I paesi europei e il piano di sicurezza dopo Trump
di: Andrea Braschayko (Valigia Blu, La Stampa, OBCT, Italia), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Kim Son Hoang (Der Standard, Austria), Caleb Larson (Germania), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Krasen Nikolov (Mediapool, Bulgaria)
“Diciamoci la verità: l’Unione Europea è stata creata con l’intento di fregare gli Stati Uniti”, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fine febbraio, annunciando dazi del 25% nei confronti degli (ex?) alleati europei. “Era questo l’obiettivo, e ci sono riusciti. Ma ora il presidente sono io”. Le minacce verbali e le azioni di Trump negli ultimi due mesi hanno destabilizzato l’equilibrio della NATO e inasprito le tensioni tra gli Stati membri dell’UE, che ha tuttavia reagito tempestivamente a livello centrale.
Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante sul Libro Bianco della difesa, che include il piano "ReArm Europe" proposto dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. La risoluzione è stata approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni: le conclusioni del piano sono state adottate, tuttavia, in seno al Consiglio Europeo, che la scorsa settimana ha riunito i 27 leader dell’UE.
Uno degli elementi chiave del piano è la possibilità per gli Stati membri di incrementare la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli del Patto di stabilità e crescita, consentendo di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nel periodo previsto. Circa 130 miliardi all’anno, divisi fra i 27 Stati Membri: in media, 5 miliardi all’anno per paese. Inoltre, è previsto un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti di innovazione nel settore della difesa.
Non ha trovato invece appoggio da parte dei leader europei, con poche sorprese, il piano da 40 miliardi (sono stati allocati, ad ora, solo 5 miliardi) proposto dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas per aiutare Kyiv: non solo per il veto dell’Ungheria, ma anche per i dubbi di alcuni stati sulla proporzionalità degli aiuti rispetto al Reddito nazionale lordo, osteggiato soprattutto da Francia e Italia, secondo Euronews.
Ma al di là degli equilibri europei e di ciò che succederà nei prossimi mesi in Ucraina, il tycoon può davvero rompere l’alleanza transatlantica, oppure sta solo bluffando? Secondo Heinz Gärtner, politologo austriaco dell’Università di Vienna ed esperto di politica estera americana e sicurezza internazionale, “l’alleanza transatlantica non finirà, perché tramite la NATO gli USA continuano ad avere un’influenza considerevole sui membri europei”.
Tutti i presidenti USA, sottolinea Gärtner, hanno chiesto un aumento delle spese militari agli alleati europei: la differenza è che Trump sta adottando una retorica più aggressiva e minacciosa, in un contesto storico come mai delicato.
“Trump ha semplicemente reso visibili le relazioni di dipendenza interne all’alleanza transatlantica”, dice Gärtner, sottolineando però come Joe Biden avesse rivendicato il ruolo guida degli Stati Uniti in un modo diverso: “a differenza dello stile di Trump, gli europei venivano almeno informati in anticipo sulle intenzioni americane”.
Durante il primo mandato di Trump, “gli europei avevano appoggiato tutte le principali decisioni di politica estera americana”, ricorda Gärtner, inclusa la politica verso la Corea del Nord “e la cena ad hamburger con Kim”, il cosiddetto “accordo del secolo” ideato dal genero di Trump Jared Kushner, così come il ritiro unilaterale dall'accordo nucleare con l’Iran. “Perfino i dazi vennero in qualche modo tollerati”, sottolinea Gärtner.
In un mutato contesto di riarmo ideologico e materiale, trascinato dalla deriva autoritaria statunitense evidente dalla retorica del secondo mandato di Trump, molti si chiedono però delle possibili conseguenze: come cambierà l’Europa tra cinque anni?
Secondo Gärtner, la storia ha dimostrato come “le zone di influenza si creino laddove si trovano gli eserciti”. È già in costruzione una moderna cortina di ferro: una barriera elettronica “intelligente” tra Finlandia e Russia. La Finlandia, che ha la frontiera più lunga dell’UE con Mosca, ha iniziato nel 2023 la costruzione di una recinzione di 200 km, da completare entro il 2027 o 2028.
