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Cultura e Media

“Comprendere i conflitti. Educare alla pace”

Pisa, lunedì 14 aprile alle 16:30, Aula magna dell’IIS E. Santoni in Largo Concetto Marchesi, 12

L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università invita a partecipare alla presentazione degli atti del I Convegno Nazionale ‘Comprendere i conflitti. Educare alla pace’, a Pisa lunedì 14 aprile alle 16:30 presso l’aula magna dell’IIS E. Santoni in Largo Concetto Marchesi, 12.

In un contesto politico, economico e sociale, in cui il riarmo dell’Europa e la riconversione dell’economia a fini di guerra sono al centro del dibattito diventa cruciale la necessità di costruire vasto consenso verso gli eserciti e le guerre globali, prova ne siano l’aumento della spesa militare e la militarizzazione dei territori, temi per altro di grandissima attualità.

Serena Tusini, docente di scuola superiore e una delle promotrici dell’Osservatorio, ha studiato le strategie di comunicazione del ministero della Difesa analizzando, nel dettaglio e nella sua capillarità, le strutturate azioni per raggiungere questo consenso a partire dalle quotidiane incursioni nei processi di formazione delle nuove generazioni.

Chiederemo al sociologo Charlie Barnao, che ha studiato i sistemi di addestramento delle forze militari e dell’ordine e come i processi di militarizzazione impattano sul patrimonio culturale dell’intera società, se esiste una correlazione tra gli atti di nonnismo che hanno frequentemente caratterizzato istituzioni chiuse come le caserme e le violenze di piazza ad opera della Forze dell’Ordine.

Infine con Annabella Coiro, esperta di comunicazione non violenta, esploreremo il ruolo che la Scuola può e deve avere nel difficile processo di costruzione di una cultura della pace, con particolare riguardo verso le esperienze delle scuole che praticano resistenza all’autoritarismo e strategie educative non violente.

Le relazioni che presenteremo sono solo un assaggio dei contributi che abbiamo raccolto per analizzare e studiare i processi di militarizzazione della società da diversi punti di vista.

Svelare i meccanismi che animano “la cultura della difesa” è un primo passo per contrastare una dilagante retorica ideologica che risulta funzionale a presentare il lato “buono” dell’opera delle forze militari, nascondendo sotto il tappeto una semplice verità: gli eserciti servono semplicemente per fare la guerra.

L’iniziativa, rivolta in particolare a docenti e componente studentesca delle scuole di ogni ordine e grado, è aperta a tutta la cittadinanza.

Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, Pisa

Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università

Ultima Frontiera di Carlo Cassola: un saggio che può dirci molto sul presente

lScritto nel 1975, nel 1976 esce “Ultima frontiera” di Carlo Cassola, non un romanzo ma un saggio che può dirci molto, oggi, sul presente drammaticamente complesso che stiamo vivendo.

L’umanità, il sistema, i sistemi capitalistici sono, come forse non mai, vicini al collasso. Occorrerebbe una decisa e decisiva rivoluzione culturale, socio-politica e, conseguentemente, economica. Si sta giocando con la fine dell’umanità che, sempre più prossima, potrebbe essere scongiurata soltanto da una completa inversione di orizzonti. Al nazionalismo, all’attuale assetto mondiale basato sugli Stati nazionale, prodomico della guerra, bisognerebbe contrapporre l’internazionalismo, una visione di proficua cooperazione; alla logica bellicistica, delle armi e delle guerre per una falsa e fallace risoluzione dei problemi e delle controversie, occorre scegliere e abbracciare il pacifismo nella connotazione precisa di antimilitarismo e disarmo. Lo stucchevole “Se vuoi la Pace prepara la guerra”, lo lasciamo ai generali, ai signori delle guerre, ai produttori e commercianti di armi e di morte, a chi vuole lucrare sulle ricostruzioni che seguono alle distruzioni delle guerre; il popolo, noi, tutte e tutti, dobbiamo sempre più avere consapevolezza e forza nell’affermare che se si vuole costruire la Pace bisogna lavorare per la Pace, incessantemente; per il disarmo totale: se non ci sono armi non è possibile iniziare e condurre guerre, se non a mani nude, con la clava al massimo. Tutto ciò se siamo convinti, avvertiti e consapevoli di un rischio molto concreto – che è meglio non correre – di fine dell’umanità.

Viviamo un tempo sospeso, un senso di smarrimento, un sentimento di terrore per quello che può realisticamente succedere e che, a tutti i costi, dobbiamo impedire che succeda: dobbiamo, sì, fare guerra alla guerra; meglio, lottare per la Pace, contro la catastrofe che sarebbe totale. Prima del baratro, siamo all’ultima frontiera e non dobbiamo, non possiamo andare oltre.

Il baratro, l’abisso senza fondo, è quello della 3^ guerra mondiale, non quella a pezzetti per altro già da tempo iniziata, ma globale e foriera dell’annientamento, della distruzione dell’unico pianeta che abbiamo (e, con buona rassegnazione di Musk, su Marte non ci vogliamo andare…).

Stiamo vivendo una terribile vigilia e dobbiamo fare di tutto perché non si arrivi al terrificante epilogo. Altre vigilie sono state vissute attorno al 1910 con la “belle epoque” che incoscientemente e allegramente andò incontro alla I^ guerra mondiale e non vorremmo cogliere qualche analogia con il presente, se si pensasse di sottovalutare il pericolo. Un’altra vigilia si concretizzò nella II^ guerra mondiale e, ancora, a metà degli anni ’70 del secolo scorso si visse un’ennesima vigilia, ma fortunatamente fu scongiurata la III^; oggi, drammaticamente, si ripropone l’eventualità che possa conflagrare.

