno Stato alimenta l’insicurezza degli altri.

Lisa Musiol, direttrice del programma UE dell’International Crisis Group, è netta: “credo che gli europei abbiano chiaro che non si tornerà allo status quo precedente”. In un’intervista al media spagnolo El Confidencial, afferma che si è verificato un cambiamento fondamentale nella percezione della minaccia russa e nella fiducia nei confronti dell’alleato americano. “Gli europei riconoscono, o stanno cominciando a riconoscere, che gli Stati Uniti non sono il partner affidabile che avevano pensato”.

Un cambiamento storico destinato a rimanere impresso negli equilibri del futuro nel Vecchio Continente. L’Europa sta vivendo una trasformazione radicale nella propria politica di difesa. Il caso più emblematico è la Germania, dove Friedrich Merz, leader della CDU e prossimo cancelliere dopo la vittoria alle elezioni di fine febbraio, ha proposto di riformare le rigide regole sul debito per aumentare la spesa militare. L’obiettivo: creare un fondo da 500 miliardi di euro. La proposta prevede di esentare dal controllo del debito le spese per la difesa superiori all’1% del PIL.

Soprattutto in Germania, infatti, molti vedono nel riarmo un’opportunità industriale: le grandi aziende della difesa come Rheinmetall stanno riconvertendo impianti dell’automotive, tra cui gli impianti Volkswagen, per produrre carri armati, radar, sistemi antimissile. Il piano, però, dipende dal sostegno dei partiti — incluso quello dei Verdi, che però nelle ultime settimane hanno accettato un compromesso.

Sia a Berlino che a Bruxelles, però, il tempismo non è stato dei migliori: il riarmo non è iniziato nei tre anni di guerra in Ucraina, ma solo ora, spinto dalla retorica muscolare della nuova amministrazione USA che sta spingendo Putin a non arretrare di un passo dalle sue pretese iniziali.

“Entrambe le parti — Russia da un lato, Ucraina e UE dall’altro — si percepiscono come minacce”, dice Musiol. Un rapporto pubblicato da Crisis Group a gennaio 2025 sul futuro della sicurezza europea ha analizzato le percezioni reciproche: “Abbiamo osservato un’escalation simmetrica nelle capacità di difesa e deterrenza. Come organizzazione che si occupa di prevenzione dei conflitti, sappiamo che questo comporta grandi rischi”, aggiunge Musiol.

Un ordine di sicurezza europeo fondato sulla deterrenza richiederà, infatti, anche enormi sforzi diplomatici. Secondo Gärtner, esiste un’alternativa: un sistema di sicurezza comune post-bellico. Sarebbe necessaria “una grande conferenza internazionale” per definire un nuovo ordine in cui la sicurezza sia concepita come indivisibile. Ma un processo di questo tipo “non sarebbe possibile senza il coinvolgimento del Sud globale”. 

Per Musiol, “questo è un momento decisivo”. Le prossime settimane e mesi saranno cruciali, non solo per l’Ucraina, ma per la sicurezza europea. Sebbene Trump prema per un accordo rapido, se non superficiale, dell’invasione russa, il Crisis Group prevede che “i negoziati si prolungheranno” a lungo. Potrebbero esserci altri colloqui tra Stati Uniti e Russia, e forse anche con europei e ucraini. Musiol ritiene che Trump si accorgerà “che Putin non è realmente interessato a un accordo”, e dunque “lo scenario più probabile è un conflitto prolungato”.

Nel frattempo, le azioni della nuova amministrazione USA hanno acceso le tensioni interne all’UE, riportando alla luce rivalità antiche come quella tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. “Vorrei sapere a che titolo sei andato a Washington”, aveva chiesto in maniera polemica Meloni al presidente francese durante un vertice UE. Appena una settimana prima, la presidente del Consiglio italiana aveva partecipato alla convention degli ultraconservatori MAGA.

Nonostante il sostegno unanime dei 27 alla proposta di von der Leyen di investire 800 miliardi nella difesa nei prossimi quattro anni, le crepe interne sono destinate a farsi più evidenti.

Il Parlamento olandese ha già bocciato il piano. In Francia, Mélenchon parla di “disastro ecologico irreversibile”. Le quinte colonne del Cremlino in Europa, su tutti Le Pen e Salvini, sostengono che il vero pericolo non è Mosca ma il fondamentalismo islamico. Ma anche in Spagna alcuni partner di governo di Sánchez rifiutano il piano di riarmo proposto da von der Leyen, in maniera simile a una parte del Partito Democratico in Italia.

Due elezioni in Europa centro-orientale potrebbero ulteriormente cambiare il quadro europeo. In Polonia, dove si vota il prossimo 18 maggio, il presidente Duda chiede agli USA di trasferire armi nucleari nel paese: “La NATO si è spostata a est nel 1999. Ora, dopo 26 anni, anche la sua infrastruttura dovrebbe seguire l’allargamento geografico”, ha dichiarato Duda, che non potrà ricandidarsi, al Financial Times. Il nuovo candidato dei conservatori di Diritto e Giustizia, Karol Nawrocki, propone addirittura la rottura dei rapporti diplomatici con Mosca.

In Repubblica Ceca, il blocco governativo di centrodestra è europeista e in prima linea nel sostegno all’Ucraina, ma il partito ODS è contrario a una maggiore integrazione con l’UE. Il partito populista ANO, guidato dall’oligarca Andrej Babiš, considerato favorevole a Mosca, è dato per favorito alle elezioni di ottobre: è contro il riarmo, ma potrebbe cambiare idea se ci fossero incentivi finanziari dall’UE.

Di fronte alla tentazione dell’unilateralismo, arriva l’avvertimento del bulgaro Ruslan Stefanov, direttore del Centro per lo Studio della Democrazia e coautore di The Kremlin Handbook, che parafrasando Kissinger, scrive: “Povera Germania, troppo grande per l’Europa, e troppo piccola per il mondo”.

Secondo Stefanov, “l’UE (o meglio, i suoi Stati membri, ndr) deve rendersi conto che solo il suo potere economico aggregato ha peso globale”. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato a una maggiore federalizzazione europea, ma in ogni caso in un clima di crescenti divisioni all’interno dei singoli parlamenti nazionali.

Sergio Mattarella, in un discorso all’Università di Marsiglia, ha tracciato un parallelo con la crisi degli anni ’20 e ’30 del Novecento che alimentò protezionismo, unilateralismo e sgretolamento delle alleanze. Il risultato fu l’emergere di “fenomeni autoritari” ritenuti, erroneamente, più efficaci nel proteggere gli interessi nazionali.

Per alcuni analisti, come Nathalie Tocci, l’amministrazione Trump — con l’abbraccio a Putin e il sostegno sostegno a partiti estremisti come l’AfD in Germania — prosegue un progetto simile a quello iniziato dal Cremlino a partire dal 2015: smantellare l’Europa dall’interno, al fine di renderla irrilevante sullo scenario globale. Anche secondo Gärtner la destra radicale vede in Trump un alleato, “soprattutto per quanto riguarda le politiche anti-immigrazione”. 