L’obiettivo iniziale era contenere l’immigrazione — sia da paesi terzi extra-UE che dei russi in fuga dalla leva dopo il 2022. Ma ora le preoccupazioni sono ben più gravi. “Dobbiamo essere pronti a prevenire e rispondere a crisi, conflitti e persino agli scenari più gravi, come la guerra”, ha dichiarato la ministra dell’Interno finlandese, Mari Rantanen, in un incontro a Helsinki con il ministro danese per la Resilienza e Preparazione Torsten Schack Pedersen.
Nuovi sistemi d’arma vengono già installati da entrambe le parti del confine. Per Gärtner, uno scenario possibile è la formazione di una cortina che va dall’Artico al Mar Nero, passando per l’Ucraina. Il risultato: riarmo generalizzato e intensificazione del cosiddetto “dilemma della sicurezza”, in cui ogni aumento della sicurezza di uno Stato alimenta l’insicurezza degli altri.
Lisa Musiol, direttrice del programma UE dell’International Crisis Group, è netta: “credo che gli europei abbiano chiaro che non si tornerà allo status quo precedente”. In un’intervista al media spagnolo El Confidencial, afferma che si è verificato un cambiamento fondamentale nella percezione della minaccia russa e nella fiducia nei confronti dell’alleato americano. “Gli europei riconoscono, o stanno cominciando a riconoscere, che gli Stati Uniti non sono il partner affidabile che avevano pensato”.
Un cambiamento storico destinato a rimanere impresso negli equilibri del futuro nel Vecchio Continente. L’Europa sta vivendo una trasformazione radicale nella propria politica di difesa. Il caso più emblematico è la Germania, dove Friedrich Merz, leader della CDU e prossimo cancelliere dopo la vittoria alle elezioni di fine febbraio, ha proposto di riformare le rigide regole sul debito per aumentare la spesa militare. L’obiettivo: creare un fondo da 500 miliardi di euro. La proposta prevede di esentare dal controllo del debito le spese per la difesa superiori all’1% del PIL.
Soprattutto in Germania, infatti, molti vedono nel riarmo un’opportunità industriale: le grandi aziende della difesa come Rheinmetall stanno riconvertendo impianti dell’automotive, tra cui gli impianti Volkswagen, per produrre carri armati, radar, sistemi antimissile. Il piano, però, dipende dal sostegno dei partiti — incluso quello dei Verdi, che però nelle ultime settimane hanno accettato un compromesso.
Sia a Berlino che a Bruxelles, però, il tempismo non è stato dei migliori: il riarmo non è iniziato nei tre anni di guerra in Ucraina, ma solo ora, spinto dalla retorica muscolare della nuova amministrazione USA che sta spingendo Putin a non arretrare di un passo dalle sue pretese iniziali.
“Entrambe le parti — Russia da un lato, Ucraina e UE dall’altro — si percepiscono come minacce”, dice Musiol. Un rapporto pubblicato da Crisis Group a gennaio 2025 sul futuro della sicurezza europea ha analizzato le percezioni reciproche: “Abbiamo osservato un’escalation simmetrica nelle capacità di difesa e deterrenza. Come organizzazione che si occupa di prevenzione dei conflitti, sappiamo che questo comporta grandi rischi”, aggiunge Musiol.
Un ordine di sicurezza europeo fondato sulla deterrenza richiederà, infatti, anche enormi sforzi diplomatici. Secondo Gärtner, esiste un’alternativa: un sistema di sicurezza comune post-bellico. Sarebbe necessaria “una grande conferenza internazionale” per definire un nuovo ordine in cui la sicurezza sia concepita come indivisibile. Ma un processo di questo tipo “non sarebbe possibile senza il coinvolgimento del Sud globale”.
Per Musiol, “questo è un momento decisivo”. Le prossime settimane e mesi saranno cruciali, non solo per l’Ucraina, ma per la sicurezza europea. Sebbene Trump prema per un accordo rapido, se non superficiale, dell’invasione russa, il Crisis Group prevede che “i negoziati si prolungheranno” a lungo. Potrebbero esserci altri colloqui tra Stati Uniti e Russia, e forse anche con europei e ucraini. Musiol ritiene che Trump si accorgerà “che Putin non è realmente interessato a un accordo”, e dunque “lo scenario più probabile è un conflitto prolungato”.
