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Unione Europea

La ‘pace imperiale’ di Trump e Putin imposta all’Ucraina punta a sventrare l’Europa dall’interno

“Ci sono dei decenni in cui non accade nulla. E poi delle settimane in cui accadono decenni”. Una delle massime più celebri di Lenin, accusato il 22 febbraio 2022 dal presidente russo Vladimir Putin di essere il principale colpevole dell’esistenza dell’Ucraina, può essere facilmente traslata a ciò che è accaduto dallo scorso 12 febbraio, giorno della telefonata tra il presidente statunitense Donald Trump e Putin. 

Una settimana intensa e scioccante, sebbene prevedibile già durante la campagna elettorale trumpiana, che sta sconvolgendo la politica europea e globale alla vigilia del terzo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina.

Cosa è successo dalla telefonata tra Putin e Trump in poi?

Monaco di Baviera, Riyad, Parigi, Ankara. Questi i centri gravitazionali delle evoluzioni che stanno portando a quella che Nathalie Tocci ha definito la ricerca di una ‘pace imperiale’ alle spalle di Kyiv e Bruxelles. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che il vertice tra russi e americani in Arabia Saudita è stato “una sorpresa” appresa dai media, durante una visita al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo a sua volta ha detto che la Turchia sarebbe un “posto ideale” per lo svolgimento di futuri negoziati per terminare la guerra in Ucraina, ribadendo l’inviolabilità dell’integrità territoriale di Kyiv. 

Trattative a cui gli Stati Uniti promettono di includere prima o poi anche europei e ucraini. Tuttavia, nella prima fase – un meeting di quattro ore e mezzo a Riyad – si sono tenute solamente tra russi e americani, alla presenza del ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, e del consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaad bin Mohammed Al Aiban, che avrebbero però lasciato l’incontro anticipatamente.

A rappresentare gli Stati Uniti c’erano il segretario di Stato, Marco Rubio, il consigliere per la sicurezza, Mike Waltz, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha recentemente avuto un importante ruolo nel forzare il presidente Benjamin Netanyahu ad accettare un cessate il fuoco a Gaza. Spicca e pone delle domande l’assenza dell’inviato per Ucraina e Russia, Keith Kellogg, che nel frattempo incontrava la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Oltre al ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, e al consigliere per la politica estera, Yuri Ushakov, a guidare la delegazione russa era un personaggio poco noto al grande pubblico ma di fondamentale importanza. Kirill Dmitriev, noto nell’ambiente moscovita come Kiriusha e vicino alla figlia di Putin, è pure grande amico del principe saudita, Mohammad bin Salman Al Sa'ud, da cui ha ricevuto una medaglia al valore nel 2019, durante la presidenza Trump. Riyad è infatti un grande alleato sia per il tycoon che per Putin, e Dmitriev è soprattutto un uomo d’affari: è presidente del Russian Direct Investment Fund, fondo sovrano del Cremlino. 

E difatti, nonostante l’impegno per la creazione di gruppi di negoziazione, più che idee concrete per cercare quella pace “giusta e sostenibile [...] accettabile da tutte le parti in causa, incluse Ucraina, Europa e Russia,” come ha dichiarato Rubio, i partecipanti hanno discusso di uno dei temi preferiti dell’amministrazione Trump: le “opportunità economiche e di investimenti” possibili dopo la fine della guerra in Ucraina e una “normalizzazione” dei rapporti fra Washington e Mosca. E un primo affare, cruciale, per i russi potrebbe essere sbarazzarsi delle sanzioni imposte in questi tre (dieci) anni.

Nel frattempo, Zelensky che aveva annunciato proprio alla vigilia della caotica Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tenutasi tra il 14 e il 16 febbraio, una coincidente missione questa settimana negli Emirati Arabi, Turchia e proprio Arabia Saudita, ha cancellato la visita presso quest’ultima. Ha per di più aggiunto che non avrebbe partecipato al meeting nemmeno in caso di invito, reiterando il messaggio per cui un capo di Stato dovrebbe incontrare suoi pari, non presenti a Riyad. 

Putin non ha ufficialmente commentato l’esito dei colloqui, ma la portavoce del ministero degli Esteri Marija Zacharova, mentre rivolgeva l’ennesima minaccia a Sergio Mattarella, chiariva come una priorità di Mosca rimanesse “la cancellazione della dichiarazione del summit NATO a Bucarest del 2008” in cui si invitavano Ucraina e Georgia a entrare, in un futuro indefinito, nell’alleanza. Lavrov, invece, ha definito “inaccettabile” l’eventuale invio di forze di peacekeeping internazionali in Ucraina come parte delle richieste di sicurezza di Zelensky, ad ora raccolte in maniera credibile solo dal primo ministro britannico Keir Starmer (mentre Macron ha fatto un dietrofront sul ruolo francese).

Più in generale, è chiaro come l’obiettivo di Mosca sia ridiscutere l’intera architettura di sicurezza europea, un tema centrale nella retorica dell’invasione russa del 2022. Ciò che è nuovo è che per la prima volta riesce a farlo con il benestare di Washington. Trump, da una parte bastonando l’Unione Europea e accusando Kyiv dello scoppio della guerra, dall’altra annunciando un incontro col presidente russo entro fine mese, concede a Putin una vittoria comunicativa e politica che l’autocrate russo cercava da 25 anni: poter vendere al proprio pubblico interno, ma ancora di più all’estero, le relazioni USA-Russia come fra pari.

Una possibile, probabile e tragica pace imperiale che profuma di anni ‘30, per l’esclusione di Kyiv, ma che sa anche di Guerra Fredda, sebbene i rapporti di potere siano in realtà incomparabili, al di là della propaganda del Cremlino e delle concessioni di Trump. Nonostante la retorica, e seppur trainata dall’economia di guerra, Mosca impero non lo è più da tempo: e davanti alla facciata di grandezza appare chiara l’ombra cinese, non pronta tuttavia a formalizzare un’alleanza a lungo termine con due partner che ritiene inaffidabili come Russia e Corea del Nord, e piuttosto incline a voler sfruttare un disimpegno statunitense dall’Europa ma pure dall’Ucraina stessa.

Nel tentativo di coordinare una risposta, il presidente francese Emmanuel Macron ha organizzato una riunione emergenziale con Von der Leyen e i principali capi di Stato europei. Il tema sullo sfondo dell’incontro parigino era delineare una strategia chiara e condivisa per difendersi, a lungo termine, dall’aggressività di Mosca alla luce del disimpegno americano. I principali giornali europei, tra cui quelli più vicini a Bruxelles come Politico Europe, hanno sottolineato come i leader europei non abbiano trovato una “risposta pronta” alla bomba di Trump. 

Un obiettivo difficile, considerando pure le imminenti elezioni in Germania dove l’amministrazione trumpiana sostiene l’estrema destra di AfD, chiarendo in modo emblematico il piano globale di Trump – che poi è quello del Cremlino da metà anni ‘10: sfaldare l’Europa dall’interno, rendendola irrilevante di fronte al nuovo ordine globale, che più che di multipolarismo pare ora assumere la forma dell’anarchia. Un avvertimento parzialmente raccolto anche dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas. Una possibile alleanza tra Washington e Mosca, è un rischio esistenziale per l’Europa unita in quanto tale, avvertono i francesi.

In attesa di capire cosa sarà del piano da 700 miliardi euro per il sostegno all’Ucraina ipotizzato a Monaco, tra gli altri, dalla Ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock (a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato), ci sono state decisioni minori, come l’approvazione di un pacchetto di aiuti militari da 6 miliardi di euro. 

Ci si aspetta, però, che ulteriori risposte sulla strategia europea possano arrivare dal secondo meeting emergenziale di oggi 19 febbraio, di nuovo a Parigi, esteso a un gruppo più ampio di paesi, tra cui alleati ferrei di Kyiv come i paesi baltici, Canada e Norvegia. Durante il quale, idealmente, dovrebbero fare da faro le indicazioni di Mario Draghi per cui “l'UE è il principale nemico di sé stessa”: di fronte alla prospettiva concreta di rimanere soli, bisogna superare il tempo dei veti incrociati e delle attese.

Cosa sta cambiando?

Di certo non per decenni, ma per circa un anno la narrazione è stata quella di uno stallo sul campo di battaglia in Ucraina, dopo l’eroica resistenza di Kyiv tra il 2022 e l’inizio del 2023 che aveva portato alla difesa della capitale ucraina e alla liberazione di Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Kherson. 

Dopo la caduta di Bakhmut nella primavera del 2023, la guerra è diventata un lento logoramento che ha leggermente avvantaggiato il Cremlino, per lo meno dal punto di vista quantitativo - quel che conta di più per Putin, d’altronde.

Poche centinaia di metri quadrati al giorno, in media, di avanzata, al costo di centinaia di migliaia di vite perse - da una parte, come dall’altra. Secondo la maggioranza degli analisti, molte più per i russi che hanno pure dovuto cercare alleanze inedite come quella con la Corea del Nord nella difesa dell’oblast’ di Kursk, o con l’Iran a metà 2022 sui droni Shaheed, per portare avanti la distruzione di quello che la propaganda russa ha sempre definito un ‘paese fratello’.

In tre settimane Trump ha spazzato via l’incertezza che aleggiava negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden. Da diversi mesi si parlava di possibili quanto vaghi colloqui di pace riguardanti i territori occupati da Mosca, circa il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Ucraina. Trump e Vance hanno trasformato questa incertezza in caos durante la Conferenza di Monaco, tenutasi nello scorso fine settimana.

La nuova amministrazione repubblicana ha gradualmente alzato l’asticella comunicativa: da una parte bistrattando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, chiarendo come un obiettivo secondario di Trump sia sentenziare la sua morte politica, dall’altra usando più la carota che il bastone con il Cremlino - quest’ultima una tattica priva di credibilità e sostegno, soprattutto all’interno dell’UE e soprattutto a Kyiv. Zelensky continua a ripetere come l’Ucraina non accetterà alcun ultimatum da parte russa.

Prima di essere esclusa dal tavolo di Riyad, Bruxelles ha ricordato a Trump di dover essere considerata parte di eventuali trattative. Lo stesso aveva dovuto fare Zelensky dopo la telefonata fra il presidente russo e quello americano: gli avvenimenti del 12 febbraio hanno definito un ordine di autorità, se non di preferenza, fra le due parti nell’astratto (ma sempre più concreto e cinico) piano di pace di Trump: Putin prima, Zelensky poi. Una rivoluzione rispetto all’approccio di Biden e dell’amministrazione democratica. 

Una rivoluzione in parte scontata, ma ugualmente una doccia fredda per uno Zelensky che era apparso, fino alla scorsa settimana, più concessivo nei confronti della retorica trumpiana, ma negli scorsi giorni sempre più veementemente ha cominciato a esprimere la propria rabbia e frustrazione per la tattica americana.

All’attesa Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, iniziata venerdì 14 febbraio, il vice-presidente JD Vance ha offerto un esempio di quella strategia comunicativa teorizzata da Steve Bannon che, in un’intervista di qualche anno fa, disse: “Il partito di opposizione sono i media. E i media, poiché stupidi e pigri, possono concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto ciò che dobbiamo fare è inondarli. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una sola, e riusciremo a fare tutto ciò che vogliamo. [...] Ma dobbiamo iniziare alla velocità della luce”. 

Vance, che in campagna elettorale aveva detto che la guerra in Ucraina è un problema dell’Europa, ha aperto la Conferenza di Monaco ipotizzando l’invio di soldati statunitensi a supporto di Kyiv qualora Mosca sabotasse le trattative, smentendo peraltro le dichiarazioni di appena due giorni prima del suo segretario alla Difesa, Pete Hegseth. 

Poche ore dopo, Vance smentiva doppiamente sé stesso, dicendo come si potrebbe arrivare “a un accordo ragionevole” per entrambe le parti: è il gioco delle parti della diplomazia del nuovo ordine trumpiano, non solo tra diversi esponenti del cerchio ristretto del presidente (e autoevidente nel Grand Old Party nel suo complesso) ma anche fra le loro molteplici personalità, come dimostrato dallo show bavarese di Vance, che ne ha avuto per tutti, soprattutto l’Unione Europea intesa come coalizione di forze politiche diverse dall’estrema destra sostenuta oggi da Washington (e foraggiata nell’ultimo decennio dal Cremlino).

Se le prime due settimane di presidenza di Trump si sono concentrate a smantellare l’ordine interno e su Gaza per quanto riguarda la politica estera, febbraio segna il mese di Kyiv e Mosca. Nella strategia di Washington a breve termine, ciò implica l’esclusione della prima.

Cosa ci aspetta?

La nuova fase aperta ufficialmente il 12 febbraio, in qualche modo prevista dalle analisi delle settimane precedenti che ha confermato, seppur non ancora nei fatti quanto più sul piano simbolico, l’avvio di una nuova fase della guerra in Ucraina e più in generale dei mutevoli equilibri globali: la possibile, probabile e, per almeno una e mezza delle parti in causa, desiderabile spartizione di uno Stato sovrano, evento a cui assistiamo in diretta per la prima volta da 80 anni. 

Con conseguenze imprevedibili per l’ordine internazionale, e anche questo è stato ripetuto a lungo negli ultimi tre anni. Mentre, al contrario, viene spesso dimenticato il destino di quelle milioni di persone che a Mariupol’, Donec’k, Berdyans’k e Luhans’k ci abitano.

Prima le proposte, da parte di Trump, più strampalate, ad esempio il ricatto sulle terre rare, e la sua nemmeno troppo velata retorica neocoloniale, espressa nel piano segreto che puntava a ottenere un controllo economico quasi totale sull’Ucraina, chiedendo a Kyiv un “risarcimento” di 500 miliardi di dollari in merito agli aiuti americani degli ultimi tre anni. Una retorica che punta a colpevolizzare l’Ucraina, rinforzata dalle dichiarazioni di Trump per cui sarebbe il paese invaso e non il Cremlino ad aver provocato lo scoppio della guerra.

Tattiche comunicative e negoziali utili a confondere l’opinione pubblica e indebolire ulteriormente (nel tentativo ultimo di umiliare) la fragile posizione di Kyiv che si siederebbe al tavolo delle trattative in una posizione decisamente svantaggiata rispetto ad appena un anno fa. Nel farlo, il presidente americano ha persino dichiarato che “l’Ucraina potrebbe essere russa un giorno”, confermando paradossalmente i fondati timori sia ucraini che europei che le trattative annunciate saranno una tregua a orologeria, più che una pace duratura, nonostante le dichiarazioni dell’establishment americano puntino a narrare l’esatto opposto.