In molti affermano che sia già in corso ed effettivamente, se si pensa al coinvolgimento delle grandi potenze e alle condizioni di guerre e conflitti vari presenti dappertutto nel mondo, quella che stiamo vivendo è una tragedia collettiva e, aldilà dei fusi orari e delle distanze chilometriche, tutti gli scenari ci sono vicini e da vicino ci coinvolgono e ci interrogano. Cosa fare? Occorre partire da un presupposto: la consapevolezza da maturare e acquisire che, volendolo esercitare senza delegare, il popolo ha il potere. Occorre mobilitarsi in tutti i modi possibili, in ogni dove, in qualsiasi contesto e condizione; fare pressioni forti e produrre domande e istanze ai propri governanti, generare informazione coscienza e consapevolezza, pretendere giustizia, indispensabile alla Pace.

E’ superfluo pensare a cosa accadrebbe se ciechi belligeranti cominciassero a usare gli armamenti già oggi disponibili a profusione. A fronte di questa realtà si pensa – in modo generalizzato, Europa in testa – al riarmo, in modo assurdo e cieco. Il ReArm Europe vale 800 miliardi, mentre ben altre sono le priorità: dai disastri eco-climatici che si susseguono senza soluzione di continuità, agli studenti che affrontano tagli e riforme reazionarie, alle lavoratrici e lavoratori alle prese con un lavoro sempre più pericoloso e sottopagato.

Quali i motivi, cosa c’è dietro a questo correre verso la distruzione? Alla base di tutto – e a solo favore delle classi dominanti, dei grandi potenti – c’è l’antico ed efficace divide et impera ottenuto tramite l’altrettanto antico ed efficace principio del nazionalismo – con il suo portato di militarismo – che mette i governi e, purtroppo, i rispettivi popoli, sempre i soli a pagare, gli uni contro gli altri. Le cause, poi e ancora, sono sempre le stesse: geopolitiche, economiche, militari, sempre a vantaggio di pochi che per riarmarsi affossano sanità istruzione e ben-essere delle comunità. A combattere e morire, però, sono sempre gli altri.

Un’inutile e vana difesa della sovranità nazionale, una logica dei piccoli Stati e staterelli, oggi non ha molto senso; la continua corsa al riarmo e alle spese militari che cancellano il welfare, sarebbero da abbandonare immediatamente e in modo definitivo: ci sono e si devono adoperare altri mezzi e modi – le diplomazie, le mediazioni, gli accordi internazionali – vantaggiosamente reciproci, b bn bbn per risolvere e definire le controversie.

Quindi? Abbiamo bisogno di solidarietà, cooperazione, buona volontà e determinazione in direzione della Pace. Quindi, disarmo! Altra strada non c’è di fronte all’ultima frontiera.

Giuseppe Musolino, amministratore RETE MOBILITAZIONE GLOBALE PACE – retemobilitazioneglobalepace@gmail.com

Redazione Italia

24 Marzo. Giornata Internazionale del Diritto alla Verità

Il Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina dei Diritti Umani, in occasione della Giornata Internazionale del Diritto alla Verità in relazione con gravi Violazioni dei Diritti Umani e della Dignità delle Vittime, istituita dall’ONU per il 24 marzo, invita le scuole di ogni ordine e grado a riflettere su questa importante ricorrenza e a promuovere iniziative didattiche finalizzate alla sensibilizzazione degli studenti sui temi della giustizia, della memoria e della tutela dei diritti fondamentali.

La data del 24 marzo fu scelta per onorare la memoria di Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato nel 1980 mentre celebrava una messa.

Romero fu un difensore instancabile dei diritti umani, denunciando pubblicamente le atrocità e le repressioni perpetrate durante la guerra civile salvadoregna.

La sua morte divenne un simbolo della lotta per la giustizia e la verità.

Questa giornata rappresenta un’occasione per ricordare tutte le vittime di abusi e soprusi perpetrati da regimi autoritari, conflitti armati e sistemi repressivi.

È un momento di riflessione sul valore della verità come strumento di giustizia e riconciliazione, nonché un invito alla società civile e alle istituzioni affinché si impegnino nella difesa della dignità umana e nella lotta contro l’impunità.

Il diritto alla verità è essenziale per il riconoscimento delle sofferenze delle vittime e per garantire che tali tragedie non si ripetano.

In un’epoca segnata dalla disinformazione e dalla manipolazione della memoria storica, è fondamentale che la scuola educhi i giovani alla ricerca della verità, al rispetto dei diritti umani e alla consapevolezza del valore della democrazia e della libertà.

Il 2025 vede ancora numerose sfide nel garantire il diritto alla verità.

Molte nazioni devono affrontare il passato violento, con conflitti recenti e continui abusi dei diritti umani.

Tra le principali problematiche globali vi sono:
conflitti in corso e impunità: in molte zone di guerra, le violazioni dei diritti umani continuano senza che i colpevoli siano perseguiti;
restrizioni alla libertà di espressione: giornalisti e attivisti che cercano di portare alla luce le ingiustizie subiscono minacce, detenzioni arbitrarie o, nei casi più gravi, vengono assassinati; sparizioni forzate e detenzioni illegali: migliaia di persone nel mondo scompaiono ogni anno a causa di regimi repressivi o gruppi armati;
uso della tecnologia per la manipolazione della verità: la disinformazione e la censura digitale rappresentano nuove sfide nel garantire l’accesso alle informazioni reali.

Per contrastare questi problemi, molte organizzazioni e attivisti promuovono iniziative volte a preservare la memoria storica e a sensibilizzare l’opinione pubblica.

Alcune delle azioni più rilevanti includono: archivi della memoria: la digitalizzazione delle testimonianze e dei documenti storici aiuta a preservare le prove delle violazioni dei diritti umani; commissioni per la verità e la riconciliazione: operative in diversi paesi, queste istituzioni forniscono piattaforme per testimonianze e raccomandazioni per la giustizia; educazione ai diritti umani: scuole e università in tutto il mondo integrano nei loro programmi lo studio delle violazioni passate per formare una coscienza collettiva sul tema.

