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USA

Ucraina: “il rischio della pace”

Rilanciamo dalle pagine di Volere la Luna l’articolo di Domenico Gallo, pubblicando un ampio stralcio dello straordinario contributo del magistrato emerito  già presidente di sezione della Corte di cassazione, da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace , un intervento con il quale si fa chiarezza sulla crisi dei rapporti USA/UE insorta a seguito dell’apertura trumpiana del negoziato di pace con Putin, per porre fine alla guerra Russia/Ucraina dopo tre anni di distruzioni e sanguinosi lutti[accì]

Sembra incredibile ma è vero. Di fronte al negoziato intrapreso da USA e Russia con l’obiettivo di porre fine al più presto a una inutile strage perpetrata per tre anni, che ha causato – sui due fronti – oltre un milione di morti, sofferenze inenarrabili, devastazioni incommensurabili e che ci ha portato sull’orlo di un conflitto nucleare, le Cancellerie dei paesi europei, i vertici dell’UE, i leader politici e il sistema dei media mainstream, vivono la prospettiva della fine dei combattimenti come un disastro politico che scompagina tutti i loro piani. Piani che puntavano al prolungamento e all’escalation della guerra, fino al punto da considerare inevitabile un conflitto armato diretto con la Russia, al quale la NATO e l’UE a trazione baltica ci stavano preparando.

Certamente è sconvolgente il rapido cambiamento di rotta che Trump ha imposto a un indirizzo politico consolidato nel tempo che aveva attribuito alla Russia il ruolo del nemico da indebolire e da umiliare con sanzioni e guerre di logoramento. Se due potenze nucleari che hanno la capacità di distruggersi a vicenda e di distruggere il resto del mondo, dopo essersi combattute duramente per interposta persona (Ucraina), decidono di sotterrare l’ascia di guerra, questa nuova situazione dovrebbe essere accolta con entusiasmo, così come una volta, quando c’era la guerra fredda, fu accolto con un sospiro di sollievo l’accordo fra Kennedy e Kruscev che pose fine alla crisi dei missili a Cuba nel 1962. Fa specie la brutalità con cui Trump ha liquidato Zelensky attribuendogli la responsabilità di non aver impedito lo scoppio della guerra e di non averla fermata. In realtà Zelensky, pur essendo un attore comico, ha giocato il ruolo tragico che gli hanno attribuito Biden e la NATO; è stato un servitore fedele delle direttive ricevute d’oltreoceano. Adesso che il suo servizio non serve più, viene messo alla porta senza tanti complimenti. La stessa cosa succede ai camerieri europei della NATO che sono stati svergognati proprio da quella casa madre che avevano servito con “furore atlantico”, specialmente in Italia dove c’è stata una competizione fra il PD e la Meloni per la primazia sul sostegno militare (e politico) al governo Zelensky. «È disonesto affermare che l’Ucraina sia in grado di distruggere la Russia sul campo di battaglia e tornare a una situazione pre-2014», così si è espresso Marc Rubio qualche giorno fa a Bruxelles dinanzi agli attoniti atlantisti europei. Il nuovo Segretario di Stato non ha contestato ai leader europei una previsione sbagliata sull’andamento della guerra. Ha detto qualcosa in più: ha messo in evidenza la mala fede del dogma che ha fin qui guidato la politica europea e spinto l’Ucraina verso la propria autodistruzione.

Non possiamo dimenticare e non possiamo perdonare il coro di insulti che si levò nel marzo dell’anno scorso quando Papa Francesco esortò l’Ucraina ad aprire un negoziato per porre fine al prolungamento di una inutile strage: «È più forte chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca (…) Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà?». In perfetta malafede i disonesti leader europei hanno continuato imperturbabili a istigare l’Ucraina a combattere fino alla “vittoria”.

Ovviamente la svolta di Trump non è guidata dai sentimenti umanitari del Papa ma da ragioni di opportunità e di affari. Gli USA hanno ottenuto dalla guerra tutto quello che potevano ottenere e non hanno interesse a continuare un conflitto che non possono vincere. Hanno ottenuto una separazione netta dell’economia europea dalla Russia, hanno costretto l’Europa a sostituire il gas russo con quello americano che costa quattro volte di più, hanno ottenuto un forte incremento della spesa militare europea a tutto vantaggio delle industrie belliche americane. Adesso possono tirare i fili del debito estero creato dalla guerra e depredare l’Ucraina delle sue risorse minerarie, le cosiddette terre rare. Ciò non toglie che il ritiro degli USA dal sostegno alla guerra contro la Russia apra un capitolo positivo nella storia europea, ponendo finalmente termine a un orrendo spargimento di sangue fra popoli fratelli e al rischio di una nuova guerra mondiale. Al contrario, il viaggio a Kiev di Ursula Von der Leyen, scortata dal presidente del Consiglio europeo Antonio Costa e da Pedro Sanchez, per ribadire il sostegno politico e militare a Zelensky in occasione del terzo anniversario dell’invasione russa, ci fa capire che i vertici dell’UE non vogliono rassegnarsi alla fine della guerra, come quei soldati giapponesi che sono rimasti per quarant’anni nascosti nella giungla per continuare a combattere. In perfetta coerenza con questo orientamento di guerra ad oltranza il Consiglio esteri, presieduto da Kaja Kallas ha deliberato il sedicesimo pacchetto di sanzioni alla Russia.

Di fronte a queste novità sconvolgenti, non possiamo far finta di non vedere: è evidente che ci troviamo in una fase di passaggio d’epoca, come lo fu – sotto altri aspetti – l’89, quando l’abbattimento del muro di Berlino segnò la fine della guerra fredda. Nelle fasi di passaggio si aprono grandi opportunità di cambiamento, ma bisogna coglierle al volo prima che gli orizzonti si richiudano di nuovo.

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Redazione Italia

Guerra in Ucraina, il Re è nudo

Gli eventi degli ultimi giorni, e in particolare il drammatico faccia a faccia tra Trump e Zelensky, hanno riportato alla ribalta la difficoltà di sciogliere il nodo della guerra in Ucraina.

Paradossalmente il presidente Usa si presenta oggi come colui che può chiudere il conflitto, ma chiede in cambio mano libera nello sfruttamento delle risorse del paese che i suoi predecessori hanno generosamente finanziato.

Con la brutalità che caratterizza il suo linguaggio, Trump dichiara esplicitamente che l’interesse economico statunitense sta alla base delle sue scelte politiche, senza ammantarle delle giustificazioni moralistiche utilizzate dai suoi predecessori, come l’esportazione o la difesa della democrazia.

Qualche giorno fa, a Catania, si è parlato di guerra e in particolare di Ucraina, alla Camera del Lavoro, in occasione della presentazione della campagna nazionale “Centomila no alle guerre”, a cura dell’associazione “Il coraggio della pace”.

All’evento è stato invitato l’ex magistrato ed ex senatore della Repubblica Domenico Gallo, che da tempo sostiene con fermezza – anche se non la pacatezza che lo contraddistingue – una sua lettura di questa guerra.

Sulla base della ricostruzione storica dei rapporti esistenti tra Usa e Unione Sovietica (sostituita poi dalla Federazione Russa), e dell’evoluzione subita dalla Nato, Gallo individua come momento di svolta la decisione dell’amministrazione Clinton di rilanciare – infrangendo la promessa fatta a Gorbaciov – la Nato nei paesi dell’Est europeo.

Da allora gli eventi sono precipitati fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che Gallo considera un enorme errore politico oltre che una violazione del diritto internazionale.

Nell’introdurre la discussione Luca Cangemi, come scrive Pinella Leocata, ha sottolineato che con le dichiarazioni di Trump si è determinato “un terremoto politico all’interno del quale precipita anche la crisi italiana con la posizione del Presidente Mattarella grave dal punto di vista storico e politico”, ma anche la possibilità di ottenere quantomeno un cessate il fuoco.

Paradossalmente, l’Unione Europea, all’interno della quale è prevalso il partito unico della guerra, guarda a questa prospettiva con sgomento e terrore, come se il numero dei morti, di una guerra che ricorda i conflitti del passato, e in particolare il primo conflitto mondiale, non avesse ampiamente superato anche le più negative delle previsioni.

La guerra non sarebbe dovuta scoppiare, ricorda Gallo, “perché è la questione dell’allargamento della Nato all’Ucraina che ha costituito il casus bellicome riconosciuto dallo stesso Segretario generale della Nato. Infatti, nel corso di una audizione al Parlamento europeo, il 7 settembre 2023, Stoltenberg, ha ammesso che la Russia voleva trattare, precisando che il blocco di ogni ulteriore allargamento della Nato ‘era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina’. Ebbene, pur di poter piantare la bandierina della Nato in Ucraina, gli Usa e gli stolti leader europei, hanno preferito la guerra al negoziato e se ne sono pure vantati”.

