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2025

Stato di diritto con tribunali speciali

Da oltre un anno assistiamo sgomenti all’ennesimo genocidio della storia umana contro la popolazione inerme di Gaza e Cisgiordania. Secondo il ministero della salute palestinese, dall’8 ottobre 2023 al 19 gennaio 2025, le persone morte sono state 46.913 (di cui circa il 60% donne, anziani e bambini) e 110.750 quelle ferite. A questi si aggiungano le 186.000 vittime indirette causate dalla guerra, una infinità di persone traumatizzate psicologicamente, soprattutto giovanissime e infanti. Oltre a un elevato numero di dispersi ancora sotto le macerie. Dati non definitivi, purtroppo.

Un anno e mezzo di sistematica distruzione, ha privato il territorio di Gaza di qualsiasi risorsa e infrastruttura indispensabile alla sopravvivenza. Un vile blocco degli aiuti umanitari alla popolazione si è protratto per molti mesi. E’ recentissimo l’avvio dello scambio di prigionieri politici e ostaggi, sotto l’egida di una fragile tregua costantemente in pericolo a causa di azioni e reazioni belliche da tutte le parti.

La devastazione provocata dai bombardamenti israeliani, ha dato linfa alle solite speculazioni imprenditoriali. Le motivazioni addotte da Israele di “lotta al terrorismo” e “diritto alla difesa” hanno anche permesso agli USA di testare nuove strategie di offese diplomatiche.

Questa guerra di annichilimento ha toccato la sensibilità della società civile in diversi Paesi, trasformando rapidamente l’ondata di sdegno in un forte movimento di solidarietà verso il popolo palestinese.

In Italia, il tentativo di molti mass-media e forze politiche di screditare il movimento “pro-Pal” e la tiepida opposizione hanno permesso al governo di reprimere impunemente ogni espressione di dissenso popolare. Non soltanto per imprimere alla politica interna un sempre maggiore autoritarismo anti libertario di stampo neofascista, ma anche per difendere gli interessi delle lobby impegnate nella cosiddetta “economia di guerra”. Inoltre l’azione di governo ha dimostrato una acquiescente obbedienza al più becero imperialismo made in USA (e quindi anche made in Israele).

Questa sudditanza appare chiaramente nel clima di intimidazione verso chiunque voglia scendere in piazza, con violente cariche sui manifestanti, arbitrari fermi di polizia, fogli di via e arresti, fino a prendere corpo plasticamente nella spinosa vicenda giudiziaria di Anan Yaeesh.

Originario di Tulkarem, nella Cisgiordania occupata, Anan, 37 anni, ex-prigioniero politico di Israele, vive e lavora a L’Aquila dal 2017 come cittadino straniero sottoposto a protezione internazionale. Questo status gli è stato concesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Foggia, sulla base del Rapporto delle Nazioni Unite redatto dalla Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese.

Pur non avendo commesso reati nel territorio italiano, il 27 gennaio 2024 Anan è stato fermato dalla DIGOS con l’accusa, mossagli da Israele, di appartenere ed essere finanziatore delle Tulkarem Brigade, una formazione armata che riunirebbe giovani provenienti dalle varie fazioni della Resistenza palestinese, da Hamas a Fatah.

Malgrado non sussistano elementi a suffragio della misura cautelare, la Corte di Appello aquilana ne ha disposto comunque l’arresto temporaneo a scopo di estradizione e dal 29 gennaio 2024 Anan viene trattenuto in carcere.

Il provvedimento è risultato illegittimo secondo il diritto internazionale, lo Statuto delle Nazioni Unite, la Convenzione di Ginevra e i due Protocolli aggiuntivi, poiché basato più sui rapporti diplomatici tra Italia e Israele che non sulla giurisprudenza. Così, nel marzo 2024, la Corte d’Appello de L’Aquila ne ha decretato la revoca.

Non volendo mollare “la preda”, le autorità israeliane ne hanno richiesto l’estradizione. L’istanza è stata respinta in quanto l’ordinamento giuridico italiano non la prevede quando, come in questo caso, “vi è ragione di ritenere che l’imputato o condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori oppure a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona. L’estradizione non viene altresì concessa per reati politici, per motivi di razza, religione o nazionalità o per reati puniti all’estero con la pena di morte”.

Due giorni prima della revoca della custodia cautelare disposta dalla Corte d’Appello, Yaeesh è stato raggiunto da una nuova ordinanza di carcerazione preventiva con l’accusa di terrorismo ed è stato rinviato a giudizio insieme ai suoi coinquilini, Ali Irar e Mansour Doghmosh.

Successivamente, previo ricorso dei suoi legali (avv. Flavio Rossi Albertini e Stefania Calvanese) la Corte di Cassazione e il Tribunale della Libertà ne hanno ordinato il rilascio in attesa di processo.

Nello stesso mese lo stato israeliano ha poi ritirato la richiesta di estradizione.

Ma le peripezie giudiziarie di Anan Yaeesh sono proseguite con un terzo provvedimento di custodia cautelare dell’aprile del 2024.

A luglio 2024, per Ali Irar e Mansour Doghmosh, è stata annullata la carcerazione preventiva con rinvio in Corte d’Appello, ma la sesta sezione penale della Cassazione ha confermato, invece, la carcerazione nei confronti di Yaeesh. Misura confermata anche nell’udienza preliminare del processo a suo carico, tenutasi il 26 febbraio 2025 davanti al gup Guendalina Buccella del Tribunale de L’Aquila.

Oltre a questi avvenimenti, nella loro particolare successione e tempistica, è importante sottolineare soprattutto due passaggi compiuti dalle autorità italiane in questa vicenda.

Primo: non essendo in possesso di sufficienti elementi utili all’istruttoria processuale, gli inquirenti italiani hanno richiesto a Israele di collaborare alle investigazioni (scelta degna di nota considerando il clima a dir poco persecutorio nei confronti dei palestinesi da parte del governo israeliano).

Secondo: Anan Yaeesh si è autodefinito “resistente palestinese e comandante partigiano” e ha richiesto di non consegnare alle autorità israeliane il suo telefono, contenente informazioni in suo possesso in quanto tale. Il governo italiano ha pensato bene di fare esattamente il contrario, mettendo così a repentaglio l’incolumità sua e di altre persone in Palestina.

La coincidenza tra le richieste fatte da Israele e la tempistica dei provvedimenti giudiziari emessi dalla magistratura italiana per l’avvio di questo processo, evidenziano la spregiudicatezza con cui il potere costituito muova le pedine dell’esecutivo e del sistema giudiziario come armi repressive e persecutorie in difesa di interessi particolari e geopolitici, piuttosto che nell’interesse della giustizia stessa. Il rinvio a giudizio con l’accusa di terrorismo nei confronti di Anan Yaeesh, infatti, assomiglia molto ad un escamotage dittatoriale per ovviare al rigetto della richiesta di estradizione, nonostante le evidenti violazioni dei suoi diritti possano legittimare addirittura un processo per complicità con Israele in crimini di guerra e contro l’umanità.

L’utilizzo repressivo e persecutorio dei processi giudiziari ai danni degli oppositori politici riporta la mente a più tristi e sanguinari anni della storia d’Italia. Con le offensive reazionarie sempre più lampanti come il ddl sicurezza o la separazione delle carriere, che tendono a rafforzare e accentrare il potere, è impossibile non ravvisare i presupposti di un sistema sempre più autoritario, di una violenta escalation neofascista che tanto si ispira all’istituzione di un tribunale speciale per la difesa dello Stato.

Questa democratura potrebbe spalancare un’autostrada ad una nuova dittatura clericofascista e guerrafondaia che sarebbe difficile da contrastare, se non mediante il risveglio di una coscienza sociale critica e consapevole, un movimento che si indirizzi compatto verso la creazione di una società finalmente libertaria, inclusiva, laica, equa e mutualistica, basata su principi etici di pace e armonia tra i popoli.

‘Gnazio & Melitea

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TEORIA CRITICA E ANTISPECISMO POLITICO

Pubblichiamo questo contributo nell’ambito del dibattito sull’antispecismo che abbiamo aperto dietro stimolo del compagno Marco Celentano.

Dobbiamo dire comunque che non condividiamo il riferimento al materialismo storico, nell’accezione che gli hanno dato Engels e Marx. Al di là delle singole citazioni, più o meno condivisibili, i due intellettuali tedeschi si sono illusi di dare la propria base scientifica al comunismo facendolo derivare dallo sviluppo delle forze produttive che, con la dura logica dei fatti, avrebbe portato alla trasformazione dei rapporti di produzione. Questa concezione, essi ritenevano, avrebbe portato al superamento delle altre scuole socialiste e, una volta preso il potere, all’instaurazione del comunismo. Questa teoria è stata applicata nei paesi dove partiti marxisti hanno preso il potere e dovunque si è assistito ad un enorme sviluppo delle forze produttive, accompagnato al soffocamento di ogni autonomia della classe operaia. I rapporti di produzione si sono rivelati ben più radicati dei semplici rapporti di proprietà, la stessa logica dello sviluppo economico si è dimostrata incardinata negli stessi rapporti di produzione capitalistici, basata sullo sfruttamento e sul saccheggio dell’ambiente. Gli esperimenti basati sulla conquista del potere politico hanno portato ovunque, prima o poi, alla restaurazione del dominio della borghesia.

La prova del budino è nel mangiarlo, e il budino preparato dalla cucina marxista si è rivelato immangiabile.

 


La parola “teoria” deriva dal greco theorein, che significa “vedere, contemplare”, e tradizionalmente si basa sull’idea aristotelica di una verità che si svela come sguardo del soggetto su un oggetto. In questa visione classica, il soggetto è disinteressato, contempla un oggetto che è altro rispetto a sé.