Questo potrebbe spingere i governi europei filo-Trump, come quello italiano o ungherese, ad accettare di aumentare le spese militari ma acquistando armi (e gas liquido) dagli Stati Uniti per mantenere buoni rapporti con Washington. Generando così un evidente paradosso, rispetto all’obiettivo europeo di smarcarsi dalla dipendenza americana. É arrivato il momento di scelte definitive, in Italia, come nel resto d’Europa.

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali

Le politiche economiche di Trump potrebbero essere un’opportunità per l’Europa

Gli Stati Uniti non sono più l’alleato prediletto dell’Europa. Non c’è da leggere tra le righe: il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha più volte dichiarato che “l’Europa ci ha trattato davvero male” e che l’idea stessa di un’unione degli Stati europei è nata per minacciare il primato degli Stati Uniti. Oltre alle parole, non mancano i provvedimenti presi dall’amministrazione Trump. Basti pensare ai rapporti privilegiati con il Presidente della Russia  Vladimir Putin per quel che riguarda una fantomatica pace in Ucraina, lasciando l’Ucraina da sola e l’Europa in un angolo, ma anche ai dazi sull’acciaio e sull’alluminio al 25 per cento varati dall’amministrazione Trump il 12 di marzo. Questi dazi peseranno su un 5 per cento delle esportazioni dell’Europa negli Stati Uniti, per un valore di 26 miliardi di euro. 

Ovviamente i dazi avranno ripercussioni sull’economia europea. Secondo le stime, i dazi che Trump ha e intende imporre sui prodotti europei per compensare lo squilibrio della bilancia commerciale potrebbero portare a una contrazione del PIL dell’Eurozonastimato tra l’1 e l’1,6 per cento. 

Ma proprio questo mutamento nei rapporti tra i due paesi, assieme alle politiche economiche dell’amministrazione Trump, aprono varie opzioni per l’Europa, che a loro volta però non sono esenti da problematiche e rischi.  

Dalle esportazioni in USA al mercato interno

Per comprendere perché i dazi potrebbero, in parte, rivelarsi un’opportunità per l’Europa è utile tracciare un parallelismo con quanto successo con il riarmo. Per garantire la propria autonomia strategica nel campo della difesa a fronte di un’amministrazione sempre più ostile, la Commissione europea e gli Stati membri hanno compreso la necessità di una maggior unità nel settore delle difesa, abbandonando dogmi come il debito che attanagliano certi paesi europei. 

In modo tempestivo, al mutare degli eventi, l’Europa è stata in grado di virare la sua strategia per far fronte al mutato contesto geopolitico e allo stesso modo può fare nel caso dei dazi. 

Per farlo, però, è necessario riprendere le indicazioni e le analisi fornite da Mario Draghi. Durante un simposio del Centre for Economic Policy Research (CEPR) nel dicembre del 2024, Draghi ha illustrato i problemi strutturali di un approccio basato sull’export come quello seguito dall’Europa. Gli eventi cardine di questa problematica risiederebbero in due crisi gemelle (twin crises). 

La prima è lo shock di produttività avvenuto negli anni ‘90 con lo sviluppo di Internet che ha dato linfa vitale all’economia americana, mentre l’Europa è rimasta indietro su questo fronte. La seconda, invece, risiede nel differente approccio alla crisi del 2008 seguito dagli Stati Uniti e dall’Europa. Per contrastare la crisi finanziaria, gli USA sono ricorsi a politiche anticicliche che hanno iniettato risorse all’interno del sistema economico facendo leva sul debito. Ciò ha portato a una ripresa più rapida degli Stati Uniti che hanno visto, allo stesso tempo, un maggior afflusso di capitali. 

L'Europa ha seguito una strada diversa, quella appunto di un’economia basata sull’export e sulla contrazione della domanda interna. L'esempio cardine è proprio il modello tedesco, assunto a paradigma dagli Stati europei per migliorare la propria competitività durante gli anni della crisi economica, come spiegato in un documento della Fondazione Robert Schuman. I paesi europei, in parte, hanno supportato questo modello perché la combinazione di bassi salari ed esportazioni avrebbe reso più competitivo il sistema economico e, soprattutto, garantito guadagni alle imprese. 

La politica fiscale restrittiva ha giocato un ruolo fondamentale in questo processo. Come riferisce Draghi, tra il 2009 e il 2019 il governo statunitense ha iniettato nell’economia fondi quattordici volte superiori rispetto a quelli immessi in Europa.

Per invertire la rotta serve però una maggior integrazione tra gli Stati membri, soprattutto per quel che riguarda la piena attuazione del Mercato Unico Europeo e una rimozione delle barriere interne. Secondo le stime dell’International Monetary Fund (IMF), le barriere interne al mercato unico sono equivalenti a un dazio del 45 per cento per il settore manifatturiero e del 110 per cento per quello dei servizi. Sempre secondo l’IMF, se il mercato europeo funzionasse come quello americano la produttività del lavoro sarebbe del 7 per cento più elevata dopo 7 anni. Queste stesse barriere possono poi ridurre l’efficacia della politica fiscale, il secondo strumento che Draghi reputa centrale per il rilancio dell’economia europea. 

Questi strumenti funzioneranno solo se saranno implementate delle riforme strutturali. Su questo aspetto il discorso di Draghi segna un punto di rottura che è necessario approfondire. Per anni, le riforme strutturali erano intese proprio come politiche per la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la compressione salariale. Nel 2011 lo stesso Draghi aveva sposato questa direzione  nella lettera scritta insieme a Jean-Claude Trichet (all’epoca Presidente della BCE). La situazione odierna richiede invece che queste politiche vadano a sostenere i lavoratori tramite la formazione, per aumentare la produttività. Draghi ha citato come paese di riferimento la Svezia e il suo modello di socialdemocrazia nordica. Agendo con la formazione dei lavoratori e stipendi elevati, il paese ha creato un sistema economico nel quale le imprese, per restare competitive sul mercato, non possono agire sulla compressione salariale o sulle tutele. Questo incentiva gli investimenti in capitale umano e innovazione, creando un’economia dinamica e innovativa che premia le aziende più efficienti. 

Tuttavia, la strada per implementare quanto sostenuto da Draghi è in salita. Per quanto la Commissione europea abbia cercato di adottare i consigli del suo report, le divisioni interne rischiano di far cadere nel vuoto le proposte. A oggi quindi l’opportunità per l’Europa di sfruttare il proprio mercato interno, appare più come wishful thinking. 

Rilanciare gli accordi commerciali: tra opportunità e limiti

L’export continuerà comunque a essere un componente importante dell’economia europea. Davanti ai dazi dell’amministrazione Trump sarà quindi necessario cercare altri partner commerciali per sostituire una parte delle esportazioni americane. Tra i due mercati più importanti con cui l’Europa è interessata a stringere rapporti ci sono il Mercosur, cioè il mercato composto da Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, e l’India. 