Nella convinzione che la Russia non avesse né la forza militare, né quella economica (grazie anche alle sanzioni europee) per sostenere un lungo conflitto, nel quale, peraltro, anche gli ucraini hanno mandato al massacro la propria gioventù.

Conseguentemente, in tante risoluzioni del Parlamento Europeo si è costantemente ribadito che i confini ucraini avrebbero dovuto comprendere Crimea e Donbass e che per ottenere questo obiettivo era necessaria una fornitura costante di armi, sottraendo, inoltre, ingenti somme alle spese sociali e contribuendo alla crisi economica della stessa Unione, costretta -tra l’altro – a sostituire il gas russo con quello americano che costa quattro volte di più.

Nel frattempo, quasi tutti i mezzi di comunicazione denunciavano come putiniani tutti coloro che si opponevano alla guerra, e prospettavano l’esistenza di una minaccia russa che solo la Nato poteva contrastare, altrimenti ‘i russi sarebbero arrivati sino in Portogallo’…

Non sorprende, quindi, che le ultime prese di posizione degli Usa abbiamo decisamente spiazzato gli europei. “Il 12 febbraio – ha sottolineato Gallo – Hegseth ha rovesciato i dogmi che hanno guidato fin qui il partito unico della guerra con due osservazioni fulminanti. Primo: ‘Dobbiamo iniziare a riconoscere che il ritorno ai confini dell’Ucraina precedenti il 2014 è un obiettivo irrealistico’. Secondo: ‘Gli Stati Uniti non credono che l’adesione alla Nato per l’Ucraina sia un risultato realistico di una soluzione negoziata”.

Si è così finalmente aperta, nonostante l’opposizione dell’Unione Europea, la strada del negoziato che, ricordiamo, era stata esclusa per legge da Zelensky. Un percorso iniziato dopo centinaia di migliaia di morti, nonostante già nel novembre del 2022 “il gen. Mark Milley, aveva considerato che ‘nessuna delle due parti, né Ucraina né Russia, era in grado di vincere la guerra’ e aveva ammonito che, ‘il conflitto poteva concludersi soltanto attraverso un tavolo negoziale”.

Secondo Gallo “Le parole del Segretario alla Difesa americano, non ci dicono nulla che non sapessimo già ma svelano l’inganno costruito dai camerieri della Nato ai vertici delle Nazioni europee e dell’Unione europea e ci rivelano l’indecenza e la disonestà di una politica fondata sul miraggio di una vittoria promessa, che tutti sapevano irrealizzabile. Il Re è nudo”.

Anche per questo bisogna mobilitare l’opinione pubblica, in maggioranza favorevole alla fine del conflitto, a fronte di un Parlamento italiano quasi all’unisono per la guerra, perché, coerentemente con la nostra Costituzione, si ponga fine alla demonizzazione del ‘nemico’ e si avvii un percorso di pace.

argocatania

Redazione Sicilia

Quale Europa?

Tutti in piazza per l’Europa? Ma quale Europa? Quella che si sta riconvertendo a un’economia di guerra (con tanti saluti al welfare e alla transizione ecologica) per sostituirsi al sostegno che Nato e Stati Uniti non vogliono più dare all’Ucraina e per accrescere così l’inimicizia verso la Russia? E intanto deve guardarsi le spalle da Trump che, oltre ai dazi in arrivo, la lascia con in mano la miccia accesa del sostegno militare ed economico a una guerra che gli Stati Uniti hanno provocato, la Russia ha scatenato, l’Ucraina ha combattuto per procura e l’Unione Europea ha armato e finanziato, dissanguandosi con sanzioni che hanno danneggiato solo lei e hanno fatto bene solo agli Stati Uniti.

Sì, rispondono in molti, l’Europa vuole armarsi, ma vuole anche costituire al fronte una forza di interposizione per promuovere la pace. Ma quando mai l’interposizione viene affidata a Paesi che hanno fornito armi, finanza e promesse di appoggio fino alla vittoria finale a una delle parti combattenti? Non è ridicolo (se non fosse tragico) tutto ciò?

Sì, aggiungono, ma verrà fatto tutto – armi, interposizione e ricostruzione del Paese – a spese dei fondi russi congelati nelle banche europee. Forse che la Russia, prima di firmare una pace, non chiederà la restituzione dei fondi che le sono stati sequestrati? Motivo sufficiente per non arrivare alla pace mai, o per arrivarci a spese dell’Unione Europea, mentre gli Stati Uniti si saranno abbondantemente rifatti delle spese sostenute con le terre rare rapinate all’Ucraina.

Così adesso l’Unione Europea e i suoi dispersi Stati membri si trovano tra due fuochi: devono continuare il “lavoro” lasciato a metà dagli Stati Uniti che se ne stanno sfilando, facendosi trascinare da Zelensky a inseguire un’impossibile vittoria (ribattezzata “pace giusta” e duratura), ma devono anche supplicare gli Stati Uniti di non lasciarli soli, perché questa loro posizione, se portata avanti, li trascina inesorabilmente verso una guerra totale, anche atomica, proprio mentre Trump si accinge a pugnalarli alle spalle con i dazi.

Ma come è stato possibile infilarsi in un buco nero di queste dimensioni? E’ successo perché l’Europa non ha un suo esercito, rispondono ora gli “esperti”; gli stessi che l’hanno spinta a gran voce ad abbracciare la causa della guerra, senza promuovere né lasciare aperto alcuno spiraglio a una possibile mediazione. E’ vissuta, dicono – e i suoi stupidi cittadini sono vissuti – nell’illusione di una pace sicura e perpetua in un mondo che da tempo si stava riconvertendo alla guerra.

Non è vero. Di eserciti l’Europa ne ha anche troppi e di certo i cittadini dei suoi Stati membri non sentono il bisogno di nuove e più potenti armi. Quello che le manca è una politica per farne a meno, per non doverle usare, per ricavarsi uno spazio tra coloro che detestano la guerra: sicuramente la stragrande maggioranza degli abitanti della Terra, compresa la maggioranza di quelli che in Russia come in Ucraina (e magari tra un po’ anche da noi) vengono mandati al fronte come forzati, dopo averli catturati per strada mentre cercano di nascondersi o di fuggire. E compresi quelli che in tutti i Paesi dell’Unione Europea non sono mai stati consultati in proposito.

I governi dell’Unione Europea ora si illudono di creare, con un esercito comune, quell’unione politica che non sono riusciti a creare né con un mercato né con una moneta comuni. Ma è un’illusione stupida e pericolosa, che nasce dalla rinuncia o dall’incapacità di mettere al centro di uno sforzo comune l’unica guerra che valga la pena combattere: quella contro l’imminente catastrofe climatica e ambientale, che in realtà è una guerra che tutte le nazioni che “contano” sulla scena internazionale dovrebbero combattere. Innanzitutto contro se stesse, contro i propri sprechi, i consumi superflui, le produzioni dannose, l’incuria, l’abbandono di tanti esseri viventi, umani e no. Una guerra da combattere contro i responsabili di questa deriva drammatica: i signori del petrolio, del gas, del carbone e del nucleare, quelli della finanza, delle armi e della guerra, quelli del marketing e dell’informazione (sono la stessa cosa) che illudono e falsificano la realtà.

Il mondo monocentrico, ci dicono, si sta dividendo in zone di influenza e l’Europa – vaso di coccio tra vasi di ferro – rischia di venir schiacciata tra due o tre grandi potenze, senza avere più alcuna influenza. Non sarà un esercito superarmato ma raccogliticcio a restituirgliela.

Ma non è detto che il distacco di una parte crescente del mondo dal controllo dell’Occidente – spacciato dai nostri media, e solo da loro, per “comunità internazionale” – debba per forza portare a una o due riaggregazioni intorno al polo costituito da Cina e Russia, o a due poli: Cina e Russia. Oggi questi poli rappresentano, per molti governi o Paesi del mondo, un interesse potenziale o già attuale alternativo alla soggezione all’Occidente. Ma un progetto planetario di conversione ecologica vera, e non di facciata – che non è l’automobile elettrica, ma significa pace, cooperazione, salvaguardia dell’ambiente, diritto alla vita, alla salute, al reddito, alla casa, alla dignità di ciascuno – potrebbe ricostituire non solo la perduta identità e l’unità di intenti dell’Europa, che ora non ne ha alcuna, ma anche un fattore di aggregazione internazionale intorno a programmi e impegni di rigenerazione della società e dell’ambiente che si faranno sempre più urgenti mano a mano che la crisi ambientale farà sentire a tutti, e in modo sempre più acuto, i suoi effetti. Programmi in cui anche i migranti a cui oggi l’Europa e tutti gli Stati membri danno la caccia, una volta liberi di circolare tra i nostri Paesi e il loro, potrebbero trovare posto in progetti di risanamento dei loro Paesi di origine e anche dei nostri.