Invitiamo i docenti ad organizzare momenti di riflessione nelle classi attraverso:
letture e approfondimenti su figure emblematiche della lotta per la verità e la giustizia, come Monsignor Óscar Romero, assassinato il 24 marzo 1980 per il suo impegno a favore dei diritti umani in El Salvador;
testimonianze e incontri con esperti, storici, giornalisti e attivisti per i diritti umani;
proiezioni di documentari e film dedicati alla memoria delle vittime di violazioni dei diritti umani; laboratori creativi per stimolare la produzione di testi, poesie, disegni e manifesti ispirati al tema della verità e della giustizia;
discussioni e dibattiti per sviluppare il pensiero critico e promuovere una cittadinanza attiva e consapevole.

Il Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina dei Diritti Umani si impegna a fornire materiali di supporto e suggerimenti didattici per agevolare le attività nelle scuole e rafforzare la cultura della legalità e della tutela dei diritti fondamentali.

Chiediamo a tutti gli istituti scolastici di documentare le attività svolte e di condividere le esperienze attraverso i canali ufficiali, affinché la voce delle nuove generazioni possa contribuire a costruire un futuro fondato sulla giustizia, sulla memoria e sul rispetto della dignità umana.

Con l’auspicio che la scuola continui ad essere un baluardo di verità e di impegno civile, rivolgiamo un sentito ringraziamento a tutti i docenti che con passione e dedizione lavorano quotidianamente per formare cittadini consapevoli e responsabili.

Invitiamo ad inviare al CNDDU (email: coordinamentodirittiumani@gmail.com) le proposte educative e le iniziative realizzate per l’occasione.

Riceviamo questo articolo dal prof. Romano Pesavento Presidente CNDDU(Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina dei Diritti Umani).

Redazione Italia

Disabilità. 35% giovani subisce violenza in rete

Disabilità, Cyber Security Foundation: 35% giovani subisce violenza in rete
A Roma secondo incontro. Coinvolti oltre 210 ragazzi impresa Capodarco

“I dati sono allarmanti: oltre il 35% dei bambini e ragazzi con disabilità ha subito almeno un episodio di violenza (fisica, emotiva, sessuale, psicologica o verbale) legato all’uso di servizi di messaggistica, piattaforme social o di gaming online”.

I dati sono emersi oggi a Roma in occasione del secondo incontro formativo organizzato dalla Cyber Security Foundation nell’ambito del progetto dedicato alla sensibilizzazione sui rischi cibernetici e alla divulgazione della cultura della cyber security per le persone con disabilità.

L’evento, che si è svolto presso il Teatro Gianelli, ha coinvolto oltre 210 giovani con disabilità e i loro formatori, riunendo le tre scuole romane di Capodarco Formazione Impresa Sociale.

L’iniziativa è nata dal protocollo d’intesa tra le due organizzazioni e mira a fornire “strumenti concreti” per un utilizzo sicuro delle risorse informatiche e una “gestione consapevole” delle informazioni sui social network.

L’incontro ha visto la partecipazione di figure di primo piano nel panorama della sicurezza digitale, esponenti delle istituzioni ed esperti, tra cui gli operatori dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn), della Polizia Postale e dei Carabinieri del Comando Generale, dei partner che hanno sostenuto l’iniziativa, oltre ai membri della Cyber Security Foundation.

I lavori si sono aperti con il messaggio di saluto della ministra per le Disabilità, Alessandra Locatelli, che ha ricordato come “affrontare il tema della cybersecurity per le persone con disabilità significa offrire strumenti concreti per una maggiore tutela e consapevolezza nell’utilizzo delle tecnologie digitali.

Questo progetto rappresenta un passo significativo in tale direzione, garantendo formazione e sensibilizzazione su un tema di grande attualità e rilevanza per tutti.

È fondamentale- ha proseguito il ministro- continuare a lavorare insieme e investire per assicurare un accesso sicuro alle risorse digitali e favorire l’inclusione, affinché nessuno venga lasciato indietro anche nel contesto digitale e soprattutto possa muoversi in totale sicurezza”.

In Italia, intanto, “oltre 10 milioni di persone hanno subito violazioni informatiche (il 32% appartiene alla ‘Generazione Z’)- hanno fatto sapere nel corso dell’incontro- e tra le fasce più deboli della popolazione la probabilità di cadere vittima di truffe, adescamento online e attacchi informatici è ancora più elevata”.

Secondo recenti studi, inoltre, il 30% delle persone con disabilità è a rischio di esclusione sociale, una condizione che le rende particolarmente vulnerabili alle minacce della rete: dall’uso improprio dei social network alla gestione non sicura delle credenziali di accesso ai servizi digitali, dal cyberbullismo fino alla manipolazione psicologica.

“I dati sulle violazioni digitali parlano chiaro: le persone con disabilità sono tra le più esposte ai pericoli del web, eppure sono spesso escluse dai percorsi di educazione alla sicurezza informatica.

È una lacuna che non possiamo permetterci- ha sottolineato Marco Gabriele Proietti, fondatore e presidente della Cyber Security Foundation-

In un’epoca in cui la digitalizzazione permea ogni aspetto della vita quotidiana le persone con disabilità si trovano spesso ad affrontare barriere invisibili ma insidiose, che ne limitano la sicurezza e l’autonomia online.

Per questo, il nostro impegno, in sinergia con istituzioni e imprese, è rivolto a fornire loro strumenti concreti e competenze adeguate per muoversi in rete con consapevolezza, proteggendo la loro identità digitale e riducendo i rischi legati all’utilizzo delle tecnologie”.

Questo progetto, dunque, non è solo “un’opportunità di formazione- ha proseguito Proietti- ma segna un passo decisivo verso la costruzione di un ecosistema digitale realmente inclusivo, dove la sicurezza non sia un privilegio, ma un diritto garantito a tutti, indipendentemente dalle capacità individuali. Informarsi e formarsi per proteggersi”.

All’intervento di Eleonora Borgiani, componente del Cda della Fondazione e ideatrice del progetto, che ha spiegato gli scopi dell’iniziativa, hanno fatto seguito le parole di Matteo Macina, vicepresidente operativo della Fondazione.