La teoria critica, invece, rovescia questa prospettiva. L’aggettivo “critica” sottolinea la partecipazione del soggetto nella formazione dell’oggetto, rivelando che la conoscenza non è un’entità trascendente, separata dalla vita e dalle cose, ma è parte delle cose stesse che intende descrivere. Conoscere significa essere coinvolti: il soggetto è sempre ancorato a un corpo, e il corpo riporta alla materialità dei rapporti. La teoria critica è quindi un modo diverso per dire materialismo storico, poiché approfondisce il rapporto tra conoscenza e bisogni, restituendo alla conoscenza un valore intrinsecamente legato alla vita sociale.

La teoria critica si sviluppa come risposta alle crisi del Novecento, in particolare all’ascesa del fascismo e del nazismo. Fu elaborata dall’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, che dagli anni ’20 riunì filosofi, sociologi, psicologi, economisti in un approccio multidisciplinare. La Scuola di Francoforte cercava risposte nuove a una crisi radicale della razionalità occidentale: l’incapacità di questa razionalità di opporsi al fascismo e, anzi, il fatto che lo avesse in parte favorito. Si trattava, dunque, di capire il legame tra irrazionalità europea e positivismo, o razionalità tecnocratica, che aveva caratterizzato lo sviluppo dell’Europa fino a quel momento.

La critica fu rivolta anche al marxismo sovietico, il cui fallimento e involuzione burocratica furono interpretati come sintomi del trionfo della ragione strumentale, “un germe regressivo” della civiltà occidentale, poiché limitata alla realizzazione dei fini, senza una finalità interna. In questa logica, la ragione diventa uno strumento per realizzare scopi che essa stessa non definisce, riducendosi a mero mezzo.

Questo ci porta alla teoria del dominio, elaborata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947). Essi descrivono il dominio come una costante della civiltà, un tentativo umano di dominare la natura esterna e quella interna, costruendo un soggetto padrone di sé e del mondo. Questo soggetto, però, per dominare la natura deve anche autodominarsi, reprimendo le proprie “pulsioni”: ma il disagio della civiltà, al contrario di ciò che intese Freud, ha carattere ultimamente auto-distruttivo.

Il dominio, infatti, implica la reificazione, ovvero la riduzione della natura e dell’umano a oggetti manipolabili. Nell’atto stesso di negare la propria animalità, l’uomo stabilisce un confine tra sé e l’altro, un confine che implica esclusione e alienazione. Ecco che il soggetto dominatore esclude da sé categorie come le donne, le altre razze, l’infanzia, la follia – tutte relegate ai margini della razionalità.

Il processo di reificazione trova il suo culmine nel capitalismo, in cui il capitale stesso diventa il fine assoluto della società, trasformando ogni scopo umano in funzione di sé stesso. Così, l’essere umano finisce per alienarsi, non potendo più riconoscersi in una civiltà che lo vede come parte della macchina sociale, dove il capitale è un fine informe, disumano, un buco nero che assorbe, mistifica e strumentalizza e alla fine mercifica ogni realtà “umana”.

Questa dialettica evidenzia un paradosso pratico, non teorico. Per costituirsi come umanità, l’uomo deve prima negarsi come entità separata dal resto del vivente. Ma l’umanità non è, né è mai stata un soggetto reale e separato: questa espulsione materiale e simbolica dell’animale lavora anzi a rendere impossibile la soggettività umana come libera autodeterminazione.

Il paradosso è che solo realizzandosi come soggetto l’umanità può superare la propria alienazione ed estraniazione dall’animalità dentro e fuori di noi. E solo abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione possiamo autodeterminarci, cioè divenire una collettività capace di relazionarsi liberamente con il resto del vivente. In altre parole, l’autodeterminazione – la capacità di “determinare se stessi” (autòs) – è il presupposto della nostra relazione libera con l’altro.

L’antispecismo richiede questo presupposto socialista. Solo costituendosi come classe, si può abolire se stessi in quanto “classe”. La classe non è qualcosa che si può decostruire, ma qualcosa che va abolito materialmente, poiché impedisce la costituzione dell’umanità come soggetto collettivo. La liberazione umana è il prerequisito della liberazione animale; senza socialismo, senza la negazione della classe, non è possibile una vera liberazione. In questo momento tutte le soggettività oppresse trovano accoglimento e possibilità di dispiegarsi: socialismo e antispecismo costituiscono il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni possibile emancipazione, perché definiscono il presupposto materiale e l’orizzonte di senso extra-umano in cui la vita sociale può dispiegarsi liberamente, senza oppressione e sfruttamento.

Abolire la classe, liberarsi dai rapporti strumentali del capitale, significa creare un mondo che consenta relazioni libere, e così ridefinire il confine tra umano e non umano. La teoria e la cultura dipendono da questo momento pratico: senza una rivoluzione nei rapporti di produzione, non è possibile ripensare l’umanità. Ogni tentativo di rifondazione priva di una base materiale si ridurrebbe a una mera speculazione.

Abolire la reificazione padronale del concetto di specie significa a sua volta aprire l’orizzonte della cultura all’impensato, convertire l’altro dalla civiltà dall’orrore e la fascinazione per ciò che è selvaggio e informe, in un processo aperto di relazioni nuove, non ancora definite.

Anche soluzioni come il “primitivismo” e il “transumanesimo”, che apparentemente sfidano i confini stabiliti, falliscono nel risolvere la questione alla radice. Il primitivismo immagina che questo processo di separazione dal resto del vivente sia di per sé distruttivo, ma ignora che proprio la distinzione è il presupposto per un rapporto con l’altro. La separazione ha permesso all’umanità di costituirsi come soggetto, una condizione indispensabile per articolare una relazione autentica. Dove c’è fusione, infatti, non c’è l’altro, ma solo una confusione indifferenziata. È la distinzione a rendere possibile il dialogo e la relazione.

Allo stesso modo, l’utopia tecno-scientifica, con la sua immagine di un soggetto ibrido, non offre una vera alternativa, poiché il soggetto ibrido non stabilisce una relazione con l’altro ma, ancora una volta, scivola verso una nuova forma di indistinzione. La sfida non è cancellare questa separazione tra umano e non umano, ma articolarla in una forma non gerarchica e non violenta. La civiltà, nella sua forma storicamente distruttiva, ha imposto una separazione, ma la soluzione non è eliminarla, bensì trasformarla in una relazione non dominativa, capace di integrare l’altro senza annullarlo.

Questa prospettiva richiede una razionalità diversa, inclusiva e non distruttiva, capace di riconoscere l’animalità negata al cuore dell’umano e di stabilire una relazione simbiotica e dialogica con il resto del vivente.

È importante sottolineare che la ragione è sempre oggettiva, è cioè una forma di vita collettiva, non è una funzione della mente umana. Emerge, si struttura a partire da un contesto pratico, è l’insieme delle nostre relazioni, incluse le relazioni che abbiamo con noi stessi, e il resto della natura. L’inganno della razionalità strumentale (la razionalità “soggettiva” moderna che nega l’esistenza di fini oggettivi, naturali, divini ecc. e traduce il sapere in metodo) è che essa invece realizza un mondo di rapporti reali in cui l’umano finisce per trovarsi irretito, incapace di agire in modo autonomo e alla fine, nel meccanicismo trionfante della tecno-scienza capitalistica, dissolto come soggetto libero.

In ultima analisi, solo se viene abolita la classe e liberata l’umanità dalla sfera della produzione capitalistica, diventa possibile estinguere quel concetto antropocentrico di umanità come soggetto separato dalla natura. Engels osserva che, nel socialismo, l’umanità per la prima volta diventa realmente se stessa, riuscendo a distinguersi dal resto del vivente non più attraverso fini parziali e strumentali, ma realizzandosi come universale. Tuttavia, questa realizzazione non implica un dominio su ciò che è altro da sé; anzi, Engels sostiene che il socialismo rappresenti anche il momento in cui l’essere umano impara, attraverso quella che egli chiama “la vendetta della natura sull’uomo,” a rinegoziare il proprio rapporto con essa.

Questa “vendetta della natura” è il risultato dell’uso della tecnica come se fosse separata dalla natura stessa. Nell’illusione di essere indipendente dalla natura, l’essere umano crea le condizioni per una crisi ecologica che lo costringe a riconoscere la propria interdipendenza. Proprio attraverso questa crisi, Engels sostiene, l’umanità impara a vedere la natura come ciò da cui proviene, sviluppando una consapevolezza di appartenenza che permette di percepirsi come parte di un tutto più grande.

Questo doppio movimento, in cui l’umanità si costituisce come un soggetto universale ma, al contempo, negozia il proprio rapporto con il vivente, è un elemento essenziale del materialismo dialettico. La dialettica non mira a cancellare la distinzione tra umano e natura, ma a trasformarla in una relazione in cui l’umano possa riconoscersi come parte di un tutto, abbandonando la logica di dominio e alienazione.

Questa prospettiva, fondata sulla liberazione sociale, è la base per l’antispecismo politico, che non si accontenta di una liberazione individuale o morale, ma punta a trasformare il sistema alla radice. Solo attraverso il socialismo è possibile rinegoziare la nostra posizione nel vivente e quindi porre le basi per una società diversa, in cui il concetto stesso di umanità si riconcilia con il resto del vivente, superando la logica del dominio e dell’estraneazione.

L’antispecismo politico si configura così come un’estensione della teoria critica, capace di sfidare le gerarchie imposte non solo tra gli esseri umani ma tra l’umanità e le altre forme di vita. Questo antispecismo non promuove un ritorno a forme arcaiche di società né una fusione indistinta con la natura, ma una trasformazione profonda della civiltà umana, in cui l’umanità si realizza come parte di una rete di relazioni non dominative, in grado di negoziare con l’altro senza annullarlo.

In questo quadro, l’idea stessa di progresso assume un nuovo significato: non più come conquista e sfruttamento della natura, ma come costruzione di una comunità ecologica e sociale basata sull’equilibrio e sul rispetto reciproco. Una società post-capitalista, fondata su rapporti di produzione liberi e non alienanti, una concezione della civiltà autenticamente universale, solidale e inclusiva.