 

Guido Viale

L’opposizione si riorganizza: dai comizi di Sanders alle piazze contro l’amministrazione Trump

Dopo la vittoria alle presidenziali, Donald Trump dichiarò di aver ricevuto “un mandato inequivocabile per cambiare il paese”, nonostante avesse ottenuto all’incirca lo stesso numero di grandi elettori ricevuti da Biden quattro anni prima (312 contro i 306 dell’ex presidente) e rimanendo ben lontano dai 365 grandi elettori con cui Obama arrivò alla Casa Bianca nel 2008. Nelle sue prime settimane di governo, comunque, il suo tasso di approvazione si è mantenuto stabilmente sopra al 50%, fino a qualche giorno fa, quando si sono iniziate a intravedere le prime crepe: per vari sondaggisti, Trump ha cinque punti percentuali in meno. 

I motivi per cui il consenso generale stia iniziando a erodersi possono essere molteplici, ma due spiccano sugli altri. In primo luogo, Trump è stato eletto con la promessa di abbassare il costo della vita e ridare potere d’acquisto alla classe media; in questo mese, però, l’inflazione ha sforato nuovamente il tetto del 3% e le uova sono diventate un bene di lusso, complice l'influenza aviaria che ha costretto a un ritiro preventivo dal mercato di molti lotti. In secondo luogo, l’amministrazione sta portando avanti alcune decisioni che si stanno rivelando impopolari, come il taglio drastico dei dipendenti federali e i continui attacchi ai piani di sanità pubblica, Medicare e Medicaid.

Nel bilancio preliminare votato alla Camera sono stati evidenziati 880 miliardi di tagli di spesa per ridurre le inefficienze burocratiche in vari settori, tra cui quello della salute; seppure l’amministrazione continua ad asserire che la sanità non verrà toccata, e i cittadini manterranno i loro benefici, non tutti ci credono. La settimana scorsa, quando la Camera è andata in pausa e i deputati sono tornati nei loro collegi per fare attività di ascolto degli elettori, i repubblicani hanno scoperto che chi li ha votati non era contento. Molte persone hanno protestato per i possibili tagli alla salute e per i licenziamenti e le condizioni sempre più difficili dei dipendenti federali; Trump era stato votato per contenere l’immigrazione illegale e abbassare il costo della vita, non per tagliare posti di lavoro garantiti. 

Allo stesso modo, gli incontri dei cittadini con i deputati democratici sono stati molto partecipati, con la richiesta di tenere duro sul punto. Il partito di opposizione, fino a questo momento piuttosto spento nella critica all’amministrazione, è uscito rinvigorito dal ritorno nei collegi: ciò che ha galvanizzato i democratici è stato come il dissenso provenisse non tanto da luoghi di tendenza progressista, ma dai distretti solidamente repubblicani. Per questo, la strategia è sembrata chiarificarsi: attaccare il nuovo bilancio provvisorio, evidenziando i possibili tagli in cui potrebbero incorrere gli americani, gli svantaggi verso il cittadino che si generano con il congelamento dei fondi alle agenzie federali e il licenziamento dei dipendenti. D’altronde, non è la prima volta che i repubblicani hanno grossi problemi con le loro politiche di tagli lineari alla sanità: già nel 2017, il Congresso andò a un passo dall’abolire l’Affordable Care Act, la riforma sanitaria voluta da Barack Obama che garantì un’assicurazione sanitaria a più di 20 milioni di persone allora scoperte. L’abolizione non passò anche per il voto contrario del senatore repubblicano John McCain, e i democratici ottennero una grande vittoria alla Camera nelle elezioni di mid-term a novembre dello stesso anno.

Le critiche ai tagli alla sanità sono portate avanti in modo vigoroso da Bernie Sanders, che ha deciso di fare comizi negli Stati Uniti rurali, principalmente in distretti solidamente repubblicani, per evidenziare ai cittadini cosa perderanno con i tagli votati in Parlamento. L’economista Paul Krugman ha infatti sottolineato che depotenziare Medicaid, l’assicurazione sanitaria per gli indigenti, vorrebbe dire mettere in pericolo 69 milioni di americani che ne fanno uso. Il 45% dei bambini del West Virginia, Stato a basso reddito fortemente repubblicano, è coperto dal piano statale, che è visto come valido dal 71% degli elettori repubblicani. Lo stesso Steve Bannon, in una puntata del suo podcast War Room, ha evidenziato come “molte persone di fede MAGA aderiscono a Medicaid”. Sanders nel weekend è stato a Omaha, in Nebraska, dove si sono presentate più di 4.000 persone per ascoltarlo: nel comizio ha evidenziato tutte le problematiche costituzionali del duopolio Trump-Musk che sta governando la Casa Bianca e ha più volte ripetuto che “l’oligarchia va fermata”. L’obiettivo che si sta prefiggendo in questo tour di distretti solidamente repubblicani è duplice: da un lato, aprire la strada a un possibile riavvicinamento dei progressisti in luoghi da molti anni non contendibili per il Partito democratico, dall’altro, mettere estrema pressione sui deputati repubblicani del collegio, inducendoli a far saltare il banco e non votare i tagli.

Questo perché, dopo un mese in cui il Congresso ha aderito senza battere un colpo allo svuotamento di potere impostogli da Trump, sulla sanità si sono evidenziate alcune voci critiche all’interno del Partito. Uno dei repubblicani che più si è imposto nel dibattito pubblico sulla sanità è David Valadao, deputato di un distretto della California centrale dove circa il 20% delle famiglie riceve sussidi legati a Medicaid. Valadao ha affermato che tagli di questo tipo andrebbero a minare le capacità di potersi curare delle persone che abitano nel suo collegio e insieme ad altri sette colleghi ha firmato un documento contro i possibili tagli. Si tratta, poi, anche di una questione tattica: quando nel 2018 la sanità venne messa in discussione i repubblicani persero 28 seggi alle elezioni, e sarebbero proprio quei deputati, eletti in collegi poveri e non a stretta maggioranza repubblicana, i primi a subire le conseguenze. 

Si è quindi evidenziata una netta distanza tra due ali del Partito, che non rispecchia in modo congruo la divisione tra repubblicani centristi e movimento MAGA: infatti, i conservatori fiscali, che vorrebbero tagliare la spesa in sanità per ridurre il deficit, anche se afferiscono al Freedom Caucus, una corrente da anni più vicina a Trump, parlano come i repubblicani liberisti classici. Allo stesso modo, i critici dei tagli hanno l’appoggio, pur se indiretto, di figure del mondo alt-right come Steve Bannon, che hanno contribuito a costruire un nuovo Partito repubblicano con un bacino di voti non indifferente nella classe operaia bianca e sanno che tagliare queste voci di spesa vuol dire inimicarsi i propri elettori.

Un’altra linea d’attacco che i democratici cercano di perseguire più apertamente è quella della “crisi costituzionale”, soprattutto grazie al lavoro in Parlamento del senatore del Connecticut Chris Murphy, che ha iniziato a reagire apertamente allo svuotamento del potere legislativo operato dall’amministrazione utilizzando termini forti, sia in aula sia sui social, dove la sua presenza è sempre più massiccia. Per farlo, ha principalmente studiato i testi di riferimento della nuova destra, come quelli del filosofo Curtis Yarvin di cui abbiamo estesamente parlato su Valigia Blu. Le sue letture lo hanno convinto sin da subito della sostanziale illegalità delle mosse dell’esecutivo e per questo non ha esitato a definire il primo mese della presidenza Trump “un tentativo ostile di presa del potere”. L’attacco alle politiche di Elon Musk, che stanno decidendo in modo arbitrario la sorte di milioni di dipendenti federali, ha scioccato anche una gran parte di cittadini: l’associazione 50501, recentemente costituita per protestare contro l’amministrazione, è scesa in piazza alla stessa ora in tutti gli Stati e promette di farlo ancora. Si tratta della prima protesta organica su base nazionale che mobilita migliaia di persone.

Se, da un lato, abbiamo la protesta di molti cittadini su temi legati alle loro limitate capacità economiche, sempre più ridotte da questo primo mese di presidenza Trump, l’altro grande tema su cui alcuni democratici si muovono è la difesa dei diritti dei cittadini immigrati. Su questo ha ottenuto tantissima rilevanza, anche sui social network, la deputata di New York Alexandria Ocasio Cortez, che ha girato vari video in cui spiega alle persone quali siano i loro diritti durante i possibili raid dell’ICE, l’agenzia federale che si occupa di immigrazione. Per questo ha avuto un confronto diretto molto duro con Tom Homan, il cosiddetto “zar dei confini”, la figura dell’amministrazione Trump che si occupa di velocizzare i rimpatri. Homan ha minacciato azioni legali contro la deputata democratica in quanto “i membri del Congresso non dovrebbero spiegare alle persone come scappare dalle forze dell’ordine”, ma Ocasio Cortez ha ribadito sul punto, asserendo che rendere edotti gli individui dei loro diritti garantiti dalla Costituzione non è illegale.