L’accordo, secondo le stime della commissione, avrebbe portato a una riduzione dei dazi del valore di 4 miliardi di euro, in un mercato che vale complessivamente 84 miliardi di export da parte dell’Europa. Prima dell’accordo, infatti, l’area del Mercosur presentava dazi a livello proibitivo per molte aziende, soprattutto nel settore manifatturiero: per il settore dell’automotive, si parlava di dazi del 35 per cento, mentre altri settori cruciali come farmaceutico e chimico arrivavano al 18 e 14 per cento rispettivamente. Inoltre l’accordo prevede la partecipazione da parte delle aziende europee ad appalti pubblici nei paesi. Di particolare importanza è il tema delle materie prime critiche, che sono al centro della strategia per la transizione dell’Europa. Gli Stati del Mercosur garantirebbero un maggior approvvigionamento per l’Europa a questo tipo di materiali, secondo l’accordo. 

Se la commissione europea è favorevole, per la retifica servirà poi l’approvazione degli Stati membri. Tra questi, sia l’Italia sia la Francia hanno manifestato più di qualche perplessità. Gli agricoltori francesi, infatti, ritengono che una maggiore integrazione con il Mercosur rischierebbe di inondare l’Europa di beni come la carne bovina a basso prezzo, con possibili danni per il settore. Questo perché le regole sui quei prodotti dei paesi come Argentina e Brasile sono meno stringenti rispetto a quelle europee, permettendo quindi agli agricoltori di rivenderle a un prezzo più competitivo rispetto a quelli domestici qualora fossero azzerati i dazi. I parlamentari francesi hanno raccolto queste preoccupazioni in una lettera aperta su Le Monde, firmata da oltre 600 di loro. L’appello, lanciato da Yannick Jadot degli Ecologisti, ha inoltre puntualizzato che vi sono tre aspetti che è necessario tenere presente per la firma di questi accordi: in primo luogo non aumentare la cosiddetta “deforestazione importata” per i paesi dell'UE, il rispetto degli accordi di Parigi sul clima e infine, appunto, misure più stringenti sui prodotti. 

Secondo i firmatari, questo tipo di accordi ha spinto i paesi dell’America Latina a destinare determinati campi alla coltivazione di soia e mangimi, andando ad aumentare la deforestazione e quindi aumentando l’emissione di gas serra. Non solo: anche le modalità di allevamento in questi paesi, che permettono mega fattorie e un utilizzo di antibiotici per favorire la crescita della massa del bovino, andrebbe a svantaggio degli allevatori europei. Proprio per far fronte a queste critiche il governo francese, nell'autunno dello scorso anno, ha ribadito alla commissione la contrarietà della Francia a questo tipo di accordo. 

Anche il nostro paese ha cambiato idea sull’accordo. Durante il G20 a Rio de Janeiro infatti il ministro dell'agricoltura Francesco Lollobrigida aveva dichiarato che il governo Meloni si sarebbe opposto al trattato. A giocare un ruolo fondamentale sarebbe stata la Coldiretti, che rappresenta gli interessi di categoria degli agricoltori. 

Dall’altra parte però ci sono paesi altrettanto importanti in Europa come la Germania. Per i tedeschi il mercato dell’automobile sudamericano è particolarmente interessante e per questo sono tra i più favorevoli all’accordo.

Tra le opzioni che la Commissione sta considerando per ratificare l’accordo c’è da una parte la creazione di sussidi per le categorie colpite, dall’altra la possibilità di spacchettare il voto sull’accordo. In questo caso, dal punto di vista giuridico, la Francia non potrebbe più mettere il veto in quanto il voto si svolgerebbe a maggioranza qualificata. 

Per quel che riguarda invece l’India, a inizio anno la presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha annunciato alla platea del World Economic Forum a Davos che si sarebbe recata nel paese per riavviare il dialogo su un potenziale accordo commerciale. Il paese asiatico è una delle novità economiche più importanti degli ultimi decenni. In particolare dopo gli anni ‘90, il Prodotto Interno Lordo indiano ha avuto una crescita estremamente rapida, con un tempo di raddoppio di circa cinque anni. Nonostante oggi le prospettive di crescita siano leggermente meno rosee, l’economia indiana è in una fase di forte consolidamento con una classe media più ricca e un mercato dei capitali più stabile. 

Per questo può rappresentare un mercato importante per l’Europa. Già nel 2021 vi erano stati dei primi passi verso un accordo, dopo che in passato i tentativi erano stati fallimentari. Il tema più importante riguarda, appunto, le barriere doganali e non che l’India impone sugli esportatori europei per salvaguardare la sua economia. Il fine dell’accordo, da parte europea, sarebbe proprio la riduzione di queste barriere al commercio che renderebbero più conveniente esportare verso l’India. 

Ma, se i problemi dell’accordo con il Mercosur sono di natura economica, il rischio con l’India è di natura politica. Da anni il paese è governato da Narendra Modi, che secondo gli osservatori ha portato a una regressione della democrazia nella penisola. Non solo sul fronte interno Modi rappresenta un alleato discutibile, ma anche per quel che riguarda il suo atteggiamento sullo scacchiere internazionale. 

L’India fa infatti parte dei BRICS, un raggruppamento di paesi che un tempo potevano essere classificati come economie emergenti e che punta a un mondo multipolare. All’interno dei BRICS, ci sono anche Russia e Cina, due paesi piuttosto ostili all’Europa. Ma mentre Modi continua a partecipare agli incontri dei BRICS e a spingere per un mondo multipolare, sa muoversi benissimo anche tra le cancellerie dei paesi occidentali. Questo atteggiamento ondivago non sembra preoccupare la commissione, che è intenzionata a finalizzare un primo accordo nella seconda metà dell’anno. Tutto dipenderà dalla situazione geopolitica internazionale e da quali saranno gli interessi di Modi al momento. 

Un equilibrio tra pragmatismo e idealismo

Per quanto l’impatto dei dazi voluti da Trump, così come la nuova direzione seguita dall’amministrazione americana a livello economico, sarà probabilmente negativo almeno nel breve periodo, l’Europa si trova di fronte a nuove opportunità di crescita. La prima è un cambiamento radicale nell’organizzazione stessa del mercato e della visione dell’Europa a livello economico. Non si può pensare di competere con Stati come Cina e Stati Uniti se si è soltanto un raggruppamento di paesi spesso non allineati tra di loro: è necessario un mercato unico più efficace, con una strategia che punta a rilanciare l’innovazione attraverso la domanda e salari più alti, abbandonando quindi strategie di compressione salariale ed economia basata sull’export

L’ostacolo tra quello che l’Europa di oggi e quella di domani, però, sta tutta nella volontà degli Stati membri. Davanti a una minaccia esistenziale come quella di  un mondo dominato da super potenze come Cina e Stati Uniti, l’Europa deve scegliere se abbandonarsi a un destino di decadenza, come avviene oggi, o reagire. 