Il nuovo corso repubblicano getta benzina sul fuoco sulla difficile situazione interna di Kyiv, in cui il reclutamento è sempre più tortuoso (è d’altronde complicato trovare motivazioni, dopo tre anni di sofferenza, quando viene a mancare il senso complessivo della lotta di resistenza dopo il tradimento del principale alleato, che Zelensky ha paragonato a quello avvenuto in Afghanistan) e l’ordine politico sempre più caotico, come dimostrato dalle sanzioni ad personam verso l’ex presidente Petro Poroshenko, insieme ad altri oligarchi, approvate da Zelensky proprio il giorno successivo alla telefonata Putin-Trump.

Una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino, che persevera nella narrazione del ‘presidente illegittimo’.

Proprio il suo avversario Poroshenko, in un’intervista al media ucraino Censor.net dello scorso 16 febbraio, ha invitato “ad annotare questa data: 26 ottobre”. Poroshenko dichiara di avere le prove per cui le elezioni si terranno quel giorno: a quanto dice l’ex presidente ucraino la commissione elettorale centrale sta aggiornando i propri registri, mentre lo stabilimento tipografico 'Ucraina' “sta già elaborando quante schede elettorali saranno necessarie”.

Al di là della popolarità in discesa di Poroshenko, gli inside politici a Kyiv sono spesso manovrati dall’alto, e non sarebbe sorprendente se l’informazione sia arrivata all’ex presidente proprio da ambienti vicini all’attuale amministrazione per affossarne il futuro politico. In ogni caso, confermano come l’Ucraina stia entrando, probabilmente controvoglia, verso una nuova confrontazione politica interna. 

Mentre la guerra continua, e poche ore dopo Riyad alcuni droni russi dal Mar Nero attaccano quella che la propaganda del Cremlino definisce una delle città madri russe, Odessa, la stessa intelligence statunitense sottolinea come al momento non si scorgano reali volontà di Putin di fermare la guerra.

Le previsioni di Poroshenko d’altro canto affascinano gli amanti delle dietrologie e degli incastri celesti nella politica internazionale. Il 26 ottobre cade sei mesi dopo la data scelta da Trump, secondo Bloomberg, per il cessate il fuoco che aprirebbe a nuove elezioni. E dopo queste alla firma della pace da parte del nuovo governo ucraino, secondo fonti diplomatiche il più filorusso possibile nei desideri di Mosca e Washington, ispirate dallo ‘spirito di Riyad’.

La data è quella del 20 Aprile, celebrazione, quest’anno, della Pasqua sia di rito cattolico che ortodosso. Aspettando di comprendere fino in fondo quale mondo ci si troverà davanti fra due mesi: Trump si è insediato da meno della metà.

Immagine in anteprima: frame video FirstPost via YouTube

Quello di Donald Trump non è isolazionismo, è ‘mafia imperialism’

Nell’arco del primo mese della sua presidenza, Donald Trump sta distruggendo l’ordine legale internazionale che resisteva dal termine della seconda guerra mondiale: ha unilateralmente deciso di trattare con la Russia in merito all’invasione dell’Ucraina, ha parlato della necessità di costruire una “riviera di lusso” nella Striscia di Gaza, senza che i palestinesi possano più rivendicare alcun diritto sulla terra, ha cercato di acquistare la Groenlandia e di riottenere l’autorità sul Canale di Panama, ha minacciato dazi a Canada e Messico, ha chiesto ai paesi europei di alzare considerevolmente la loro spesa militare fino al 5% del PIL, ben più del 2% che l’Alleanza atlantica ha sempre richiesto.

Queste mosse generano ansia nei suoi alleati storici, che non vedono più negli Stati Uniti i garanti dell’ordine mondiale. Questo non implica però, come alcuni dicono, che Trump sia un presidente isolazionista, dato che interviene, anche in maniera estremamente muscolare, nelle vicende globali. Un intervento, però, non atto a garantire stabilità e legalità dell’ordine, ma a ottenere terre e risorse: un imperialismo sfruttatore di marca ottocentesca, in cui le nazioni più ricche potevano rubare risorse a quelle più povere in nome di una forza superiore. Mike Galsworthy, co-fondatore di Scientists for EU e Healthier IN the EU, lo ha definito 'mafia imperialism'.

Trump wants to land-grab in Ukraine— — just like Greenland, Gaza, Canada, Panama. He wants to grab other people’s land and natural resources all under the guise of “protection” and “development” of “the west” under his care. It’s pure mafia imperialism.

— Mike Galsworthy (@mikegalsworthy.bsky.social) 19 febbraio 2025 alle ore 07:43

L’ordine mondiale ereditato da Trump non era perfetto, ma aveva un vantaggio: le regole erano chiare. Tra queste, la principale riguardava il fatto che ogni paese rispettava la sovranità di tutti gli altri, e non avrebbe più tentato di acquisire territori per mezzo della forza: questo è il motivo per cui, dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, la Russia è stata velocemente allontanata dalla comunità internazionale e i maggiori paesi occidentali hanno approvato diversi pacchetti di sanzioni. Gli Stati Uniti, però, cercano oggi di riconsiderare quest’ordine, in virtù del fatto che si sentono i padroni assoluti dell’emisfero occidentale. Gli alleati, dopo decenni di affidamento sugli Stati Uniti nella gestione della difesa, si ritrovano soli e isolati: questo porterà necessariamente a nuovi tentativi di alleanze e al tentativo di rinforzare quelle già esistenti non a guida americana. 

Durante i discorsi del leader statunitense, è chiaro il tentativo di porre una grande attenzione sull’emisfero occidentale, un focus che ricorda da vicino la dottrina Monroe, posizione politica del quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, che affermava la padronanza statunitense sugli affari del continente americano. Monroe se la prendeva con le potenze europee, che cercavano di colonizzare terre che secondo gli Stati Uniti appartenevano alla loro sfera d’influenza, Trump principalmente con la Cina, che otterrebbe vantaggi commerciali dall’utilizzo del Canale di Panama e aggirerebbe i dazi statunitensi sulle automobili delocalizzando la propria produzione in Messico. Le direttrici entro cui si muove Trump nel riprioritizzare il continente americano sono due: da un lato attacchi in senso imperialistico, dall’altro la ricerca di una guerra commerciale.

A subire gli attacchi imperialistici sono principalmente Panama, paese indipendente dal 1903 e sul cui territorio è presente l’omonimo Canale, e la Groenlandia, regione artica oggi parte della Danimarca, che Trump vorrebbe acquistare sin dal suo primo mandato, ricevendo sempre dinieghi da Copenhagen. La tensione tra Trump e il presidente panamense Mulino si è alzata esponenzialmente durante queste settimane, col primo che rivorrebbe il controllo del Canale, ceduto dagli Stati Uniti nel 1977 e controllato da un’autorità del governo di Panama. Il Presidente americano li ha accusati di aver fatto sì che la Cina arrivasse a controllare l’Autorità che governa il canale, e per questo rivorrebbe una guida americana: non ci sono, però, prove che il governo cinese eserciti alcun tipo di controllo, nonostante negli anni ha molto investito in porti e terminal intorno al Canale, dato che le sue navi contano per il 21,4 per cento del traffico dell’area. 

Se Trump ha addotto una scusa per quanto concerne la questione panamense, non ci ha nemmeno provato riguardo alla Groenlandia. Trump ha asserito che il controllo della regione artica garantirebbe agli Stati Uniti una maggiore “sicurezza economica”, ma il motivo per cui ne è ossessionato è la gran quantità di risorse che otterrebbe: nickel, ferro e terre rare sono presenti in gran quantità in Groenlandia, poco sfruttate da una comunità Inuit di 56.000 residenti. L’obiettivo trumpiano grazie a queste nuove materie prime sarebbe quello di poter raggiungere l’indipendenza energetica e poter produrre internamente sempre più semiconduttori, utili per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale: un vero e proprio imperialismo di sfruttamento. La Danimarca si è rifiutata di sedersi a un tavolo delle trattative e le comunità del luogo non sono state minimamente interpellate: emissari americani sono andati nella regione e hanno regalato ad alcuni residenti un centinaio di dollari, una mossa vista dai cittadini come un ingeneroso tentativo di comprare la loro volontà. Gli Inuit che abitano la Groenlandia vorrebbero da anni staccarsi dalla Danimarca, che li controlla con metodi coloniali dal 1721, ma chiedono l’indipendenza, non di essere venduti a una nuova potenza. L’interesse per la posizione degli abitanti da parte degli Stati Uniti è nullo, tanto che i repubblicani hanno presentato al Congresso una legge per rinominare la Groenlandia “Terra bianca, rossa e blu”. (In inglese, Greenland sta per “terra verde” ndr). Per di più, se gli Stati Uniti possono decidere di modificare la sovranità dei paesi vicini, allora crolla il caposaldo che ha tenuto insieme l’ordine legale in questi decenni: verrebbe infatti meno ogni rimostranza mossa alla Cina ogni qualvolta esprime la volontà di assediare e conquistare l’isola di Taiwan.

Con i paesi più grandi del Nord America, Canada e Messico, Trump ha invece adottato la tattica di minacciare una guerra commerciale. Ha imposto dazi del 25% su tutti i beni importati dai due paesi, per poi revocarli non appena entrambi hanno concesso al presidente statunitense più truppe per controllare i confini.

Nonostante questo, la tensione col Canada è rimasta altissima, tanto che Trump ha più volte scritto che vorrebbe un’annessione agli Stati Uniti come cinquantunesimo Stato. Una posizione ovviamente irricevibile, atta a esacerbare lo scontro: Trump ritiene che la bilancia commerciale col Canada penda a svantaggio degli Stati Uniti per 250 miliardi di dollari e che Trudeau non faccia niente per contrastare l’arrivo del fentanyl, droga sintetica a base di oppioidi, negli Stati Uniti. Due affermazioni tendenziose, in quanto i dati sulla bilancia commerciale non tengono conto del fatto che le condutture di gas canadese passano all’interno del territorio statunitense e che solo lo 0,2% del fentanyl arriva dal Canada.

La minaccia di dazi così alti è poi, per la maggior parte degli economisti, un problema: con paesi come Messico e Canada gli USA sono molto interdipendenti. Nel settore automotive, per fare un esempio, alcuni pezzi di autovetture attraversano il confine varie volte prima che il prodotto sia completato, e ogni passaggio dovrebbe essere sottoposto a dazio. Questo alzerebbe esponenzialmente il prezzo delle auto negli Stati Uniti, e ricadrebbe tutto sul consumatore finale. Nonostante questo, per Trump i dazi imposti agli amici non sono altro che un monito: ricordare loro che non sono né alleati né amici degli Usa, ma semplicemente dei partner di minor peso, le cui economie possono essere messe in crisi in ogni momento.

Anche il rapporto con l’Unione Europea sta evolvendo in questo senso. Gli Stati Uniti stanno apertamente sconfessando i pilastri su cui è stata costruita l’Alleanza atlantica, e hanno iniziato a richiedere ai paesi europei una spesa in difesa difficile da attuare per le economie dell’Unione. Se nel primo mandato la richiesta era quella di adeguarsi alla spesa del 2% in relazione al PIL, obiettivo raggiungibile, oggi la richiesta è quella di passare velocemente al 5%, provocando uno scontro.

Inoltre, il vicepresidente Vance, parlando alla Conferenza di Monaco, ha apertamente avallato i partiti di estrema destra: ha incontrato Alice Weidel, leader di Afd, partito suprematista che le altre forze politiche tedesche vorrebbero tenere lontano dalle posizioni di governo, e ha criticato le politiche migratorie, climatiche e legate ai diritti LGBT europee. In più, Vance ha attaccato frontalmente il Digital Service Act (DSA) dell’Unione Europea che, a suo dire, regolamenterebbe troppo il settore dell’intelligenza artificiale, su cui gli Stati Uniti hanno molte meno regole; anche la moderazione eccessiva dei contenuti che si farebbe nel continente è stata definita una “censura autoritaria”.

Oltre a questo, la principale minaccia americana alle economie dell’Unione è quella dei dazi: Trump ha asserito che con la UE vuole costruire un sistema di tariffe reciproche, per cui tutti i balzelli che un bene americano deve subire nei confronti di un paese verranno applicati a tutti i beni di quel paese in ingresso negli Stati Uniti. Nel breve termine questo farà salire l’inflazione, che infatti a gennaio è già tornata a sforare il 3%, nonostante le promesse dell’amministrazione, e aprirà a molteplici trattati bilaterali e a possibili esenzioni per i leader che si dimostrano più vicini agli americani. 

A questa situazione critica si aggiunge il voltafaccia nella questione ucraina. Dopo un mese dall’insediamento, gli USA si sono appiattiti sulle posizioni della Russia, confermato anche dal rifiuto statunitense di fare da co-sponsor a una risoluzione ONU di condanna per il terzo anno dell’invasione. Una delegazione americana ha incontrato per la prima volta dal 2022 una delegazione russa a Riad, e questo è il viatico per un bilaterale tra Trump e Putin nel prossimo futuro. Nel frattempo, il Presidente ha fatto proprie le posizioni di Mosca, riaffermando la propaganda putiniana: ha definito Zelensky un “dittatore non eletto” che possiede “solo il 4% di sostegno nel paese” (un dato falso, in quanto le ultime rilevazioni lo attestano sopra il 50 per cento) e sta impedendo a Ucraina e Unione Europea di sedersi ai tavoli delle trattative che ha aperto con Mosca.

La motivazione con cui non permette alla UE di condividere il tavolo degli accordi è pretestuosa: Trump ritiene che gli USA hanno speso molto più degli altri paesi nel sostegno all’Ucraina. Questo è però falso, perché i paesi europei avrebbero speso 132 miliardi in aiuti, contro i 114 statunitensi. Inoltre, ha chiesto a Kyiv, in cambio di una non precisata “prosecuzione degli aiuti”, che gli vengano ceduti i diritti sulla metà dei profitti legati all’estrazione di risorse naturali nel paese in perpetuo. Questa proposta è stata commentata dal noto economista Paul Krugman come “puro imperialismo sfruttatore ottocentesco”: una vera e propria razzia di risorse, che Zelensky si è rifiutato di concedere.

La questione ucraina ha agitato molti senatori repubblicani, più vicini alle posizioni classiche del Partito in politica estera: il senatore Tillis ha per esempio affermato che la responsabilità è solo in capo a Putin. La speranza di molti analisti era la persona che Trump aveva scelto come segretario di Stato: Marco Rubio, senatore della Florida, proveniente da famiglia di esuli cubani, sempre dichiaratosi contro ogni forma di dittatura e, tra le altre cose, uno dei principali sfidanti di Trump alle primarie del 2016. Come analizzato da Politico, però, Rubio non ha peso nelle scelte dell’amministrazione, viene utilizzato per dire ovvietà e sta sempre in disparte rispetto a Trump e Musk, che plasmano con comunicati e lanci social tutta la politica estera. Una figura che doveva essere di garanzia, trasformata in una voce spenta e che ripete blandamente le posizioni del presidente. 