Come analizzato, esistono personalità democratiche che si oppongono all’amministrazione, ma a livello mediatico la posizione comune è che il Partito sia spaesato. In parte è sicuramente così, dato che l’azione dei democratici continua ad avere bassi livelli di coordinamento ed è portata avanti da figure popolari che stanno trainando il Partito grazie al loro appeal. Nonostante questo, però, i democratici stanno cercando anche un nuovo modo di apparire a livello mediatico. Con l’arretramento sempre più visibile dei quotidiani, che dimostrano, come nei casi di testate come Washington Post e Los Angeles Times, di non voler attaccare Trump come venne fatto durante il suo primo mandato, e l’impossibilità di sfondare sui social media tradizionali al di fuori della propria bolla, come ha dimostrato l’attesa generata dalla campagna Harris che poi si è rapidamente sgonfiata, è tornata in auge l’idea di portare la propria voce all’interno del mondo dei podcast. Gavin Newsom, governatore della California e uno dei papabili candidati dei democratici tra quattro anni, sta lanciando un podcast di sua produzione in cui dialogherà con esponenti del mondo MAGA. L’idea è cercare di abbattere un ambiente mediatico costruito a compartimenti stagni, in cui democratici e repubblicani guardano e ascoltano cose diverse, facendo sì che aumenti la polarizzazione. È un’idea, quella di Newsom, che il governatore porta avanti sin dal 2022, quando chiedeva al Partito di confrontarsi coi repubblicani sul tema delle “culture wars”, prima che esplodesse la battaglia al “woke” che ha contraddistinto la campagna Trump l’anno scorso.

Infine, i democratici vogliono andare all’attacco già quest’anno in un’elezione che si preannuncia molto interessante: quella per la carica di governatore della Virginia. Nello Stato, entro i cui territori si trova il distretto di Columbia, e quindi la capitale Washington, risiedono circa 150.000 dipendenti federali e l’obiettivo è attaccare frontalmente i repubblicani sul caos che hanno generato nella burocrazia. Candidata dei dem è Abigail Spanberger, eletta deputata proprio con la grande vittoria democratica del 2018, che vuole combattere Trump dalla poltrona di governatrice. Si è notato, nel primo mese di presidenza, che per contrattaccare a ordini esecutivi incostituzionali è importante amministrare più Stati possibile, per rendere più solide le cause intentate: l’obiettivo è proprio quello di ottenere una vittoria in un anno in cui, non essendoci elezioni a livello federale, sulla Virginia si concentreranno le attenzioni della politica nazionale.

Un tour di distretti repubblicani, una manifestazione che coinvolge tutti gli Stati, un senatore che chiama in aula le cose col proprio nome, un’elezione fondamentale: tutti momenti importanti per costruire un’opposizione seria e coerente all’amministrazione Trump. I democratici sono ancora lontani da una linea comune, ma rispetto alle prime due settimane, quando il partito sembrava impotente rispetto a quello che stava avvenendo, oggi sembra aver ricostituito una combattività che lo aveva contraddistinto nel primo mandato: se questo basterà per fermare il piano di Trump e Musk di accrescere sproporzionatamente i poteri dell’esecutivo ai danni degli altri, però, è ancora presto per dirlo.

Immagine in anteprima: frame video KETV News Watch 7 via YouTube

Ucraina: “il rischio della pace”

Rilanciamo dalle pagine di Volere la Luna l’articolo di Domenico Gallo, pubblicando un ampio stralcio dello straordinario contributo del magistrato emerito  già presidente di sezione della Corte di cassazione, da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace , un intervento con il quale si fa chiarezza sulla crisi dei rapporti USA/UE insorta a seguito dell’apertura trumpiana del negoziato di pace con Putin, per porre fine alla guerra Russia/Ucraina dopo tre anni di distruzioni e sanguinosi lutti[accì]

Sembra incredibile ma è vero. Di fronte al negoziato intrapreso da USA e Russia con l’obiettivo di porre fine al più presto a una inutile strage perpetrata per tre anni, che ha causato – sui due fronti – oltre un milione di morti, sofferenze inenarrabili, devastazioni incommensurabili e che ci ha portato sull’orlo di un conflitto nucleare, le Cancellerie dei paesi europei, i vertici dell’UE, i leader politici e il sistema dei media mainstream, vivono la prospettiva della fine dei combattimenti come un disastro politico che scompagina tutti i loro piani. Piani che puntavano al prolungamento e all’escalation della guerra, fino al punto da considerare inevitabile un conflitto armato diretto con la Russia, al quale la NATO e l’UE a trazione baltica ci stavano preparando.

Certamente è sconvolgente il rapido cambiamento di rotta che Trump ha imposto a un indirizzo politico consolidato nel tempo che aveva attribuito alla Russia il ruolo del nemico da indebolire e da umiliare con sanzioni e guerre di logoramento. Se due potenze nucleari che hanno la capacità di distruggersi a vicenda e di distruggere il resto del mondo, dopo essersi combattute duramente per interposta persona (Ucraina), decidono di sotterrare l’ascia di guerra, questa nuova situazione dovrebbe essere accolta con entusiasmo, così come una volta, quando c’era la guerra fredda, fu accolto con un sospiro di sollievo l’accordo fra Kennedy e Kruscev che pose fine alla crisi dei missili a Cuba nel 1962. Fa specie la brutalità con cui Trump ha liquidato Zelensky attribuendogli la responsabilità di non aver impedito lo scoppio della guerra e di non averla fermata. In realtà Zelensky, pur essendo un attore comico, ha giocato il ruolo tragico che gli hanno attribuito Biden e la NATO; è stato un servitore fedele delle direttive ricevute d’oltreoceano. Adesso che il suo servizio non serve più, viene messo alla porta senza tanti complimenti. La stessa cosa succede ai camerieri europei della NATO che sono stati svergognati proprio da quella casa madre che avevano servito con “furore atlantico”, specialmente in Italia dove c’è stata una competizione fra il PD e la Meloni per la primazia sul sostegno militare (e politico) al governo Zelensky. «È disonesto affermare che l’Ucraina sia in grado di distruggere la Russia sul campo di battaglia e tornare a una situazione pre-2014», così si è espresso Marc Rubio qualche giorno fa a Bruxelles dinanzi agli attoniti atlantisti europei. Il nuovo Segretario di Stato non ha contestato ai leader europei una previsione sbagliata sull’andamento della guerra. Ha detto qualcosa in più: ha messo in evidenza la mala fede del dogma che ha fin qui guidato la politica europea e spinto l’Ucraina verso la propria autodistruzione.

Non possiamo dimenticare e non possiamo perdonare il coro di insulti che si levò nel marzo dell’anno scorso quando Papa Francesco esortò l’Ucraina ad aprire un negoziato per porre fine al prolungamento di una inutile strage: «È più forte chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca (…) Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà?». In perfetta malafede i disonesti leader europei hanno continuato imperturbabili a istigare l’Ucraina a combattere fino alla “vittoria”.

Ovviamente la svolta di Trump non è guidata dai sentimenti umanitari del Papa ma da ragioni di opportunità e di affari. Gli USA hanno ottenuto dalla guerra tutto quello che potevano ottenere e non hanno interesse a continuare un conflitto che non possono vincere. Hanno ottenuto una separazione netta dell’economia europea dalla Russia, hanno costretto l’Europa a sostituire il gas russo con quello americano che costa quattro volte di più, hanno ottenuto un forte incremento della spesa militare europea a tutto vantaggio delle industrie belliche americane. Adesso possono tirare i fili del debito estero creato dalla guerra e depredare l’Ucraina delle sue risorse minerarie, le cosiddette terre rare. Ciò non toglie che il ritiro degli USA dal sostegno alla guerra contro la Russia apra un capitolo positivo nella storia europea, ponendo finalmente termine a un orrendo spargimento di sangue fra popoli fratelli e al rischio di una nuova guerra mondiale. Al contrario, il viaggio a Kiev di Ursula Von der Leyen, scortata dal presidente del Consiglio europeo Antonio Costa e da Pedro Sanchez, per ribadire il sostegno politico e militare a Zelensky in occasione del terzo anniversario dell’invasione russa, ci fa capire che i vertici dell’UE non vogliono rassegnarsi alla fine della guerra, come quei soldati giapponesi che sono rimasti per quarant’anni nascosti nella giungla per continuare a combattere. In perfetta coerenza con questo orientamento di guerra ad oltranza il Consiglio esteri, presieduto da Kaja Kallas ha deliberato il sedicesimo pacchetto di sanzioni alla Russia.

Di fronte a queste novità sconvolgenti, non possiamo far finta di non vedere: è evidente che ci troviamo in una fase di passaggio d’epoca, come lo fu – sotto altri aspetti – l’89, quando l’abbattimento del muro di Berlino segnò la fine della guerra fredda. Nelle fasi di passaggio si aprono grandi opportunità di cambiamento, ma bisogna coglierle al volo prima che gli orizzonti si richiudano di nuovo.