Marco Maurizi

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Mentire con le statistiche: dati ISTAT e occupazione

A dicembre 2024 gli occupati, stando ai dati Istat, erano superiori a quelli di un anno prima, con un aumento di 274 mila unità e una crescita in percentuale del tasso di occupazione pari allo 0,3%. Per alcune fasce di età, specie i giovani, l’occupazione era invece in sostanziale decrescita e questo solo dato dovrebbe indurre a riflettere sul fallimento dei percorsi di formazione e orientamento, delle politiche attive in generale.

Ma si sa, da sempre, che le statistiche da sole non sono di aiuto specie se non riescono a distinguere tra occupazione stabile e precaria: pochissimi giorni di impiego annui vengono considerati alla stessa stregua di un contratto a tempo determinato pari a 3 mesi e perfino a uno indeterminato.

Ma ad onor del vero le rilevazioni di fine 2024 parlavano di piccola contrazione del lavoro autonomo, di vistoso calo del tempo determinato e ripresa dell’indeterminato quindi, alla luce di questi dati, ha forse ragione il governo Meloni a cantar vittoria?

La prima osservazione riguarda il numero degli anziani che trovano lavoro dopo averlo perso, il che induce a riflettere come la ricerca di personale specializzato da impiegare prontamente in ambito produttivo sia pur sempre l’opzione preferita ai processi, lunghi e costosi, di indirizzo, formazione e aggiornamento. Insomma, i posti di lavoro aumentano soprattutto nella fascia over 49 o tra gli under 30 dove le assunzioni presentano costi decisamente vantaggiosi per le imprese, tra sgravi fiscali, contratti di apprendistato e altro ancora.

Un po’ come accade con la mobilità nella Pubblica amministrazione, alla fine non si promuove nuova occupazione e permangono gli iniqui tetti di spesa in materia di personale che poi condannano la PA ad avere la forza lavoro più anziana, e tra le meno pagate in assoluto, della Ue.

C’è poi un’ulteriore considerazione che meriterebbe di essere studiata ossia i salari italiani che al cospetto degli altri nei paesi Ue calano da oltre 30 anni, un calo in potere di acquisto con i rinnovi contrattuali sempre al di sotto della inflazione. Dopo lustri, a forza di perdere potere di acquisto, il divario salariale italiano rispetto a quello Ue inizia a farsi preoccupante ma questa notizia non viene riportata perché non accresce la popolarità degli esecutivi.

E allora per giustificare politiche fiscali e lavorative fallimentari (la tassa piatta, la decontribuzione,    i contratti adeguati al codice Ipca che in tempi di crescita delle tariffe energetiche palesa tutti i suoi limiti) si stanziano risorse pari a un terzo della inflazione nella Pubblica amministrazione, si scambiano aumenti economici con benefit e continuo ricorso al welfare aziendale, si punta tutto sui contratti di secondo livello che rappresentano alla lunga un’arma a doppio taglio perché accrescono la produttività, alimentano le deroghe ai già inadeguati contratti nazionali e scambiano salario con servizi alle strutture private, il che alimenta la spirale dello smantellamento dei servizi pubblici.

Torniamo, per chiudere, sugli occupati ma non prima di avere evidenziato due criticità ossia l’imminente riconversione di parte dell’industria a fini di guerra che porterà certo un incremento occupazionale, come accadde negli Usa e nella Germania di un secolo fa. E ammesso, ma non concesso, che produrre armi sia una soluzione, non viene spiegato che a guadagnarci saranno non i lavoratori e le lavoratrici ma le multinazionali del settore che hanno visto crescere i loro titoli azionari del 50% in pochi mesi, a conferma che la spirale speculativa-finanziaria è complementare ai processi di militarizzazione.

Un anno fa, quando si parlava di riconversione dell’economia a fini green, analisti e statistici davano per scontato che la perdita occupazionale sarebbe stata rilevante, i cantori del nuovo mondo sono sovente poco avvezzi a fare i conti con la vita reale.

Secondo il report di Exclesior e Unioncamere “Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2024-2028)” nei prossimi tre anni i lavori più richiesti saranno quelli di alto profilo, come dirigenti, specialisti e tecnici. Ma tra numeri chiusi per l’accesso a molte facoltà universitarie, politiche attive del lavoro carenti e inefficaci, business della formazione con poche ricadute positive, siamo certi di essere capaci di rispondere positivamente a queste sfide? La tendenza degli ultimi anni, con gli stages scuola lavoro, è stata spesso quella di impiegare per settimane studenti in lavori di bassa manovalanza (sottraendoli a ore di insegnamento), quando era stata decantata una nuova era nella quale i giovanissimi avrebbero imparato un lavoro acquisendo competenze da spendere dopo il diploma. Pochi sono i posti di lavoro creati in questi anni dagli stages scuola lavoro e sovente a tempo determinato.

Chiudiamo con il rapporto tra immigrazion e occupazione: gli stranieri in Italia sono circa 2,5 milioni e rappresentano circa il 10 per cento del totale degli occupati, con un tasso di occupazione identico a quello degli autoctoni ma con innumerevoli attività lavorative meno pagate. In un paese nel quale il permesso di soggiorno è legato ad un contratto di lavoro sovente accade di accettare condizioni retributive non dignitose, ed è per questa ragione che un crescente numero di migranti oggi presenta una coscienza di classe maggiore di quella degli italiani specie nei magazzini della logistica.

Permane poi la cosiddetta disparità di genere: le donne migranti hanno tassi di occupazione (47,5%), disoccupazione (15,2%) e inattività (43,8%) sensibilmente peggiori rispetto agli uomini. Lo stesso discorso, pur con percentuali differenti, vale anche per donne e uomini italiane, sia sufficiente ricordare che i posti da coprire per gli asili nido sono pari al 15% dei bambini e delle bambine sotto 3 anni quando la media europea è sopra il 33 per cento. E a rimetterci sono soprattutto le donne alla ricerca di un impiego: qui entrano in gioco altri fattori come la inadeguatezza del welfare, fermo alle famiglie monoreddito e con una popolazione sempre più vecchia. Ma di questo, e di molto altro, parleremo in un’altra occasione.

Federico Giusti

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Edilizia scolastica. Ordinario abbandono e lotte dal basso

La situazione dell’edilizia scolastica in Italia è drammatica. Lo testimonia l’esperienza quotidiana di chi nella scuola studia e lavora, ma lo riportano anche i dati ufficiali, che non riescono a nascondere questa evidente realtà. Secondo quanto si legge nel rapporto “Ecosistema scuola 2024”, una scuola su tre ha problematiche gravi di sicurezza che riguardano questioni strutturali: impianti elettrici, solai, certificati di agibilità mancanti. Una situazione che oltretutto ribadisce il divario esistente a livello territoriale, poiché se al Nord la situazione è un po’ migliore, al Sud solo il 22,6% delle scuole ha la certificazione di agibilità. Ricordiamo che quando parliamo di certificazioni di agibilità si fa riferimento principalmente all’antincendio è all’antisismico: non stiamo parlando quindi solo di muri scrostati o pareti da ridipingere, elementi che pure sarebbero importanti, ma di questioni di ben altro rilievo per la sicurezza. E allora diamo qualche altro parametro ufficiale più specifico.

A livello nazionale, il 57,68% degli edifici scolastici è sprovvisto del certificato di prevenzione incendi e il 41,50% non ha il collaudo statico. Da notare, a proposito di quest’ultimo dato, che quasi la metà delle scuole italiane si trova in zona sismica 1 e 2.

Tra il settembre 2023 e il settembre 2024 sono stati registrati 69 episodi di crolli negli edifici scolastici, raggiungendo la punta più alta degli ultimi sette anni. Ovviamente si tratta di eventi importanti, tali da essere registrati e divulgati nelle statistiche ufficiali. Non va dimenticato infatti che le istituzioni scolastiche, strette nel ricatto del tetto di iscrizioni da raggiungere per mantenere l’ autonomia didattica e amministrativa, nascondono talvolta le varie problematiche per millantare una sicurezza ed una efficienza che spesso non c’è. I dati ufficiali sui crolli quindi, come quelli relativi alle tante problematiche occasionali che purtroppo sono la quotidiana normalità, quali allagamenti, infiltrazioni, infissi, corto circuiti etc. corrispondono esclusivamente a quanto dichiarato, e rappresentano verosimilmente un numero inferiore alla realtà dei fatti. In un quadro generale di inadeguatezza strutturale pesante, sono assai carenti infatti sia gli interventi straordinari, in carico agli enti locali- comuni per le scuole primarie e medie, province per le scuole superiori- sia gli interventi straordinari. Per non parlare di veri e propri investimenti edilizi e costruzione di edifici scolastici nuovi: qui siamo nella nebbia totale! Eppure le occasioni non sono mancate e le risorse neppure. Durante il periodo Covid le esigenze di sicurezza e di distanziamento avevano indotto a reclamare piani edilizi adeguati per la ripresa dell’attività didattica in presenza e in generale per il futuro. A dispetto di tutto ciò, le gigantesche risorse PNRR intervenute sulla situazione post Covid sono state e sono tuttora una gigantesca beffa e un’occasione di dissipazione di risorse esistenti, finalizzate esclusivamente a quello che è solo un grande business. Pochissime le risorse destinate all’edilizia, al risanamento e alla messa a norma delle scuole, così come alla costruzione di nuovi edifici. Quelle poche sono state poi ulteriormente ridotte in ragione degli aumenti dei costi dei materiali edilizi. Ci troviamo così di fronte ad una situazione paradossale in cui fiumi di denaro sono stati riservati agli ambienti di apprendimento, intesi come arredi e ambienti digitali, mentre pochissimo è andato a finanziare le esigenze di ambienti fisici e reali che restano fatiscenti

L’ennesima beffa, in ordine di tempo, è rappresentata dall’edizione “Didacta 2025”, megaevento nazionale organizzata dal Ministero Istruzione e Merito proprio in questo mese di marzo nell’ambito degli “Interventi PNRR per l’edilizia scolastica”. Ma di cemento e mattoni nemmeno l’ombra. Corsi, seminari sviluppo di linee guida per la gestione dei nuovi ambienti digitali e didattici, accordi con la Protezione civile per campus e interventi formativi che trasformino gli studenti in “ambasciatori della cultura del rischio” e che diano ai docenti una “competenza spaziale” per meglio organizzare gli spazi didattici. Ogni commento è superfluo.