L’altro scenario in cui Trump dice di aver “fatto finire la guerra” è il Medio Oriente, in cui dopo pochi giorni dal suo insediamento Israele e Hamas hanno acconsentito a un cessate il fuoco, negoziato per mesi dall’amministrazione Biden ma ottenuto solo dopo il cambio di inquilino a Pennsylvania Avenue.

Il piano su cosa sarà della Striscia, sempre che la tregua regga in queste settimane, è stato attaccato da tutti i leader dei paesi arabi e da gran parte della comunità internazionale, e Trump è stato da più voci accusato, tra cui da 350 rabbini statunitensi, di aver proposto una pulizia etnica: il leader americano ha apertamente parlato di una Riviera di lusso nella Striscia di Gaza, con grandi alberghi e casinò, su cui i palestinesi non avranno più alcun diritto. Anzi, i profughi dovrebbero essere accolti da Egitto e Giordania, che si sono smarcati. I leader arabi sono fermi su un punto: c’è bisogno di uno Stato palestinese riconosciuto da tutti, posizione che però non sembra realizzabile con queste amministrazioni negli Stati Uniti e in Israele.

Tutte queste mosse attaccano direttamente l’ordine legale internazionale, non riconoscono le sovranità statali che dovrebbero essere garantite dalle Nazioni Unite e sconfessano la visione globalista a guida americana che ha dominato nella seconda parte del Novecento. A ottenere dividendi da queste posizioni è quello che Trump definisce il rivale principale degli Stati Uniti in quest’epoca: la Cina.

Tra gli ordini esecutivi che hanno contraddistinto il primo mese di amministrazione Trump – di cui abbiamo parlato estesamente su Valigia Blu - c’è stato lo svuotamento dei fondi per molte agenzie federali: tra queste USAID, che si occupa di sviluppo internazionale. Molti progetti esteri e aiuti internazionali, compresi quelli legati alla prevenzione della diffusione di virus letali come l’HIV, sono stati bloccati.

Di contro, la Cina sta cercando di intervenire e garantire questi aiuti attraverso China Aid: più gli Stati Uniti recedono dalla loro funzione di perno economico mondiale, più è il soft power cinese a ricoprire le stesse posizioni, garantendo però a Pechino un’influenza sempre maggiore. Tra le agenzie a cui sono stati tolti i fondi, poi, c’è anche China Labor Watch, che aveva il compito di indagare sullo sfruttamento dei lavoratori in Cina. Oltre a ricostruire in senso autoritario il paese internamente, Trump sta rivoluzionando anche la proiezione estera degli Stati Uniti: non più alleati né difensori dell’ordine, ma un mondo fatto di competitor a cui bisogna strappare accordi favorevoli, il tutto cercando di ottenere risorse dai paesi più deboli.

Tutto questo sta generando ansia e il tentativo di disallineamento dalle posizioni americane da parte di attori più o meno grandi, tra cui l’Unione Europea: sul breve termine, è la Cina a presentarsi di fronte alla comunità internazionale come una potenza responsabile, leader nelle rinnovabili e nell’aiuto umanitario, mentre gli Stati Uniti stanno diventando i distruttori dell’ordine che hanno contribuito a creare ottant’anni fa. Come ha scritto sull’Atlantic Anne Applebaum, “è il momento di riconoscere il cambiamento che stiamo vivendo, e dobbiamo trovare nuovi modi di vivere nel mondo che degli Stati Uniti diversi dal passato stanno contribuendo a creare”.

Immagine in anteprima via flickr.com

La lotta per la Groenlandia (Parte III)

Si intensifica il dibattito dell’UE sull’invio di soldati in Groenlandia. L’Artico è già oggi teatro di una crescente rivalità militare tra Stati Uniti e Russia.

Il dibattito sull’invio di soldati in Groenlandia si sta intensificando nell’Unione Europea. Dopo la proposta del Presidente del Comitato militare dell’UE, anche il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che “se sono in gioco i nostri interessi”, si potrebbe prendere in considerazione il dispiegamento di truppe sull’isola, che appartiene allo Stato UE della Danimarca. Barrot ha sottolineato che l’Artico nel suo complesso è diventato una “nuova area di conflitto”.

In effetti, la rivalità sta aumentando, soprattutto tra l’Occidente e la Russia. La Russia dispone oggi di quasi una dozzina di basi militari nella regione artica per proteggere il suo fianco settentrionale, il porto della sua flotta settentrionale e le fonti di petrolio e di gas che vi si trovano.

Gli Stati Uniti gestiscono nove basi militari in Alaska e utilizzano la base spaziale di Pituffik in Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che l’Artico è un’“arena” per le lotte di potere globali; il Presidente Donald Trump voleva acquistarlo. Il fatto che abbia fallito allora contribuisce a spiegare le sue attuali richieste di annessione estremamente aggressive.

Porto Rico con la neve

Per la prima volta dopo gli sforzi compiuti negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, nel 2019 gli Stati Uniti hanno puntato ad annettere la Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato in un discorso a una riunione del Consiglio Artico a Rovaniemi, nel nord della Finlandia, che l’Artico era diventato un’“arena” per di competizione globale: “Stiamo entrando in una nuova era di attività strategica nell’Artico”[1]

Nell’agosto 2019, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato di voler acquistare la Groenlandia. La mossa ha scatenato reazioni incredule e talvolta inorridite in Danimarca in generale e nella stessa Groenlandia. “Spero che sia uno scherzo”, ha dichiarato Martin Lidegaard, presidente della Commissione Affari Esteri del parlamento danese – si tratta di ‘un pensiero terribile e grottesco’[2].

‘La Groenlandia non è in vendita’, ha annunciato il primo ministro groenlandese Kim Kielsen. Di conseguenza, i piani di Trump non avrebbero portato a nulla. Il capo del Centro per gli studi militari dell’Università di Copenaghen, Henrik O. Breitenbauch, ha dichiarato che non si fa commercio di persone e Paesi. Inoltre, l’interesse della popolazione groenlandese a diventare una sorta di “Porto Rico con la neve” era probabilmente piuttosto limitato[3].

“Ci prendiamo la Groenlandia”

Il 22 dicembre 2024, Trump ha nuovamente annunciato di voler incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti.[4] Il 7 gennaio 2025, ha esplicitamente ribadito che non escluderà la coercizione economica o militare per raggiungere questo obiettivo.[5]

Come nel 2019, in Danimarca e nella stessa Groenlandia si sono sentiti sgomento e aperto rifiuto. Facendo riferimento alla storica discriminazione razziale contro la popolazione indigena dell’Alaska, gli Inuit, Pipaluk Lynge, membro del parlamento groenlandese, ha dichiarato: “Sappiamo come trattano gli Inuit in Alaska”. Rivolgendosi agli Stati Uniti, Lynge ha aggiunto: “Rendeteli ‘great’ prima di cercare di invaderci”[6]

I primi tentativi del governo danese di smorzare le richieste con concessioni all’amministrazione Trump – come la promessa di espandere un aeroporto in Groenlandia per i caccia F-35 statunitensi – sono falliti. In una conversazione telefonica con il primo ministro danese Mette Frederiksen la scorsa settimana, Trump non solo ha insistito per incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti, secondo quanto riferito, ma ha anche minacciato misure coercitive specifiche, come i dazi.[7] “Avremo la Groenlandia”, ha affermato Trump nel fine settimana; se la Danimarca non è disposta a cedere il suo territorio, questo sarebbe “un atto molto ostile”[8].

Sistemi di allerta rapida per l’Artico

Trump insiste nella rivendicazione, anche se gli Stati Uniti hanno già un notevole spazio di manovra militare in Groenlandia e la Danimarca si è offerta di ampliarlo. Washington e Copenaghen hanno un accordo militare relativo alla Groenlandia dal 1951, che consente alle forze armate statunitensi di utilizzare, tra le altre cose, una base militare situata molto a nord-ovest dell’isola. Ancora oggi è conosciuta come base aerea di Thule, ma da diversi anni si chiama ufficialmente base spaziale di Pituffik.

Oltre a una stazione di sorveglianza spaziale, vi si trovano anche radar e sistemi di allarme rapido. Questi erano già utilizzati durante la Guerra Fredda per rilevare eventuali bombardieri e missili sovietici in avvicinamento. Il percorso attraverso la Groenlandia è il più breve dalla Russia agli Stati Uniti a causa della curvatura della terra.

Oggi gli esperti sottolineano che le strutture della base spaziale di Pituffik non sono probabilmente in grado di rilevare in tempo i moderni missili ipersonici russi; per questo, dicono, “nuove strutture di ricognizione dovrebbero essere posizionate anche in Groenlandia”[9]. Peter Viggo Jakobsen, professore del Royal Danish Defence College, ha affermato che gli Stati Uniti “hanno ottenuto in larga misura ciò che volevano militarmente in Groenlandia chiedendo gentilmente”[10].

Basi militari nell’Artico

Un’eventuale annessione della Groenlandia e un’espansione della presenza militare statunitense sull’isola aggraverebbero in modo significativo le tensioni militari nell’Artico. Gli Stati Uniti mantengono attualmente nove basi militari in Alaska, oltre alla base spaziale di Pituffik in Groenlandia.

La Russia, invece, ha aumentato le sue basi militari nelle regioni settentrionali fino a quasi una dozzina. È nella penisola di Kola, per la precisione, che si trova la base della Flotta del Nord, che contiene parte della capacità di secondo colpo nucleare delle forze armate russe. Le regioni artiche della Russia ospitano anche grandi riserve di petrolio e, soprattutto, di gas naturale. Entrambe devono essere protette dagli attacchi in caso di guerra, motivo per cui Mosca dichiara la sua presenza militare nell’Artico come chiaramente difensiva.[11]

Tuttavia, la Russia ha recentemente ampliato le sue manovre nelle acque artiche e, secondo i rapporti, le ha spostate sempre più verso la Norvegia, il che aumenta il suo spazio di manovra ma è classificato come azione offensiva in Occidente. Nell’Artico sta inoltre cooperando con la Cina, non a livello militare, ma ad esempio nello scambio di dati satellitari per la comunicazione e la navigazione[12].

Un segnale forte

Nel frattempo, si discute anche dello stazionamento di forze dell’UE in Groenlandia. A fine gennaio, il presidente del Comitato militare dell’UE, il generale austriaco Robert Brieger, ha dichiarato che sarebbe “abbastanza sensato” “prendere in considerazione lo stazionamento di soldati dell’UE” in Groenlandia: “Sarebbe un segnale forte”. [13.

Durante una breve visita a Parigi del primo ministro danese Mette Frederiksen, il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che l’Artico è diventato una “nuova area di conflitto” in cui “l’interferenza straniera” deve essere deplorata.  “Se i nostri interessi sono in gioco”, allora il dispiegamento di militari in Groenlandia sarà preso in considerazione. [14]

La Danimarca ha ora iniziato ad armarsi a livello nazionale nella sua provincia autonoma. Come annunciato lunedì, Copenaghen intende spendere 14,6 miliardi di corone danesi – poco meno di due miliardi di euro – per acquistare, tra l’altro, tre navi da guerra in grado di affrontare l’Artico e due droni a lungo raggio che possono essere utilizzati per voli di sorveglianza estensivi. Inoltre, ci saranno esercitazioni militari più intense rispetto al passato sul terreno artico [15].

Le parti precedenti di questa serie di articoli si possono leggere ai seguenti link:  La lotta per la Groenlandia (I)   La lotta per la Groenlandia (II) 

NOTE:

  • [1] Michael R. Pompeo: Looking North: Sharpening America’s Arctic Focus. 2027-2021.state.gov 06.05.2019.
  • [2], [3] Martin Selsoe Sorensen: “La Groenlandia non è in vendita”: Trump’s Talk of a Purchase Draws Derision. nytimes.com 16.08.2019.
  • [4] Rebecca Falconer: Trump suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero diventare proprietari della Groenlandia. axios.com 23.12.2024.
  • [5] Seb Starcevic: Trump rifiuta di escludere l’uso della forza militare per prendere la Groenlandia e il Canale di Panama. politico.eu 07.01.2025.
  • [6] Seb Starcevic, Eric Bazail-Eimil, Jack Detsch: La visita di Donald Trump Jr. è stata “inscenata”, dice il legislatore groenlandese. politico.eu 09.01.2025.
  • [7] Richard Milne, Gideon Rachman, James Politi: Donald Trump in una telefonata infuocata con il primo ministro danese sulla Groenlandia. ft.com 24.01.2025.
  • [8] Richard Milne: Donald Trump ridicolizza la Danimarca e insiste che gli Stati Uniti prenderanno la Groenlandia. ft.com 26.01.2025.
  • [9] Michael Paul: Grönlands arktische Wege zur Unabhängigkeit. SWP-Studio 2024/S 22. Berlino, 02.10.2024.
  • [10] Julian Staib: Perché Trump vuole la Groenlandia. Frankfurter Allgemeine Zeitung 09.01.2025.
  • [11] Colin Wall, Njord Wegge: La minaccia artica russa: conseguenze della guerra in Ucraina. csis.org 25.01.2023.
  • [12] Majid Sattar, Friedrich Schmidt, Julian Staib, Jochen Stahnke: La lotta per l‘artico. Frankfurter Allgemeine Zeitung 14.01.2025.
  • [13] EU-Militärchef für Stationierung von Soldaten auf Grönland. rnd.de 26.01.2025.
  • [14] Théo Bourgery-Gonse: La Francia pensa di inviare truppe UE in Groenlandia. euractiv.com 28.01.2025.
  • [15] Billy Stockwell, James Frater, Eve Brennan: La Danimarca aumenta la spesa per la difesa dell’Artico di 2 miliardi di dollari dopo l’interesse di Trump per la Groenlandia. edition.cnn.com 27.01.2025.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid.

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com

Amnesty International all’Unione Europea: “Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”

Lunedì 24 febbraio i ministri degli Esteri dell’Unione Europea accoglieranno a Bruxelles l’omologo israeliano Gideon Sa’ar in occasione del Consiglio di associazione Unione europea-Israele. È la prima volta nella storia dell’Unione europea che i suoi leader ricevono il rappresentante di uno stato il cui primo ministro e l’ex ministro della difesa sono destinatari di mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e il cui esercito sta attivamente commettendo crimini di diritto internazionale, tra cui il genocidio.

“È inconcepibile che l’Unione europea stenda il tappeto rosso al ministro degli Esteri Sa’ar, il cui superiore, il primo ministro Netanyahu, è ricercato dalla Corte penale internazionale. Le discussioni sul futuro delle relazioni con Israele dovrebbero basarsi anzitutto sull’insistenza affinché Netanyahu e Gallant affrontino la giustizia per i crimini di cui sono accusati, oltre che sul rispetto del diritto internazionale da parte di Israele e sulla fine dell’apartheid. I leader dell’Unione europea devono dare priorità al loro impegno verso il diritto internazionale, i diritti umani e la Corte penale internazionale rispetto agli incontri diplomatici attentamente orchestrati con Israele”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio Istituzioni europee di Amnesty International.