La seconda opportunità riguarda la diversificazione dei partner commerciali, con gli accordi di libero scambio con Mercosur e India. Come abbiamo visto, entrambe le aree economiche presentano problematiche di non poco conto. Quello che si trova ad affrontare l’Europa, in questo caso, è cercare un equilibrio tra il pragmatismo- che vede in questi accordi nuove potenzialità di crescita- e l’idealismo- che sottolinea invece le problematicità. Non si tratta di una scelta facile, anzi. Ma è fondamentale comprendere quanto, in un mondo come quello di oggi, le decisioni siano lontane dall’essere semplici: meglio accettare le condizioni di Trump o pensare a una diversificazione dei partner commerciali, consapevoli che in entrambi ci sarà un prezzo da pagare. Soprattutto per quanto riguarda l’accordo con il Mercosur, tutto dipenderà anche da come l’Europa deciderà di compensare gli eventuali settori colpiti, senza cadere in un mito da globalizzazione anni ‘90 che ha portato le fasce più colpite a spostarsi verso movimenti reazionari e nazionalisti. 

(Immagine anteprima via Flickr)

 

Spagna, manifesto contro il riarmo e la guerra in Europa

Diverse organizzazioni pacifiste e il Comitato di coordinamento delle ONG spagnole contro il riarmo e la guerra hanno lanciato il manifesto “No al riarmo e alla guerra in Europa”.

Da Pressenza, ci uniamo nell’evidenziare il grave momento che stiamo attraversando, in cui i leader dell’Unione Europea e i suoi governi – appoggiati da alcuni media – stanno diffondendo una narrazione falsa e egoistica per giustificare il riarmo, seminando paura per prendere decisioni senza trasparenza, con urgenza e ignorando differenti prospettive.

Stanno diffondendo una storia che parla di presunti nemici e di una possibile invasione… tutto questo per giustificare l’aumento delle spese militari, che si tradurrà in grandi benefici per alcune élite economiche e in minori investimenti nell’istruzione, nella sanità… e nella libertà di espressione, come sta già accadendo.

Ecco il link diretto per firmare (si può firmare anche dall’Italia): https://forms.komun.org/manifiesto-contra-el-rearme-y-la-guerra-en-europa


Manifesto

“No al riarmo e alla guerra in Europa”

Esiste qualcuno, in Europa o in qualsiasi altra parte del mondo, che non desideri proteggere i propri cari da una possibile minaccia? Chi non vorrebbe allontanare la terribile ombra della violenza dalla propria vita e da quella dei propri cari? Chi non sogna un futuro in cui i propri figli e le proprie figlie, quelli degli amici e vicini, possano vivere in pace, crescere come individui, avere un lavoro dignitoso, abitare un pianeta sano, avere un tetto sopra la testa, accedere alla cultura e a relazioni sociali arricchenti e costruttive, e vivere una vita libera da qualsiasi forma di violenza?

La società ha bisogno della sicurezza che deriva da un sistema sanitario e scolastico pubblico di qualità per tutti. I giovani necessitano di una casa in cui vivere e i nostri anziani non vogliono vedere minacciate le loro pensioni. E, soprattutto, non vogliamo che i nostri figli e nipoti siano costretti a vivere l’orrore della guerra.

In che misura, esattamente, l’aumento sfrenato delle spese militari che i governi europei propongono di approvare senza dibattito pubblico, senza trasparenza o dettagli e con urgenza, contribuisce a questo futuro di pace? Quanto di questi miliardi sarà destinato a migliorare l’istruzione, la salute, la terribile situazione abitativa, la precarietà culturale, l’armonia ambientale o la solidarietà internazionale? Non sarebbe forse necessario investire in maggiori sforzi politici e diplomatici che, di fronte alle minacce di aggressione, cerchino nuove strade di dialogo?

È stupido, semplicistico o ingenuo desiderare questo, difendere la pace e la giustizia sociale? È forse più intelligente, elaborato e maturo credere che i venti di guerra, il linguaggio guerrafondaio e l’impegno per le armi porteranno un futuro migliore?

No, non accettiamo la guerra. Il riarmo dell’Europa non porterà pace, non contribuirà al miglioramento dei rapporti, ma ci avvicinerà alla guerra. I contesti militaristi sono spesso accompagnati da un regresso dei diritti, delle libertà e delle politiche sociali, alimentano paura e preoccupazione nella società, creando l’ambiente ideale per la normalizzazione dei meccanismi di repressione e autoritarismo, come stiamo già cominciando a vedere.

Temiamo che questa strategia porti a una lunga guerra con la Russia, che non sarà portata avanti per difendere il diritto umanitario internazionale, la libertà, i diritti umani o proteggere i più deboli. Se così fosse, l’atteggiamento verso Netanyahu sarebbe lo stesso di quello verso Putin. Questa Europa che tace o, peggio, sostiene Israele nel suo genocidio a Gaza e in Cisgiordania e addirittura perseguita chi lo denuncia, deve ridefinire chiaramente quali sono i valori comuni la cui difesa viene addotta come giustificazione per il riarmo.

I cittadini del nostro Paese hanno ampiamente dimostrato in passato il loro impegno per la pace e le politiche contro la guerra. La nostra memoria collettiva recente comprende le massicce manifestazioni contro la guerra in Iraq, promossa illegalmente dal governo di José María Aznar, il movimento per rifiutare la permanenza del nostro Paese nella NATO, che ha mobilitato più del 43% dei voti in quel lontano referendum, e il movimento contro il servizio militare obbligatorio fino alla sua eliminazione nel 2001.

L’aumento della spesa militare europea – fino a 800 miliardi di euro in quattro anni – annunciato dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, sarà realizzato attraverso un meccanismo di eccezione che eviterà il dibattito nei parlamenti e, in generale, un’informazione chiara e dettagliata per i cittadini europei.

Non possiamo e non vogliamo accettare che i fondi destinati ai nostri ospedali pubblici, alle scuole e università pubbliche, al sistema di assistenza per le persone non autosufficienti, alle politiche di protezione sociale per i momenti di difficoltà, alla lotta contro il cambiamento climatico, alla violenza di genere, al razzismo, alla protezione dalle emergenze e alla cooperazione vengano invece utilizzati per acquistare carri armati, fucili, aerei da combattimento e missili per la guerra, solo perché così hanno deciso le élite guerrafondaie che attualmente governano l’Europa e gli Stati Uniti.

La vera sicurezza di cui abbiamo bisogno è quella che ci garantisce le nostre pensioni pubbliche, i medici di base, le cure gratuite negli ospedali pubblici per ogni malattia o disturbo, l’istruzione nelle scuole e università pubbliche che assicurano uguaglianza, il sistema di borse di studio, i sussidi di disoccupazione in caso di bisogno, il Reddito Minimo Vitale, i vigili del fuoco che intervengono sugli incendi nelle nostre montagne o soccorrono le persone in emergenza nelle città, oltre allo sviluppo di politiche pubbliche femministe per difendere e proteggere i diritti delle donne e combattere la violenza sessista.