Intanto gli edifici scolastici sono lasciati nel degrado e la mancanza di sicurezza è pane quotidiano. Ma c’è chi non si rassegna a questa situazione e si batte per la reale sicurezza degli ambienti di studio e di lavoro, quelli fisici e concreti. Lo fanno studenti, lavoratori della scuola, genitori.

Di seguito l’intervista ad Andrea, un genitore delle scuole Micheli Lamarmora di Livorno, in cui si sta svolgendo una protesta che per sistematicità e continuità d’intervento è diventata una vera e propria vertenza cittadina

D: Quali sono problemi della struttura scolastica frequentata dai tuoi figli?

A: I problemi non nascono certo oggi. Le scuole Micheli-Lamarmora si trovano in piazza XI maggio, in un quartiere popolare di Livorno, e sono da sempre ospitate in un edificio molto grande e storico, costruito a fine 1800, col secondo piano realizzato nei primi decenni del ‘900. Una struttura quindi che, come è logico, ha risentito degli “acciacchi” dovuti al tempo. Le consistenti infiltrazioni di acqua piovana, presenti fino dal 1990, portarono nel 2019 al crollo dei solai in 5 spazi del secondo piano, comprendenti aule, locali mensa e bagni. All’epoca l’intervento istituzionale se la cavò chiudendo le aree pericolanti e promettendo lavori a breve. L’incuria non fece che peggiorare i problemi che progressivamente si verificarano: sbriciolamenti di solai, distacchi di pezzi di intonaco dentro e fuori l’edificio, tavole di legno della mantovana para-sassi che cadevano da un’altezza di 20, 30 metri (la mantovana para-sassi era un’impalcatura fissa posta sotto il cornicione del tetto e serviva come strumento di protezione da eventuali cadute di parti del tetto, salvo poi diventare anch’essa fonte di pericolo). Tutte cose che noi genitori verificavamo senza averne informazione ufficiale. Decidemmo perciò di attivarci, visto l’immobilismo dei dirigenti comunali e scolastici, e creammo il nucleo del gruppo genitori Micheli-Lamarmora. Con il nostro ormai storico striscione “i bambini sono il futuro, mettiamoli al sicuro”, che ci ha accompagnato anche nelle mobilitazioni più recenti, organizzammo presidi sotto il Comune di Livorno, portando in piazza la nostra protesta e facendola conoscere alla cittadinanza. La nostra vertenza fu corredata da un esposto inviato alla Procura della repubblica di Livorno e ai Vigili del Fuoco in cui puntualmente riportavamo gli eventi critici della struttura. L’esposto fu vergognosamente rifiutato dalla Procura per una questione formale, ma fu preso in carico dai Vvf che fecero un’indagine da cui scaturì che l’edificio era agibile a patto che iniziassero i lavori, cosa che finalmente portò il Comune ad attivarsi. Era il 2019. Fu un trionfo per noi, una vittoria figlia della nostra determinazione che anche in quel caso fu accusata di tutto: di aver diffamato la scuola, di aver creato allarmismo inutile, addirittura di aver fatto delle segnalazioni uscendo dalle nostre competenze! La verità è che decisivo per smuovere le cose, come sempre, fu il metodo dal basso , quello che abbiamo seguito anche ora.

D: Veniamo al periodo più recente. Spiegaci le problematiche legate alla fase attuale

A: Nel febbraio 2023 viene decisa la chiusura dell’edificio scolastico per lavori di ammodernamento antisismico legati allo stanziamento di quasi 4 milioni di euro. Fu perciò avviato il progetto di moduli prefabbricati provvisori in cui collocare le classi nel parco delle mura lorenesi. I genitori furono coinvolti, portati a visitare l’area e le strutture modulari. I sopralluoghi furono soddisfacenti, considerata la provvisorietà della situazione, ma subito dopo la collocazione delle classi nei moduli i problemi sono emersi: oltre alla mancanza di suppellettili, problemi di riscaldamento e problemi di forte rumore, in quanto i divisori tra le aule sono sprovvisti di materiale insonorizzante. Un disagio generale con ripercussioni sulla didattica che abbiamo denunciato da subito, insieme alle maestre, ma che la dirigenza scolastica come al solito ha minimizzato, ricorrendo anche alle minacce verso le stesse maestre. A queste problematiche, col sopraggiungere della pioggia si sono aggiunte poi le infiltrazioni e l’umidità.

D: Quindi quali azioni avete intrapreso ?

A: Le infiltrazioni di acqua nei moduli si sono fatte sempre più consistenti col maltempo, senza che i lavori di riparazione occasionali fossero efficaci, dimostrando così l’inadeguatezza delle strutture, che pure erano state programmate e non allestite in modo improvvisato per una emergenza imprevista. Da mesi facevamo segnalazioni scontrandoci con l’ostinazione insensata dell’amministrazione comunale di Livorno nel non voler traferire le alunne e gli alunni in strutture sicure e dignitose. Il Comune di Livorno avrebbe dovuto operare diversamente, senza che noi genitori ci mobilitassimo, ma evidentemente dinamiche politiche a noi sconosciute hanno determinato una situazione di stallo insostenibile, di fatto pericolosa e insalubre per i nostri figli e anche per il personale scolastico.

Di fronte a una situazione talmente paradossale abbiamo iniziato a reagire. Ci siamo perciò nuovamente organizzati come genitori, sfruttando la rete di collegamento che avevamo dal 2019. Il gruppo di lavoro composto dalle rappresentanti di classe e dal rappresentante dei genitori al Consiglio d’Istituto ha formato una delegazione che si è recata una prima volta in Comune a inizio febbraio per evidenziare in modo forte i problemi di infiltrazione presenti nei moduli. Successivamente abbiamo avviato una raccolta firme dei genitori che ha avuto grandissima adesione, tutto questo mentre continuavamo a spingere per far fare lavori risolutivi nei moduli.

D: Quali risposte avete ricevuto?

A: Le risposte alle nostre segnalazioni sono sempre state tese a banalizzare le nostre rimostranze e ad accusarci di inutili allarmismi. Il disco che girava era sempre il solito: la scuola è sicura, è tutto sotto controllo ecc. Un comportamento quindi negazionista della realtà e da un certo punto di vista inquietante, se si pensa che stiamo parlando di bambini piccoli e che alcuni di loro sono disabili.

D: La vostra protesta poi come si è concretizzata?

A: Nonostante gli interventi sui moduli, che finalmente eravamo riusciti ad ottenere dopo molte pressioni e un oggettivo intensificarsi delle problematiche, si è verificata una forte pioggia che ha allagato ancora di più classi, corridoi, palestra e bagni. Il 24 febbraio abbiamo fatto quindi la prima chiamata ai Vigili del fuoco, i quali hanno interdetto due aule della scuola primaria (l’acqua andava direttamente su canaline e interruttori). Neanche in questo caso il Comune ha preso decisioni concrete sul da farsi, appoggiandosi sul fatto che i vigili hanno definito le strutture non soggette a crolli. Come se la prevenzione sulla sicurezza si basasse esclusivamente sui mancati crolli. In seguito a quanto accaduto e ai mancati interventi risolutivi, Il 28 febbraio abbiamo fatto quindi il primo sciopero, raccogliendo un’adesione quasi del 90%. I bambini non sono entrati a scuola, non hanno partecipato alla lezione, fuori dalla struttura è stato fatto un presidio partecipatissimo con striscioni e presenza della stampa, che ha dato molto risalto alla nostra iniziativa.

Successivamente, il 12 marzo, in seguito ad un altro nubifragio, si sono nuovamente allagati gli spazi dei moduli, ancora di più rispetto alle volte precedenti. Nuova chiamata ai Vigili del fuoco che hanno interdetto tre aule della primaria, la palestra e tre aule dell’asilo. Il Comune in questo caso non ha più potuto far finta di niente ed ha trasferito le classi dell’infanzia Lamarmora nella scuola Volano del quartiere Corea, lasciando però i bambini e le bambine della primaria nell’acquitrino dei moduli. Una decisione per noi inaccettabile che ha fatto scattare il secondo sciopero nella giornata del 13 marzo (anche in questo caso adesioni del 90%) e la manifestazione sotto il Comune di Livorno. Siamo stati immediatamente ricevuti nella sala consiliare. Un momento memorabile e bellissimo per quanti eravamo tra genitori, figlie e figli. Abbiamo riempito la sala! Dopo le parole “amichevolmente istituzionali” siamo passati ai fatti, accusando di colpevole ritardo l’interessamento comunale sugli allagamenti delle scuole. L’indignazione e la rabbia, già elevata, è salita quando -dopo il nostro intervento- le figure istituzionali insistevano nel definire la scuola sicura, affermando che la primaria non sarebbe stata trasferita col pretesto che gli alunni della primaria erano troppo numerosi. Non ci siamo scoraggiati e abbiamo scandito insieme ai nostri figli il coro “vogliamo essere trasferiti!” davanti ai rappresentanti degli enti decisori e alla stampa che ha ripreso tutto. Non sono riusciti ad invisibilizzarci. E alla fine siamo riusciti ad ottenere il trasferimento

D: Alla fine quindi c’è stato un riconoscimento del problema da parte dell’amministrazione comunale?

