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Cultura e Media

Partito Comunista Venezuelano: “Parteciperemo alle elezioni del 25 maggio a fianco della Rivoluzione Bolivariana”

La direzione nazionale del Partito Comunista Venezuelano  smentisce categoricamente che la nostra organizzazione politica non parteciperà alle prossime elezioni del 25 maggio, in cui verranno eletti i deputati dell’Assemblea nazionale, dei governatorati e dei consigli legislativi.

Condanniamo il fatto che coloro che svolgono la funzione di leader della nostra organizzazione, il cui capo visibile è Oscar Figuera, utilizzino i simboli della nostra organizzazione per dire al popolo venezuelano e al mondo “che il Partito Comunista del Venezuela non parteciperà al prossimo processo elettorale”. Questo gruppo guidato da Oscar Figuera e dai suoi complici è stato espulso per essersi allineato all’estrema destra venezuelana e per aver condiviso il discorso dell’imperialismo nordamericano -USA-, nell’obiettivo di rovesciare il governo rivoluzionario del compagno operaio Nicolás Maduro.

Oggi più che mai, i comunisti di questa Patria di Bolívar e Chavez, ribadiamo il nostro impegno con la Rivoluzione Bolivariana e Chavista e saremo uniti in un unico blocco unitario attraverso il Grande Polo Patriottico Simon Bolivar nella ricerca di una Vittoria perfetta il 25 maggio, per continuare a garantire con i legislatori rivoluzionari, la costruzione delle leggi necessarie per la trasformazione della nostra Patria, per continuare a creare le condizioni per una Società Socialista, che garantisca al nostro popolo e in particolare alla classe operaia e contadina, la maggior somma possibile di felicità.

Mettiamo in guardia il movimento rivoluzionario dell’America Latina e del mondo dal farsi ingannare da coloro che oggi camminano mano nella mano con i settori fascisti in Venezuela. La storia ha dato ragione a coloro che hanno deciso di salvare il nostro glorioso Partito Comunista.

Oggi il nostro Partito è dove è sempre dovuto essere, accanto alla Rivoluzione Bolivariana, accanto al nostro popolo chavista.

Venezuela 20 febbraio 2025

DIREZIONE NAZIONALE DEL P.C.V.
ENRICO PARRA – PRESIDENTE DEL P.C.V.

(da Dario Rosso, inviato a Caracas del Comitato Italia-Venezuela Bolivariano)

Redazione Italia

Il cronico trauma della guerra. Donne e bambini le prime vittime.

La guerra è una bambina 

vittima di abusi e maltrattamenti 

che non abbiamo saputo proteggere

Gloria Aria Nieto

Il 23 febbraio, presso la libreria IoCiSto di Napoli si è svolta la presentazione del libro di Maurizio Bonati Il cronico trauma della guerra. Donne e bambini le prime vittime, Edito dal Pensiero Scientifico Editore. L’iniziativa è nata nell’ambito del programma di eventi del Presidio Permanente di Pace, nato all’indomani dello scoppio dell’ultima guerra israelo-palestinese, da un’idea di un gruppo di soci della Libreria IoCiSto che si incontrano di domenica per parlare di PACE. L’incontro, con la presenza dell’autore, ha rappresentato un momento di riflessione collettivo e partecipato sul protrarsi dei conflitti armati nel mondo e in particolare dopo tre anni di occupazione russa in Ucraina e a 17 mesi di distruzione ad opera israeliana nella Striscia di Gaza.

Prima, durante, dopo e sempre, in accordo con l’impostazione del libro, sono stati i momenti che hanno scandito lo scambio di osservazioni ed emozioni tra i partecipanti. 

Prima. Prima di una singola guerra ce n’era stata un’altra e altre si svolgono contemporaneamente. I conflitti violenti collettivi posti in essere fra gruppi organizzati (la guerra) sono una cinquantina nel mondo. Sono ad alta, media o bassa intensità: tra Stati o gruppi etnici, politici, religiosi. La guerra è infinita, anche quando apparentemente è terminata. Il diritto alla vita e alla libertà è ancora troppo spesso e a troppi popoli negato. 

Durante. Le condizioni in cui le persone nascono, crescono, lavorano, vivono e invecchiano vengono tragicamente stravolte nel corso di un conflitto. La distruzione di case, scuole, ospedali, luoghi di lavoro minaccia completamente la vita delle popolazioni vittime di guerra. La Russia ha perso sinora oltre 850.000 soldati in Ucraina, mentre sono oltre 46.000 i soldati ucraini uccisi e 390.000 i feriti sul campo di battaglia. Nei primi 15 mesi di guerra, almeno 46.707 persone sono state uccise nella Striscia di Gaza, tra cui circa 18.000 bambini. 110.265 i feriti. Molti analisti e gruppi per i diritti umani ritengono che il numero reale di uccisioni sia molto più alto (oltre 60.000 i morti e 180.000 i feriti). Con i bambini sono le donne le prime vittime della guerra. Vittime di violenza sessuale, stupro e mancanza di accesso a cure sanitarie salvavita per esempio a causa di complicazioni durante la gravidanza o il parto. 