I conflitti bellici vengono progettati in comodi uffici, ma sono le persone a pagarne le conseguenze. Ecco perché questo è un momento estremamente importante per dissipare la crescente tensione e difendere un modello di pace, di benessere sociale e di estensione dei diritti per tutti. Il momento attuale richiede responsabilità, politiche coraggiose, lungimiranza e una cultura di pace.

Ci opponiamo alla guerra, perché non vogliamo la pace dei cimiteri, perché la storia ci dimostra che l’unica via realistica per raggiungere la pace non è quella militare, ma quella politica. Mettetevi al lavoro e lavorate per la pace, lo esigiamo.


Traduzione dallo spagnolo di Laura Proja. Revisione di Thomas Schmid.

Redacción España

I paesi europei e il piano di sicurezza dopo Trump

di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, La Stampa, OBCT, Italia), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Kim Son Hoang (Der Standard, Austria), Caleb Larson (Germania), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Krasen Nikolov (Mediapool, Bulgaria)

“Diciamoci la verità: l’Unione Europea è stata creata con l’intento di fregare gli Stati Uniti”, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fine febbraio, annunciando dazi del 25% nei confronti degli (ex?) alleati europei. “Era questo l’obiettivo, e ci sono riusciti. Ma ora il presidente sono io”. Le minacce verbali e le azioni di Trump negli ultimi due mesi hanno destabilizzato l’equilibrio della NATO e inasprito le tensioni tra gli Stati membri dell’UE, che ha tuttavia reagito tempestivamente a livello centrale.

​Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro Bianco della difesa, che include il piano "ReArm Europe" proposto dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. La risoluzione è stata approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni: le conclusioni del piano sono state adottate, tuttavia, in seno al Consiglio Europeo, che la scorsa settimana ha riunito i 27 leader dell’UE.

Uno degli elementi chiave del piano è la possibilità per gli Stati membri di incrementare la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli del Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nel periodo previsto. Circa 130 miliardi all’anno, divisi fra i 27 Stati Membri: in media, 5 miliardi all’anno per paese. Inoltre, è previsto un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti di innovazione nel settore della difesa.

Non ha trovato invece appoggio da parte dei leader europei, con poche sorprese, il piano da 40 miliardi (sono stati allocati, ad ora, solo 5 miliardi) proposto dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas per aiutare Kyiv: non solo per il veto dell’Ungheria, ma anche per i dubbi di alcuni stati sulla proporzionalità degli aiuti rispetto al Reddito nazionale lordo, osteggiato soprattutto da Francia e Italia, secondo Euronews.

Ma al di là degli equilibri europei e di ciò che succederà nei prossimi mesi in Ucraina, il tycoon può davvero rompere l’alleanza transatlantica, oppure sta solo bluffando? Secondo Heinz Gärtner, politologo austriaco dell’Università di Vienna ed esperto di politica estera americana e sicurezza internazionale, “l’alleanza transatlantica non finirà, perché tramite la NATO gli USA continuano ad avere un’influenza considerevole sui membri europei”. 

Tutti i presidenti USA, sottolinea Gärtner, hanno chiesto un aumento delle spese militari agli alleati europei: la differenza è che Trump sta adottando una retorica più aggressiva e minacciosa, in un contesto storico come mai delicato. 

“Trump ha semplicemente reso visibili le relazioni di dipendenza interne all’alleanza transatlantica”, dice Gärtner, sottolineando però come Joe Biden avesse rivendicato il ruolo guida degli Stati Uniti in un modo diverso: “a differenza dello stile di Trump, gli europei venivano almeno informati in anticipo sulle intenzioni americane”.

Durante il primo mandato di Trump, “gli europei avevano appoggiato tutte le principali decisioni di politica estera americana”, ricorda Gärtner, inclusa la politica verso la Corea del Nord “e la cena ad hamburger con Kim”, il cosiddetto “accordo del secolo” ideato dal genero di Trump Jared Kushner, così come il ritiro unilaterale dall'accordo nucleare con l’Iran. “Perfino i dazi vennero in qualche modo tollerati”, sottolinea Gärtner.

In un mutato contesto di riarmo ideologico e materiale, trascinato dalla deriva autoritaria statunitense evidente dalla retorica del secondo mandato di Trump, molti si chiedono però delle possibili conseguenze: come cambierà l’Europa tra cinque anni?

Secondo Gärtner, la storia ha dimostrato come “le zone di influenza si creino laddove si trovano gli eserciti”. È già in costruzione una moderna cortina di ferro: una barriera elettronica “intelligente” tra Finlandia e Russia. La Finlandia, che ha la frontiera più lunga dell’UE con Mosca, ha iniziato nel 2023 la costruzione di una recinzione di 200 km, da completare entro il 2027 o 2028.

L’obiettivo iniziale era contenere l’immigrazione — sia da paesi terzi extra-UE che dei russi in fuga dalla leva dopo il 2022. Ma ora le preoccupazioni sono ben più gravi. “Dobbiamo essere pronti a prevenire e rispondere a crisi, conflitti e persino agli scenari più gravi, come la guerra”, ha dichiarato la ministra dell’Interno finlandese, Mari Rantanen, in un incontro a Helsinki con il ministro danese per la Resilienza e Preparazione Torsten Schack Pedersen.

Nuovi sistemi d’arma vengono già installati da entrambe le parti del confine. Per Gärtner, uno scenario possibile è la formazione di una cortina che va dall’Artico al Mar Nero, passando per l’Ucraina. Il risultato: riarmo generalizzato e intensificazione del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, in cui ogni aumento della sicurezza di uno Stato alimenta l’insicurezza degli altri.

Lisa Musiol, direttrice del programma UE dell’International Crisis Group, è netta: “credo che gli europei abbiano chiaro che non si tornerà allo status quo precedente”. In un’intervista al media spagnolo El Confidencial, afferma che si è verificato un cambiamento fondamentale nella percezione della minaccia russa e nella fiducia nei confronti dell’alleato americano. “Gli europei riconoscono, o stanno cominciando a riconoscere, che gli Stati Uniti non sono il partner affidabile che avevano pensato”.

Un cambiamento storico destinato a rimanere impresso negli equilibri del futuro nel Vecchio Continente. L’Europa sta vivendo una trasformazione radicale nella propria politica di difesa. Il caso più emblematico è la Germania, dove Friedrich Merz, leader della CDU e prossimo cancelliere dopo la vittoria alle elezioni di fine febbraio, ha proposto di riformare le rigide regole sul debito per aumentare la spesa militare. L’obiettivo: creare un fondo da 500 miliardi di euro. La proposta prevede di esentare dal controllo del debito le spese per la difesa superiori all’1% del PIL.