“Il vergognoso silenzio seguito alle minacce alla Corte penale internazionale e l’assenza di misure concrete e urgenti che avrebbe già dovuto adottare dopo le oltraggiose sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, danno l’impressione che l’Unione europea abbia dato priorità alle relazioni con un governo implicato nel commettere genocidio e crimini di guerra, piuttosto che al sostegno di un’istituzione che persegue l’accertamento delle responsabilità individuali per questi crimini. I leader dell’Unione europea dovrebbero decidere quali misure adottare per evitare di contribuire al genocidio, all’apartheid e all’occupazione illegale israeliani, invece di nascondere tutto sotto il tappeto per una stretta di mano diplomatica a Bruxelles”, ha concluso Geddie.

Ulteriori informazioni

Nonostante la Corte internazionale di giustizia abbia chiaramente delineato la responsabilità degli stati terzi di prevenire scambi commerciali e investimenti che contribuiscano al mantenimento dell’occupazione illegale, l’Unione europea continua a commerciare e investire negli insediamenti israeliani nel Territorio palestinese occupato.

Per maggiori informazioni, si vedano l’appello di Amnesty International all’Unione europea, firmato da oltre 160 organizzazioni della società civile, e la lettera del 10 febbraio, in cui si esorta i leader dell’Unione europea a utilizzare questo incontro per presentare a Israele richieste chiare affinché ponga fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e garantisca giustizia e riparazione per i crimini commessi, evidenziando al contempo le conseguenze nelle relazioni tra Unione europea e Israele in caso di mancanza d’azione dell’organismo europeo.

Amnesty International

La ‘pace imperiale’ di Trump e Putin imposta all’Ucraina punta a sventrare l’Europa dall’interno

“Ci sono dei decenni in cui non accade nulla. E poi delle settimane in cui accadono decenni”. Una delle massime più celebri di Lenin, accusato il 22 febbraio 2022 dal presidente russo Vladimir Putin di essere il principale colpevole dell’esistenza dell’Ucraina, può essere facilmente traslata a ciò che è accaduto dallo scorso 12 febbraio, giorno della telefonata tra il presidente statunitense Donald Trump e Putin. 

Una settimana intensa e scioccante, sebbene prevedibile già durante la campagna elettorale trumpiana, che sta sconvolgendo la politica europea e globale alla vigilia del terzo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina.

Cosa è successo dalla telefonata tra Putin e Trump in poi?

Monaco di Baviera, Riyad, Parigi, Ankara. Questi i centri gravitazionali delle evoluzioni che stanno portando a quella che Nathalie Tocci ha definito la ricerca di una ‘pace imperiale’ alle spalle di Kyiv e Bruxelles. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che il vertice tra russi e americani in Arabia Saudita è stato “una sorpresa” appresa dai media, durante una visita al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo a sua volta ha detto che la Turchia sarebbe un “posto ideale” per lo svolgimento di futuri negoziati per terminare la guerra in Ucraina, ribadendo l’inviolabilità dell’integrità territoriale di Kyiv. 

Trattative a cui gli Stati Uniti promettono di includere prima o poi anche europei e ucraini. Tuttavia, nella prima fase – un meeting di quattro ore e mezzo a Riyad – si sono tenute solamente tra russi e americani, alla presenza del ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, e del consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaad bin Mohammed Al Aiban, che avrebbero però lasciato l’incontro anticipatamente.

A rappresentare gli Stati Uniti c’erano il segretario di Stato, Marco Rubio, il consigliere per la sicurezza, Mike Waltz, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha recentemente avuto un importante ruolo nel forzare il presidente Benjamin Netanyahu ad accettare un cessate il fuoco a Gaza. Spicca e pone delle domande l’assenza dell’inviato per Ucraina e Russia, Keith Kellogg, che nel frattempo incontrava la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Oltre al ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, e al consigliere per la politica estera, Yuri Ushakov, a guidare la delegazione russa era un personaggio poco noto al grande pubblico ma di fondamentale importanza. Kirill Dmitriev, noto nell’ambiente moscovita come Kiriusha e vicino alla figlia di Putin, è pure grande amico del principe saudita, Mohammad bin Salman Al Sa'ud, da cui ha ricevuto una medaglia al valore nel 2019, durante la presidenza Trump. Riyad è infatti un grande alleato sia per il tycoon che per Putin, e Dmitriev è soprattutto un uomo d’affari: è presidente del Russian Direct Investment Fund, fondo sovrano del Cremlino. 

E difatti, nonostante l’impegno per la creazione di gruppi di negoziazione, più che idee concrete per cercare quella pace “giusta e sostenibile [...] accettabile da tutte le parti in causa, incluse Ucraina, Europa e Russia,” come ha dichiarato Rubio, i partecipanti hanno discusso di uno dei temi preferiti dell’amministrazione Trump: le “opportunità economiche e di investimenti” possibili dopo la fine della guerra in Ucraina e una “normalizzazione” dei rapporti fra Washington e Mosca. E un primo affare, cruciale, per i russi potrebbe essere sbarazzarsi delle sanzioni imposte in questi tre (dieci) anni.

Nel frattempo, Zelensky che aveva annunciato proprio alla vigilia della caotica Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tenutasi tra il 14 e il 16 febbraio, una coincidente missione questa settimana negli Emirati Arabi, Turchia e proprio Arabia Saudita, ha cancellato la visita presso quest’ultima. Ha per di più aggiunto che non avrebbe partecipato al meeting nemmeno in caso di invito, reiterando il messaggio per cui un capo di Stato dovrebbe incontrare suoi pari, non presenti a Riyad. 

Putin non ha ufficialmente commentato l’esito dei colloqui, ma la portavoce del ministero degli Esteri Marija Zacharova, mentre rivolgeva l’ennesima minaccia a Sergio Mattarella, chiariva come una priorità di Mosca rimanesse “la cancellazione della dichiarazione del summit NATO a Bucarest del 2008” in cui si invitavano Ucraina e Georgia a entrare, in un futuro indefinito, nell’alleanza. Lavrov, invece, ha definito “inaccettabile” l’eventuale invio di forze di peacekeeping internazionali in Ucraina come parte delle richieste di sicurezza di Zelensky, ad ora raccolte in maniera credibile solo dal primo ministro britannico Keir Starmer (mentre Macron ha fatto un dietrofront sul ruolo francese).

Più in generale, è chiaro come l’obiettivo di Mosca sia ridiscutere l’intera architettura di sicurezza europea, un tema centrale nella retorica dell’invasione russa del 2022. Ciò che è nuovo è che per la prima volta riesce a farlo con il benestare di Washington. Trump, da una parte bastonando l’Unione Europea e accusando Kyiv dello scoppio della guerra, dall’altra annunciando un incontro col presidente russo entro fine mese, concede a Putin una vittoria comunicativa e politica che l’autocrate russo cercava da 25 anni: poter vendere al proprio pubblico interno, ma ancora di più all’estero, le relazioni USA-Russia come fra pari.

Una possibile, probabile e tragica pace imperiale che profuma di anni ‘30, per l’esclusione di Kyiv, ma che sa anche di Guerra Fredda, sebbene i rapporti di potere siano in realtà incomparabili, al di là della propaganda del Cremlino e delle concessioni di Trump. Nonostante la retorica, e seppur trainata dall’economia di guerra, Mosca impero non lo è più da tempo: e davanti alla facciata di grandezza appare chiara l’ombra cinese, non pronta tuttavia a formalizzare un’alleanza a lungo termine con due partner che ritiene inaffidabili come Russia e Corea del Nord, e piuttosto incline a voler sfruttare un disimpegno statunitense dall’Europa ma pure dall’Ucraina stessa.

Nel tentativo di coordinare una risposta, il presidente francese Emmanuel Macron ha organizzato una riunione emergenziale con Von der Leyen e i principali capi di Stato europei. Il tema sullo sfondo dell’incontro parigino era delineare una strategia chiara e condivisa per difendersi, a lungo termine, dall’aggressività di Mosca alla luce del disimpegno americano. I principali giornali europei, tra cui quelli più vicini a Bruxelles come Politico Europe, hanno sottolineato come i leader europei non abbiano trovato una “risposta pronta” alla bomba di Trump. 

Un obiettivo difficile, considerando pure le imminenti elezioni in Germania dove l’amministrazione trumpiana sostiene l’estrema destra di AfD, chiarendo in modo emblematico il piano globale di Trump – che poi è quello del Cremlino da metà anni ‘10: sfaldare l’Europa dall’interno, rendendola irrilevante di fronte al nuovo ordine globale, che più che di multipolarismo pare ora assumere la forma dell’anarchia. Un avvertimento parzialmente raccolto anche dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas. Una possibile alleanza tra Washington e Mosca, è un rischio esistenziale per l’Europa unita in quanto tale, avvertono i francesi.

In attesa di capire cosa sarà del piano da 700 miliardi euro per il sostegno all’Ucraina ipotizzato a Monaco, tra gli altri, dalla Ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock (a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato), ci sono state decisioni minori, come l’approvazione di un pacchetto di aiuti militari da 6 miliardi di euro. 

Ci si aspetta, però, che ulteriori risposte sulla strategia europea possano arrivare dal secondo meeting emergenziale di oggi 19 febbraio, di nuovo a Parigi, esteso a un gruppo più ampio di paesi, tra cui alleati ferrei di Kyiv come i paesi baltici, Canada e Norvegia. Durante il quale, idealmente, dovrebbero fare da faro le indicazioni di Mario Draghi per cui “l'UE è il principale nemico di sé stessa”: di fronte alla prospettiva concreta di rimanere soli, bisogna superare il tempo dei veti incrociati e delle attese.

Cosa sta cambiando?

Di certo non per decenni, ma per circa un anno la narrazione è stata quella di uno stallo sul campo di battaglia in Ucraina, dopo l’eroica resistenza di Kyiv tra il 2022 e l’inizio del 2023 che aveva portato alla difesa della capitale ucraina e alla liberazione di Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Kherson. 

Dopo la caduta di Bakhmut nella primavera del 2023, la guerra è diventata un lento logoramento che ha leggermente avvantaggiato il Cremlino, per lo meno dal punto di vista quantitativo - quel che conta di più per Putin, d’altronde.

Poche centinaia di metri quadrati al giorno, in media, di avanzata, al costo di centinaia di migliaia di vite perse - da una parte, come dall’altra. Secondo la maggioranza degli analisti, molte più per i russi che hanno pure dovuto cercare alleanze inedite come quella con la Corea del Nord nella difesa dell’oblast’ di Kursk, o con l’Iran a metà 2022 sui droni Shaheed, per portare avanti la distruzione di quello che la propaganda russa ha sempre definito un ‘paese fratello’.

In tre settimane Trump ha spazzato via l’incertezza che aleggiava negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden. Da diversi mesi si parlava di possibili quanto vaghi colloqui di pace riguardanti i territori occupati da Mosca, circa il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Ucraina. Trump e Vance hanno trasformato questa incertezza in caos durante la Conferenza di Monaco, tenutasi nello scorso fine settimana.

La nuova amministrazione repubblicana ha gradualmente alzato l’asticella comunicativa: da una parte bistrattando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, chiarendo come un obiettivo secondario di Trump sia sentenziare la sua morte politica, dall’altra usando più la carota che il bastone con il Cremlino - quest’ultima una tattica priva di credibilità e sostegno, soprattutto all’interno dell’UE e soprattutto a Kyiv. Zelensky continua a ripetere come l’Ucraina non accetterà alcun ultimatum da parte russa.

Prima di essere esclusa dal tavolo di Riyad, Bruxelles ha ricordato a Trump di dover essere considerata parte di eventuali trattative. Lo stesso aveva dovuto fare Zelensky dopo la telefonata fra il presidente russo e quello americano: gli avvenimenti del 12 febbraio hanno definito un ordine di autorità, se non di preferenza, fra le due parti nell’astratto (ma sempre più concreto e cinico) piano di pace di Trump: Putin prima, Zelensky poi. Una rivoluzione rispetto all’approccio di Biden e dell’amministrazione democratica. 

Una rivoluzione in parte scontata, ma ugualmente una doccia fredda per uno Zelensky che era apparso, fino alla scorsa settimana, più concessivo nei confronti della retorica trumpiana, ma negli scorsi giorni sempre più veementemente ha cominciato a esprimere la propria rabbia e frustrazione per la tattica americana.

All’attesa Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, iniziata venerdì 14 febbraio, il vice-presidente JD Vance ha offerto un esempio di quella strategia comunicativa teorizzata da Steve Bannon che, in un’intervista di qualche anno fa, disse: “Il partito di opposizione sono i media. E i media, poiché stupidi e pigri, possono concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto ciò che dobbiamo fare è inondarli. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una sola, e riusciremo a fare tutto ciò che vogliamo. [...] Ma dobbiamo iniziare alla velocità della luce”. 

Vance, che in campagna elettorale aveva detto che la guerra in Ucraina è un problema dell’Europa, ha aperto la Conferenza di Monaco ipotizzando l’invio di soldati statunitensi a supporto di Kyiv qualora Mosca sabotasse le trattative, smentendo peraltro le dichiarazioni di appena due giorni prima del suo segretario alla Difesa, Pete Hegseth. 

Poche ore dopo, Vance smentiva doppiamente sé stesso, dicendo come si potrebbe arrivare “a un accordo ragionevole” per entrambe le parti: è il gioco delle parti della diplomazia del nuovo ordine trumpiano, non solo tra diversi esponenti del cerchio ristretto del presidente (e autoevidente nel Grand Old Party nel suo complesso) ma anche fra le loro molteplici personalità, come dimostrato dallo show bavarese di Vance, che ne ha avuto per tutti, soprattutto l’Unione Europea intesa come coalizione di forze politiche diverse dall’estrema destra sostenuta oggi da Washington (e foraggiata nell’ultimo decennio dal Cremlino).

Se le prime due settimane di presidenza di Trump si sono concentrate a smantellare l’ordine interno e su Gaza per quanto riguarda la politica estera, febbraio segna il mese di Kyiv e Mosca. Nella strategia di Washington a breve termine, ciò implica l’esclusione della prima.

Cosa ci aspetta?

La nuova fase aperta ufficialmente il 12 febbraio, in qualche modo prevista dalle analisi delle settimane precedenti che ha confermato, seppur non ancora nei fatti quanto più sul piano simbolico, l’avvio di una nuova fase della guerra in Ucraina e più in generale dei mutevoli equilibri globali: la possibile, probabile e, per almeno una e mezza delle parti in causa, desiderabile spartizione di uno Stato sovrano, evento a cui assistiamo in diretta per la prima volta da 80 anni. 