A: In realtà solo grazie al clamore che abbiamo provocato sono stati costretti a riconoscere il problema per intero, disponendo anche il trasferimento delle classi della primaria. E questo evidentemente è quello che ai dirigenti pesa di pù. Il 14 marzo la Dirigenza scolastica ci ha comunicato in modo laconico e senza minimamente ravvisare il nostro impegno: “viste le condizioni meteorologiche e considerato che ci sono lavori in corso da parte della ditta Interguest che incontra ostacoli per le condizioni meteorologiche avverse si comunica che con l’Amministrazione comunale si è concordato il momentaneo trasferimento delle classi in altre sedi scolastiche a partire da lunedì 17 marzo (…) si assicura altresì che la Ditta sta lavorando e continuerà a lavorare fino alla risoluzione delle criticità legate alle infiltrazioni per cui auspichiamo un rientro in tempi breve nella nostra sede di via Villa Glori.” Si è voluto approfittare dell’allerta arancione per disconoscere le vere motivazioni che hanno indotto il trasferimento. Ma noi sappiamo bene che è stata la nostra lotta, la nostra determinazione come genitori ma anche come cittadine e cittadini, che ha spostato l’elemento decisionale nelle mani del buonsenso. Cosa che dovrebbe avvenire sempre.

D: Come intendete procedere?

A: Continueremo a seguire da vicino sia la questione moduli che i lavori nella sede storica di piazza XI maggio. Il comportamento dell’Amministrazione comunale e della Dirigenza scolastica non lascia spazio a una fiducia degna di questo nome. Il trasferimento, tanto per fare un esempio, sta già chiamando a nostre nuove prese di posizione sul servizio scuolabus, che vogliono garantire solo per l’infanzia ma non per la primaria. Il nostro grado di attenzione è quindi massimo. Non cederemo neanche di un millimetro per quanto riguarda i diritti delle nostre figlie e dei nostri figli. Ci auguriamo infine che la nostra lotta ma anche la coesione e il metodo che ci sta contraddistinguendo venga seguita da altre realtà scolastiche. Una storia, la nostra, che, fra le altre cose, mostra come l’elemento istituzionale non rappresenti il modello di gestione della società adeguato, soprattutto quando le cose si fanno difficili.

Andrea Paolini e Patrizia Nesti

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SIAM MALFATTORI ! Illegalismo ed elettoralismo al tramonto dell’Internazionale

Al suo apice, l’Internazionale era sufficientemente imponente nella sua militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano che doveva essere distrutta.

Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli si insediarono come primo ministro e ministro dell’interno nel marzo 1878: il loro governo è universalmente considerato il più liberale dall’unificazione. Nel discorso tenuto nel suo collegio elettorale di Iseo nel 1878, in cui formulò la strategia del governo, Zanardelli condannò l’Internazionale per aver diffuso insegnamenti che erano “la negazione di tutti i diritti e della morale” e che trovavano “convertiti pronti e pericolosi” tra i “meno istruiti” delle moltitudini. In pratica, la tolleranza liberale si estendeva solo ai rispettabili radicali della classe media, come gli irredentisti repubblicani, non certo agli operai rivoluzionari aderenti all’Internazionale. Il doppio standard poliziesco e giudiziario sarebbe rimasto vivo e vegeto per decenni.

La campagna di repressione che il nuovo governo liberale avrebbe scatenato contro l’Internazionale veniva giustificata nel dibattito parlamentare e sugli organi di stampa da una serie di atti terroristici commessi in Italia e all’estero. Questa campagna denigratoria contribuì a cristallizzare l’immagine che lo Stato liberale aveva evocato davanti agli occhi della borghesia italiana negli ultimi anni: gli anarchici come pericolosi sociopatici. Sebbene questi attentati non fossero collegati, le autorità italiane – sempre suscettibili di teorie del complotto – erano convinte che l’Internazionale avesse ordito un complotto per assassinare i capi di Stato d’Europa.

Il 28 dicembre 1878 papa Leone XIII promulgò l’enciclica “Quod apostolici muneris”, condannando la “pestilenza mortale che serpeggia nei recessi più reconditi della società e la porta all’estremo pericolo della rovina”; cioè “la setta di coloro che, con nomi diversi e barbari, si definiscono socialisti, comunisti e nichilisti”. L’enciclica metteva a disposizione l’enorme potere e prestigio della Chiesa nella lotta contro il socialismo, in cambio del ripristino da parte dello Stato di “quella condizione di libertà con la quale può efficacemente diffondere le sue benefiche influenze a favore della società umana”. Radicato nella comune paura del socialismo, il riavvicinamento tra Chiesa e Stato in Italia era iniziato.

Alla fine di dicembre del 1878, mentre da ogni pulpito si lanciavano anatemi contro la “pestilenza del socialismo”, il nuovo governo di Agostino Depretis ordinò una nuova ondata di arresti che coinvolse quasi tutti i leader anarchici ancora in libertà, per poi passare a colpire la base. Una circolare del ministero dell’Interno notificò a tutti i prefetti del regno che l’intento del governo era quello di distruggere la setta internazionalista, raccomandò che tutti i membri dell’Internazionale fossero posti sotto ammonizione e di vigilare attentamente per coglierli in violazione e deferirli all’Autorità competente”.

Il governo era convinto che l’applicazione diffusa dell’ammonizione avrebbe spezzato l’Internazionale, specialmente se – come notò il capo della polizia di Firenze – l’Autorità Giudiziaria si persuadesse una volta per tutte che gli aderenti alla setta non dovevano più essere considerati un partito politico, ma un insieme di malfattori. La polizia intraprendente non ebbe difficoltà a inventare una serie di accuse – linguaggio volgare, associazione con persone sospette, sospetto di furto e altri crimini contro la proprietà e le persone – per intrappolare un individuo preso di mira. E per condannare un anarchico per “contravvenzione alla ammonizione”, bastava scoprirlo mentre parlava con un altro compagno. Centinaia di anarchici caddero vittime dell’ammonizione in questo modo.

Il 16 febbraio 1880 la Corte di Cassazione di Roma stabilì che un’associazione internazionalista composta da cinque o più persone costituiva un’associazione di malfattori ai sensi dell’articolo 426 del codice penale. La sentenza della corte è stata una testimonianza del pregiudizio sociale della classe dirigente italiana; essa afferma apertamente che l’internazionalismo è solo una maschera sotto la quale si nasconde il malfattore comune. Le sentenze delle corti di Cassazione ebbero l’effetto di spogliare gli anarchici di ogni status giuridico di sovversivi politici e di esporli a tutto il peso della repressione statale come presunti malfattori. Nei successivi vent’anni – grazie all’insidia ineludibile fornita dall’articolo 426 (poi 248) del codice penale – il reato di costituire un’associazione di malfattori – divenne il randello con cui il governo colpì il movimento a suo piacimento. Migliaia di anarchici furono condannati al carcere e al domicilio coatto non per atti illegali e nemmeno per l’intenzione di commetterli, ma unicamente per le idee che professavano.

Nel 1880, tuttavia, le decisioni delle alte corti fornirono solo un tardivo colpo di grazia. Le precedenti ripetute ondate di arresti di massa, i molti mesi trascorsi in detenzione preventiva in attesa del processo, la completa impossibilità di svolgere attività politica derivante dall’ammonizione e la crescente diaspora di leader e militanti che sceglievano l’esilio piuttosto che la prigione avevano già avuto il loro pedaggio. La Federazione Italiana dell’Internazionale non esisteva più come organizzazione vitale.

Alla fine degli anni 70 dell’Ottocento l’anarchismo italiano era già in profonda crisi a causa soprattutto della repressione governativa. Negli anni successivi, tre fattori si combinarono per aggravare la crisi e impedirne la soluzione: la paura della persecuzione, ancora più intimidatoria ora che gli anarchici erano stati ufficialmente bollati come malfattori; l’esilio di leader chiave, in particolare Cafiero e Malatesta, capaci di energizzare e guidare; il dissenso e il caos causati dall’adozione da parte di Andrea Costa della tattica elettorale. Come risultato di questa crisi prolungata, il movimento anarchico conobbe una significativa trasformazione e declino tra il 1879 e il 1883, le cui caratteristiche più salienti furono la demoralizzazione, la paralisi generale dell’attività e la disintegrazione.

La debolezza organizzativa e l’estremismo ideologico stavano rapidamente diventando una funzione l’uno dell’altro, non sorprenderà quindi che proprio quando il movimento era meno capace di intraprendere un’azione diretta, gli appelli alla violenza fossero più frequenti. Questi appelli erano lanciati da anarchici veterani che erano diventati estremisti intrattabili, trasformati spiritualmente e intellettualmente dalla persecuzione, dalla sconfitta e dalla disillusione che avevano sofferto. Nella loro rabbia e frustrazione, percependo di essere in guerra non solo con lo Stato ma con l’intera società, questi anarchici divennero apostoli della violenza.

Articolando un approccio post-internazionale all’attività rivoluzionaria, in cui piccoli gruppi – ciascuno operante autonomamente come una cellula clandestina ma uniti dal loro unico scopo di violenza contro l’ordine costituito – questi apostoli della violenza avrebbero intrapreso continue guerriglie e atti terroristici contro persone e proprietà. Attentati come quello di Agesilao Milano al re borbonico Ferdinando II, o come quello di Felice Orsini all’imperatore Luigi Napoleone, facevano parte della venerata tradizione rivoluzionaria che il movimento internazionalista aveva ereditato dalla democrazia radicale. Finché l’Internazionale aveva mantenuto una parvenza di organizzazione e di vitalità, la teoria e la pratica rivoluzionaria avevano sempre enfatizzato l’insurrezionalismo, mentre il terrorismo rimase un fenomeno raro nel movimento anarchico italiano. Tra il 1880 e il 1881, tuttavia, l’apologia del terrorismo come strategia rivoluzionaria preferita divenne un luogo comune in molti circoli anarchici, specialmente tra gli esuli che avevano sofferto di più a causa delle persecuzioni e che erano sconvolti dai recenti eventi in Italia, soprattutto per la mancata rivolta delle masse. Gli atti di violenza individuale o clandestina di gruppo sembravano ormai l’unica opzione disponibile, l’unica alternativa alla completa impotenza. L’anarchismo italiano nel 1881 era sulla buona strada per diventare atomizzato, poiché sia i leader che la base rifiutavano i centri, le commissioni di corrispondenza, i piani generali e una miriade di altre attività associate all’organizzazione, tutto in nome dell’antiautoritarismo e della libera iniziativa. La rivolta permanente auspicata da Carlo Cafiero non divenne mai un programma d’azione per l’anarchismo italiano negli anni ’80 dell’Ottocento: era uno stato d’animo, che offriva sostentamento psicologico ai ribelli intransigenti bloccati spiritualmente e moralmente in una lotta impari contro lo stato e la società borghese.