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Redazione Italia

Guerra in Ucraina, il Re è nudo

Gli eventi degli ultimi giorni, e in particolare il drammatico faccia a faccia tra Trump e Zelensky, hanno riportato alla ribalta la difficoltà di sciogliere il nodo della guerra in Ucraina.

Paradossalmente il presidente Usa si presenta oggi come colui che può chiudere il conflitto, ma chiede in cambio mano libera nello sfruttamento delle risorse del paese che i suoi predecessori hanno generosamente finanziato.

Con la brutalità che caratterizza il suo linguaggio, Trump dichiara esplicitamente che l’interesse economico statunitense sta alla base delle sue scelte politiche, senza ammantarle delle giustificazioni moralistiche utilizzate dai suoi predecessori, come l’esportazione o la difesa della democrazia.

Qualche giorno fa, a Catania, si è parlato di guerra e in particolare di Ucraina, alla Camera del Lavoro, in occasione della presentazione della campagna nazionale “Centomila no alle guerre”, a cura dell’associazione “Il coraggio della pace”.

All’evento è stato invitato l’ex magistrato ed ex senatore della Repubblica Domenico Gallo, che da tempo sostiene con fermezza – anche se non la pacatezza che lo contraddistingue – una sua lettura di questa guerra.

Sulla base della ricostruzione storica dei rapporti esistenti tra Usa e Unione Sovietica (sostituita poi dalla Federazione Russa), e dell’evoluzione subita dalla Nato, Gallo individua come momento di svolta la decisione dell’amministrazione Clinton di rilanciare – infrangendo la promessa fatta a Gorbaciov – la Nato nei paesi dell’Est europeo.

Da allora gli eventi sono precipitati fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che Gallo considera un enorme errore politico oltre che una violazione del diritto internazionale.

Nell’introdurre la discussione Luca Cangemi, come scrive Pinella Leocata, ha sottolineato che con le dichiarazioni di Trump si è determinato “un terremoto politico all’interno del quale precipita anche la crisi italiana con la posizione del Presidente Mattarella grave dal punto di vista storico e politico”, ma anche la possibilità di ottenere quantomeno un cessate il fuoco.

Paradossalmente, l’Unione Europea, all’interno della quale è prevalso il partito unico della guerra, guarda a questa prospettiva con sgomento e terrore, come se il numero dei morti, di una guerra che ricorda i conflitti del passato, e in particolare il primo conflitto mondiale, non avesse ampiamente superato anche le più negative delle previsioni.

La guerra non sarebbe dovuta scoppiare, ricorda Gallo, “perché è la questione dell’allargamento della Nato all’Ucraina che ha costituito il casus bellicome riconosciuto dallo stesso Segretario generale della Nato. Infatti, nel corso di una audizione al Parlamento europeo, il 7 settembre 2023, Stoltenberg, ha ammesso che la Russia voleva trattare, precisando che il blocco di ogni ulteriore allargamento della Nato ‘era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina’. Ebbene, pur di poter piantare la bandierina della Nato in Ucraina, gli Usa e gli stolti leader europei, hanno preferito la guerra al negoziato e se ne sono pure vantati”.

Nella convinzione che la Russia non avesse né la forza militare, né quella economica (grazie anche alle sanzioni europee) per sostenere un lungo conflitto, nel quale, peraltro, anche gli ucraini hanno mandato al massacro la propria gioventù.

Conseguentemente, in tante risoluzioni del Parlamento Europeo si è costantemente ribadito che i confini ucraini avrebbero dovuto comprendere Crimea e Donbass e che per ottenere questo obiettivo era necessaria una fornitura costante di armi, sottraendo, inoltre, ingenti somme alle spese sociali e contribuendo alla crisi economica della stessa Unione, costretta -tra l’altro – a sostituire il gas russo con quello americano che costa quattro volte di più.

Nel frattempo, quasi tutti i mezzi di comunicazione denunciavano come putiniani tutti coloro che si opponevano alla guerra, e prospettavano l’esistenza di una minaccia russa che solo la Nato poteva contrastare, altrimenti ‘i russi sarebbero arrivati sino in Portogallo’…

Non sorprende, quindi, che le ultime prese di posizione degli Usa abbiamo decisamente spiazzato gli europei. “Il 12 febbraio – ha sottolineato Gallo – Hegseth ha rovesciato i dogmi che hanno guidato fin qui il partito unico della guerra con due osservazioni fulminanti. Primo: ‘Dobbiamo iniziare a riconoscere che il ritorno ai confini dell’Ucraina precedenti il 2014 è un obiettivo irrealistico’. Secondo: ‘Gli Stati Uniti non credono che l’adesione alla Nato per l’Ucraina sia un risultato realistico di una soluzione negoziata”.

Si è così finalmente aperta, nonostante l’opposizione dell’Unione Europea, la strada del negoziato che, ricordiamo, era stata esclusa per legge da Zelensky. Un percorso iniziato dopo centinaia di migliaia di morti, nonostante già nel novembre del 2022 “il gen. Mark Milley, aveva considerato che ‘nessuna delle due parti, né Ucraina né Russia, era in grado di vincere la guerra’ e aveva ammonito che, ‘il conflitto poteva concludersi soltanto attraverso un tavolo negoziale”.

Secondo Gallo “Le parole del Segretario alla Difesa americano, non ci dicono nulla che non sapessimo già ma svelano l’inganno costruito dai camerieri della Nato ai vertici delle Nazioni europee e dell’Unione europea e ci rivelano l’indecenza e la disonestà di una politica fondata sul miraggio di una vittoria promessa, che tutti sapevano irrealizzabile. Il Re è nudo”.

Anche per questo bisogna mobilitare l’opinione pubblica, in maggioranza favorevole alla fine del conflitto, a fronte di un Parlamento italiano quasi all’unisono per la guerra, perché, coerentemente con la nostra Costituzione, si ponga fine alla demonizzazione del ‘nemico’ e si avvii un percorso di pace.

argocatania

Redazione Sicilia

Quale Europa?

Tutti in piazza per l’Europa? Ma quale Europa? Quella che si sta riconvertendo a un’economia di guerra (con tanti saluti al welfare e alla transizione ecologica) per sostituirsi al sostegno che Nato e Stati Uniti non vogliono più dare all’Ucraina e per accrescere così l’inimicizia verso la Russia? E intanto deve guardarsi le spalle da Trump che, oltre ai dazi in arrivo, la lascia con in mano la miccia accesa del sostegno militare ed economico a una guerra che gli Stati Uniti hanno provocato, la Russia ha scatenato, l’Ucraina ha combattuto per procura e l’Unione Europea ha armato e finanziato, dissanguandosi con sanzioni che hanno danneggiato solo lei e hanno fatto bene solo agli Stati Uniti.

Sì, rispondono in molti, l’Europa vuole armarsi, ma vuole anche costituire al fronte una forza di interposizione per promuovere la pace. Ma quando mai l’interposizione viene affidata a Paesi che hanno fornito armi, finanza e promesse di appoggio fino alla vittoria finale a una delle parti combattenti? Non è ridicolo (se non fosse tragico) tutto ciò?

Sì, aggiungono, ma verrà fatto tutto – armi, interposizione e ricostruzione del Paese – a spese dei fondi russi congelati nelle banche europee. Forse che la Russia, prima di firmare una pace, non chiederà la restituzione dei fondi che le sono stati sequestrati? Motivo sufficiente per non arrivare alla pace mai, o per arrivarci a spese dell’Unione Europea, mentre gli Stati Uniti si saranno abbondantemente rifatti delle spese sostenute con le terre rare rapinate all’Ucraina.

Così adesso l’Unione Europea e i suoi dispersi Stati membri si trovano tra due fuochi: devono continuare il “lavoro” lasciato a metà dagli Stati Uniti che se ne stanno sfilando, facendosi trascinare da Zelensky a inseguire un’impossibile vittoria (ribattezzata “pace giusta” e duratura), ma devono anche supplicare gli Stati Uniti di non lasciarli soli, perché questa loro posizione, se portata avanti, li trascina inesorabilmente verso una guerra totale, anche atomica, proprio mentre Trump si accinge a pugnalarli alle spalle con i dazi.

Ma come è stato possibile infilarsi in un buco nero di queste dimensioni? E’ successo perché l’Europa non ha un suo esercito, rispondono ora gli “esperti”; gli stessi che l’hanno spinta a gran voce ad abbracciare la causa della guerra, senza promuovere né lasciare aperto alcuno spiraglio a una possibile mediazione. E’ vissuta, dicono – e i suoi stupidi cittadini sono vissuti – nell’illusione di una pace sicura e perpetua in un mondo che da tempo si stava riconvertendo alla guerra.

Non è vero. Di eserciti l’Europa ne ha anche troppi e di certo i cittadini dei suoi Stati membri non sentono il bisogno di nuove e più potenti armi. Quello che le manca è una politica per farne a meno, per non doverle usare, per ricavarsi uno spazio tra coloro che detestano la guerra: sicuramente la stragrande maggioranza degli abitanti della Terra, compresa la maggioranza di quelli che in Russia come in Ucraina (e magari tra un po’ anche da noi) vengono mandati al fronte come forzati, dopo averli catturati per strada mentre cercano di nascondersi o di fuggire. E compresi quelli che in tutti i Paesi dell’Unione Europea non sono mai stati consultati in proposito.