Il vicequestore della Polizia di Stato, Claudia Lofino, ha evidenziato il ruolo della Polizia Postale nella protezione degli utenti online e nella gestione delle denunce, mentre il Tenente Colonnello, Fabio Ibba, e il Sottotenente, Alessio Di Santo del Comando Generale dei Carabinieri, hanno illustrato la “crescente minaccia cyber” e gli strumenti per contrastarla.

Marco Centenaro, Officer ACN, ha chiarito invece le principali strategie di prevenzione dei crimini informatici.

Infine, Vittorio Baiocco, membro del Comitato Tecnico Scientifico della Cyber Security Foundation, ha affrontato il tema del corretto utilizzo dei social network e della protezione della privacy.

L’incontro si inserisce nel più ampio impegno della Cyber Security Foundation per diffondere la cultura della sicurezza digitale e prevenire le minacce informatiche, con un’attenzione particolare alle categorie più esposte ai rischi del web.

Attraverso iniziative formative dedicate, la Fondazione, infatti, coinvolge attivamente anche studenti e studentesse nelle scuole italiane, promuovendo un “uso cosciente e sicuro della rete”.

(riceviamo da Cyber Security Foundation e da Capodarco Formazione Impresa Sociale https://www.comunitadicapodarco.it/ )

Redazione Italia

Ultima Generazione al Macdonald’s di Varese

ULTIMA GENERAZIONE: VARESE, IN AZIONE AL MCDONALD’S

Volantini per denunciare un sistema di sfruttamento del lavoro e distruzione della terra

Varese, 24 marzo 2025 – Oggi, alle ore 13.30 in via Giuseppe Bolchini, cinque persone aderenti alla campagna Il Giusto Prezzo di Ultima Generazione, sono entrate presso il ristorante McDonald’s Varese Stadio.

Le persone hanno aperto degli striscioni con scritto Il Giusto Prezzo e Ultima Generazione e distribuito volantini, per presentare la nuova campagna il “Giusto Prezzo”, parlare con i clienti del fast food e denunciare i danni ecologici e di salute che causa il sistema alimentare e di sfruttamento del lavoro promosso da McDonald’s e da Inalca (azienda italiana di produzione di carne che collabora con la multinazionale statunitense).

Sul posto è intervenuta la polizia che ha identificato i partecipanti.

RISPONDIAMO ALLA PROPOSTA DEL PROF BURIONI

Un lavoratore di McDonald’s percepisce un salario di 6,50 € l’ora.
Un compenso ridicolo rispetto alla fatica e ai ritmi massacranti che deve affrontare ogni giorno.

Ma forse questo il professor Burioni, che dopo la nostra azione da Cracco ci invita con sdegno a protestare da McDonald’s, non lo sa.

Curioso poi che un uomo di scienza sembri suggerire McDonald’s come soluzione per le famiglie italiane, ignorando il fatto che parliamo di cibo ultra-processato, pieno di aromi sintetici, studiato per creare dipendenza e prodotto da un sistema che devasta l’ambiente.

Deforestazione, allevamenti intensivi, spreco di risorse: tutto per continuare a vendere hamburger a basso costo a discapito del pianeta.
Diteci, professore, è una nuova linea guida nutrizionale o solo un consiglio su dove stare zitti e buoni?

Paolo, 23 anni, cuoco locale ed ex dipendente di McDonald’s, ha dichiarato: Noi chiediamo un Giusto Prezzo per loro, che lavorano duramente per preparare i pasti di McDonald’s e vengono ripagati con appena 6,50 € all’ora.
Un compenso miserabile rispetto ai ritmi estenuanti e alla fatica che sopportano ogni giorno. Dov’è la giustizia in questo? E non sono solo loro.

Dietro il bancone c’è un’intera filiera di lavoratori sfruttati, invisibili, senza diritti, che rendono possibile questa produzione di massa. Un sistema che calpesta le persone e ci vende cibo che ci fa ammalare.

Ma allora, qual è il vero prezzo di tutto questo? Non esiste un “giusto prezzo” per la nostra salute fisica e mentale, giusto?!

TRE EURO E NOVANTA PER UN PASTO DA MCDONALD’S NON SONO UN GIUSTO PREZZO

E’ stata questa la campagna della multinazionale americana dal 19 febbraio al 18 marzo scorso.
Ma quello di McDonald’s è un cibo che fa ammalare di obesità e di diabete, prodotto con lo sfruttamento delle risorse naturali, dei grandi allevamenti intensivi con enormi emissioni di CO2, dei lavoratori del settore agricolo in tutto il pianeta.

LA CAMPAGNA “IL GIUSTO PREZZO”

Viviamo in un mondo distorto, avvolto in una totale illusione di abbondanza.
Passeggiando tra le luci dei supermercati, con scaffali traboccanti e frutti perfetti, nessuno vede cosa si nasconde dietro: eventi climatici estremi che distruggono i raccolti, case, vite, e piccoli agricoltori schiacciati da prezzi imposti, debiti e regole scritte per avvantaggiare solo la grande distribuzione organizzata, l’agribusiness e i manager delle multinazionali.
Per questo, la crisi climatica è sempre più spesso sinonimo di chiusura della propria azienda. Dall’altra parte, le famiglie italiane vedono i prezzi dei beni e servizi essenziali salire inesorabilmente, mentre i salari sono fermi da anni.

COSA CHIEDIAMO?

PROTEGGERE I RACCOLTI: L’agricoltura italiana sta affrontando una crisi senza precedenti.
Siccità, ondate di calore, grandinate e alluvioni devastano i campi, compromettendo raccolti e coltivazioni.
Dobbiamo proteggere i raccolti e, per farlo, è necessario promuovere una transizione verso un nuovo sistema agricolo che sia resiliente e sostenibile economicamente ed ecologicamente.

AGGIUSTARE I PREZZI: Il costo degli alimenti nei supermercati sta diventando insostenibile, mentre ai produttori arriva solo una minima parte del prezzo finale.
Chiediamo alle Istituzioni di intervenire immediatamente per garantire un giusto prezzo al cibo, equo per chi compra e per chi produce.