Con conseguenze imprevedibili per l’ordine internazionale, e anche questo è stato ripetuto a lungo negli ultimi tre anni. Mentre, al contrario, viene spesso dimenticato il destino di quelle milioni di persone che a Mariupol’, Donec’k, Berdyans’k e Luhans’k ci abitano.

Prima le proposte, da parte di Trump, più strampalate, ad esempio il ricatto sulle terre rare, e la sua nemmeno troppo velata retorica neocoloniale, espressa nel piano segreto che puntava a ottenere un controllo economico quasi totale sull’Ucraina, chiedendo a Kyiv un “risarcimento” di 500 miliardi di dollari in merito agli aiuti americani degli ultimi tre anni. Una retorica che punta a colpevolizzare l’Ucraina, rinforzata dalle dichiarazioni di Trump per cui sarebbe il paese invaso e non il Cremlino ad aver provocato lo scoppio della guerra.

Tattiche comunicative e negoziali utili a confondere l’opinione pubblica e indebolire ulteriormente (nel tentativo ultimo di umiliare) la fragile posizione di Kyiv che si siederebbe al tavolo delle trattative in una posizione decisamente svantaggiata rispetto ad appena un anno fa. Nel farlo, il presidente americano ha persino dichiarato che “l’Ucraina potrebbe essere russa un giorno”, confermando paradossalmente i fondati timori sia ucraini che europei che le trattative annunciate saranno una tregua a orologeria, più che una pace duratura, nonostante le dichiarazioni dell’establishment americano puntino a narrare l’esatto opposto.

Il nuovo corso repubblicano getta benzina sul fuoco sulla difficile situazione interna di Kyiv, in cui il reclutamento è sempre più tortuoso (è d’altronde complicato trovare motivazioni, dopo tre anni di sofferenza, quando viene a mancare il senso complessivo della lotta di resistenza dopo il tradimento del principale alleato, che Zelensky ha paragonato a quello avvenuto in Afghanistan) e l’ordine politico sempre più caotico, come dimostrato dalle sanzioni ad personam verso l’ex presidente Petro Poroshenko, insieme ad altri oligarchi, approvate da Zelensky proprio il giorno successivo alla telefonata Putin-Trump.

Una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino, che persevera nella narrazione del ‘presidente illegittimo’.

Proprio il suo avversario Poroshenko, in un’intervista al media ucraino Censor.net dello scorso 16 febbraio, ha invitato “ad annotare questa data: 26 ottobre”. Poroshenko dichiara di avere le prove per cui le elezioni si terranno quel giorno: a quanto dice l’ex presidente ucraino la commissione elettorale centrale sta aggiornando i propri registri, mentre lo stabilimento tipografico 'Ucraina' “sta già elaborando quante schede elettorali saranno necessarie”.

Al di là della popolarità in discesa di Poroshenko, gli inside politici a Kyiv sono spesso manovrati dall’alto, e non sarebbe sorprendente se l’informazione sia arrivata all’ex presidente proprio da ambienti vicini all’attuale amministrazione per affossarne il futuro politico. In ogni caso, confermano come l’Ucraina stia entrando, probabilmente controvoglia, verso una nuova confrontazione politica interna. 

Mentre la guerra continua, e poche ore dopo Riyad alcuni droni russi dal Mar Nero attaccano quella che la propaganda del Cremlino definisce una delle città madri russe, Odessa, la stessa intelligence statunitense sottolinea come al momento non si scorgano reali volontà di Putin di fermare la guerra.

Le previsioni di Poroshenko d’altro canto affascinano gli amanti delle dietrologie e degli incastri celesti nella politica internazionale. Il 26 ottobre cade sei mesi dopo la data scelta da Trump, secondo Bloomberg, per il cessate il fuoco che aprirebbe a nuove elezioni. E dopo queste alla firma della pace da parte del nuovo governo ucraino, secondo fonti diplomatiche il più filorusso possibile nei desideri di Mosca e Washington, ispirate dallo ‘spirito di Riyad’.

La data è quella del 20 Aprile, celebrazione, quest’anno, della Pasqua sia di rito cattolico che ortodosso. Aspettando di comprendere fino in fondo quale mondo ci si troverà davanti fra due mesi: Trump si è insediato da meno della metà.

Immagine in anteprima: frame video FirstPost via YouTube

Quello di Donald Trump non è isolazionismo, è ‘mafia imperialism’

Nell’arco del primo mese della sua presidenza, Donald Trump sta distruggendo l’ordine legale internazionale che resisteva dal termine della seconda guerra mondiale: ha unilateralmente deciso di trattare con la Russia in merito all’invasione dell’Ucraina, ha parlato della necessità di costruire una “riviera di lusso” nella Striscia di Gaza, senza che i palestinesi possano più rivendicare alcun diritto sulla terra, ha cercato di acquistare la Groenlandia e di riottenere l’autorità sul Canale di Panama, ha minacciato dazi a Canada e Messico, ha chiesto ai paesi europei di alzare considerevolmente la loro spesa militare fino al 5% del PIL, ben più del 2% che l’Alleanza atlantica ha sempre richiesto.

Queste mosse generano ansia nei suoi alleati storici, che non vedono più negli Stati Uniti i garanti dell’ordine mondiale. Questo non implica però, come alcuni dicono, che Trump sia un presidente isolazionista, dato che interviene, anche in maniera estremamente muscolare, nelle vicende globali. Un intervento, però, non atto a garantire stabilità e legalità dell’ordine, ma a ottenere terre e risorse: un imperialismo sfruttatore di marca ottocentesca, in cui le nazioni più ricche potevano rubare risorse a quelle più povere in nome di una forza superiore. Mike Galsworthy, co-fondatore di Scientists for EU e Healthier IN the EU, lo ha definito 'mafia imperialism'.

Trump wants to land-grab in Ukraine— — just like Greenland, Gaza, Canada, Panama. He wants to grab other people’s land and natural resources all under the guise of “protection” and “development” of “the west” under his care. It’s pure mafia imperialism.

— Mike Galsworthy (@mikegalsworthy.bsky.social) 19 febbraio 2025 alle ore 07:43

L’ordine mondiale ereditato da Trump non era perfetto, ma aveva un vantaggio: le regole erano chiare. Tra queste, la principale riguardava il fatto che ogni paese rispettava la sovranità di tutti gli altri, e non avrebbe più tentato di acquisire territori per mezzo della forza: questo è il motivo per cui, dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, la Russia è stata velocemente allontanata dalla comunità internazionale e i maggiori paesi occidentali hanno approvato diversi pacchetti di sanzioni. Gli Stati Uniti, però, cercano oggi di riconsiderare quest’ordine, in virtù del fatto che si sentono i padroni assoluti dell’emisfero occidentale. Gli alleati, dopo decenni di affidamento sugli Stati Uniti nella gestione della difesa, si ritrovano soli e isolati: questo porterà necessariamente a nuovi tentativi di alleanze e al tentativo di rinforzare quelle già esistenti non a guida americana. 

Durante i discorsi del leader statunitense, è chiaro il tentativo di porre una grande attenzione sull’emisfero occidentale, un focus che ricorda da vicino la dottrina Monroe, posizione politica del quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, che affermava la padronanza statunitense sugli affari del continente americano. Monroe se la prendeva con le potenze europee, che cercavano di colonizzare terre che secondo gli Stati Uniti appartenevano alla loro sfera d’influenza, Trump principalmente con la Cina, che otterrebbe vantaggi commerciali dall’utilizzo del Canale di Panama e aggirerebbe i dazi statunitensi sulle automobili delocalizzando la propria produzione in Messico. Le direttrici entro cui si muove Trump nel riprioritizzare il continente americano sono due: da un lato attacchi in senso imperialistico, dall’altro la ricerca di una guerra commerciale.

A subire gli attacchi imperialistici sono principalmente Panama, paese indipendente dal 1903 e sul cui territorio è presente l’omonimo Canale, e la Groenlandia, regione artica oggi parte della Danimarca, che Trump vorrebbe acquistare sin dal suo primo mandato, ricevendo sempre dinieghi da Copenhagen. La tensione tra Trump e il presidente panamense Mulino si è alzata esponenzialmente durante queste settimane, col primo che rivorrebbe il controllo del Canale, ceduto dagli Stati Uniti nel 1977 e controllato da un’autorità del governo di Panama. Il Presidente americano li ha accusati di aver fatto sì che la Cina arrivasse a controllare l’Autorità che governa il canale, e per questo rivorrebbe una guida americana: non ci sono, però, prove che il governo cinese eserciti alcun tipo di controllo, nonostante negli anni ha molto investito in porti e terminal intorno al Canale, dato che le sue navi contano per il 21,4 per cento del traffico dell’area. 

Se Trump ha addotto una scusa per quanto concerne la questione panamense, non ci ha nemmeno provato riguardo alla Groenlandia. Trump ha asserito che il controllo della regione artica garantirebbe agli Stati Uniti una maggiore “sicurezza economica”, ma il motivo per cui ne è ossessionato è la gran quantità di risorse che otterrebbe: nickel, ferro e terre rare sono presenti in gran quantità in Groenlandia, poco sfruttate da una comunità Inuit di 56.000 residenti. L’obiettivo trumpiano grazie a queste nuove materie prime sarebbe quello di poter raggiungere l’indipendenza energetica e poter produrre internamente sempre più semiconduttori, utili per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale: un vero e proprio imperialismo di sfruttamento. La Danimarca si è rifiutata di sedersi a un tavolo delle trattative e le comunità del luogo non sono state minimamente interpellate: emissari americani sono andati nella regione e hanno regalato ad alcuni residenti un centinaio di dollari, una mossa vista dai cittadini come un ingeneroso tentativo di comprare la loro volontà. Gli Inuit che abitano la Groenlandia vorrebbero da anni staccarsi dalla Danimarca, che li controlla con metodi coloniali dal 1721, ma chiedono l’indipendenza, non di essere venduti a una nuova potenza. L’interesse per la posizione degli abitanti da parte degli Stati Uniti è nullo, tanto che i repubblicani hanno presentato al Congresso una legge per rinominare la Groenlandia “Terra bianca, rossa e blu”. (In inglese, Greenland sta per “terra verde” ndr). Per di più, se gli Stati Uniti possono decidere di modificare la sovranità dei paesi vicini, allora crolla il caposaldo che ha tenuto insieme l’ordine legale in questi decenni: verrebbe infatti meno ogni rimostranza mossa alla Cina ogni qualvolta esprime la volontà di assediare e conquistare l’isola di Taiwan.

Con i paesi più grandi del Nord America, Canada e Messico, Trump ha invece adottato la tattica di minacciare una guerra commerciale. Ha imposto dazi del 25% su tutti i beni importati dai due paesi, per poi revocarli non appena entrambi hanno concesso al presidente statunitense più truppe per controllare i confini.

Nonostante questo, la tensione col Canada è rimasta altissima, tanto che Trump ha più volte scritto che vorrebbe un’annessione agli Stati Uniti come cinquantunesimo Stato. Una posizione ovviamente irricevibile, atta a esacerbare lo scontro: Trump ritiene che la bilancia commerciale col Canada penda a svantaggio degli Stati Uniti per 250 miliardi di dollari e che Trudeau non faccia niente per contrastare l’arrivo del fentanyl, droga sintetica a base di oppioidi, negli Stati Uniti. Due affermazioni tendenziose, in quanto i dati sulla bilancia commerciale non tengono conto del fatto che le condutture di gas canadese passano all’interno del territorio statunitense e che solo lo 0,2% del fentanyl arriva dal Canada.

La minaccia di dazi così alti è poi, per la maggior parte degli economisti, un problema: con paesi come Messico e Canada gli USA sono molto interdipendenti. Nel settore automotive, per fare un esempio, alcuni pezzi di autovetture attraversano il confine varie volte prima che il prodotto sia completato, e ogni passaggio dovrebbe essere sottoposto a dazio. Questo alzerebbe esponenzialmente il prezzo delle auto negli Stati Uniti, e ricadrebbe tutto sul consumatore finale. Nonostante questo, per Trump i dazi imposti agli amici non sono altro che un monito: ricordare loro che non sono né alleati né amici degli Usa, ma semplicemente dei partner di minor peso, le cui economie possono essere messe in crisi in ogni momento.

Anche il rapporto con l’Unione Europea sta evolvendo in questo senso. Gli Stati Uniti stanno apertamente sconfessando i pilastri su cui è stata costruita l’Alleanza atlantica, e hanno iniziato a richiedere ai paesi europei una spesa in difesa difficile da attuare per le economie dell’Unione. Se nel primo mandato la richiesta era quella di adeguarsi alla spesa del 2% in relazione al PIL, obiettivo raggiungibile, oggi la richiesta è quella di passare velocemente al 5%, provocando uno scontro.

Inoltre, il vicepresidente Vance, parlando alla Conferenza di Monaco, ha apertamente avallato i partiti di estrema destra: ha incontrato Alice Weidel, leader di Afd, partito suprematista che le altre forze politiche tedesche vorrebbero tenere lontano dalle posizioni di governo, e ha criticato le politiche migratorie, climatiche e legate ai diritti LGBT europee. In più, Vance ha attaccato frontalmente il Digital Service Act (DSA) dell’Unione Europea che, a suo dire, regolamenterebbe troppo il settore dell’intelligenza artificiale, su cui gli Stati Uniti hanno molte meno regole; anche la moderazione eccessiva dei contenuti che si farebbe nel continente è stata definita una “censura autoritaria”.

Oltre a questo, la principale minaccia americana alle economie dell’Unione è quella dei dazi: Trump ha asserito che con la UE vuole costruire un sistema di tariffe reciproche, per cui tutti i balzelli che un bene americano deve subire nei confronti di un paese verranno applicati a tutti i beni di quel paese in ingresso negli Stati Uniti. Nel breve termine questo farà salire l’inflazione, che infatti a gennaio è già tornata a sforare il 3%, nonostante le promesse dell’amministrazione, e aprirà a molteplici trattati bilaterali e a possibili esenzioni per i leader che si dimostrano più vicini agli americani. 

A questa situazione critica si aggiunge il voltafaccia nella questione ucraina. Dopo un mese dall’insediamento, gli USA si sono appiattiti sulle posizioni della Russia, confermato anche dal rifiuto statunitense di fare da co-sponsor a una risoluzione ONU di condanna per il terzo anno dell’invasione. Una delegazione americana ha incontrato per la prima volta dal 2022 una delegazione russa a Riad, e questo è il viatico per un bilaterale tra Trump e Putin nel prossimo futuro. Nel frattempo, il Presidente ha fatto proprie le posizioni di Mosca, riaffermando la propaganda putiniana: ha definito Zelensky un “dittatore non eletto” che possiede “solo il 4% di sostegno nel paese” (un dato falso, in quanto le ultime rilevazioni lo attestano sopra il 50 per cento) e sta impedendo a Ucraina e Unione Europea di sedersi ai tavoli delle trattative che ha aperto con Mosca.