Soprattutto in Germania, infatti, molti vedono nel riarmo un’opportunità industriale: le grandi aziende della difesa come Rheinmetall stanno riconvertendo impianti dell’automotive, tra cui gli impianti Volkswagen, per produrre carri armati, radar, sistemi antimissile. Il piano, però, dipende dal sostegno dei partiti — incluso quello dei Verdi, che però nelle ultime settimane hanno accettato un compromesso.

Sia a Berlino che a Bruxelles, però, il tempismo non è stato dei migliori: il riarmo non è iniziato nei tre anni di guerra in Ucraina, ma solo ora, spinto dalla retorica muscolare della nuova amministrazione USA che sta spingendo Putin a non arretrare di un passo dalle sue pretese iniziali.

“Entrambe le parti — Russia da un lato, Ucraina e UE dall’altro — si percepiscono come minacce”, dice Musiol. Un rapporto pubblicato da Crisis Group a gennaio 2025 sul futuro della sicurezza europea ha analizzato le percezioni reciproche: “Abbiamo osservato un’escalation simmetrica nelle capacità di difesa e deterrenza. Come organizzazione che si occupa di prevenzione dei conflitti, sappiamo che questo comporta grandi rischi”, aggiunge Musiol.

Un ordine di sicurezza europeo fondato sulla deterrenza richiederà, infatti, anche enormi sforzi diplomatici. Secondo Gärtner, esiste un’alternativa: un sistema di sicurezza comune post-bellico. Sarebbe necessaria “una grande conferenza internazionale” per definire un nuovo ordine in cui la sicurezza sia concepita come indivisibile. Ma un processo di questo tipo “non sarebbe possibile senza il coinvolgimento del Sud globale”. 

Per Musiol, “questo è un momento decisivo”. Le prossime settimane e mesi saranno cruciali, non solo per l’Ucraina, ma per la sicurezza europea. Sebbene Trump prema per un accordo rapido, se non superficiale, dell’invasione russa, il Crisis Group prevede che “i negoziati si prolungheranno” a lungo. Potrebbero esserci altri colloqui tra Stati Uniti e Russia, e forse anche con europei e ucraini. Musiol ritiene che Trump si accorgerà “che Putin non è realmente interessato a un accordo”, e dunque “lo scenario più probabile è un conflitto prolungato”.

Nel frattempo, le azioni della nuova amministrazione USA hanno acceso le tensioni interne all’UE, riportando alla luce rivalità antiche come quella tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. “Vorrei sapere a che titolo sei andato a Washington”, aveva chiesto in maniera polemica Meloni al presidente francese durante un vertice UE. Appena una settimana prima, la presidente del Consiglio italiana aveva partecipato alla convention degli ultraconservatori MAGA.

Nonostante il sostegno unanime dei 27 alla proposta di von der Leyen di investire 800 miliardi nella difesa nei prossimi quattro anni, le crepe interne sono destinate a farsi più evidenti.

Il Parlamento olandese ha già bocciato il piano. In Francia, Mélenchon parla di “disastro ecologico irreversibile”. Le quinte colonne del Cremlino in Europa, su tutti Le Pen e Salvini, sostengono che il vero pericolo non è Mosca ma il fondamentalismo islamico. Ma anche in Spagna alcuni partner di governo di Sánchez rifiutano il piano di riarmo proposto da von der Leyen, in maniera simile a una parte del Partito Democratico in Italia.

Due elezioni in Europa centro-orientale potrebbero ulteriormente cambiare il quadro europeo. In Polonia, dove si vota il prossimo 18 maggio, il presidente Duda chiede agli USA di trasferire armi nucleari nel paese: “La NATO si è spostata a est nel 1999. Ora, dopo 26 anni, anche la sua infrastruttura dovrebbe seguire l’allargamento geografico”, ha dichiarato Duda, che non potrà ricandidarsi, al Financial Times. Il nuovo candidato dei conservatori di Diritto e Giustizia, Karol Nawrocki, propone addirittura la rottura dei rapporti diplomatici con Mosca.

In Repubblica Ceca, il blocco governativo di centrodestra è europeista e in prima linea nel sostegno all’Ucraina, ma il partito ODS è contrario a una maggiore integrazione con l’UE. Il partito populista ANO, guidato dall’oligarca Andrej Babiš, considerato favorevole a Mosca, è dato per favorito alle elezioni di ottobre: è contro il riarmo, ma potrebbe cambiare idea se ci fossero incentivi finanziari dall’UE.

Di fronte alla tentazione dell’unilateralismo, arriva l’avvertimento del bulgaro Ruslan Stefanov, direttore del Centro per lo Studio della Democrazia e coautore di The Kremlin Handbook, che parafrasando Kissinger, scrive: “Povera Germania, troppo grande per l’Europa, e troppo piccola per il mondo”.

Secondo Stefanov, “l’UE (o meglio, i suoi Stati membri, ndr) deve rendersi conto che solo il suo potere economico aggregato ha peso globale”. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato a una maggiore federalizzazione europea, ma in ogni caso in un clima di crescenti divisioni all’interno dei singoli parlamenti nazionali.

Sergio Mattarella, in un discorso all’Università di Marsiglia, ha tracciato un parallelo con la crisi degli anni ’20 e ’30 del Novecento che alimentò protezionismo, unilateralismo e sgretolamento delle alleanze. Il risultato fu l’emergere di “fenomeni autoritari” ritenuti, erroneamente, più efficaci nel proteggere gli interessi nazionali.

Per alcuni analisti, come Nathalie Tocci, l’amministrazione Trump — con l’abbraccio a Putin e il sostegno sostegno a partiti estremisti come l’AfD in Germania — prosegue un progetto simile a quello iniziato dal Cremlino a partire dal 2015: smantellare l’Europa dall’interno, al fine di renderla irrilevante sullo scenario globale. Anche secondo Gärtner la destra radicale vede in Trump un alleato, “soprattutto per quanto riguarda le politiche anti-immigrazione”. 

Questo potrebbe spingere i governi europei filo-Trump, come quello italiano o ungherese, ad accettare di aumentare le spese militari ma acquistando armi (e gas liquido) dagli Stati Uniti per mantenere buoni rapporti con Washington. Generando così un evidente paradosso, rispetto all’obiettivo europeo di smarcarsi dalla dipendenza americana. É arrivato il momento di scelte definitive, in Italia, come nel resto d’Europa.

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali

Le politiche economiche di Trump potrebbero essere un’opportunità per l’Europa

Gli Stati Uniti non sono più l’alleato prediletto dell’Europa. Non c’è da leggere tra le righe: il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha più volte dichiarato che “l’Europa ci ha trattato davvero male” e che l’idea stessa di un’unione degli Stati europei è nata per minacciare il primato degli Stati Uniti. Oltre alle parole, non mancano i provvedimenti presi dall’amministrazione Trump. Basti pensare ai rapporti privilegiati con il Presidente della Russia  Vladimir Putin per quel che riguarda una fantomatica pace in Ucraina, lasciando l’Ucraina da sola e l’Europa in un angolo, ma anche ai dazi sull’acciaio e sull’alluminio al 25 per cento varati dall’amministrazione Trump il 12 di marzo. Questi dazi peseranno su un 5 per cento delle esportazioni dell’Europa negli Stati Uniti, per un valore di 26 miliardi di euro. 