I governi dell’Unione Europea ora si illudono di creare, con un esercito comune, quell’unione politica che non sono riusciti a creare né con un mercato né con una moneta comuni. Ma è un’illusione stupida e pericolosa, che nasce dalla rinuncia o dall’incapacità di mettere al centro di uno sforzo comune l’unica guerra che valga la pena combattere: quella contro l’imminente catastrofe climatica e ambientale, che in realtà è una guerra che tutte le nazioni che “contano” sulla scena internazionale dovrebbero combattere. Innanzitutto contro se stesse, contro i propri sprechi, i consumi superflui, le produzioni dannose, l’incuria, l’abbandono di tanti esseri viventi, umani e no. Una guerra da combattere contro i responsabili di questa deriva drammatica: i signori del petrolio, del gas, del carbone e del nucleare, quelli della finanza, delle armi e della guerra, quelli del marketing e dell’informazione (sono la stessa cosa) che illudono e falsificano la realtà.

Il mondo monocentrico, ci dicono, si sta dividendo in zone di influenza e l’Europa – vaso di coccio tra vasi di ferro – rischia di venir schiacciata tra due o tre grandi potenze, senza avere più alcuna influenza. Non sarà un esercito superarmato ma raccogliticcio a restituirgliela.

Ma non è detto che il distacco di una parte crescente del mondo dal controllo dell’Occidente – spacciato dai nostri media, e solo da loro, per “comunità internazionale” – debba per forza portare a una o due riaggregazioni intorno al polo costituito da Cina e Russia, o a due poli: Cina e Russia. Oggi questi poli rappresentano, per molti governi o Paesi del mondo, un interesse potenziale o già attuale alternativo alla soggezione all’Occidente. Ma un progetto planetario di conversione ecologica vera, e non di facciata – che non è l’automobile elettrica, ma significa pace, cooperazione, salvaguardia dell’ambiente, diritto alla vita, alla salute, al reddito, alla casa, alla dignità di ciascuno – potrebbe ricostituire non solo la perduta identità e l’unità di intenti dell’Europa, che ora non ne ha alcuna, ma anche un fattore di aggregazione internazionale intorno a programmi e impegni di rigenerazione della società e dell’ambiente che si faranno sempre più urgenti mano a mano che la crisi ambientale farà sentire a tutti, e in modo sempre più acuto, i suoi effetti. Programmi in cui anche i migranti a cui oggi l’Europa e tutti gli Stati membri danno la caccia, una volta liberi di circolare tra i nostri Paesi e il loro, potrebbero trovare posto in progetti di risanamento dei loro Paesi di origine e anche dei nostri.

 

Guido Viale

L’opposizione si riorganizza: dai comizi di Sanders alle piazze contro l’amministrazione Trump

Dopo la vittoria alle presidenziali, Donald Trump dichiarò di aver ricevuto “un mandato inequivocabile per cambiare il paese”, nonostante avesse ottenuto all’incirca lo stesso numero di grandi elettori ricevuti da Biden quattro anni prima (312 contro i 306 dell’ex presidente) e rimanendo ben lontano dai 365 grandi elettori con cui Obama arrivò alla Casa Bianca nel 2008. Nelle sue prime settimane di governo, comunque, il suo tasso di approvazione si è mantenuto stabilmente sopra al 50%, fino a qualche giorno fa, quando si sono iniziate a intravedere le prime crepe: per vari sondaggisti, Trump ha cinque punti percentuali in meno. 

I motivi per cui il consenso generale stia iniziando a erodersi possono essere molteplici, ma due spiccano sugli altri. In primo luogo, Trump è stato eletto con la promessa di abbassare il costo della vita e ridare potere d’acquisto alla classe media; in questo mese, però, l’inflazione ha sforato nuovamente il tetto del 3% e le uova sono diventate un bene di lusso, complice l'influenza aviaria che ha costretto a un ritiro preventivo dal mercato di molti lotti. In secondo luogo, l’amministrazione sta portando avanti alcune decisioni che si stanno rivelando impopolari, come il taglio drastico dei dipendenti federali e i continui attacchi ai piani di sanità pubblica, Medicare e Medicaid.

Nel bilancio preliminare votato alla Camera sono stati evidenziati 880 miliardi di tagli di spesa per ridurre le inefficienze burocratiche in vari settori, tra cui quello della salute; seppure l’amministrazione continua ad asserire che la sanità non verrà toccata, e i cittadini manterranno i loro benefici, non tutti ci credono. La settimana scorsa, quando la Camera è andata in pausa e i deputati sono tornati nei loro collegi per fare attività di ascolto degli elettori, i repubblicani hanno scoperto che chi li ha votati non era contento. Molte persone hanno protestato per i possibili tagli alla salute e per i licenziamenti e le condizioni sempre più difficili dei dipendenti federali; Trump era stato votato per contenere l’immigrazione illegale e abbassare il costo della vita, non per tagliare posti di lavoro garantiti. 

Allo stesso modo, gli incontri dei cittadini con i deputati democratici sono stati molto partecipati, con la richiesta di tenere duro sul punto. Il partito di opposizione, fino a questo momento piuttosto spento nella critica all’amministrazione, è uscito rinvigorito dal ritorno nei collegi: ciò che ha galvanizzato i democratici è stato come il dissenso provenisse non tanto da luoghi di tendenza progressista, ma dai distretti solidamente repubblicani. Per questo, la strategia è sembrata chiarificarsi: attaccare il nuovo bilancio provvisorio, evidenziando i possibili tagli in cui potrebbero incorrere gli americani, gli svantaggi verso il cittadino che si generano con il congelamento dei fondi alle agenzie federali e il licenziamento dei dipendenti. D’altronde, non è la prima volta che i repubblicani hanno grossi problemi con le loro politiche di tagli lineari alla sanità: già nel 2017, il Congresso andò a un passo dall’abolire l’Affordable Care Act, la riforma sanitaria voluta da Barack Obama che garantì un’assicurazione sanitaria a più di 20 milioni di persone allora scoperte. L’abolizione non passò anche per il voto contrario del senatore repubblicano John McCain, e i democratici ottennero una grande vittoria alla Camera nelle elezioni di mid-term a novembre dello stesso anno.

Le critiche ai tagli alla sanità sono portate avanti in modo vigoroso da Bernie Sanders, che ha deciso di fare comizi negli Stati Uniti rurali, principalmente in distretti solidamente repubblicani, per evidenziare ai cittadini cosa perderanno con i tagli votati in Parlamento. L’economista Paul Krugman ha infatti sottolineato che depotenziare Medicaid, l’assicurazione sanitaria per gli indigenti, vorrebbe dire mettere in pericolo 69 milioni di americani che ne fanno uso. Il 45% dei bambini del West Virginia, Stato a basso reddito fortemente repubblicano, è coperto dal piano statale, che è visto come valido dal 71% degli elettori repubblicani. Lo stesso Steve Bannon, in una puntata del suo podcast War Room, ha evidenziato come “molte persone di fede MAGA aderiscono a Medicaid”. Sanders nel weekend è stato a Omaha, in Nebraska, dove si sono presentate più di 4.000 persone per ascoltarlo: nel comizio ha evidenziato tutte le problematiche costituzionali del duopolio Trump-Musk che sta governando la Casa Bianca e ha più volte ripetuto che “l’oligarchia va fermata”. L’obiettivo che si sta prefiggendo in questo tour di distretti solidamente repubblicani è duplice: da un lato, aprire la strada a un possibile riavvicinamento dei progressisti in luoghi da molti anni non contendibili per il Partito democratico, dall’altro, mettere estrema pressione sui deputati repubblicani del collegio, inducendoli a far saltare il banco e non votare i tagli.

Questo perché, dopo un mese in cui il Congresso ha aderito senza battere un colpo allo svuotamento di potere impostogli da Trump, sulla sanità si sono evidenziate alcune voci critiche all’interno del Partito. Uno dei repubblicani che più si è imposto nel dibattito pubblico sulla sanità è David Valadao, deputato di un distretto della California centrale dove circa il 20% delle famiglie riceve sussidi legati a Medicaid. Valadao ha affermato che tagli di questo tipo andrebbero a minare le capacità di potersi curare delle persone che abitano nel suo collegio e insieme ad altri sette colleghi ha firmato un documento contro i possibili tagli. Si tratta, poi, anche di una questione tattica: quando nel 2018 la sanità venne messa in discussione i repubblicani persero 28 seggi alle elezioni, e sarebbero proprio quei deputati, eletti in collegi poveri e non a stretta maggioranza repubblicana, i primi a subire le conseguenze. 