La motivazione con cui non permette alla UE di condividere il tavolo degli accordi è pretestuosa: Trump ritiene che gli USA hanno speso molto più degli altri paesi nel sostegno all’Ucraina. Questo è però falso, perché i paesi europei avrebbero speso 132 miliardi in aiuti, contro i 114 statunitensi. Inoltre, ha chiesto a Kyiv, in cambio di una non precisata “prosecuzione degli aiuti”, che gli vengano ceduti i diritti sulla metà dei profitti legati all’estrazione di risorse naturali nel paese in perpetuo. Questa proposta è stata commentata dal noto economista Paul Krugman come “puro imperialismo sfruttatore ottocentesco”: una vera e propria razzia di risorse, che Zelensky si è rifiutato di concedere.

La questione ucraina ha agitato molti senatori repubblicani, più vicini alle posizioni classiche del Partito in politica estera: il senatore Tillis ha per esempio affermato che la responsabilità è solo in capo a Putin. La speranza di molti analisti era la persona che Trump aveva scelto come segretario di Stato: Marco Rubio, senatore della Florida, proveniente da famiglia di esuli cubani, sempre dichiaratosi contro ogni forma di dittatura e, tra le altre cose, uno dei principali sfidanti di Trump alle primarie del 2016. Come analizzato da Politico, però, Rubio non ha peso nelle scelte dell’amministrazione, viene utilizzato per dire ovvietà e sta sempre in disparte rispetto a Trump e Musk, che plasmano con comunicati e lanci social tutta la politica estera. Una figura che doveva essere di garanzia, trasformata in una voce spenta e che ripete blandamente le posizioni del presidente. 

L’altro scenario in cui Trump dice di aver “fatto finire la guerra” è il Medio Oriente, in cui dopo pochi giorni dal suo insediamento Israele e Hamas hanno acconsentito a un cessate il fuoco, negoziato per mesi dall’amministrazione Biden ma ottenuto solo dopo il cambio di inquilino a Pennsylvania Avenue.

Il piano su cosa sarà della Striscia, sempre che la tregua regga in queste settimane, è stato attaccato da tutti i leader dei paesi arabi e da gran parte della comunità internazionale, e Trump è stato da più voci accusato, tra cui da 350 rabbini statunitensi, di aver proposto una pulizia etnica: il leader americano ha apertamente parlato di una Riviera di lusso nella Striscia di Gaza, con grandi alberghi e casinò, su cui i palestinesi non avranno più alcun diritto. Anzi, i profughi dovrebbero essere accolti da Egitto e Giordania, che si sono smarcati. I leader arabi sono fermi su un punto: c’è bisogno di uno Stato palestinese riconosciuto da tutti, posizione che però non sembra realizzabile con queste amministrazioni negli Stati Uniti e in Israele.

Tutte queste mosse attaccano direttamente l’ordine legale internazionale, non riconoscono le sovranità statali che dovrebbero essere garantite dalle Nazioni Unite e sconfessano la visione globalista a guida americana che ha dominato nella seconda parte del Novecento. A ottenere dividendi da queste posizioni è quello che Trump definisce il rivale principale degli Stati Uniti in quest’epoca: la Cina.

Tra gli ordini esecutivi che hanno contraddistinto il primo mese di amministrazione Trump – di cui abbiamo parlato estesamente su Valigia Blu - c’è stato lo svuotamento dei fondi per molte agenzie federali: tra queste USAID, che si occupa di sviluppo internazionale. Molti progetti esteri e aiuti internazionali, compresi quelli legati alla prevenzione della diffusione di virus letali come l’HIV, sono stati bloccati.

Di contro, la Cina sta cercando di intervenire e garantire questi aiuti attraverso China Aid: più gli Stati Uniti recedono dalla loro funzione di perno economico mondiale, più è il soft power cinese a ricoprire le stesse posizioni, garantendo però a Pechino un’influenza sempre maggiore. Tra le agenzie a cui sono stati tolti i fondi, poi, c’è anche China Labor Watch, che aveva il compito di indagare sullo sfruttamento dei lavoratori in Cina. Oltre a ricostruire in senso autoritario il paese internamente, Trump sta rivoluzionando anche la proiezione estera degli Stati Uniti: non più alleati né difensori dell’ordine, ma un mondo fatto di competitor a cui bisogna strappare accordi favorevoli, il tutto cercando di ottenere risorse dai paesi più deboli.

Tutto questo sta generando ansia e il tentativo di disallineamento dalle posizioni americane da parte di attori più o meno grandi, tra cui l’Unione Europea: sul breve termine, è la Cina a presentarsi di fronte alla comunità internazionale come una potenza responsabile, leader nelle rinnovabili e nell’aiuto umanitario, mentre gli Stati Uniti stanno diventando i distruttori dell’ordine che hanno contribuito a creare ottant’anni fa. Come ha scritto sull’Atlantic Anne Applebaum, “è il momento di riconoscere il cambiamento che stiamo vivendo, e dobbiamo trovare nuovi modi di vivere nel mondo che degli Stati Uniti diversi dal passato stanno contribuendo a creare”.

Immagine in anteprima via flickr.com

La Serbia in rivolta tra mobilitazioni di massa locali e rilancio europeo

Il movimento studentesco in Serbia conquista finalmente l’agognato spazio su una parte dei mezzi di comunicazione al di fuori del circuito regionale balcanico, contesto nel quale ha rappresentato una forza propulsiva per numeri, costanza e rapidità di espansione geografica, senza trascurare la creatività e la forza dei messaggi che si intersecano con coerenza e determinazione. Sebbene la sua copertura resti ancora nettamente inferiore rispetto alle aspettative degli organizzatori e all’impatto numerico e alla propagazione della mobilitazione che, negli ultimi tre mesi, ha attraversato il rigidissimo inverno serbo e ha raggiunto anche le aree rurali, le manifestazioni si susseguono e continuano alternando blocchi stradali, sit-in per le strade e nelle piazze, soprattutto a Belgrado e Novi Sad,  oltre alle lunghe marce di protesta a piedi tra le due città, come quella promossa dagli studenti e dalle studentesse universitarie alla fine del mese di gennaio.

Il movimento, oltre alla forte connotazione studentesca, sta diventando sempre più trasversale e intergenerazionale e riuscendo a guadagnare terreno anche nelle aree rurali, tanto che una donna in piazza a Bruxelles mi rivela commossa quanto «questo sia un forte catalizzatore che spinge all’azione anche a distanza, per esprimere solidarietà e rafforzare le richiesta, mosse dalla speranza che tanta capacità di reazione generi il cambiamento sperato per molto tempo». Lo spostamento al di fuori dei circuiti urbani rappresenta spesso una sfida ancor più complessa rispetto alla risonanza internazionale della protesta, a causa delle numerose difficoltà logistiche, di spostamento, di comunicazione e soprattutto alle sproporzioni numeriche. Allo stesso tempo, il movimento antigovernativo si fa sempre più visibile e vocale nel cuore delle piazze di altri Paesi del resto del continente europeo, da Parigi a Berlino, da Bruxelles a Lubiana.

Il ruolo della diaspora e delle mobilitazioni internazionali nel caso della Serbia

Come accaduto in altre proteste recenti provenienti dall’Est, ovvero da aree riconducibili a quei Paesi che spesso vengono definiti con il termine evocativo di “fringe countries”, riferito solitamente ai margini dell’Unione Europea o del continente europeo nel suo insieme in particolare ai Balcani occidentali o al Caucaso meridionale, anche la mobilitazione della diaspora serba e della popolazione studentesca si organizza in maniera sempre più strutturata e creativa nelle principali città europee. In particolare, Bruxelles è diventata in poco tempo un punto nevralgico della protesta, anche per l’inevitabile sinergia delle rivendicazioni che si intrecciano con le mobilitazioni contro l’apertura della più grande miniera di litio del continente europeo nella valle del fiume Jadar, nella Serbia occidentale.

Le pressioni estrattive esercitate da numerosi Paesi dell’Unione Europea, in particolare dalla Germania, hanno acceso ulteriormente il dibattito e le proteste in corso sin dall’autunno 2021, quando il malcontento della popolazione locale era già esploso in manifestazioni su larga scala in Serbia, culminando il 5 febbraio 2025 in una grande e corale azione di sensibilizzazione all’interno e all’esterno del Parlamento europeo, in occasione della proiezione in anteprima, ma a porte chiuse (accesso solo su invito nominativo) del documentario “Not in My Country: Serbia’s Lithium Dilemma”, organizzata dall’Istituto per i Minerali e i Materiali Sostenibili dell’Università Cattolica di Lovanio (Institute for Sustainable Metals and Minerals at KU Leuven).

Il documentario è stato duramente criticato da numerosi esperti e attivisti per l’opera di narrazione selettiva, che avrebbe distorto le voci di coloro che si oppongono da anni al progetto estrattivo del gruppo multinazionale anglo-australiano “Rio Tinto Group” e agli interessi delle grandi aziende private nella Serbia occidentale. Nonostante le dichiarazioni altalenanti delle autorità politiche nazionali e sovranazionali, il monitoraggio dell’area da parte dei gruppi di cittadini prosegue costantemente, evidenziando l’impatto ambientale e sociale di quella che, secondo il progetto noto come “Rio Tinto” o “Jader”, sarebbe destinata a diventare la più grande miniera di litio in Europa. Numerosi esponenti politici e istituzionali arrivano a descriverla come una componente fondamentale della transizione ecologica del continente, anche in chiave di allargamento dell’Unione Europea con l’ingresso dei Paesi dei Balcani occidentali. 

Le proteste organizzate dalla diaspora serba e dai movimenti civici, che hanno coinvolto membri dell’accademia e del Parlamento Europeo attenti ai rischi ambientali e sociali, si inseriscono, dunque, in un contesto più ampio di critica nei confronti di quello che viene individuato come un ricatto economico e politico imposto alla Serbia nel quadro del travagliato processo di adesione all’Unione Europea. A tredici anni dal riconoscimento dello status di Paese candidato e undici dall’inizio dei negoziati, tale processo rimane in ogni caso in stallo, mentre crescono le preoccupazioni per il silenziamento del dissenso e la legittimazione di pratiche di sfruttamento estremamente nocive per il territorio e per la popolazione residente, in un contesto, come quello che contraddistingue la Serbia e i Paesi limitrofi, già sotto pressione a livello di inquinamento e di uso delle risorse pubbliche, ambientali e non.

Le proteste attualmente in corso hanno anche acceso i riflettori sulle contraddizioni tra le pressioni economiche e le richieste di conformità agli standard europei, in particolare in materia ambientale, ambiti nei quali la Serbia resta gravemente carente sia nella tutela sia nella gestione e attuazione delle riforme richieste dalle istituzioni internazionali. Gli esponenti dei movimenti di protesta hanno chiesto a più riprese un maggiore rigore nell’allineamento agli indicatori ESG (Environmental, Social Governance ovvero Ambientale, Sociale e di Governance) e soprattutto l’impegno nella dimostrazione di progressi concreti in relazione al capitolo 27 dell’acquis communautaire sull’azione ambientale e climatica, attualmente bloccato anche a causa della scarsa applicazione delle normative esistenti e dell’influenza eccessiva delle aziende nel processo decisionale.

“Odgovornost!”: il riverbero delle proteste tra lotta alla corruzione e difesa dell’ambiente 

Le proteste per l’estrazione del litio si intrecciano con altre delicate e drammatiche questioni esplose nelle ultime settimane, tra cui il crollo del tetto della stazione ferroviaria di Novi Sad, ristrutturata con fondi cinesi nell’ambito della “Belt and Road Initiative”. L’incidente, avvenuto il 1° novembre, ha provocato 14 morti e decine di feriti, scatenando manifestazioni di massa in tutto il Paese al grido degli slogan “Zločin, a ne tragedija” (Un crimine, non una tragedia) e “Korupcija ubija” (la corruzione uccide). Il grave episodio ha sollevato immediatamente proteste e numerosi interrogativi sulla trasparenza istituzionale e il livello di corruzione raggiunto dal governo in carica, in particolare nel settore delle infrastrutture pubbliche.

In questo contesto, la richiesta di “odgovornost” (responsabilità o “accountability” nella traduzione adottata in occasione delle manifestazioni internazionali), la lotta alla corruzione e l’opposizione al sistema di potere costruito attorno al presidente Aleksandar Vučić, in carica in tale ruolo dal 2017, sono diventati i pilastri delle rivendicazioni popolari. Il simbolo delle mani sporche di sangue e del colore rosso è stato nuovamente evocato questa mattina nel cuore del quartiere europeo di Bruxelles, quando, alle 11:52 in punto, da Place Jean Rey i manifestanti hanno rilasciato verso il cielo palloncini rossi in ricordo delle vittime di Novi Sad per richiamare ulteriormente l’attenzione dell’opinione pubblica europea sulle rivendicazioni emerse nel corso delle proteste.

Negli ultimi giorni, tali proteste si sono intensificate in Serbia anche in concomitanza con la festa nazionale della Repubblica dello scorso 15 febbraio e con la contro-manifestazione organizzata dallo stesso Vučić a Sremska Mitrovica, sulle rive del fiume Sava. A Bruxelles, il movimento “Palac gore Brisel” ha dato vita alla seconda domenica consecutiva di mobilitazioni che ha visto una grande partecipazione da parte di attivisti e studenti provenienti da tutto il Belgio e da altre comunità sensibili alle cause espresse per lanciare un messaggio chiaro e intransigente contro la corruzione e l’omissione di responsabilità da parte del governo in carica in Serbia.

Anna Lodeserto

La lotta per la Groenlandia (Parte III)

Si intensifica il dibattito dell’UE sull’invio di soldati in Groenlandia. L’Artico è già oggi teatro di una crescente rivalità militare tra Stati Uniti e Russia.

Il dibattito sull’invio di soldati in Groenlandia si sta intensificando nell’Unione Europea. Dopo la proposta del Presidente del Comitato militare dell’UE, anche il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che “se sono in gioco i nostri interessi”, si potrebbe prendere in considerazione il dispiegamento di truppe sull’isola, che appartiene allo Stato UE della Danimarca. Barrot ha sottolineato che l’Artico nel suo complesso è diventato una “nuova area di conflitto”.

In effetti, la rivalità sta aumentando, soprattutto tra l’Occidente e la Russia. La Russia dispone oggi di quasi una dozzina di basi militari nella regione artica per proteggere il suo fianco settentrionale, il porto della sua flotta settentrionale e le fonti di petrolio e di gas che vi si trovano.