Malatesta non condivideva la crescente avversione nei confronti dell’organizzazione del movimento ed era destinato a trovarsi in contrasto con molti vecchi compagni per i quali un’organizzazione nazionale affidabile rappresentava una minaccia autoritaria. Una forte opposizione alla proposta di Malatesta si fece sentire ancor prima della convocazione del congresso di Londra.

Circa quarantacinque delegati, che pretendevano di rappresentare cinquantamila membri, sessanta federazioni (esistenti principalmente sulla carta) e cinquantanove gruppi individuali, si riunirono a Charrington Street, a Londra, dal 14 al 20 luglio 1881. Erano presenti alcune delle figure più illustri dell’anarchismo: Malatesta, Merlino, Kropotkin, Louise Michel, Emile Gautier, Nicholas Chaikovsky, Johann Neve, Joseph Peukert. Erano rappresentate le tre correnti ideologiche del movimento in Europa e negli Stati Uniti: comunisti anarchici, collettivisti anarchici e individualisti. Il famigerato Serreaux, che fu poi accertato essere una spia, era un partecipante attivo e un portavoce non ufficiale dell’ala terroristica del movimento. L’anarchismo in tutta Europa aveva sperimentato più o meno le stesse avversità che avevano trasformato il movimento italiano e reagiva in modo simile: paura di persecuzioni, risposta esagerata ai leader disertori o inattivi (Brousse in Francia e Guillaume nel Giura) e disillusione per i progressi compiuti dal socialismo legalitario. Ad eccezione della Spagna, le grandi federazioni nazionali che comprendono le associazioni dei lavoratori si sono disintegrate o sono diventate inattive. Ciò che rimaneva era un insieme amorfo di piccoli gruppi legati solo dai loro ideali e da un comune timore dell’organizzazione. Il disincanto nei confronti delle classi lavoratrici per non essersi ribellate era ormai diffuso anche nel movimento anarchico. Così, piuttosto che continuare a sperare in sollevamenti popolari, la loro fede veniva riposta nell’attentato. La dinamite e il pugnale avrebbero sicuramente scosso l’ordine esistente. Date queste condizioni e atteggiamenti, quindi, la probabilità che il congresso di Londra potesse resuscitare un’organizzazione pubblica su larga scala basata sulle associazioni operaie era nulla. Il dibattito congressuale confermò tali premesse: preferendo rimanere ermeticamente chiusi nella loro torre d’avorio, per timore che fosse contaminato dall’autoritarismo, i delegati anarchici sacrificarono l’Internazionale sull’altare dell’autonomia locale e della libera iniziativa. Il congresso di Londra si concluse quindi con una sepoltura, non con una resurrezione. Da allora in poi, l’Internazionale si affacciò sulla scena europea solo come una sinistra apparizione, perseguitando politici e poliziotti soggetti a incubi di cospirazioni mondiali.

Errico Malatesta e Francesco Saverio Merlino, che non favorirono mai il terrorismo e lo censurarono negli anni ’90 dell’Ottocento, non si opposero al cambiamento di strategia rivoluzionaria in questo periodo, almeno non pubblicamente. Così il movimento mancava di un efficace contrappeso al nuovo estremismo. La loro attenzione in quel periodo era piuttosto concentrata a combattere il socialismo legalitario, che si era avvantaggiato del tradimento di Andrea Costa.

Da un punto di vista di classe, terrorismo ed elettoralismo si equivalgono.

Mentre l’anarchismo ha come scopo la liberazione delle masse sfruttate da parte delle stesse masse, “l’emancipazione degli operai deve essere opera degli operai stessi” era scritto nel Preambolo degli statuti dell’Associazione Internazionale dei lavoratori), il terrorismo e l’elettoralismo affidano questa emancipazione a ristrette minoranze che libererebbero le masse senza un’attiva partecipazione da parte di queste ultime; l’uno con la violenza, l’altro con la scheda elettorale. Probabilmente sia Errico Malatesta che Francesco Saverio Merlino ritenevano la tattica elettorale più pericolosa, anche sul piano dei principi, rispetto alla pratica terrorista. Solo più tardi si resero conto che anche il terrorismo (il ravacholismo come si diceva allora) si poneva al di fuori del perimetro anarchico. Ma era ormai troppo tardi: le tendenze antiorganizzatrici, illegaliste, di disprezzo della lotta immediata si erano radicate all’interno del movimento e fu necessario un lavoro lungo e paziente per ricostituire una tendenza classista e organizzatrice.

 

Tiziano Antonelli

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Disarmiamo la guerra! Antimilitaristi contro la Città dell’Aerospazio

Torino. 23 marzo. Visita a sorpresa al cantiere della Città dell’Aerospazio in corso Marche, dove, da circa un mese sono cominciati i lavori di demolizione della palazzina 27 della ex Alenia – Aermacchi. 

Un manichino insanguinato, scritte, fumogeni, cartelli che ci ricordano le vite rubate dalle bombe, dalle armi, dalle guerre. Guerre tra potenti che si contendono risorse, potere, indifferenti alla distruzione di città, alla contaminazione dell’ambiente, al futuro negato di tanta parte di chi vive sul pianeta. 

Le macerie sono solo buoni affari per un capitalismo vorace e distruttivo che ha una sola logica, quella del profitto ad ogni costo. Uomini, donne, bambine e bambini sono solo pedine sacrificabili in un gioco terribile, che non ha altro limite se non quello imposto dalla forza di oppress e sfruttat, che si ribellano ad un ordine del mondo intollerabile. 

Mentre l’Europa – e il mondo – accelerano una folle corsa al riarmo è sempre più necessario mettersi di mezzo, inceppare gli ingranaggi, lottare contro l’industria bellica e il militarismo.

No al nuovo polo bellico di Leonardo e Politecnico! 

Non contino sulla nostra rassegnazione! 

Come gocce continueremo ad alimentare la marea che li sommergerá.

Lo dobbiamo a chi, ogni giorno, muore per le armi che si progettano e costruiscono a due passi dalle nostre case. 

Lo dobbiamo a chi viene massacrato, in Congo, in Sudan, in Ucraina, a Gaza, Siria… Lo dobbiamo a chi muore lungo le frontiere che separano i sommersi dai salvati. 

Lo dobbiamo a chi non ci sta, a chi lotta contro gli Stati, i confini, i nazionalismi. 

Non esistono popoli oppressi, perché la nozione di popolo è alla radice di ogni nazionalismo, di ogni trappola inventata dai potenti per arruolare i corpi e le coscienze. 

Noi non appoggiamo di nessun popolo, noi sosteniamo oppresse e oppressi di ogni dove.

Noi siamo fianco di chi diserta. Noi siamo disertori di tutte le guerre. 

La guerra è a due passi dalle nostre case: fermiamola!

 

Assemblea Antimilitarista

antimilitarista.to@gmail.com

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Bilancio n.8/2025

Bilancio n. 8

ENTRATE

PAGAMENTO COPIE

ROMA C.Bizzoni €100,00

CARRARA Gruppo Anarchico Germinal €120,00

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ABBONAMENTI

ROMA F.Carlizza (cartaceo+gadget) €65,00

MARSAGLIA C.Lauer (cartaceo) €55,00

GENOVA P.Reppa (cartaceo+gadget) €65,00

CASTEL GANDOLFO G.Macchia (pdf+gadget) €35,00

MODICA Galleria La Veronica (cartaceo+gadget) €65,00

LIVORNO G.M.Casini (cartaceo+gadget) €65,00

CASTELNUOVO GARFAGNANA R.Dario (cartaceo) €55,00

CASTELNUOVO GARFAGNANA R.Dario (pdf) €25,00

REGGIO CALABRIA G.Marcianò (cartaceo) €55,00

ROMA G.Falcone (pdf) €25,00

BOLZANO K.Mosele (pdf) €25,00

SERRA SAN BRUNO F.Codeluppi (quattro abb. cartacei+gadget) €260,00

SORRENTO M.Caliri (pdf) €25,00

SARZANA M.Secchiari (cartaceo) €55,00

CALENZANO G.Focardi (cartaceo) €55,00

URI G.Ortu (cartaceo) €55,00

ARSAGO SEPRIO M.Moroni (cartaceo) €55,00

Totale €1.040,00

ABBONAMENTI SOSTENITORI

FINALE EMILIA C.Valmori €80,00

MILANO A.Piccitto Zelaschi a/m FAM €80,00

Totale €160,00

SOTTOSCRIZIONI

ROMA G.Anello €20,00

A.Piccitto Zelaschi a/m FAM €20,00

BELLINZONA La Voce Libertaria €3.111,39

PADERNO DUGNANO I.Giussani €50,00

TORINO R.Gallocchio €30,00

BOLZANO K.Mosele €10,00

Totale 3.241,39 €

TOTALE ENTRATE €4.661,39

USCITE

Stampa n° 7 -€611,00

Spedizione n° 7 -€370,63

Spese tecniche gennaio-febbraio 2025 -34,98

Spese banco posta dic24-feb 25 -€111,54

Spese paypal ottobre-febbraio -€148,84

TOTALE USCITE -€1.276,99

saldo n. 8 €3.384,40

saldo precedente €14.647,29

SALDO FINALE €18.031,69

“Un ringraziamento particolare a* compagn* de “”La voce libertaria”” per la loro generosa donazione.”

IN CASSA AL 12/03/2025 €19.870,43

Da Pagare

Stampa n° 8 -€611,00

Spedizione n° 8 -€370,63

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Bilancio n.9/2025

ENTRATE

PAGAMENTO COPIE

TARANTO C.Cassetta €110,00

Totale €110,00

ABBONAMENTI

ESTE A.Degan (pdf) €25,00

FOLIGNO S.Viola (cartaceo+gadget) €65,00

FERRARA M.Marzocchi (pdf+gadget) €35,00

GAVINANA M.Guerrini (cartaceo) €55,00

POZZOMAGGIORE T.Pala (cartaceo+gadget) €65,00

BERLINO V.Cerasani (pdf) €25,00

GENOVA F.Novara (cartaceo+gadget) €65,00

PADOVA M.Mavolo (cartaceo) €55,00

VICENZA R.Comito (cartaceo) €55,00

LIVORNO C.Galatolo (cartaceo) €55,00

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ABBONAMENTI SOSTENITORI

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SOTTOSCRIZIONI

POZZOMAGGIORE T.Pala €15,00

TARANTO C.Cassetta €10,00

BERLINO V.Cerasani €10,00

GENOVA F.Novara €35,00

FOLLONICA F.Bucci a/m F.Schirone €40,00

Totale €110,00

TOTALE ENTRATE €800,00

USCITE

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Spedizione n° 8 -€370,63

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saldo n. 9 -€181,63

saldo precedente €18.031,69

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IN CASSA AL 19/03/2025 €19.493,45

Da Pagare

Stampa n° 9 -€611,00

Spedizione n° 9 -€372,10

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Tra REMS, carceri e CPR

Violenze e abusi di Stato

Disumano sovraffollamento, abuso di psicofarmaci, altissimi tassi di suicidio e continue violenze da parte delle guardie verso detenut3. Questo è lo scenario italiano nei CPR e nelle carceri, mentre i nuovi manicomi stanno pian piano riaprendo in forma privata, alle spalle della legge Basaglia. Signor3, vi presento il lavoro a pieno regime del governo in camicia nera e del trio della morte Meloni-Nordio-Schillaci!

Partiamo prima da alcune considerazioni generali su salute mentale e carceri. Le sottilissime e dispotiche linee delineate dalla medicina, dagli stati, dalle chiese e dalla società tra comportamento normale e anormale, criminale e legale, malvagio e retto, accettabile o no, sono tra gli strumenti oppressivi più importanti del biopotere su cui si regge gran parte del sistema in cui viviamo e contro cui gli anarchici saranno sempre scettici e antagonisti.

Negli anni il potere ha sempre cercato di definire e categorizzare gli esseri umani così da poter avere un controllo su di loro perché, se io decido cosa e chi sei, allora io ho il controllo su di te, sulla tua anima, sul tuo corpo, sulle tue azioni e pure sul tuo territorio, e sarò solo io a decidere se siano accettabili o no i tuoi comportamenti e punirti o premiarti di conseguenza. Così, questo sistema ha contribuito fortemente a mettere esseri umani gli uni contro gli altri, uomini contro donne, bianchi contro neri, cristiani contro musulmani, ecc… Queste linee oppressive definiscono i contorni e le forme delle nazioni, delle città, dei corpi, delle menti, fino ad arrivare a definire quali emozioni siano accettabili e quali no.

Così, con questo chiaro intento dell’oppressore di mettere gli esseri umani dentro scatole sempre più piccole, sia fisiche che mentali, negli anni la medicina e, in particolare, la psichiatria di Stato si è adoperata a fare la sua parte e a ridefinire sempre di più la normalità, in una narrativa tutta a favore della classe dominate. Tra gli esempi più classici e più razzisti della medicina psichiatrica abbiamo la “drapetomania” (la mania di fuggire), un presunto disturbo mentale descritto dal medico statunitense Samuel Cartwright nel 1851, caratterizzato dai continui tentativi di fuga degli schiavi afroamericani dalle coltivazioni. Davvero non ci si capacitava come queste persone volessero a tutti i costi scappare dai loro padroni! Cose da pazzi!

La psichiatria è stata sempre usata per favorire strutture di categorizzazione di tendenza razzista e fortemente politicizzata in favore del dominatore di turno. Troviamo le figure degli psichiatri militari e accademici in tutte le colonie francesi, inglesi, italiane e anche sioniste/israeliane a giustificare la violenza dell’occupazione. Apre a Betlemme il primo manicomio nel 1922 sotto il regime britannico, che introduce per la prima volta pratiche psichiatriche coercitive per studiare la mente “indigena” e i suoi presunti deficit. Nel 1948 fu la volta dell’apertura di Kfar Shaul Mental Health Center, in seguito al massacro di Deir Yassin. In questo ultimo caso, i coloni sionisti crearono una struttura psichiatrica in alcune delle abitazioni che i palestinesi dovettero abbandonare. Come le prigioni, anche gli ospedali psichiatrici sono delle priorità per poter portare avanti il progetto fascista di colonizzazione dei corpi e delle menti, sia in “pace” che in guerra.

Più o meno nello stesso periodo storico, nel 1952, prende vita in America (e poi in tutto il mondo) il mostro a quattro teste: il DSM, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (voluto da quattro grosse istituzioni americane) considerato ancora oggi la bibbia dei professionisti della salute mentale. Per intenderci, lo stesso manuale che fino al 1974 (DSM-II) considerava l’omosessualità un disturbo mentale!

Questo manuale, operando apparentemente su piani diversi, ma in realtà con scopi molto simili, in parallelo allo sviluppo e l’ampliamento continuo del Codice penale e civile negli ultimi sessant’ anni, definisce sempre di più e con maglie sempre più strette, il normale dal patologico, il permissibile dal non. Così, come il numero di reati si fa sempre più grande, aumenta anche il numero di diagnosi di salute mentale che passano da 106 nel 1952 (DSM-I), a 297 nel DSM-IV TR, fino a ben 370 con l’ultimo DSM IV TR (2022). In contemporanea, solo negli ultimi 2 anni sono stati introdotti 24 nuove fattispecie di reato penale in Italia.

Paul Goodman (psicoterapeuta anarchico) negli anni Ottanta spiegava bene che in questa società malata, alienante e oppressiva sia i crimini che i problemi di salute mentale non sono altro che due facce della stessa medaglia. Riteneva il legame tra criminalità e sintomi di salute mentale profondamente intrecciato con le circostanze sociali, sostenendo che molti giovani nel provare ad adattarsi alla disumana realtà manifestano i loro problemi attraverso comportamenti che la società spesso criminalizza, anziché capirli come reazioni ad un disagio sociale e psicologico più profondo. Ma il fattore comune determinante di tutte le problematiche di salute fisica e mentale, come pure di quelle legate ad atti “criminali”, è sempre e solo lo stesso: la povertà.

Allora, guardiamo un po’ la situazione in Italia riprendendo statistiche dell’Associazione Antigone: al momento, abbiamo circa 62.000 detenut3 su un totale di circa 48.000 posti (tutta da discutere la questione legata a come e su che basi l’ingegneria biomedico-sociale possa decidere di quanti metri quadri minimi abbia bisogno una persona per sopravvivere senza impazzire). Arriviamo a tassi di sovraffollamento anche del 184%, con una media nazionale del 145%. La corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato già più volte l’Italia, con un costo finanziario e morale. Molte persone sono convinte che senza le carceri avremmo pericolosissimi criminali in giro (al pari di Berlusconi, Trump e Netanyahu?) e invece non è così, perché moltissim3 sono in carcere per reati minori, il 33% ha pene inferiori ai 5 anni e il 70% è in attesa di giudizio. Alcune persone spesso sono in carcere in seguito a episodi isolati che non rispecchiano la loro vera natura o carattere. Per non parlare poi degli errori giudiziari. Inoltre, circa il 32% sono considerat3 tossicodipendenti, e il 76% sono malat3, affette da condizioni fisiche e psicologiche/psichiatriche (o meglio, psicosociali).

Ci vengono a dire che le prigioni “rieducano”, e invece no, anzi! Abbiamo un tasso di recidiva del 70% circa, non c’è nessuna riduzione di “criminalità”. Per chi durante la detenzione viene inserit3 in percorsi educativi, formativi e attività professionalizzanti la recidiva crolla drasticamente, ma queste realtà sono estremamente rare in Italia e comunque anch’esse sono in parte coercitive. Il carcere non è un deterrente neanche per i giovani, i quali, come gli adulti commettono “reati” sulla base delle loro condizioni di vita, marginalità, violenza, ingiustizie e povertà. Neanche per i minorenni il giustizialismo fascista si arresta, sebbene i reati dei minori negli ultimi dieci anni non siano cresciuti il numero di minori in detenzione sia aumentato.

Consideriamo ora la situazione dei detenuti stranieri e del razzismo delle carceri. Il carcere, oltre ad essere il simbolo vivente della violenza dello Stato è anche la rappresentazione fisica del razzismo. Nei centri di detenzione del Trentino il 61% sono stranieri, in Valle D’Aosta il 60%, in Liguria il 52%, in Lombardia il 45%, ma nella popolazione italiana gli stranieri costituiscono solo il 9%. Un simile fenomeno di disparità statistica lo si registra anche nelle carceri minorili.