FAR PAGARE I RESPONSABILI: Chi rompe paga.
Vogliamo che a finanziare questa transizione verso un sistema agricolo più sostenibile non siano le nostre tasse ma siano, piuttosto, gli extraprofitti dei reali responsabili della crisi attuale – la finanza, la GDO, i top manager delle multinazionali del cibo e l’industria del fossile.

Ultima Generazione

Scioperare insegna a scioperare, in corteo con i librai Feltrinelli

Con tutti i suoi difetti, il tobleronico edificio della Fondazione Feltrinelli a Milano è un posto perfetto dove far partire un corteo. L’algida piazza davanti all’ingresso sembra fatta apposta per essere invasa da scarpe da ginnastica, bandiere, striscioni, fumogeni e da una playlist, dai Lunapop ai Depeche Mode, che esce da una cassa tirata da una bicicletta. Sulle vetrate della Fondazione, pulitissime come sempre, si riflettono le figure dei manifestanti che arrivano alla spicciolata, mentre la citazione di Ferruccio Parri a lettere cubitali sulla facciata – È IN GIOCO L’AVVENIRE – si presta ad automatici détournement. I sindacati di librai e libraie Feltrinelli (Filcams CGIL, Fisascat CISL e Uiltucs) hanno convocato il concentramento per il corteo qui il 17 marzo perché contemporaneamente era prevista una Convention di due giorni per i settant’anni dell’editore. Convention poi ridotta a un giorno solo, il 18. La mattina di sole dopo tanti giorni di pioggia sembra confermare che è comunque il giorno giusto per scioperare.

Nelle 120 librerie del gruppo sparse per l’Italia si sciopera per il rinnovo del Contratto integrativo aziendale, le questioni in ballo sono: abolizione del salario d’ingresso per i neoassunti, chiarezza sui premi di risultato e aumento di 1.5€ dei buoni pasto, oggi fermi a 6€. A quanto pare l’azienda ha abbandonato la trattativa proprio su quest’ultima questione, vorrebbe spalmare l’aumento su tre anni, mentre per i sindacati deve avvenire entro un anno. Dalle interviste raccolte da Radio Onda d’Urto è chiaro che librai e libraie non scioperano solo per anticipare l’arrivo di un buono da 7.5€ con cui, non solo a Milano, serve una certa creatività per mettere insieme un pasto degno di questo nome. Il conflitto ha a che fare con il progressivo svilimento del lavoro, con i tanti anni di contratti di solidarietà e cassa integrazione e con la speculare narrazione trionfalistica con cui vengono raccontati i successi aziendali – uno stile sopra le righe anche per gli standard del settore culturale che, si vocifera da qualche anno, potrebbe essere il preludio di un corposo riassetto della proprietà.

Al di là della retorica, il gruppo Feltrinelli appare in buona salute – nel 2023 i ricavi hanno raggiunto i 510 milioni e il margine operativo lordo è aumentato del 10% –, un momento ideale per ottenere miglioramenti del contratto, ma l’adesione allo sciopero non è scontata: sia nelle interviste in radio che nelle chiacchiere in piazza è chiaro che per molti lo sciopero è una novità e, soprattutto, che buona parte di chi lavora in Feltrinelli ha scelto di farlo per un’adesione al progetto culturale, oggi brand, che da settant’anni è schierato “a sinistra”. Una componente vocazionale – che si traduce in una maggiore capacità di sopportare condizioni di lavoro peggiori, a parità di salario, per un lavoro che “piace” – che riguarda molti altri che lavorano in ambiti culturali e creativi. Forse è per questo che quando ho letto per la prima volta la frase che chiude il volantino distribuito nei giorni prima del corteo ho pensato che non si rivolgesse solo a librai e libraie Feltrinelli: “Leggere insegna a leggere. Scioperare insegna a scioperare”. Si rivolgeva anche a noi.

Faccio parte del contingente di freelance editoriali di Redacta che accompagna il corteo, in solidarietà con chi sciopera. Negli anni abbiamo organizzato eventi e firmato petizioni per i lavoratori della stampa, in particolare Grafica Veneta, e per quelli della logistica, sia quelli del gigantesco magazzino editoriale di Stradella (Pv) – dove la joint venture Feltrinelli-Messaggerie stocca e distribuisce la maggior parte dei libri italiani –, sia quelli della Gls di Napoli. La solidarietà non è mai scontata, ma può essere anche facile, un post sui social e poco più. Per questo preferiamo gli incontri. Tre anni fa abbiamo organizzato un confronto in uno storico spazio anarchico milanese con alcuni di quelli che oggi scioperano. Alcuni di loro tre anni fa non lavoravano in libreria, erano freelance. Aspettando la partenza del corteo ci facciamo due chiacchiere: qualcuno ha fatto per anni da “consulente” con scrivania, con orario di lavoro, ma senza contratto per una casa editrice indipendente, qualcun altro ha migliaia di euro di crediti da una scuola di editoria che, mentre i founder riempiono il proprio feed Instragram di viaggi ai tropici, ha smesso di pagare i fornitori. C’è il ragazzo con il record di stage e la ragazza che ci racconta la volta che, da collaboratrice esterna di un’altra casa editrice con brand progressista, ha contrattato il proprio indegno compenso e si è vista proporre un magnanimo aumento di 20 centesimi a pagina. Tutte persone con lauree e master che hanno abbandonato il lavoro freelance e sono finite a vendere libri in Feltrinelli. Alcune hanno ottenuto il tempo indeterminato, altre no: partecipano allo sciopero da clandestine, nel giorno di riposo. Le riconosci perché si sfilano opportunamente dalle foto. È la prima volta che hanno occasione di scioperare nella loro carriera editoriale e non se la sono fatta sfuggire.

Alle 11 abbiamo assorbito abbastanza radiazioni solari e partiamo per il breve percorso che prevede una tappa a Casa Feltrinelli, nuova sede della casa editrice e di altri uffici del gruppo, per concludersi sul cavalcavia Bussa, tozzo e grigio asfalto, da cui si vede buona parte dei grattacieli spuntati negli ultimi quindici anni a Milano. Feltrinelli ha anche un prestigioso patrimonio immobiliare, non solo tobleroni.