Ovviamente i dazi avranno ripercussioni sull’economia europea. Secondo le stime, i dazi che Trump ha e intende imporre sui prodotti europei per compensare lo squilibrio della bilancia commerciale potrebbero portare a una contrazione del PIL dell’Eurozonastimato tra l’1 e l’1,6 per cento. 

Ma proprio questo mutamento nei rapporti tra i due paesi, assieme alle politiche economiche dell’amministrazione Trump, aprono varie opzioni per l’Europa, che a loro volta però non sono esenti da problematiche e rischi.  

Dalle esportazioni in USA al mercato interno

Per comprendere perché i dazi potrebbero, in parte, rivelarsi un’opportunità per l’Europa è utile tracciare un parallelismo con quanto successo con il riarmo. Per garantire la propria autonomia strategica nel campo della difesa a fronte di un’amministrazione sempre più ostile, la Commissione europea e gli Stati membri hanno compreso la necessità di una maggior unità nel settore delle difesa, abbandonando dogmi come il debito che attanagliano certi paesi europei. 

In modo tempestivo, al mutare degli eventi, l’Europa è stata in grado di virare la sua strategia per far fronte al mutato contesto geopolitico e allo stesso modo può fare nel caso dei dazi. 

Per farlo, però, è necessario riprendere le indicazioni e le analisi fornite da Mario Draghi. Durante un simposio del Centre for Economic Policy Research (CEPR) nel dicembre del 2024, Draghi ha illustrato i problemi strutturali di un approccio basato sull’export come quello seguito dall’Europa. Gli eventi cardine di questa problematica risiederebbero in due crisi gemelle (twin crises). 

La prima è lo shock di produttività avvenuto negli anni ‘90 con lo sviluppo di Internet che ha dato linfa vitale all’economia americana, mentre l’Europa è rimasta indietro su questo fronte. La seconda, invece, risiede nel differente approccio alla crisi del 2008 seguito dagli Stati Uniti e dall’Europa. Per contrastare la crisi finanziaria, gli USA sono ricorsi a politiche anticicliche che hanno iniettato risorse all’interno del sistema economico facendo leva sul debito. Ciò ha portato a una ripresa più rapida degli Stati Uniti che hanno visto, allo stesso tempo, un maggior afflusso di capitali. 

L'Europa ha seguito una strada diversa, quella appunto di un’economia basata sull’export e sulla contrazione della domanda interna. L'esempio cardine è proprio il modello tedesco, assunto a paradigma dagli Stati europei per migliorare la propria competitività durante gli anni della crisi economica, come spiegato in un documento della Fondazione Robert Schuman. I paesi europei, in parte, hanno supportato questo modello perché la combinazione di bassi salari ed esportazioni avrebbe reso più competitivo il sistema economico e, soprattutto, garantito guadagni alle imprese. 

La politica fiscale restrittiva ha giocato un ruolo fondamentale in questo processo. Come riferisce Draghi, tra il 2009 e il 2019 il governo statunitense ha iniettato nell’economia fondi quattordici volte superiori rispetto a quelli immessi in Europa.

Per invertire la rotta serve però una maggior integrazione tra gli Stati membri, soprattutto per quel che riguarda la piena attuazione del Mercato Unico Europeo e una rimozione delle barriere interne. Secondo le stime dell’International Monetary Fund (IMF), le barriere interne al mercato unico sono equivalenti a un dazio del 45 per cento per il settore manifatturiero e del 110 per cento per quello dei servizi. Sempre secondo l’IMF, se il mercato europeo funzionasse come quello americano la produttività del lavoro sarebbe del 7 per cento più elevata dopo 7 anni. Queste stesse barriere possono poi ridurre l’efficacia della politica fiscale, il secondo strumento che Draghi reputa centrale per il rilancio dell’economia europea. 

Questi strumenti funzioneranno solo se saranno implementate delle riforme strutturali. Su questo aspetto il discorso di Draghi segna un punto di rottura che è necessario approfondire. Per anni, le riforme strutturali erano intese proprio come politiche per la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la compressione salariale. Nel 2011 lo stesso Draghi aveva sposato questa direzione  nella lettera scritta insieme a Jean-Claude Trichet (all’epoca Presidente della BCE). La situazione odierna richiede invece che queste politiche vadano a sostenere i lavoratori tramite la formazione, per aumentare la produttività. Draghi ha citato come paese di riferimento la Svezia e il suo modello di socialdemocrazia nordica. Agendo con la formazione dei lavoratori e stipendi elevati, il paese ha creato un sistema economico nel quale le imprese, per restare competitive sul mercato, non possono agire sulla compressione salariale o sulle tutele. Questo incentiva gli investimenti in capitale umano e innovazione, creando un’economia dinamica e innovativa che premia le aziende più efficienti. 

Tuttavia, la strada per implementare quanto sostenuto da Draghi è in salita. Per quanto la Commissione europea abbia cercato di adottare i consigli del suo report, le divisioni interne rischiano di far cadere nel vuoto le proposte. A oggi quindi l’opportunità per l’Europa di sfruttare il proprio mercato interno, appare più come wishful thinking. 

Rilanciare gli accordi commerciali: tra opportunità e limiti

L’export continuerà comunque a essere un componente importante dell’economia europea. Davanti ai dazi dell’amministrazione Trump sarà quindi necessario cercare altri partner commerciali per sostituire una parte delle esportazioni americane. Tra i due mercati più importanti con cui l’Europa è interessata a stringere rapporti ci sono il Mercosur, cioè il mercato composto da Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, e l’India. 

L’accordo, secondo le stime della commissione, avrebbe portato a una riduzione dei dazi del valore di 4 miliardi di euro, in un mercato che vale complessivamente 84 miliardi di export da parte dell’Europa. Prima dell’accordo, infatti, l’area del Mercosur presentava dazi a livello proibitivo per molte aziende, soprattutto nel settore manifatturiero: per il settore dell’automotive, si parlava di dazi del 35 per cento, mentre altri settori cruciali come farmaceutico e chimico arrivavano al 18 e 14 per cento rispettivamente. Inoltre l’accordo prevede la partecipazione da parte delle aziende europee ad appalti pubblici nei paesi. Di particolare importanza è il tema delle materie prime critiche, che sono al centro della strategia per la transizione dell’Europa. Gli Stati del Mercosur garantirebbero un maggior approvvigionamento per l’Europa a questo tipo di materiali, secondo l’accordo. 