Gli Stati Uniti gestiscono nove basi militari in Alaska e utilizzano la base spaziale di Pituffik in Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che l’Artico è un’“arena” per le lotte di potere globali; il Presidente Donald Trump voleva acquistarlo. Il fatto che abbia fallito allora contribuisce a spiegare le sue attuali richieste di annessione estremamente aggressive.

Porto Rico con la neve

Per la prima volta dopo gli sforzi compiuti negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, nel 2019 gli Stati Uniti hanno puntato ad annettere la Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato in un discorso a una riunione del Consiglio Artico a Rovaniemi, nel nord della Finlandia, che l’Artico era diventato un’“arena” per di competizione globale: “Stiamo entrando in una nuova era di attività strategica nell’Artico”[1]

Nell’agosto 2019, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato di voler acquistare la Groenlandia. La mossa ha scatenato reazioni incredule e talvolta inorridite in Danimarca in generale e nella stessa Groenlandia. “Spero che sia uno scherzo”, ha dichiarato Martin Lidegaard, presidente della Commissione Affari Esteri del parlamento danese – si tratta di ‘un pensiero terribile e grottesco’[2].

‘La Groenlandia non è in vendita’, ha annunciato il primo ministro groenlandese Kim Kielsen. Di conseguenza, i piani di Trump non avrebbero portato a nulla. Il capo del Centro per gli studi militari dell’Università di Copenaghen, Henrik O. Breitenbauch, ha dichiarato che non si fa commercio di persone e Paesi. Inoltre, l’interesse della popolazione groenlandese a diventare una sorta di “Porto Rico con la neve” era probabilmente piuttosto limitato[3].

“Ci prendiamo la Groenlandia”

Il 22 dicembre 2024, Trump ha nuovamente annunciato di voler incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti.[4] Il 7 gennaio 2025, ha esplicitamente ribadito che non escluderà la coercizione economica o militare per raggiungere questo obiettivo.[5]

Come nel 2019, in Danimarca e nella stessa Groenlandia si sono sentiti sgomento e aperto rifiuto. Facendo riferimento alla storica discriminazione razziale contro la popolazione indigena dell’Alaska, gli Inuit, Pipaluk Lynge, membro del parlamento groenlandese, ha dichiarato: “Sappiamo come trattano gli Inuit in Alaska”. Rivolgendosi agli Stati Uniti, Lynge ha aggiunto: “Rendeteli ‘great’ prima di cercare di invaderci”[6]

I primi tentativi del governo danese di smorzare le richieste con concessioni all’amministrazione Trump – come la promessa di espandere un aeroporto in Groenlandia per i caccia F-35 statunitensi – sono falliti. In una conversazione telefonica con il primo ministro danese Mette Frederiksen la scorsa settimana, Trump non solo ha insistito per incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti, secondo quanto riferito, ma ha anche minacciato misure coercitive specifiche, come i dazi.[7] “Avremo la Groenlandia”, ha affermato Trump nel fine settimana; se la Danimarca non è disposta a cedere il suo territorio, questo sarebbe “un atto molto ostile”[8].

Sistemi di allerta rapida per l’Artico

Trump insiste nella rivendicazione, anche se gli Stati Uniti hanno già un notevole spazio di manovra militare in Groenlandia e la Danimarca si è offerta di ampliarlo. Washington e Copenaghen hanno un accordo militare relativo alla Groenlandia dal 1951, che consente alle forze armate statunitensi di utilizzare, tra le altre cose, una base militare situata molto a nord-ovest dell’isola. Ancora oggi è conosciuta come base aerea di Thule, ma da diversi anni si chiama ufficialmente base spaziale di Pituffik.

Oltre a una stazione di sorveglianza spaziale, vi si trovano anche radar e sistemi di allarme rapido. Questi erano già utilizzati durante la Guerra Fredda per rilevare eventuali bombardieri e missili sovietici in avvicinamento. Il percorso attraverso la Groenlandia è il più breve dalla Russia agli Stati Uniti a causa della curvatura della terra.

Oggi gli esperti sottolineano che le strutture della base spaziale di Pituffik non sono probabilmente in grado di rilevare in tempo i moderni missili ipersonici russi; per questo, dicono, “nuove strutture di ricognizione dovrebbero essere posizionate anche in Groenlandia”[9]. Peter Viggo Jakobsen, professore del Royal Danish Defence College, ha affermato che gli Stati Uniti “hanno ottenuto in larga misura ciò che volevano militarmente in Groenlandia chiedendo gentilmente”[10].

Basi militari nell’Artico

Un’eventuale annessione della Groenlandia e un’espansione della presenza militare statunitense sull’isola aggraverebbero in modo significativo le tensioni militari nell’Artico. Gli Stati Uniti mantengono attualmente nove basi militari in Alaska, oltre alla base spaziale di Pituffik in Groenlandia.

La Russia, invece, ha aumentato le sue basi militari nelle regioni settentrionali fino a quasi una dozzina. È nella penisola di Kola, per la precisione, che si trova la base della Flotta del Nord, che contiene parte della capacità di secondo colpo nucleare delle forze armate russe. Le regioni artiche della Russia ospitano anche grandi riserve di petrolio e, soprattutto, di gas naturale. Entrambe devono essere protette dagli attacchi in caso di guerra, motivo per cui Mosca dichiara la sua presenza militare nell’Artico come chiaramente difensiva.[11]

Tuttavia, la Russia ha recentemente ampliato le sue manovre nelle acque artiche e, secondo i rapporti, le ha spostate sempre più verso la Norvegia, il che aumenta il suo spazio di manovra ma è classificato come azione offensiva in Occidente. Nell’Artico sta inoltre cooperando con la Cina, non a livello militare, ma ad esempio nello scambio di dati satellitari per la comunicazione e la navigazione[12].

Un segnale forte

Nel frattempo, si discute anche dello stazionamento di forze dell’UE in Groenlandia. A fine gennaio, il presidente del Comitato militare dell’UE, il generale austriaco Robert Brieger, ha dichiarato che sarebbe “abbastanza sensato” “prendere in considerazione lo stazionamento di soldati dell’UE” in Groenlandia: “Sarebbe un segnale forte”. [13.

Durante una breve visita a Parigi del primo ministro danese Mette Frederiksen, il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che l’Artico è diventato una “nuova area di conflitto” in cui “l’interferenza straniera” deve essere deplorata.  “Se i nostri interessi sono in gioco”, allora il dispiegamento di militari in Groenlandia sarà preso in considerazione. [14]

La Danimarca ha ora iniziato ad armarsi a livello nazionale nella sua provincia autonoma. Come annunciato lunedì, Copenaghen intende spendere 14,6 miliardi di corone danesi – poco meno di due miliardi di euro – per acquistare, tra l’altro, tre navi da guerra in grado di affrontare l’Artico e due droni a lungo raggio che possono essere utilizzati per voli di sorveglianza estensivi. Inoltre, ci saranno esercitazioni militari più intense rispetto al passato sul terreno artico [15].

Le parti precedenti di questa serie di articoli si possono leggere ai seguenti link:  La lotta per la Groenlandia (I)   La lotta per la Groenlandia (II) 

NOTE:

  • [1] Michael R. Pompeo: Looking North: Sharpening America’s Arctic Focus. 2027-2021.state.gov 06.05.2019.
  • [2], [3] Martin Selsoe Sorensen: “La Groenlandia non è in vendita”: Trump’s Talk of a Purchase Draws Derision. nytimes.com 16.08.2019.
  • [4] Rebecca Falconer: Trump suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero diventare proprietari della Groenlandia. axios.com 23.12.2024.
  • [5] Seb Starcevic: Trump rifiuta di escludere l’uso della forza militare per prendere la Groenlandia e il Canale di Panama. politico.eu 07.01.2025.
  • [6] Seb Starcevic, Eric Bazail-Eimil, Jack Detsch: La visita di Donald Trump Jr. è stata “inscenata”, dice il legislatore groenlandese. politico.eu 09.01.2025.
  • [7] Richard Milne, Gideon Rachman, James Politi: Donald Trump in una telefonata infuocata con il primo ministro danese sulla Groenlandia. ft.com 24.01.2025.
  • [8] Richard Milne: Donald Trump ridicolizza la Danimarca e insiste che gli Stati Uniti prenderanno la Groenlandia. ft.com 26.01.2025.
  • [9] Michael Paul: Grönlands arktische Wege zur Unabhängigkeit. SWP-Studio 2024/S 22. Berlino, 02.10.2024.
  • [10] Julian Staib: Perché Trump vuole la Groenlandia. Frankfurter Allgemeine Zeitung 09.01.2025.
  • [11] Colin Wall, Njord Wegge: La minaccia artica russa: conseguenze della guerra in Ucraina. csis.org 25.01.2023.
  • [12] Majid Sattar, Friedrich Schmidt, Julian Staib, Jochen Stahnke: La lotta per l‘artico. Frankfurter Allgemeine Zeitung 14.01.2025.
  • [13] EU-Militärchef für Stationierung von Soldaten auf Grönland. rnd.de 26.01.2025.
  • [14] Théo Bourgery-Gonse: La Francia pensa di inviare truppe UE in Groenlandia. euractiv.com 28.01.2025.
  • [15] Billy Stockwell, James Frater, Eve Brennan: La Danimarca aumenta la spesa per la difesa dell’Artico di 2 miliardi di dollari dopo l’interesse di Trump per la Groenlandia. edition.cnn.com 27.01.2025.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid.

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com

Amnesty International all’Unione Europea: “Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”

Lunedì 24 febbraio i ministri degli Esteri dell’Unione Europea accoglieranno a Bruxelles l’omologo israeliano Gideon Sa’ar in occasione del Consiglio di associazione Unione europea-Israele. È la prima volta nella storia dell’Unione europea che i suoi leader ricevono il rappresentante di uno stato il cui primo ministro e l’ex ministro della difesa sono destinatari di mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e il cui esercito sta attivamente commettendo crimini di diritto internazionale, tra cui il genocidio.

“È inconcepibile che l’Unione europea stenda il tappeto rosso al ministro degli Esteri Sa’ar, il cui superiore, il primo ministro Netanyahu, è ricercato dalla Corte penale internazionale. Le discussioni sul futuro delle relazioni con Israele dovrebbero basarsi anzitutto sull’insistenza affinché Netanyahu e Gallant affrontino la giustizia per i crimini di cui sono accusati, oltre che sul rispetto del diritto internazionale da parte di Israele e sulla fine dell’apartheid. I leader dell’Unione europea devono dare priorità al loro impegno verso il diritto internazionale, i diritti umani e la Corte penale internazionale rispetto agli incontri diplomatici attentamente orchestrati con Israele”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio Istituzioni europee di Amnesty International.

“Il vergognoso silenzio seguito alle minacce alla Corte penale internazionale e l’assenza di misure concrete e urgenti che avrebbe già dovuto adottare dopo le oltraggiose sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, danno l’impressione che l’Unione europea abbia dato priorità alle relazioni con un governo implicato nel commettere genocidio e crimini di guerra, piuttosto che al sostegno di un’istituzione che persegue l’accertamento delle responsabilità individuali per questi crimini. I leader dell’Unione europea dovrebbero decidere quali misure adottare per evitare di contribuire al genocidio, all’apartheid e all’occupazione illegale israeliani, invece di nascondere tutto sotto il tappeto per una stretta di mano diplomatica a Bruxelles”, ha concluso Geddie.

Ulteriori informazioni

Nonostante la Corte internazionale di giustizia abbia chiaramente delineato la responsabilità degli stati terzi di prevenire scambi commerciali e investimenti che contribuiscano al mantenimento dell’occupazione illegale, l’Unione europea continua a commerciare e investire negli insediamenti israeliani nel Territorio palestinese occupato.

Per maggiori informazioni, si vedano l’appello di Amnesty International all’Unione europea, firmato da oltre 160 organizzazioni della società civile, e la lettera del 10 febbraio, in cui si esorta i leader dell’Unione europea a utilizzare questo incontro per presentare a Israele richieste chiare affinché ponga fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e garantisca giustizia e riparazione per i crimini commessi, evidenziando al contempo le conseguenze nelle relazioni tra Unione europea e Israele in caso di mancanza d’azione dell’organismo europeo.

Amnesty International

La ‘pace imperiale’ di Trump e Putin imposta all’Ucraina punta a sventrare l’Europa dall’interno

“Ci sono dei decenni in cui non accade nulla. E poi delle settimane in cui accadono decenni”. Una delle massime più celebri di Lenin, accusato il 22 febbraio 2022 dal presidente russo Vladimir Putin di essere il principale colpevole dell’esistenza dell’Ucraina, può essere facilmente traslata a ciò che è accaduto dallo scorso 12 febbraio, giorno della telefonata tra il presidente statunitense Donald Trump e Putin. 

Una settimana intensa e scioccante, sebbene prevedibile già durante la campagna elettorale trumpiana, che sta sconvolgendo la politica europea e globale alla vigilia del terzo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina.

Cosa è successo dalla telefonata tra Putin e Trump in poi?

Monaco di Baviera, Riyad, Parigi, Ankara. Questi i centri gravitazionali delle evoluzioni che stanno portando a quella che Nathalie Tocci ha definito la ricerca di una ‘pace imperiale’ alle spalle di Kyiv e Bruxelles. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che il vertice tra russi e americani in Arabia Saudita è stato “una sorpresa” appresa dai media, durante una visita al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo a sua volta ha detto che la Turchia sarebbe un “posto ideale” per lo svolgimento di futuri negoziati per terminare la guerra in Ucraina, ribadendo l’inviolabilità dell’integrità territoriale di Kyiv. 

Trattative a cui gli Stati Uniti promettono di includere prima o poi anche europei e ucraini. Tuttavia, nella prima fase – un meeting di quattro ore e mezzo a Riyad – si sono tenute solamente tra russi e americani, alla presenza del ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, e del consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaad bin Mohammed Al Aiban, che avrebbero però lasciato l’incontro anticipatamente.

A rappresentare gli Stati Uniti c’erano il segretario di Stato, Marco Rubio, il consigliere per la sicurezza, Mike Waltz, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha recentemente avuto un importante ruolo nel forzare il presidente Benjamin Netanyahu ad accettare un cessate il fuoco a Gaza. Spicca e pone delle domande l’assenza dell’inviato per Ucraina e Russia, Keith Kellogg, che nel frattempo incontrava la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Oltre al ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, e al consigliere per la politica estera, Yuri Ushakov, a guidare la delegazione russa era un personaggio poco noto al grande pubblico ma di fondamentale importanza. Kirill Dmitriev, noto nell’ambiente moscovita come Kiriusha e vicino alla figlia di Putin, è pure grande amico del principe saudita, Mohammad bin Salman Al Sa'ud, da cui ha ricevuto una medaglia al valore nel 2019, durante la presidenza Trump. Riyad è infatti un grande alleato sia per il tycoon che per Putin, e Dmitriev è soprattutto un uomo d’affari: è presidente del Russian Direct Investment Fund, fondo sovrano del Cremlino. 