Alla partenza del corteo, con le bandiere che sventolano e i fumogeni che ci avvolgono, ci scambiamo un’occhiata perplessa: il fatto che dopo sei anni di Redacta non abbiamo ancora uno striscione, o almeno una bandierina, può essere spiegato con le particolarità sociologiche e organizzative del lavoro freelance, sì, ma rimane un peccato. La nostra borsina di tela con lo slogan “Belli i libri, ma la vita di più” fa comunque la sua discreta figura.

L’impasse viene superata grazie a una signora che distribuisce bandiere della Cgil, ci vede con le mani libere e ce ne porge una, la afferriamo con una certa convinzione e ci mettiamo a sventolare verso la sede della casa editrice. Dalle finestre dell’ultimo piano alcuni impiegati si sbracciano per salutare, non sono coinvolti direttamente nello sciopero perché sono inquadrati con un altro contratto integrativo. Altri aspettano in strada e si uniscono ai cori che partono dal corteo. Passano diversi minuti così, con canti, fumogeni, bandiere e gruppetti che chiacchierano da una parte, un palazzo tirato a lucido che si svuota pian piano di persone dall’altra.

Alla fine le adesioni allo sciopero in tutta Italia hanno avuto percentuali molto alte, secondo i sindacati 80-90%, un successo. Lo scopriremo solo qualche ora dopo. Tra i parcheggi del cavalcavia Bussa ascoltiamo una delegata che legge una lettera di solidarietà dei lavoratori dell’Ikea, molto bella, e poi invita tutti a pranzare insieme nei dintorni. Noi abbiamo già ricominciato a guardare la mail, rispondiamo a caporedattrici e autori scombussolati dalla nostra assenza di risposte dalle 10 alle 12 di lunedì mattina: il file deve andare in stampa oggi pomeriggio, puoi ricontrollare le testatine? E queste ultime correzioni alla bibliografia, le puoi inserire? E questo titolo, ti convince?

Eravamo così concentrati sullo sciopero che non ci siamo accorti di aver smesso di lavorare.

fonte: monitor

 

Redazione Italia

Colombia, la resistenza delle radio comunitarie di pace

Nonostante i tentativi di destabilizzazione della destra uribista, le emisoras de paz rappresentano un esempio di resilienza e progresso poiché raccontano ciò che succede nelle regioni del paese ridotte al silenzio da decenni di conflitto e promuovono un messaggio di inclusione, sviluppo e speranza.

Las emisoras de paz no pueden acabarse: così Fernando Alexis Jiménez, su Rebelión, esprime la sua preoccupazione per i molteplici attacchi a cui continuano ad essere sottoposte le emittenti radiofoniche comunitarie colombiane di pace, nate nel 2016 nell’ambito degli accordi di pace tra la guerriglia delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e l’allora governo di Juan Manuel Santos.

Ad attaccarle, forse per sviare l’attenzione dalle nuove accuse di collusione con il paramilitarismo all’ex presidente Álvaro Uribe, la senatrice María Fernanda Cabal, appartenente al partito Centro Democrático che, a dispetto del nome, si colloca su posizioni di estrema destra ed è legato proprio alla figura dello stesso Uribe.

Grazie alle radio comunitarie, ricorda ancora Fernando Alexis Jiménez, che vi ha lavorato a lungo nei decenni passati, in Colombia si è rafforzato il diritto della cittadinanza ad essere informata adeguatamente. Oggi, la guerra scatenata da María Fernanda Cabal e da altri esponenti dell’uribismo, non solo mira a delegittimare le cosiddette “emisoras de paz”, associandole impropriamente alla guerriglia, ma contribuisce anche a mettere a repentaglio la vita dei giornalisti che vi lavorano. In generale, le radio comunitarie di pace, nate dai negoziati del 2016 nei municipi maggiormente interessati dal conflitto armato, da sempre si sono dedicate a diffondere contenuti a carattere pedagogico nell’ambito di un processo di riconciliazione messo a rischio ogni giorno di più soprattutto da quei settori più radicali dell’uribismo, e dei paras, che, fin dall’inizio, hanno cercato di utilizzare ogni pretesto pur di far interrompere una tregua per la quale, peraltro, si era adoperato Santos, ex delfino di Uribe e, a sua volta, uno dei presidenti più ambigui nella storia della Colombia.

Dopo aver fallito nel tentativo di associare le emittenti radiofoniche comunitarie alle Farc (che peraltro hanno effettivamente alcuni giornalisti reinseritisi nell’ambito di un processo di pace rifiutato, al contrario, da molte milizie di estrema destra), María Fernanda Cabal ci ha riprovato, nel corso degli ultimi mesi, cercando di destabilizzare i già complessi colloqui tra il governo di Gustavo Petro, autore solo poche settimane fa di un discusso mega-rimpasto del suo esecutivo, e la seconda guerriglia del paese, quella dell’Eln (Ejército de Liberación Nacional). Cabal ha accusato il governo di disinteressarsi della crescente insicurezza nel paese per privilegiare i negoziati con l’Eln. “Los diálogos con los terroristas solo han servido para que se rearmen y sigan masacrando al país” è il mantra ripetuto con sempre maggior frequenza dalla senatrice, che sembra già entrata in campagna elettorale per le presidenziali del 2026 e ha invitato la cittadinanza ad esigere trasparenza nel futuro processo elettorale.

La scelta di María Fernanda Cabal di approvare le politiche della sua omologa venezuelana María Corina Machado, anch’essa professionista della cospirazione, rischia di spingersi fino alle estreme conseguenze, a partire dall’idea di dar vita ad un portale a cui possono iscriversi i cittadini convinti della necessità di dover difendere la democrazia in occasione delle prossime elezioni.

In realtà, nonostante le accuse infondate, le emisoras de paz rappresentano un punto di incontro per le comunità, soprattutto nei territori maggiormente attraversati dalla violenza. Grazie alle emittenti comunitarie, che hanno dato voce alle singole comunità, le radio sono un veicolo utile per dare un’immagine diversa di tutte quelle persone associate indebitamente alla criminalità organizzata e si pongono come mezzi di diffusione di notizie di servizio e non solo.