Nel frattempo, le azioni della nuova amministrazione USA hanno acceso le tensioni interne all’UE, riportando alla luce rivalità antiche come quella tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. “Vorrei sapere a che titolo sei andato a Washington”, aveva chiesto in maniera polemica Meloni al presidente francese durante un vertice UE. Appena una settimana prima, la presidente del Consiglio italiana aveva partecipato alla convention degli ultraconservatori MAGA.
Nonostante il sostegno unanime dei 27 alla proposta di von der Leyen di investire 800 miliardi nella difesa nei prossimi quattro anni, le crepe interne sono destinate a farsi più evidenti.
Il Parlamento olandese ha già bocciato il piano. In Francia, Mélenchon parla di “disastro ecologico irreversibile”. Le quinte colonne del Cremlino in Europa, su tutti Le Pen e Salvini, sostengono che il vero pericolo non è Mosca ma il fondamentalismo islamico. Ma anche in Spagna alcuni partner di governo di Sánchez rifiutano il piano di riarmo proposto da von der Leyen, in maniera simile a una parte del Partito Democratico in Italia.
Due elezioni in Europa centro-orientale potrebbero ulteriormente cambiare il quadro europeo. In Polonia, dove si vota il prossimo 18 maggio, il presidente Duda chiede agli USA di trasferire armi nucleari nel paese: “La NATO si è spostata a est nel 1999. Ora, dopo 26 anni, anche la sua infrastruttura dovrebbe seguire l’allargamento geografico”, ha dichiarato Duda, che non potrà ricandidarsi, al Financial Times. Il nuovo candidato dei conservatori di Diritto e Giustizia, Karol Nawrocki, propone addirittura la rottura dei rapporti diplomatici con Mosca.
In Repubblica Ceca, il blocco governativo di centrodestra è europeista e in prima linea nel sostegno all’Ucraina, ma il partito ODS è contrario a una maggiore integrazione con l’UE. Il partito populista ANO, guidato dall’oligarca Andrej Babiš, considerato favorevole a Mosca, è dato per favorito alle elezioni di ottobre: è contro il riarmo, ma potrebbe cambiare idea se ci fossero incentivi finanziari dall’UE.
Di fronte alla tentazione dell’unilateralismo, arriva l’avvertimento del bulgaro Ruslan Stefanov, direttore del Centro per lo Studio della Democrazia e coautore di The Kremlin Handbook, che parafrasando Kissinger, scrive: “Povera Germania, troppo grande per l’Europa, e troppo piccola per il mondo”.
Secondo Stefanov, “l’UE (o meglio, i suoi Stati membri, ndr) deve rendersi conto che solo il suo potere economico aggregato ha peso globale”. L’invasione russa dell’Ucraina ha portato a una maggiore federalizzazione europea, ma in ogni caso in un clima di crescenti divisioni all’interno dei singoli parlamenti nazionali.
Sergio Mattarella, in un discorso all’Università di Marsiglia, ha tracciato un parallelo con la crisi degli anni ’20 e ’30 del Novecento che alimentò protezionismo, unilateralismo e sgretolamento delle alleanze. Il risultato fu l’emergere di “fenomeni autoritari” ritenuti, erroneamente, più efficaci nel proteggere gli interessi nazionali.
Per alcuni analisti, come Nathalie Tocci, l’amministrazione Trump — con l’abbraccio a Putin e il sostegno sostegno a partiti estremisti come l’AfD in Germania — prosegue un progetto simile a quello iniziato dal Cremlino a partire dal 2015: smantellare l’Europa dall’interno, al fine di renderla irrilevante sullo scenario globale. Anche secondo Gärtner la destra radicale vede in Trump un alleato, “soprattutto per quanto riguarda le politiche anti-immigrazione”.
Questo potrebbe spingere i governi europei filo-Trump, come quello italiano o ungherese, ad accettare di aumentare le spese militari ma acquistando armi (e gas liquido) dagli Stati Uniti per mantenere buoni rapporti con Washington. Generando così un evidente paradosso, rispetto all’obiettivo europeo di smarcarsi dalla dipendenza americana. É arrivato il momento di scelte definitive, in Italia, come nel resto d’Europa.

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali