Al suo apice, l’Internazionale era sufficientemente imponente nella sua militanza, forza numerica e influenza da convincere il governo italiano che doveva essere distrutta.
Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli si insediarono come primo ministro e ministro dell’interno nel marzo 1878: il loro governo è universalmente considerato il più liberale dall’unificazione. Nel discorso tenuto nel suo collegio elettorale di Iseo nel 1878, in cui formulò la strategia del governo, Zanardelli condannò l’Internazionale per aver diffuso insegnamenti che erano “la negazione di tutti i diritti e della morale” e che trovavano “convertiti pronti e pericolosi” tra i “meno istruiti” delle moltitudini. In pratica, la tolleranza liberale si estendeva solo ai rispettabili radicali della classe media, come gli irredentisti repubblicani, non certo agli operai rivoluzionari aderenti all’Internazionale. Il doppio standard poliziesco e giudiziario sarebbe rimasto vivo e vegeto per decenni.
La campagna di repressione che il nuovo governo liberale avrebbe scatenato contro l’Internazionale veniva giustificata nel dibattito parlamentare e sugli organi di stampa da una serie di atti terroristici commessi in Italia e all’estero. Questa campagna denigratoria contribuì a cristallizzare l’immagine che lo Stato liberale aveva evocato davanti agli occhi della borghesia italiana negli ultimi anni: gli anarchici come pericolosi sociopatici. Sebbene questi attentati non fossero collegati, le autorità italiane – sempre suscettibili di teorie del complotto – erano convinte che l’Internazionale avesse ordito un complotto per assassinare i capi di Stato d’Europa.
Il 28 dicembre 1878 papa Leone XIII promulgò l’enciclica “Quod apostolici muneris”, condannando la “pestilenza mortale che serpeggia nei recessi più reconditi della società e la porta all’estremo pericolo della rovina”; cioè “la setta di coloro che, con nomi diversi e barbari, si definiscono socialisti, comunisti e nichilisti”. L’enciclica metteva a disposizione l’enorme potere e prestigio della Chiesa nella lotta contro il socialismo, in cambio del ripristino da parte dello Stato di “quella condizione di libertà con la quale può efficacemente diffondere le sue benefiche influenze a favore della società umana”. Radicato nella comune paura del socialismo, il riavvicinamento tra Chiesa e Stato in Italia era iniziato.
Alla fine di dicembre del 1878, mentre da ogni pulpito si lanciavano anatemi contro la “pestilenza del socialismo”, il nuovo governo di Agostino Depretis ordinò una nuova ondata di arresti che coinvolse quasi tutti i leader anarchici ancora in libertà, per poi passare a colpire la base. Una circolare del ministero dell’Interno notificò a tutti i prefetti del regno che l’intento del governo era quello di distruggere la setta internazionalista, raccomandò che tutti i membri dell’Internazionale fossero posti sotto ammonizione e di vigilare attentamente per coglierli in violazione e deferirli all’Autorità competente”.
Il governo era convinto che l’applicazione diffusa dell’ammonizione avrebbe spezzato l’Internazionale, specialmente se – come notò il capo della polizia di Firenze – l’Autorità Giudiziaria si persuadesse una volta per tutte che gli aderenti alla setta non dovevano più essere considerati un partito politico, ma un insieme di malfattori. La polizia intraprendente non ebbe difficoltà a inventare una serie di accuse – linguaggio volgare, associazione con persone sospette, sospetto di furto e altri crimini contro la proprietà e le persone – per intrappolare un individuo preso di mira. E per condannare un anarchico per “contravvenzione alla ammonizione”, bastava scoprirlo mentre parlava con un altro compagno. Centinaia di anarchici caddero vittime dell’ammonizione in questo modo.
Il 16 febbraio 1880 la Corte di Cassazione di Roma stabilì che un’associazione internazionalista composta da cinque o più persone costituiva un’associazione di malfattori ai sensi dell’articolo 426 del codice penale. La sentenza della corte è stata una testimonianza del pregiudizio sociale della classe dirigente italiana; essa afferma apertamente che l’internazionalismo è solo una maschera sotto la quale si nasconde il malfattore comune. Le sentenze delle corti di Cassazione ebbero l’effetto di spogliare gli anarchici di ogni status giuridico di sovversivi politici e di esporli a tutto il peso della repressione statale come presunti malfattori. Nei successivi vent’anni – grazie all’insidia ineludibile fornita dall’articolo 426 (poi 248) del codice penale – il reato di costituire un’associazione di malfattori – divenne il randello con cui il governo colpì il movimento a suo piacimento. Migliaia di anarchici furono condannati al carcere e al domicilio coatto non per atti illegali e nemmeno per l’intenzione di commetterli, ma unicamente per le idee che professavano.
Nel 1880, tuttavia, le decisioni delle alte corti fornirono solo un tardivo colpo di grazia. Le precedenti ripetute ondate di arresti di massa, i molti mesi trascorsi in detenzione preventiva in attesa del processo, la completa impossibilità di svolgere attività politica derivante dall’ammonizione e la crescente diaspora di leader e militanti che sceglievano l’esilio piuttosto che la prigione avevano già avuto il loro pedaggio. La Federazione Italiana dell’Internazionale non esisteva più come organizzazione vitale.
Alla fine degli anni 70 dell’Ottocento l’anarchismo italiano era già in profonda crisi a causa soprattutto della repressione governativa. Negli anni successivi, tre fattori si combinarono per aggravare la crisi e impedirne la soluzione: la paura della persecuzione, ancora più intimidatoria ora che gli anarchici erano stati ufficialmente bollati come malfattori; l’esilio di leader chiave, in particolare Cafiero e Malatesta, capaci di energizzare e guidare; il dissenso e il caos causati dall’adozione da parte di Andrea Costa della tattica elettorale. Come risultato di questa crisi prolungata, il movimento anarchico conobbe una significativa trasformazione e declino tra il 1879 e il 1883, le cui caratteristiche più salienti furono la demoralizzazione, la paralisi generale dell’attività e la disintegrazione.
La debolezza organizzativa e l’estremismo ideologico stavano rapidamente diventando una funzione l’uno dell’altro, non sorprenderà quindi che proprio quando il movimento era meno capace di intraprendere un’azione diretta, gli appelli alla violenza fossero più frequenti. Questi appelli erano lanciati da anarchici veterani che erano diventati estremisti intrattabili, trasformati spiritualmente e intellettualmente dalla persecuzione, dalla sconfitta e dalla disillusione che avevano sofferto. Nella loro rabbia e frustrazione, percependo di essere in guerra non solo con lo Stato ma con l’intera società, questi anarchici divennero apostoli della violenza.
Articolando un approccio post-internazionale all’attività rivoluzionaria, in cui piccoli gruppi – ciascuno operante autonomamente come una cellula clandestina ma uniti dal loro unico scopo di violenza contro l’ordine costituito – questi apostoli della violenza avrebbero intrapreso continue guerriglie e atti terroristici contro persone e proprietà. Attentati come quello di Agesilao Milano al re borbonico Ferdinando II, o come quello di Felice Orsini all’imperatore Luigi Napoleone, facevano parte della venerata tradizione rivoluzionaria che il movimento internazionalista aveva ereditato dalla democrazia radicale. Finché l’Internazionale aveva mantenuto una parvenza di organizzazione e di vitalità, la teoria e la pratica rivoluzionaria avevano sempre enfatizzato l’insurrezionalismo, mentre il terrorismo rimase un fenomeno raro nel movimento anarchico italiano. Tra il 1880 e il 1881, tuttavia, l’apologia del terrorismo come strategia rivoluzionaria preferita divenne un luogo comune in molti circoli anarchici, specialmente tra gli esuli che avevano sofferto di più a causa delle persecuzioni e che erano sconvolti dai recenti eventi in Italia, soprattutto per la mancata rivolta delle masse. Gli atti di violenza individuale o clandestina di gruppo sembravano ormai l’unica opzione disponibile, l’unica alternativa alla completa impotenza. L’anarchismo italiano nel 1881 era sulla buona strada per diventare atomizzato, poiché sia i leader che la base rifiutavano i centri, le commissioni di corrispondenza, i piani generali e una miriade di altre attività associate all’organizzazione, tutto in nome dell’antiautoritarismo e della libera iniziativa. La rivolta permanente auspicata da Carlo Cafiero non divenne mai un programma d’azione per l’anarchismo italiano negli anni ’80 dell’Ottocento: era uno stato d’animo, che offriva sostentamento psicologico ai ribelli intransigenti bloccati spiritualmente e moralmente in una lotta impari contro lo stato e la società borghese.
Malatesta non condivideva la crescente avversione nei confronti dell’organizzazione del movimento ed era destinato a trovarsi in contrasto con molti vecchi compagni per i quali un’organizzazione nazionale affidabile rappresentava una minaccia autoritaria. Una forte opposizione alla proposta di Malatesta si fece sentire ancor prima della convocazione del congresso di Londra.
Circa quarantacinque delegati, che pretendevano di rappresentare cinquantamila membri, sessanta federazioni (esistenti principalmente sulla carta) e cinquantanove gruppi individuali, si riunirono a Charrington Street, a Londra, dal 14 al 20 luglio 1881. Erano presenti alcune delle figure più illustri dell’anarchismo: Malatesta, Merlino, Kropotkin, Louise Michel, Emile Gautier, Nicholas Chaikovsky, Johann Neve, Joseph Peukert. Erano rappresentate le tre correnti ideologiche del movimento in Europa e negli Stati Uniti: comunisti anarchici, collettivisti anarchici e individualisti. Il famigerato Serreaux, che fu poi accertato essere una spia, era un partecipante attivo e un portavoce non ufficiale dell’ala terroristica del movimento. L’anarchismo in tutta Europa aveva sperimentato più o meno le stesse avversità che avevano trasformato il movimento italiano e reagiva in modo simile: paura di persecuzioni, risposta esagerata ai leader disertori o inattivi (Brousse in Francia e Guillaume nel Giura) e disillusione per i progressi compiuti dal socialismo legalitario. Ad eccezione della Spagna, le grandi federazioni nazionali che comprendono le associazioni dei lavoratori si sono disintegrate o sono diventate inattive. Ciò che rimaneva era un insieme amorfo di piccoli gruppi legati solo dai loro ideali e da un comune timore dell’organizzazione. Il disincanto nei confronti delle classi lavoratrici per non essersi ribellate era ormai diffuso anche nel movimento anarchico. Così, piuttosto che continuare a sperare in sollevamenti popolari, la loro fede veniva riposta nell’attentato. La dinamite e il pugnale avrebbero sicuramente scosso l’ordine esistente. Date queste condizioni e atteggiamenti, quindi, la probabilità che il congresso di Londra potesse resuscitare un’organizzazione pubblica su larga scala basata sulle associazioni operaie era nulla. Il dibattito congressuale confermò tali premesse: preferendo rimanere ermeticamente chiusi nella loro torre d’avorio, per timore che fosse contaminato dall’autoritarismo, i delegati anarchici sacrificarono l’Internazionale sull’altare dell’autonomia locale e della libera iniziativa. Il congresso di Londra si concluse quindi con una sepoltura, non con una resurrezione. Da allora in poi, l’Internazionale si affacciò sulla scena europea solo come una sinistra apparizione, perseguitando politici e poliziotti soggetti a incubi di cospirazioni mondiali.
Errico Malatesta e Francesco Saverio Merlino, che non favorirono mai il terrorismo e lo censurarono negli anni ’90 dell’Ottocento, non si opposero al cambiamento di strategia rivoluzionaria in questo periodo, almeno non pubblicamente. Così il movimento mancava di un efficace contrappeso al nuovo estremismo. La loro attenzione in quel periodo era piuttosto concentrata a combattere il socialismo legalitario, che si era avvantaggiato del tradimento di Andrea Costa.
Da un punto di vista di classe, terrorismo ed elettoralismo si equivalgono.
Mentre l’anarchismo ha come scopo la liberazione delle masse sfruttate da parte delle stesse masse, “l’emancipazione degli operai deve essere opera degli operai stessi” era scritto nel Preambolo degli statuti dell’Associazione Internazionale dei lavoratori), il terrorismo e l’elettoralismo affidano questa emancipazione a ristrette minoranze che libererebbero le masse senza un’attiva partecipazione da parte di queste ultime; l’uno con la violenza, l’altro con la scheda elettorale. Probabilmente sia Errico Malatesta che Francesco Saverio Merlino ritenevano la tattica elettorale più pericolosa, anche sul piano dei principi, rispetto alla pratica terrorista. Solo più tardi si resero conto che anche il terrorismo (il ravacholismo come si diceva allora) si poneva al di fuori del perimetro anarchico. Ma era ormai troppo tardi: le tendenze antiorganizzatrici, illegaliste, di disprezzo della lotta immediata si erano radicate all’interno del movimento e fu necessario un lavoro lungo e paziente per ricostituire una tendenza classista e organizzatrice.
Tiziano Antonelli
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