Oltre alla programmazione culturale, musicale e quella strettamente legata all’informazione, le radio comunitarie si sono trasformate in uno spazio di espressione e partecipazione cittadina, oltre a farsi promotrici di corsi di formazione per leader comunitari, lottatori sociali e giornalisti, nel segno di un processo di pace e di riconciliazione. Legate a Radio Nacional de Colombia, le emisoras de paz si vanno sempre più caratterizzando come un riflesso delle necessità e delle aspirazioni delle singole comunità.

Le emittenti radiofoniche comunitarie non sono solo delle semplici radio, ma si propongono di contribuire alla trasformazione della narrativa della violenza in storie di resilienza e progresso, raccontando ciò che succede nelle regioni del paese ridotte al silenzio da decenni di conflitto e promuovendo un messaggio di inclusione, sviluppo e speranza.

Le radio comunitarie servono a gettare le basi per la costruzione di un nuovo tessuto sociale, nonostante i giornalisti che vi lavorano siano continuamente nel mirino della criminalità organizzata e dei gruppi paramilitari. Grazie alle emisoras de paz, le comunità divengono le protagoniste della storia. Ma il loro futuro resta incerto, soprattutto se in occasione delle prossime presidenziali dovesse vincere di nuovo la destra, in particolare quella legata all’uribismo, che trae linfa proprio dalla guerra senza fine contro la popolazione.

La Bottega del Barbieri

Il ritorno delle opere d’arte africane rubate

Il film Dahomey di Mati Diop racconta il rimpatrio di 26 manufatti del Benin, simboli di un passato coloniale mai elaborato. Tra arte e identità, il documentario esplora il trauma delle sottrazioni culturali e il dibattito sulla proprietà delle opere d’arte africane. Una riflessione su memoria, cultura e giustizia postcoloniale.

Alla fine del 2024 è arrivato nelle sale cinematografiche Dahomey, il film-documentario diretto da Mati Diop che affronta la complessa e annosa questione delle “restituzioni” culturali. L’opera racconta, con una narrazione magistrale e sperimentale, il rimpatrio in Benin, avvenuto nel 2021, di 26 manufatti sottratti durante l’epoca coloniale al Regno di Dahomey, oggi Benin. Questi oggetti, per decenni esposti nei musei francesi, rappresentano solo una minima parte delle oltre 7.000 opere trafugate durante l’invasione francese del 1892. «Mi sono subito sentita identificata con le statue», dichiara Diop, che segue con sensibilità e partecipazione il viaggio di questi manufatti verso casa. «Lo stigma della colonizzazione è qualcosa che, a modo mio, ho sperimentato e sto ancora sperimentando». Il film, premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, si sviluppa come un saggio poetico e visivamente potente, esplorando la disconnessione tra cultura e identità generata dal colonialismo e dalle sue conseguenze. Un elemento particolarmente evocativo è la narrazione in prima persona di una delle statue restituite, nota come “26” – un numero che rimanda al catalogo assegnato ai manufatti dai musei francesi. La statua, che raffigura il re Ghézo, figura centrale nella storia del Dahomey (regnante dal 1818 al 1859), racconta la sua storia attraverso una voce inquietante e multiforme. Parlando in lingua fon, la statua narra il trauma della cattura, dell’esilio e del ritorno, evocando immagini di anime smarrite e perpetuamente incompiute.

Quando i manufatti finalmente tornano in patria, vengono esposti nel museo di Abomey. Tuttavia, anche questa soluzione solleva interrogativi. Diop esplora il modo in cui i cittadini e, in particolare, i giovani del Benin affrontano i fantasmi del colonialismo e il significato del ritorno. Una lunga sequenza nel film mostra un dibattito studentesco all’Università di Abomey-Calavi. Qui emergono posizioni diverse: alcuni studenti esprimono emozione e sopraffazione emotiva alla vista delle statue; altri, invece, manifestano frustrazione per l’esiguo numero di manufatti restituiti – 26 su oltre 7.000 –, percepito come un insulto. Un giovane critica il fatto che i manufatti siano nuovamente chiusi in una teca, sottolineando come questi oggetti rituali debbano “vivere” e agire nel loro contesto originario. In un’intervista, la regista si chiede quanto la restituzione interessi davvero ai giovani africani di oggi. È un tema che, secondo lei, rischia di ridursi a una questione tra governi, come quello francese e quello beninese, mentre le nuove generazioni sembrano più concentrate su problemi concreti come povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità. Il tema della restituzione resta controverso anche al di fuori del Benin. Sebbene in Francia il rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy abbia spinto a favorire le richieste di restituzione, molti governi africani non avanzano richieste formali. Le motivazioni sono molteplici: priorità a problemi economici e di sicurezza, mancanza di strutture adeguate per conservare gli oggetti antichi e difficoltà nel definire legittimi proprietari.

Simon Njami, direttore di Revue Noire, sottolinea come i confini dell’Africa precoloniale fossero principalmente etnici, non statali, rendendo difficile attribuire la proprietà di molte opere a specifici Paesi. Alcuni musei europei hanno proposto soluzioni intermedie, come “restituzioni temporanee” o prestiti.

Questa modalità è tuttavia ritenuta inaccettabile da molti esponenti africani, poiché perpetuerebbe l’idea di una proprietà illecita mantenuta inalterata. Il dibattito ha però avuto il merito di riportare all’attenzione un fatto cruciale: l’80-90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente, spesso in seguito a furti o appropriazioni indebite. La questione va oltre il mondo dell’arte: il tema della restituzione obbliga a confrontarsi con un passato coloniale che non è mai stato pienamente elaborato. Riconoscere la complessità di questo dibattito significa anche affrontare il legame profondo tra cultura, memoria e identità. Come afferma lo stesso Sarr, riferendosi al gesto simbolico della restituzione al Benin: «Dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all’altezza della posta in gioco». In un panorama ancora dominato dalle conseguenze del colonialismo, Dahomey offre una riflessione potente e necessaria, dando voce non solo agli oggetti rubati, ma anche alle questioni irrisolte di un intero continente.