Si è quindi evidenziata una netta distanza tra due ali del Partito, che non rispecchia in modo congruo la divisione tra repubblicani centristi e movimento MAGA: infatti, i conservatori fiscali, che vorrebbero tagliare la spesa in sanità per ridurre il deficit, anche se afferiscono al Freedom Caucus, una corrente da anni più vicina a Trump, parlano come i repubblicani liberisti classici. Allo stesso modo, i critici dei tagli hanno l’appoggio, pur se indiretto, di figure del mondo alt-right come Steve Bannon, che hanno contribuito a costruire un nuovo Partito repubblicano con un bacino di voti non indifferente nella classe operaia bianca e sanno che tagliare queste voci di spesa vuol dire inimicarsi i propri elettori.

Un’altra linea d’attacco che i democratici cercano di perseguire più apertamente è quella della “crisi costituzionale”, soprattutto grazie al lavoro in Parlamento del senatore del Connecticut Chris Murphy, che ha iniziato a reagire apertamente allo svuotamento del potere legislativo operato dall’amministrazione utilizzando termini forti, sia in aula sia sui social, dove la sua presenza è sempre più massiccia. Per farlo, ha principalmente studiato i testi di riferimento della nuova destra, come quelli del filosofo Curtis Yarvin di cui abbiamo estesamente parlato su Valigia Blu. Le sue letture lo hanno convinto sin da subito della sostanziale illegalità delle mosse dell’esecutivo e per questo non ha esitato a definire il primo mese della presidenza Trump “un tentativo ostile di presa del potere”. L’attacco alle politiche di Elon Musk, che stanno decidendo in modo arbitrario la sorte di milioni di dipendenti federali, ha scioccato anche una gran parte di cittadini: l’associazione 50501, recentemente costituita per protestare contro l’amministrazione, è scesa in piazza alla stessa ora in tutti gli Stati e promette di farlo ancora. Si tratta della prima protesta organica su base nazionale che mobilita migliaia di persone.

Se, da un lato, abbiamo la protesta di molti cittadini su temi legati alle loro limitate capacità economiche, sempre più ridotte da questo primo mese di presidenza Trump, l’altro grande tema su cui alcuni democratici si muovono è la difesa dei diritti dei cittadini immigrati. Su questo ha ottenuto tantissima rilevanza, anche sui social network, la deputata di New York Alexandria Ocasio Cortez, che ha girato vari video in cui spiega alle persone quali siano i loro diritti durante i possibili raid dell’ICE, l’agenzia federale che si occupa di immigrazione. Per questo ha avuto un confronto diretto molto duro con Tom Homan, il cosiddetto “zar dei confini”, la figura dell’amministrazione Trump che si occupa di velocizzare i rimpatri. Homan ha minacciato azioni legali contro la deputata democratica in quanto “i membri del Congresso non dovrebbero spiegare alle persone come scappare dalle forze dell’ordine”, ma Ocasio Cortez ha ribadito sul punto, asserendo che rendere edotti gli individui dei loro diritti garantiti dalla Costituzione non è illegale.

Come analizzato, esistono personalità democratiche che si oppongono all’amministrazione, ma a livello mediatico la posizione comune è che il Partito sia spaesato. In parte è sicuramente così, dato che l’azione dei democratici continua ad avere bassi livelli di coordinamento ed è portata avanti da figure popolari che stanno trainando il Partito grazie al loro appeal. Nonostante questo, però, i democratici stanno cercando anche un nuovo modo di apparire a livello mediatico. Con l’arretramento sempre più visibile dei quotidiani, che dimostrano, come nei casi di testate come Washington Post e Los Angeles Times, di non voler attaccare Trump come venne fatto durante il suo primo mandato, e l’impossibilità di sfondare sui social media tradizionali al di fuori della propria bolla, come ha dimostrato l’attesa generata dalla campagna Harris che poi si è rapidamente sgonfiata, è tornata in auge l’idea di portare la propria voce all’interno del mondo dei podcast. Gavin Newsom, governatore della California e uno dei papabili candidati dei democratici tra quattro anni, sta lanciando un podcast di sua produzione in cui dialogherà con esponenti del mondo MAGA. L’idea è cercare di abbattere un ambiente mediatico costruito a compartimenti stagni, in cui democratici e repubblicani guardano e ascoltano cose diverse, facendo sì che aumenti la polarizzazione. È un’idea, quella di Newsom, che il governatore porta avanti sin dal 2022, quando chiedeva al Partito di confrontarsi coi repubblicani sul tema delle “culture wars”, prima che esplodesse la battaglia al “woke” che ha contraddistinto la campagna Trump l’anno scorso.

Infine, i democratici vogliono andare all’attacco già quest’anno in un’elezione che si preannuncia molto interessante: quella per la carica di governatore della Virginia. Nello Stato, entro i cui territori si trova il distretto di Columbia, e quindi la capitale Washington, risiedono circa 150.000 dipendenti federali e l’obiettivo è attaccare frontalmente i repubblicani sul caos che hanno generato nella burocrazia. Candidata dei dem è Abigail Spanberger, eletta deputata proprio con la grande vittoria democratica del 2018, che vuole combattere Trump dalla poltrona di governatrice. Si è notato, nel primo mese di presidenza, che per contrattaccare a ordini esecutivi incostituzionali è importante amministrare più Stati possibile, per rendere più solide le cause intentate: l’obiettivo è proprio quello di ottenere una vittoria in un anno in cui, non essendoci elezioni a livello federale, sulla Virginia si concentreranno le attenzioni della politica nazionale.

Un tour di distretti repubblicani, una manifestazione che coinvolge tutti gli Stati, un senatore che chiama in aula le cose col proprio nome, un’elezione fondamentale: tutti momenti importanti per costruire un’opposizione seria e coerente all’amministrazione Trump. I democratici sono ancora lontani da una linea comune, ma rispetto alle prime due settimane, quando il partito sembrava impotente rispetto a quello che stava avvenendo, oggi sembra aver ricostituito una combattività che lo aveva contraddistinto nel primo mandato: se questo basterà per fermare il piano di Trump e Musk di accrescere sproporzionatamente i poteri dell’esecutivo ai danni degli altri, però, è ancora presto per dirlo.

Immagine in anteprima: frame video KETV News Watch 7 via YouTube

Ucraina: “il rischio della pace”

Rilanciamo dalle pagine di Volere la Luna l’articolo di Domenico Gallo, pubblicando un ampio stralcio dello straordinario contributo del magistrato emerito  già presidente di sezione della Corte di cassazione, da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace , un intervento con il quale si fa chiarezza sulla crisi dei rapporti USA/UE insorta a seguito dell’apertura trumpiana del negoziato di pace con Putin, per porre fine alla guerra Russia/Ucraina dopo tre anni di distruzioni e sanguinosi lutti[accì]

Sembra incredibile ma è vero. Di fronte al negoziato intrapreso da USA e Russia con l’obiettivo di porre fine al più presto a una inutile strage perpetrata per tre anni, che ha causato – sui due fronti – oltre un milione di morti, sofferenze inenarrabili, devastazioni incommensurabili e che ci ha portato sull’orlo di un conflitto nucleare, le Cancellerie dei paesi europei, i vertici dell’UE, i leader politici e il sistema dei media mainstream, vivono la prospettiva della fine dei combattimenti come un disastro politico che scompagina tutti i loro piani. Piani che puntavano al prolungamento e all’escalation della guerra, fino al punto da considerare inevitabile un conflitto armato diretto con la Russia, al quale la NATO e l’UE a trazione baltica ci stavano preparando.

Certamente è sconvolgente il rapido cambiamento di rotta che Trump ha imposto a un indirizzo politico consolidato nel tempo che aveva attribuito alla Russia il ruolo del nemico da indebolire e da umiliare con sanzioni e guerre di logoramento. Se due potenze nucleari che hanno la capacità di distruggersi a vicenda e di distruggere il resto del mondo, dopo essersi combattute duramente per interposta persona (Ucraina), decidono di sotterrare l’ascia di guerra, questa nuova situazione dovrebbe essere accolta con entusiasmo, così come una volta, quando c’era la guerra fredda, fu accolto con un sospiro di sollievo l’accordo fra Kennedy e Kruscev che pose fine alla crisi dei missili a Cuba nel 1962. Fa specie la brutalità con cui Trump ha liquidato Zelensky attribuendogli la responsabilità di non aver impedito lo scoppio della guerra e di non averla fermata. In realtà Zelensky, pur essendo un attore comico, ha giocato il ruolo tragico che gli hanno attribuito Biden e la NATO; è stato un servitore fedele delle direttive ricevute d’oltreoceano. Adesso che il suo servizio non serve più, viene messo alla porta senza tanti complimenti. La stessa cosa succede ai camerieri europei della NATO che sono stati svergognati proprio da quella casa madre che avevano servito con “furore atlantico”, specialmente in Italia dove c’è stata una competizione fra il PD e la Meloni per la primazia sul sostegno militare (e politico) al governo Zelensky. «È disonesto affermare che l’Ucraina sia in grado di distruggere la Russia sul campo di battaglia e tornare a una situazione pre-2014», così si è espresso Marc Rubio qualche giorno fa a Bruxelles dinanzi agli attoniti atlantisti europei. Il nuovo Segretario di Stato non ha contestato ai leader europei una previsione sbagliata sull’andamento della guerra. Ha detto qualcosa in più: ha messo in evidenza la mala fede del dogma che ha fin qui guidato la politica europea e spinto l’Ucraina verso la propria autodistruzione.