Passando ad esaminare suicidi e uso di psicofarmaci, nelle carceri nel 2024 si sono registrati 88 suicidi su 243 decessi; 70 nel 2023; 85 nel 2022; 70 nel 2021. Sempre nel 2024, 1.800 detenut3 hanno cercato di togliersi la vita. Le condizioni disumane e disumanizzanti, il sovraffollamento, le continue violenze carcerarie, la poca speranza per il futuro, così pure la mancanza di supporto psicosociale sono enormi fattori di rischio che portano le persone all’ultimo atto estremo di dissenso e liberazione, il suicidio. Inoltre, nelle carceri si usano da sempre quantitativi preoccupanti di psicofarmaci di vario tipo, come ulteriore mezzo di controllo e contenimento senza un reale monitoraggio o piano terapeutico clinico. In particolare c’è un chiaro abuso dei seguenti farmaci:

Nozinam (fortissimo “antipsicotico” levomepromazina) che crea anche allucinazioni e viene spesso dato a persone con dipendenze; non ha alcuna efficacia terapeutica, ma serve solo a sedare. Molto usato anche il Rivotril – clonazepam – benzodiazepina, un “antipsicotico”, che tra gli effetti collaterali conosciuti ha anche quello di portare a comportamenti suicidari. Abbiamo poi Valium – diazepam – benzodiazepina –, quando le benzodiazepine sono sconsigliate dall’OMS perché portano velocemente a forme di dipendenza da queste. E infine vi è un largo impiego di stabilizzanti dell’umore vari, sotto il nome di SSRI (inibitori selettivi del reuptake di serotonina).

In questi istituti penitenziari che sono quasi ospedali psichiatrici, dove circa il 40% delle persone detenute soffre di problemi di salute mentale, spendiamo circa 2 milioni di euro l’anno in psicofarmaci, mentre le strutture che dovrebbero supportare le persone con “diagnosi psichiatriche”, le REMS (i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari), hanno una lista di attesa di circa 750 persone.

Abbiamo poi i costi di queste strutture detentive. Ogni detenut3 costa circa 140 euro al giorno, 8 milioni al giorno in Italia complessivamente, circa 3,3 MILIARDI l’anno! Tutti questi soldi tuttavia non servono per il mantenimento de3 detenut3 perché quasi il 95% della somma è usata per mandare avanti l’ISTITUZIONE TOTALE carceraria (stipendi, auto, ecc…).

Mentre il contratto sociale con lo Stato prevede che l’esistenza di questo sia giustificabile sulla base della protezione verso i cittadini, è in realtà evidente, oggi e nella storia, che tutti gli Stati sono abusanti e violenti verso i loro cittadini. Mettendoci in continuo pericolo economico, portandoci in situazioni belliche, lasciando che multinazionali inquinino i territori in modo irreparabile con rischi enormi per l’ecosistema, appoggiando costantemente le industrie del farmaco invece che favorire la prevenzione, svendendo beni comuni a favore di privati senza scrupoli. Le carceri sono l’esempio più evidente del fatto che sono gli Stati i veri serial killer, i violentatori e gli stupratori seriali, attraverso contesti di “rieducazione” basati sulla repressione, sull’alienazione, sulla violenza, sulla paura e sul contenimento fisico e biopsicologico. Dobbiamo superare l’idea che gli Stati con i loro strumenti siano i salvatori e i protettori dei cittadini! Tutte le carceri vanno chiuse adesso!

 

Gabriele Cammarata

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Manifesti strappati. La polemica su Ventotene

L’attacco di Giorgia Meloni al Manifesto di Ventotene nel corso del dibattito alla Camera sul tema del piano di riarmo europeo ha avuto il merito di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica su un documento politico che, probabilmente, non sono in molti a conoscere.

Nelle ore successive al durissimo scontro che si è consumato in aula tra deputati di maggioranza e opposizione, moltissime testate ne hanno riportato ampi stralci o, addirittura, lo hanno pubblicato per intero.

Il Manifesto di Ventotene andrebbe letto, dall’inizio alla fine, per diversi motivi. Intanto, è sempre utile e interessante accostarsi al frutto di una elaborazione politica e teorica maturata nel drammatico contesto della seconda guerra mondiale e delle persecuzioni subite dagli antifascisti che lo redassero. In secondo luogo, è opportuno sapere di cosa si sta parlando specialmente adesso che il tema dell’Europa e del suo ruolo politico nello scenario internazionale sta animando il dibattito in Italia, anche e soprattutto per via della manifestazione europeista dello scorso 15 marzo (a tal proposito rimandiamo alla lettura dell’ottimo articolo di Massimo Varengo pubblicato in prima pagina su Umanità Nova n. 8 del 23/03/2025).

«Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto» – questo il titolo originale – è, in realtà, un testo profondamente incompreso. Tanto incompreso quanto strumentalmente utilizzato, nel corso dei decenni, per finalità che poco o nulla hanno a che fare con la visione ideale e politica dei suoi estensori: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Tre antifascisti di diversa estrazione ma tutti e tre accomunati da una postura radicalmente eterodossa e originale rispetto alle grandi narrazioni ideologiche del loro tempo e alle rispettive famiglie politiche di riferimento. È per questo che il loro Manifesto viene spesso definito come un documento visionario: concepire ed elaborare nelle sofferenze del confino, in piena guerra e in un momento in cui le sorti del conflitto sembravano arridere al nazismo e al fascismo, l’idea di un’Europa unita e federale che superasse e archiviasse per sempre la centralità degli stati-nazione, fu un atto estremamente coraggioso e lungimirante. Si voleva scardinare, infatti, tutto quello che fino a quel momento aveva creato i presupposti per l’affermazione dei totalitarismi e della carneficina bellica: il nazionalismo, il militarismo, l’autoritarismo fondato sulla volontà di sopraffazione. E furono sottoposte a profonda revisione critica anche le tradizionali formule con le quali intraprendere la trasformazione sociale in senso egualitario. Effettuando uno scarto teorico assolutamente inedito, gli estensori del Manifesto individuarono una nuova faglia che sarebbe stata necessaria, dopo la fine delle ostilità, a individuare la vera frattura tra posizioni conservative e posizioni progressiste: non più il maggiore o minore grado di democrazia o socialismo da istituire, ma la maggiore o minore disponibilità a impegnarsi per la creazione di un «solido stato internazionale».

È evidente che noi anarchici non abbiamo mai condiviso, né mai potremo farlo, un impianto ideologico di questo tipo, fondato comunque sull’esistenza di strutture statuali benché federaliste o sovranazionali. Il nostro è un federalismo libertario dove lo stato non c’è perché cede il passo a comunità autogestite che cooperano liberamente. Tra l’altro, la parola “anarchia” ricorre un paio di volte in quel testo con una connotazione neanche troppo positiva, e gli stessi anarchici confinati a Ventotene espressero a Ernesto Rossi tutte le loro perplessità, pratiche e teoriche, di fronte all’idea di un grande stato europeo. Ma non è questo il punto.

Ci preme piuttosto sottolineare, da anarchici, che non ci è mai sfuggito il valore intrinseco di quella proposta politica finalizzata, comunque, a sparigliare le carte da molti punti di vista. Una proposta alimentata da un afflato internazionalista che, di fatto, non ha mai trovato realizzazione e che, anzi, fu soffocato sul nascere appena finita la guerra con la divisione del mondo in blocchi.

E allora, diciamo le cose come stanno. Nonostante lo consideri ufficialmente come un suo documento fondativo, l’Unione europea non ha mai espresso in alcun modo le istanze profonde di quel Manifesto. Non ci pare proprio, infatti, che questa istituzione – così come la conosciamo – possa considerarsi la felice realizzazione di quanto prefigurato a Ventotene più di ottant’anni fa. L’Unione europea dei burocrati, del potere finanziario, delle politiche di austerità che hanno affamato la Grecia (e non solo), delle direttive che distruggono le economie, della brutale repressione dei migranti, dei centri per il rimpatrio, dei morti in mare, delle frontiere, del coinvolgimento nelle guerre di mezzo mondo e dell’attuale corsa agli armamenti, è qualcosa di molto diverso da quegli Stati uniti d’Europa immaginati da Spinelli, Rossi e Colorni. Eppure, nonostante tutto, i partecipanti alla piazza del 15 marzo agitavano il Manifesto di Ventotene preso in regalo con Repubblica, rivendicando a gran voce la necessità di spendere un mare di soldi pubblici per armare fino ai denti gli eserciti di ogni stato europeo così come vorrebbe Ursula von der Leyen.

Quanto a Meloni, in molti hanno sottolineato la superficialità e la malafede con la quale ha strumentalmente citato alcuni passaggi che le facevano comodo per svilire il contenuto del Manifesto di Ventotene e buttarla in caciara. Si tratta, guarda caso, di quelle parti che esprimono molto chiaramente la matrice socialista e progressista di chi lo scrisse. Quell’Europa federale concepita a Ventotene era un ambito politico improntato all’equità e alla giustizia sociale tanto che a Giorgia Meloni ha fatto molta impressione – tra le altre cose – il riferimento alla «dittatura del partito rivoluzionario». Evidentemente, la presidente del consiglio non ha letto il passaggio successivo in cui si chiarisce che quel partito creerà «le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato». In quel testo, la parola «partito» va intesa come «schieramento» o, meglio, come «movimento» e non indica, di certo, il partito unico di un regime totalitario, magari dal retrogusto sovietico. Si tratta, piuttosto, di quella avanguardia – più culturale che politica – che dovrà incaricarsi di creare le condizioni affinché il nuovo paradigma europeista, refrattario a ogni tipo di autoritarismo di impronta nazionale, diventi la nuova cornice condivisa per garantire un futuro di pace, libertà e giustizia sociale.

«Questa non è la mia Europa» ha chiarito Meloni, credendo così di delegittimare il Manifesto di Ventotene. E noi aggiungiamo che ha perfettamente ragione. Quella non è la sua Europa perché Meloni non è neanche in grado di affrontare una tale complessità teorica. Né possiamo dimenticare che la presidente del consiglio, dopotutto, raccoglie l’eredità politica di quella banda di criminali che trascinò il nostro paese nella dittatura e nella guerra mandando al confino anche gli autori di quel documento.

È chiaro a tutti e non deve sorprendere che l’Europa di Spinelli, Rossi e Colorni non sia quella di Meloni. Ma è altrettanto chiaro che non sia nemmeno quella di Michele Serra, del Partito democratico o di Ursula von der Leyen.

 

Alberto La Via

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