E difatti, nonostante l’impegno per la creazione di gruppi di negoziazione, più che idee concrete per cercare quella pace “giusta e sostenibile [...] accettabile da tutte le parti in causa, incluse Ucraina, Europa e Russia,” come ha dichiarato Rubio, i partecipanti hanno discusso di uno dei temi preferiti dell’amministrazione Trump: le “opportunità economiche e di investimenti” possibili dopo la fine della guerra in Ucraina e una “normalizzazione” dei rapporti fra Washington e Mosca. E un primo affare, cruciale, per i russi potrebbe essere sbarazzarsi delle sanzioni imposte in questi tre (dieci) anni.

Nel frattempo, Zelensky che aveva annunciato proprio alla vigilia della caotica Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tenutasi tra il 14 e il 16 febbraio, una coincidente missione questa settimana negli Emirati Arabi, Turchia e proprio Arabia Saudita, ha cancellato la visita presso quest’ultima. Ha per di più aggiunto che non avrebbe partecipato al meeting nemmeno in caso di invito, reiterando il messaggio per cui un capo di Stato dovrebbe incontrare suoi pari, non presenti a Riyad. 

Putin non ha ufficialmente commentato l’esito dei colloqui, ma la portavoce del ministero degli Esteri Marija Zacharova, mentre rivolgeva l’ennesima minaccia a Sergio Mattarella, chiariva come una priorità di Mosca rimanesse “la cancellazione della dichiarazione del summit NATO a Bucarest del 2008” in cui si invitavano Ucraina e Georgia a entrare, in un futuro indefinito, nell’alleanza. Lavrov, invece, ha definito “inaccettabile” l’eventuale invio di forze di peacekeeping internazionali in Ucraina come parte delle richieste di sicurezza di Zelensky, ad ora raccolte in maniera credibile solo dal primo ministro britannico Keir Starmer (mentre Macron ha fatto un dietrofront sul ruolo francese).

Più in generale, è chiaro come l’obiettivo di Mosca sia ridiscutere l’intera architettura di sicurezza europea, un tema centrale nella retorica dell’invasione russa del 2022. Ciò che è nuovo è che per la prima volta riesce a farlo con il benestare di Washington. Trump, da una parte bastonando l’Unione Europea e accusando Kyiv dello scoppio della guerra, dall’altra annunciando un incontro col presidente russo entro fine mese, concede a Putin una vittoria comunicativa e politica che l’autocrate russo cercava da 25 anni: poter vendere al proprio pubblico interno, ma ancora di più all’estero, le relazioni USA-Russia come fra pari.

Una possibile, probabile e tragica pace imperiale che profuma di anni ‘30, per l’esclusione di Kyiv, ma che sa anche di Guerra Fredda, sebbene i rapporti di potere siano in realtà incomparabili, al di là della propaganda del Cremlino e delle concessioni di Trump. Nonostante la retorica, e seppur trainata dall’economia di guerra, Mosca impero non lo è più da tempo: e davanti alla facciata di grandezza appare chiara l’ombra cinese, non pronta tuttavia a formalizzare un’alleanza a lungo termine con due partner che ritiene inaffidabili come Russia e Corea del Nord, e piuttosto incline a voler sfruttare un disimpegno statunitense dall’Europa ma pure dall’Ucraina stessa.

Nel tentativo di coordinare una risposta, il presidente francese Emmanuel Macron ha organizzato una riunione emergenziale con Von der Leyen e i principali capi di Stato europei. Il tema sullo sfondo dell’incontro parigino era delineare una strategia chiara e condivisa per difendersi, a lungo termine, dall’aggressività di Mosca alla luce del disimpegno americano. I principali giornali europei, tra cui quelli più vicini a Bruxelles come Politico Europe, hanno sottolineato come i leader europei non abbiano trovato una “risposta pronta” alla bomba di Trump. 

Un obiettivo difficile, considerando pure le imminenti elezioni in Germania dove l’amministrazione trumpiana sostiene l’estrema destra di AfD, chiarendo in modo emblematico il piano globale di Trump – che poi è quello del Cremlino da metà anni ‘10: sfaldare l’Europa dall’interno, rendendola irrilevante di fronte al nuovo ordine globale, che più che di multipolarismo pare ora assumere la forma dell’anarchia. Un avvertimento parzialmente raccolto anche dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas. Una possibile alleanza tra Washington e Mosca, è un rischio esistenziale per l’Europa unita in quanto tale, avvertono i francesi.

In attesa di capire cosa sarà del piano da 700 miliardi euro per il sostegno all’Ucraina ipotizzato a Monaco, tra gli altri, dalla Ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock (a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato), ci sono state decisioni minori, come l’approvazione di un pacchetto di aiuti militari da 6 miliardi di euro. 

Ci si aspetta, però, che ulteriori risposte sulla strategia europea possano arrivare dal secondo meeting emergenziale di oggi 19 febbraio, di nuovo a Parigi, esteso a un gruppo più ampio di paesi, tra cui alleati ferrei di Kyiv come i paesi baltici, Canada e Norvegia. Durante il quale, idealmente, dovrebbero fare da faro le indicazioni di Mario Draghi per cui “l'UE è il principale nemico di sé stessa”: di fronte alla prospettiva concreta di rimanere soli, bisogna superare il tempo dei veti incrociati e delle attese.

Cosa sta cambiando?

Di certo non per decenni, ma per circa un anno la narrazione è stata quella di uno stallo sul campo di battaglia in Ucraina, dopo l’eroica resistenza di Kyiv tra il 2022 e l’inizio del 2023 che aveva portato alla difesa della capitale ucraina e alla liberazione di Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Kherson. 

Dopo la caduta di Bakhmut nella primavera del 2023, la guerra è diventata un lento logoramento che ha leggermente avvantaggiato il Cremlino, per lo meno dal punto di vista quantitativo - quel che conta di più per Putin, d’altronde.

Poche centinaia di metri quadrati al giorno, in media, di avanzata, al costo di centinaia di migliaia di vite perse - da una parte, come dall’altra. Secondo la maggioranza degli analisti, molte più per i russi che hanno pure dovuto cercare alleanze inedite come quella con la Corea del Nord nella difesa dell’oblast’ di Kursk, o con l’Iran a metà 2022 sui droni Shaheed, per portare avanti la distruzione di quello che la propaganda russa ha sempre definito un ‘paese fratello’.

In tre settimane Trump ha spazzato via l’incertezza che aleggiava negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden. Da diversi mesi si parlava di possibili quanto vaghi colloqui di pace riguardanti i territori occupati da Mosca, circa il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Ucraina. Trump e Vance hanno trasformato questa incertezza in caos durante la Conferenza di Monaco, tenutasi nello scorso fine settimana.

La nuova amministrazione repubblicana ha gradualmente alzato l’asticella comunicativa: da una parte bistrattando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, chiarendo come un obiettivo secondario di Trump sia sentenziare la sua morte politica, dall’altra usando più la carota che il bastone con il Cremlino - quest’ultima una tattica priva di credibilità e sostegno, soprattutto all’interno dell’UE e soprattutto a Kyiv. Zelensky continua a ripetere come l’Ucraina non accetterà alcun ultimatum da parte russa.

Prima di essere esclusa dal tavolo di Riyad, Bruxelles ha ricordato a Trump di dover essere considerata parte di eventuali trattative. Lo stesso aveva dovuto fare Zelensky dopo la telefonata fra il presidente russo e quello americano: gli avvenimenti del 12 febbraio hanno definito un ordine di autorità, se non di preferenza, fra le due parti nell’astratto (ma sempre più concreto e cinico) piano di pace di Trump: Putin prima, Zelensky poi. Una rivoluzione rispetto all’approccio di Biden e dell’amministrazione democratica. 

Una rivoluzione in parte scontata, ma ugualmente una doccia fredda per uno Zelensky che era apparso, fino alla scorsa settimana, più concessivo nei confronti della retorica trumpiana, ma negli scorsi giorni sempre più veementemente ha cominciato a esprimere la propria rabbia e frustrazione per la tattica americana.

All’attesa Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, iniziata venerdì 14 febbraio, il vice-presidente JD Vance ha offerto un esempio di quella strategia comunicativa teorizzata da Steve Bannon che, in un’intervista di qualche anno fa, disse: “Il partito di opposizione sono i media. E i media, poiché stupidi e pigri, possono concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto ciò che dobbiamo fare è inondarli. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una sola, e riusciremo a fare tutto ciò che vogliamo. [...] Ma dobbiamo iniziare alla velocità della luce”. 

Vance, che in campagna elettorale aveva detto che la guerra in Ucraina è un problema dell’Europa, ha aperto la Conferenza di Monaco ipotizzando l’invio di soldati statunitensi a supporto di Kyiv qualora Mosca sabotasse le trattative, smentendo peraltro le dichiarazioni di appena due giorni prima del suo segretario alla Difesa, Pete Hegseth. 

Poche ore dopo, Vance smentiva doppiamente sé stesso, dicendo come si potrebbe arrivare “a un accordo ragionevole” per entrambe le parti: è il gioco delle parti della diplomazia del nuovo ordine trumpiano, non solo tra diversi esponenti del cerchio ristretto del presidente (e autoevidente nel Grand Old Party nel suo complesso) ma anche fra le loro molteplici personalità, come dimostrato dallo show bavarese di Vance, che ne ha avuto per tutti, soprattutto l’Unione Europea intesa come coalizione di forze politiche diverse dall’estrema destra sostenuta oggi da Washington (e foraggiata nell’ultimo decennio dal Cremlino).

Se le prime due settimane di presidenza di Trump si sono concentrate a smantellare l’ordine interno e su Gaza per quanto riguarda la politica estera, febbraio segna il mese di Kyiv e Mosca. Nella strategia di Washington a breve termine, ciò implica l’esclusione della prima.

Cosa ci aspetta?

La nuova fase aperta ufficialmente il 12 febbraio, in qualche modo prevista dalle analisi delle settimane precedenti che ha confermato, seppur non ancora nei fatti quanto più sul piano simbolico, l’avvio di una nuova fase della guerra in Ucraina e più in generale dei mutevoli equilibri globali: la possibile, probabile e, per almeno una e mezza delle parti in causa, desiderabile spartizione di uno Stato sovrano, evento a cui assistiamo in diretta per la prima volta da 80 anni. 

Con conseguenze imprevedibili per l’ordine internazionale, e anche questo è stato ripetuto a lungo negli ultimi tre anni. Mentre, al contrario, viene spesso dimenticato il destino di quelle milioni di persone che a Mariupol’, Donec’k, Berdyans’k e Luhans’k ci abitano.

Prima le proposte, da parte di Trump, più strampalate, ad esempio il ricatto sulle terre rare, e la sua nemmeno troppo velata retorica neocoloniale, espressa nel piano segreto che puntava a ottenere un controllo economico quasi totale sull’Ucraina, chiedendo a Kyiv un “risarcimento” di 500 miliardi di dollari in merito agli aiuti americani degli ultimi tre anni. Una retorica che punta a colpevolizzare l’Ucraina, rinforzata dalle dichiarazioni di Trump per cui sarebbe il paese invaso e non il Cremlino ad aver provocato lo scoppio della guerra.

Tattiche comunicative e negoziali utili a confondere l’opinione pubblica e indebolire ulteriormente (nel tentativo ultimo di umiliare) la fragile posizione di Kyiv che si siederebbe al tavolo delle trattative in una posizione decisamente svantaggiata rispetto ad appena un anno fa. Nel farlo, il presidente americano ha persino dichiarato che “l’Ucraina potrebbe essere russa un giorno”, confermando paradossalmente i fondati timori sia ucraini che europei che le trattative annunciate saranno una tregua a orologeria, più che una pace duratura, nonostante le dichiarazioni dell’establishment americano puntino a narrare l’esatto opposto.

Il nuovo corso repubblicano getta benzina sul fuoco sulla difficile situazione interna di Kyiv, in cui il reclutamento è sempre più tortuoso (è d’altronde complicato trovare motivazioni, dopo tre anni di sofferenza, quando viene a mancare il senso complessivo della lotta di resistenza dopo il tradimento del principale alleato, che Zelensky ha paragonato a quello avvenuto in Afghanistan) e l’ordine politico sempre più caotico, come dimostrato dalle sanzioni ad personam verso l’ex presidente Petro Poroshenko, insieme ad altri oligarchi, approvate da Zelensky proprio il giorno successivo alla telefonata Putin-Trump.

Una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino, che persevera nella narrazione del ‘presidente illegittimo’.

Proprio il suo avversario Poroshenko, in un’intervista al media ucraino Censor.net dello scorso 16 febbraio, ha invitato “ad annotare questa data: 26 ottobre”. Poroshenko dichiara di avere le prove per cui le elezioni si terranno quel giorno: a quanto dice l’ex presidente ucraino la commissione elettorale centrale sta aggiornando i propri registri, mentre lo stabilimento tipografico 'Ucraina' “sta già elaborando quante schede elettorali saranno necessarie”.

Al di là della popolarità in discesa di Poroshenko, gli inside politici a Kyiv sono spesso manovrati dall’alto, e non sarebbe sorprendente se l’informazione sia arrivata all’ex presidente proprio da ambienti vicini all’attuale amministrazione per affossarne il futuro politico. In ogni caso, confermano come l’Ucraina stia entrando, probabilmente controvoglia, verso una nuova confrontazione politica interna. 

Mentre la guerra continua, e poche ore dopo Riyad alcuni droni russi dal Mar Nero attaccano quella che la propaganda del Cremlino definisce una delle città madri russe, Odessa, la stessa intelligence statunitense sottolinea come al momento non si scorgano reali volontà di Putin di fermare la guerra.

Le previsioni di Poroshenko d’altro canto affascinano gli amanti delle dietrologie e degli incastri celesti nella politica internazionale. Il 26 ottobre cade sei mesi dopo la data scelta da Trump, secondo Bloomberg, per il cessate il fuoco che aprirebbe a nuove elezioni. E dopo queste alla firma della pace da parte del nuovo governo ucraino, secondo fonti diplomatiche il più filorusso possibile nei desideri di Mosca e Washington, ispirate dallo ‘spirito di Riyad’.

La data è quella del 20 Aprile, celebrazione, quest’anno, della Pasqua sia di rito cattolico che ortodosso. Aspettando di comprendere fino in fondo quale mondo ci si troverà davanti fra due mesi: Trump si è insediato da meno della metà.

Immagine in anteprima: frame video FirstPost via YouTube