Africa Rivista

W il Sant’Elia… ma anche i suoi bambini! È un bene comune, se ne chiede anche la pubblica fruizione

facciata dell’Asilo

Pubblichiamo il comunicato del “Comitato Como a Misura di Famiglia”, costituitosi su iniziativa di genitori i quali da anni attendono una soluzione per i bambini del Sant’Elia che dal 2019 sono stati “spostati” in altri plessi scolastici, in cui vivono con estremo disagio giacché gli spazi non sono adatti ai piccoli tra i 3 e 6 anni. Inoltre chiedono un serio confronto con le autorità preposte per trovare alternative sostenibili alla situazione emergenziale, ovvero  – quanto meno – “avere garanzie sugli accorpamenti prossimi”, affinché siano realizzate soluzioni che assicurino standard di qualità[accì]

 

Da cittadini gioiamo dell’apertura del Sant’Elia per le giornate Fai, ma da genitori ci sorgono delle riflessioni. Il Comitato Como a misura di famiglia NON intende sia utile inserirsi nella questione “Sant’Elia ritorni scuola o non ritorni scuola”… è una scelta che non riguarda solo i servizi all’infanzia ma un’architettura eccezionale di cui si auspica una soluzione per riaprirla alla città e a chi la vuole visitare.

Vogliamo però portare l’attenzione sui bambini che frequentavano il Sant’Elia e che nel 2019 sono stati “spostati” in alcune aule della scuola primaria Gobbi di via Viganò. Qui, loro e i bambini che si sono succeduti in questi anni, vivono grandi disagi perché gli spazi di una scuola primaria non sono adatti per bambini 3/6 anni! … e quindi dal 2019 quei bambini in classe non vedono fuori dalle finestre perché sono alte come quelle di una scuola coi banchi (per diversi anni sono stati sollevati dalle maestre per raggiungere i water troppo alti per loro)… oltre alle limitazioni dovute alla convivenza con la primaria che impone precisi orari per l’uso degli spazi e per il tipo di attività.

Nonostante le numerose richieste di confronto e di soluzioni alternative rivolte dalle maestre alle amministrazioni comunali in questi anni, la situazione di disagio persiste.

In questo giorno di festa per Sant’Elia chiediamo all’amministrazione comunale:

– quale soluzione a lungo termine intende dare a quei bambini?

 – in che tempi questo problema sarà risolto?

– perché non è stata trovata una soluzione all’interno del piano di riorganizzazione delle scuole?

Sono poco più di 400 i bambini che a Como nei prossimi due anni vedranno la loro scuola chiusa o accorpata secondo il programma comunale deliberato a ottobre 2024.

Come è possibile che in un piano così massivo non siano stati considerati i bambini del Sant’Elia che da anni attendono una soluzione?

E inoltre quali garanzie hanno i genitori che gli accorpamenti prossimi siano realizzati garantendone la qualità?

Ai pubblici amministratori le ardue risposte! (ndr)

comoamisuradifamiglia@gmail.com

 

 

Redazione Italia

“Le assaggiatrici”, un film che trascina e fa riflettere

“Le assaggiatrici”, lungometraggio di Silvio Soldini in uscita il 27 marzo, si ispira al romanzo omonimo di Rosella Postorino vincitore del Premio Campiello nel 2018, basato sulla vicenda reale di Margot Wölk, segretaria tedesca obbligata per due anni e mezzo a ingoiare il cibo destinato ad Hitler nel “Wolfsschanze”, “Tana” o “Trincea” del Lupo, uno dei suoi quartieri generali, all’epoca nella Prussia Orientale. Margot Wölk di tutte le “assaggiatrici” è l’unica sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale e la sua storia è divenuta pubblica grazie a un’intervista per il suo novantacinquesimo compleanno nel dicembre 2012; due anni dopo è scomparsa.

Il film di Silvio Soldini racconta di una ragazza che durante la guerra da Berlino arriva in campagna dai genitori del marito, partito per il fronte subito dopo il matrimonio. I suoceri abitano ai margini di una foresta dove c’è un rifugio segreto di Hitler e lei spera, in quel luogo dove l’eco dei combattimenti è lontano, di trovare lavoro perché è ridotta al limite della sussistenza. Una mattina, inaspettatamente, la giovane viene bruscamente prelevata e condotta al quartier generale dove il Führer trascorre periodi in incognito.  Lì, inaspettatamente, le viene offerta insieme ad altre sei donne, un’occupazione remunerata: si tratta di assaggiare il cibo del Führer per evitargli l’avvelenamento …

La giovane protagonista tedesca (Elisa Schlott) è una donna semplice, succube con molte sfaccettature; la vediamo legarsi a un nazista, ma anche soccorrere un’ebrea. L’abile regia di Soldini bene racconta la complessità dei sentimenti umani, attraverso fatti storicamente accaduti e associabili al dominio di ogni potere che nutre di cibo avvelenato: nel film, come fu nella realtà, le assaggiatrici sono tutte donne, uno degli anelli deboli della catena umana. Soldini ha più volte dichiarato alla stampa di aver trovato delle similitudini tra questa rievocazione e ciò che si comincia a sentire ai nostri giorni, nei quali tocchiamo con mano la supremazia del più forte e le guerre sono più vicine. Il regista pensa che un Hitler potrebbe ripresentarsi, anche se potrebbe rivelarsi un po’ diverso.

Al di là dell’importanza del contenuto, “Le assaggiatrici” è anche un’opera ben fatta e godibile: gli attori sono bravi e la narrazione scorre e interessa perché, per quanto evocativa, è viva e realistica.

Un film di Silvio Soldini con Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Nicolo Pasetti, Marco Boriero. Genere: Drammatico
Durata: 123 minuti
Produzione: Italia, Belgio, Svizzera 2025
Uscita nelle sale: giovedì 27 marzo 2025

Ufficio stampa Ronzitti

Bruna Alasia