Se la commissione europea è favorevole, per la retifica servirà poi l’approvazione degli Stati membri. Tra questi, sia l’Italia sia la Francia hanno manifestato più di qualche perplessità. Gli agricoltori francesi, infatti, ritengono che una maggiore integrazione con il Mercosur rischierebbe di inondare l’Europa di beni come la carne bovina a basso prezzo, con possibili danni per il settore. Questo perché le regole sui quei prodotti dei paesi come Argentina e Brasile sono meno stringenti rispetto a quelle europee, permettendo quindi agli agricoltori di rivenderle a un prezzo più competitivo rispetto a quelli domestici qualora fossero azzerati i dazi. I parlamentari francesi hanno raccolto queste preoccupazioni in una lettera aperta su Le Monde, firmata da oltre 600 di loro. L’appello, lanciato da Yannick Jadot degli Ecologisti, ha inoltre puntualizzato che vi sono tre aspetti che è necessario tenere presente per la firma di questi accordi: in primo luogo non aumentare la cosiddetta “deforestazione importata” per i paesi dell'UE, il rispetto degli accordi di Parigi sul clima e infine, appunto, misure più stringenti sui prodotti. 

Secondo i firmatari, questo tipo di accordi ha spinto i paesi dell’America Latina a destinare determinati campi alla coltivazione di soia e mangimi, andando ad aumentare la deforestazione e quindi aumentando l’emissione di gas serra. Non solo: anche le modalità di allevamento in questi paesi, che permettono mega fattorie e un utilizzo di antibiotici per favorire la crescita della massa del bovino, andrebbe a svantaggio degli allevatori europei. Proprio per far fronte a queste critiche il governo francese, nell'autunno dello scorso anno, ha ribadito alla commissione la contrarietà della Francia a questo tipo di accordo. 

Anche il nostro paese ha cambiato idea sull’accordo. Durante il G20 a Rio de Janeiro infatti il ministro dell'agricoltura Francesco Lollobrigida aveva dichiarato che il governo Meloni si sarebbe opposto al trattato. A giocare un ruolo fondamentale sarebbe stata la Coldiretti, che rappresenta gli interessi di categoria degli agricoltori. 

Dall’altra parte però ci sono paesi altrettanto importanti in Europa come la Germania. Per i tedeschi il mercato dell’automobile sudamericano è particolarmente interessante e per questo sono tra i più favorevoli all’accordo.

Tra le opzioni che la Commissione sta considerando per ratificare l’accordo c’è da una parte la creazione di sussidi per le categorie colpite, dall’altra la possibilità di spacchettare il voto sull’accordo. In questo caso, dal punto di vista giuridico, la Francia non potrebbe più mettere il veto in quanto il voto si svolgerebbe a maggioranza qualificata. 

Per quel che riguarda invece l’India, a inizio anno la presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha annunciato alla platea del World Economic Forum a Davos che si sarebbe recata nel paese per riavviare il dialogo su un potenziale accordo commerciale. Il paese asiatico è una delle novità economiche più importanti degli ultimi decenni. In particolare dopo gli anni ‘90, il Prodotto Interno Lordo indiano ha avuto una crescita estremamente rapida, con un tempo di raddoppio di circa cinque anni. Nonostante oggi le prospettive di crescita siano leggermente meno rosee, l’economia indiana è in una fase di forte consolidamento con una classe media più ricca e un mercato dei capitali più stabile. 

Per questo può rappresentare un mercato importante per l’Europa. Già nel 2021 vi erano stati dei primi passi verso un accordo, dopo che in passato i tentativi erano stati fallimentari. Il tema più importante riguarda, appunto, le barriere doganali e non che l’India impone sugli esportatori europei per salvaguardare la sua economia. Il fine dell’accordo, da parte europea, sarebbe proprio la riduzione di queste barriere al commercio che renderebbero più conveniente esportare verso l’India. 

Ma, se i problemi dell’accordo con il Mercosur sono di natura economica, il rischio con l’India è di natura politica. Da anni il paese è governato da Narendra Modi, che secondo gli osservatori ha portato a una regressione della democrazia nella penisola. Non solo sul fronte interno Modi rappresenta un alleato discutibile, ma anche per quel che riguarda il suo atteggiamento sullo scacchiere internazionale. 

L’India fa infatti parte dei BRICS, un raggruppamento di paesi che un tempo potevano essere classificati come economie emergenti e che punta a un mondo multipolare. All’interno dei BRICS, ci sono anche Russia e Cina, due paesi piuttosto ostili all’Europa. Ma mentre Modi continua a partecipare agli incontri dei BRICS e a spingere per un mondo multipolare, sa muoversi benissimo anche tra le cancellerie dei paesi occidentali. Questo atteggiamento ondivago non sembra preoccupare la commissione, che è intenzionata a finalizzare un primo accordo nella seconda metà dell’anno. Tutto dipenderà dalla situazione geopolitica internazionale e da quali saranno gli interessi di Modi al momento. 

Un equilibrio tra pragmatismo e idealismo

Per quanto l’impatto dei dazi voluti da Trump, così come la nuova direzione seguita dall’amministrazione americana a livello economico, sarà probabilmente negativo almeno nel breve periodo, l’Europa si trova di fronte a nuove opportunità di crescita. La prima è un cambiamento radicale nell’organizzazione stessa del mercato e della visione dell’Europa a livello economico. Non si può pensare di competere con Stati come Cina e Stati Uniti se si è soltanto un raggruppamento di paesi spesso non allineati tra di loro: è necessario un mercato unico più efficace, con una strategia che punta a rilanciare l’innovazione attraverso la domanda e salari più alti, abbandonando quindi strategie di compressione salariale ed economia basata sull’export

L’ostacolo tra quello che l’Europa di oggi e quella di domani, però, sta tutta nella volontà degli Stati membri. Davanti a una minaccia esistenziale come quella di  un mondo dominato da super potenze come Cina e Stati Uniti, l’Europa deve scegliere se abbandonarsi a un destino di decadenza, come avviene oggi, o reagire. 

La seconda opportunità riguarda la diversificazione dei partner commerciali, con gli accordi di libero scambio con Mercosur e India. Come abbiamo visto, entrambe le aree economiche presentano problematiche di non poco conto. Quello che si trova ad affrontare l’Europa, in questo caso, è cercare un equilibrio tra il pragmatismo- che vede in questi accordi nuove potenzialità di crescita- e l’idealismo- che sottolinea invece le problematicità. Non si tratta di una scelta facile, anzi. Ma è fondamentale comprendere quanto, in un mondo come quello di oggi, le decisioni siano lontane dall’essere semplici: meglio accettare le condizioni di Trump o pensare a una diversificazione dei partner commerciali, consapevoli che in entrambi ci sarà un prezzo da pagare. Soprattutto per quanto riguarda l’accordo con il Mercosur, tutto dipenderà anche da come l’Europa deciderà di compensare gli eventuali settori colpiti, senza cadere in un mito da globalizzazione anni ‘90 che ha portato le fasce più colpite a spostarsi verso movimenti reazionari e nazionalisti. 

(Immagine anteprima via Flickr)