Non possiamo dimenticare e non possiamo perdonare il coro di insulti che si levò nel marzo dell’anno scorso quando Papa Francesco esortò l’Ucraina ad aprire un negoziato per porre fine al prolungamento di una inutile strage: «È più forte chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca (…) Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà?». In perfetta malafede i disonesti leader europei hanno continuato imperturbabili a istigare l’Ucraina a combattere fino alla “vittoria”.

Ovviamente la svolta di Trump non è guidata dai sentimenti umanitari del Papa ma da ragioni di opportunità e di affari. Gli USA hanno ottenuto dalla guerra tutto quello che potevano ottenere e non hanno interesse a continuare un conflitto che non possono vincere. Hanno ottenuto una separazione netta dell’economia europea dalla Russia, hanno costretto l’Europa a sostituire il gas russo con quello americano che costa quattro volte di più, hanno ottenuto un forte incremento della spesa militare europea a tutto vantaggio delle industrie belliche americane. Adesso possono tirare i fili del debito estero creato dalla guerra e depredare l’Ucraina delle sue risorse minerarie, le cosiddette terre rare. Ciò non toglie che il ritiro degli USA dal sostegno alla guerra contro la Russia apra un capitolo positivo nella storia europea, ponendo finalmente termine a un orrendo spargimento di sangue fra popoli fratelli e al rischio di una nuova guerra mondiale. Al contrario, il viaggio a Kiev di Ursula Von der Leyen, scortata dal presidente del Consiglio europeo Antonio Costa e da Pedro Sanchez, per ribadire il sostegno politico e militare a Zelensky in occasione del terzo anniversario dell’invasione russa, ci fa capire che i vertici dell’UE non vogliono rassegnarsi alla fine della guerra, come quei soldati giapponesi che sono rimasti per quarant’anni nascosti nella giungla per continuare a combattere. In perfetta coerenza con questo orientamento di guerra ad oltranza il Consiglio esteri, presieduto da Kaja Kallas ha deliberato il sedicesimo pacchetto di sanzioni alla Russia.

Di fronte a queste novità sconvolgenti, non possiamo far finta di non vedere: è evidente che ci troviamo in una fase di passaggio d’epoca, come lo fu – sotto altri aspetti – l’89, quando l’abbattimento del muro di Berlino segnò la fine della guerra fredda. Nelle fasi di passaggio si aprono grandi opportunità di cambiamento, ma bisogna coglierle al volo prima che gli orizzonti si richiudano di nuovo.

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Redazione Italia

Guerra in Ucraina, il Re è nudo

Gli eventi degli ultimi giorni, e in particolare il drammatico faccia a faccia tra Trump e Zelensky, hanno riportato alla ribalta la difficoltà di sciogliere il nodo della guerra in Ucraina.

Paradossalmente il presidente Usa si presenta oggi come colui che può chiudere il conflitto, ma chiede in cambio mano libera nello sfruttamento delle risorse del paese che i suoi predecessori hanno generosamente finanziato.

Con la brutalità che caratterizza il suo linguaggio, Trump dichiara esplicitamente che l’interesse economico statunitense sta alla base delle sue scelte politiche, senza ammantarle delle giustificazioni moralistiche utilizzate dai suoi predecessori, come l’esportazione o la difesa della democrazia.

Qualche giorno fa, a Catania, si è parlato di guerra e in particolare di Ucraina, alla Camera del Lavoro, in occasione della presentazione della campagna nazionale “Centomila no alle guerre”, a cura dell’associazione “Il coraggio della pace”.

All’evento è stato invitato l’ex magistrato ed ex senatore della Repubblica Domenico Gallo, che da tempo sostiene con fermezza – anche se non la pacatezza che lo contraddistingue – una sua lettura di questa guerra.

Sulla base della ricostruzione storica dei rapporti esistenti tra Usa e Unione Sovietica (sostituita poi dalla Federazione Russa), e dell’evoluzione subita dalla Nato, Gallo individua come momento di svolta la decisione dell’amministrazione Clinton di rilanciare – infrangendo la promessa fatta a Gorbaciov – la Nato nei paesi dell’Est europeo.

Da allora gli eventi sono precipitati fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che Gallo considera un enorme errore politico oltre che una violazione del diritto internazionale.

Nell’introdurre la discussione Luca Cangemi, come scrive Pinella Leocata, ha sottolineato che con le dichiarazioni di Trump si è determinato “un terremoto politico all’interno del quale precipita anche la crisi italiana con la posizione del Presidente Mattarella grave dal punto di vista storico e politico”, ma anche la possibilità di ottenere quantomeno un cessate il fuoco.

Paradossalmente, l’Unione Europea, all’interno della quale è prevalso il partito unico della guerra, guarda a questa prospettiva con sgomento e terrore, come se il numero dei morti, di una guerra che ricorda i conflitti del passato, e in particolare il primo conflitto mondiale, non avesse ampiamente superato anche le più negative delle previsioni.

La guerra non sarebbe dovuta scoppiare, ricorda Gallo, “perché è la questione dell’allargamento della Nato all’Ucraina che ha costituito il casus bellicome riconosciuto dallo stesso Segretario generale della Nato. Infatti, nel corso di una audizione al Parlamento europeo, il 7 settembre 2023, Stoltenberg, ha ammesso che la Russia voleva trattare, precisando che il blocco di ogni ulteriore allargamento della Nato ‘era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina’. Ebbene, pur di poter piantare la bandierina della Nato in Ucraina, gli Usa e gli stolti leader europei, hanno preferito la guerra al negoziato e se ne sono pure vantati”.

Nella convinzione che la Russia non avesse né la forza militare, né quella economica (grazie anche alle sanzioni europee) per sostenere un lungo conflitto, nel quale, peraltro, anche gli ucraini hanno mandato al massacro la propria gioventù.

Conseguentemente, in tante risoluzioni del Parlamento Europeo si è costantemente ribadito che i confini ucraini avrebbero dovuto comprendere Crimea e Donbass e che per ottenere questo obiettivo era necessaria una fornitura costante di armi, sottraendo, inoltre, ingenti somme alle spese sociali e contribuendo alla crisi economica della stessa Unione, costretta -tra l’altro – a sostituire il gas russo con quello americano che costa quattro volte di più.

Nel frattempo, quasi tutti i mezzi di comunicazione denunciavano come putiniani tutti coloro che si opponevano alla guerra, e prospettavano l’esistenza di una minaccia russa che solo la Nato poteva contrastare, altrimenti ‘i russi sarebbero arrivati sino in Portogallo’…

Non sorprende, quindi, che le ultime prese di posizione degli Usa abbiamo decisamente spiazzato gli europei. “Il 12 febbraio – ha sottolineato Gallo – Hegseth ha rovesciato i dogmi che hanno guidato fin qui il partito unico della guerra con due osservazioni fulminanti. Primo: ‘Dobbiamo iniziare a riconoscere che il ritorno ai confini dell’Ucraina precedenti il 2014 è un obiettivo irrealistico’. Secondo: ‘Gli Stati Uniti non credono che l’adesione alla Nato per l’Ucraina sia un risultato realistico di una soluzione negoziata”.

Si è così finalmente aperta, nonostante l’opposizione dell’Unione Europea, la strada del negoziato che, ricordiamo, era stata esclusa per legge da Zelensky. Un percorso iniziato dopo centinaia di migliaia di morti, nonostante già nel novembre del 2022 “il gen. Mark Milley, aveva considerato che ‘nessuna delle due parti, né Ucraina né Russia, era in grado di vincere la guerra’ e aveva ammonito che, ‘il conflitto poteva concludersi soltanto attraverso un tavolo negoziale”.

Secondo Gallo “Le parole del Segretario alla Difesa americano, non ci dicono nulla che non sapessimo già ma svelano l’inganno costruito dai camerieri della Nato ai vertici delle Nazioni europee e dell’Unione europea e ci rivelano l’indecenza e la disonestà di una politica fondata sul miraggio di una vittoria promessa, che tutti sapevano irrealizzabile. Il Re è nudo”.

Anche per questo bisogna mobilitare l’opinione pubblica, in maggioranza favorevole alla fine del conflitto, a fronte di un Parlamento italiano quasi all’unisono per la guerra, perché, coerentemente con la nostra Costituzione, si ponga fine alla demonizzazione del ‘nemico’ e si avvii un percorso di pace.

argocatania

Redazione Sicilia