Dopo. Si stima che per la ricostruzione di quanto distrutto nella Striscia di Gaza siano necessari oltre 50 miliardi di dollari. Un investimento economico non solo quello della distruzione (armi, armamenti, politiche…), ma anche la ricostruzione è fonte di guadagno e speculazione. Le fantasticherie dello spostamento di massa dei 2 milioni di residenti dell’enclave palestinese proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per creare la Costa Azzurra del Medio Oriente ne sono testimonianza. Ma quanti anni sono necessari affinché la vita di una popolazione vittima di guerra torni ai livelli iniziali? Non si sa con certezza perché ancora scarsa è stata sinora l’attenzione in proposito. Tante le variabili da considerare, ma le indicazioni ci dicono che almeno 15 anni sono necessari. Il “dopo” ha attratto molte delle considerazioni fatte nel corso dell’incontro sottolineando l’impegno e la responsabilità di un Presidio Permanente di Pace di seguire nel tempo il “ritorno” e il miglioramento delle condizioni di vita delle vittime.

Sempre. La storia personale di molti dei presenti ha incrociato e percorso le strade della non violenza, dell’antimilitarismo, dell’obiezione di coscienza, della disubbidienza civile e anche gli incontri domenicali di IoCiSto sono a testimonianza di queste scelte permanenti. “Ci sono cose da non fare mai: per esempio la guerra”. Altre invece da sostenere, promuovere sempre: per esempio la PACE. La PACE va insegnata in famiglia, a scuola, ovunque. Bisogna essere educati alla PACE.

Iocisto Presidio di Pace – Silvana Spina

Redazione Napoli

Liberalfascismo. Come i liberali distruggono la democrazia e ci portano in guerra

È aria di fascismo. Non (o non solo) quello storico, istituzionalizzato nel Ventennio, sconfitto dalla Resistenza partigiana, bensì uno in vesti aggiornate che altro non è, come sempre, se non la faccia nefasta dell’imperialismo in crisi, il sostegno in forma di violenza alle politiche economiche e sociali neoliberiste della classe dominante, il substrato necessario alla crescita delle disuguaglianze.

Questo il leitmotiv del libro “Liberalfascismo, come i liberali distruggono la democrazia e ci portano in guerra” di Giorgio Cremaschi edito con Mimesis Edizioni.

Il fascismo è democrazia? Per niente. La globalizzazione liberista e la politica economica neoliberista stanno dominando il mondo a discapito delle sinistre social-liberali.

Attualmente viviamo la prevaricazione del liberalfascismo, ossia della supremazia dei partiti di destra e di quelle componenti politiche asservite al potere del capitale che equivalgono al neoliberismo imperante.

In passato il fascismo è cresciuto con i finanziamenti ricevuti da multinazionali, come si evince anche dal caso e dall’assassinio Matteotti. Attualmente il fascismo si manifesta con il liberismo imposto e dettato dal neoliberismo prevaricante che ha preso piede a livello globale a partire dal 1973 con l’omicidio di Salvador Allende in Cile e poi ancora con l’ascesa della dittatura di Pinochet e l’avvento della masnada dei Chicago Boys che culmina con il trattato tra Reagan e Thatcher e Wojtyla negli anni ‘80.

Il libro di Giorgio Cremaschi pone un quesito che risponde alla questione: ma i fascisti non ci sono più o esistono ancora? Il discrimine lo troviamo nel modello politico dell’Unione Europea che non ha nulla a che vedere con il grande progetto visionario e utopico di Ventotene e di Altiero Spinelli. L’Europa delle genti e dei popoli e delle minoranze senza più guerre e conflitti armati, nel rispetto delle carte costituzionali. 

Attualmente invece vige e impera l’Europa delle multinazionali e delle grandi banche armate che finanziano le guerre in ogni parte del globo a discapito di un’Europa utopica fondata sull’accoglienza e la solidarietà e l’antifascismo, ma non quello atlantista naturalmente. Oggi viviamo un’Europa incapace di svolgere il proprio ruolo di ago della bilancia di un sistema globale che sempre più si rifiuta di contrapporsi all’escalation militaresca e all’avanzata del potenziale sterminio nucleare e dei signori dell’atomo, del petrolio, della guerra, dell’acciaio che sono i detentori dell’apocalisse atomica.

Giorgio Cremaschi afferma di non conoscere ormai la società, ma solo individui. In quanto l’individualismo è concepito come prevaricazione di potere e competitività sfrenata e corsa al riarmo e al controllo delle risorse globali a discapito dell’uguaglianza economica che è soppiantata da una incredibile sperequazione che conduce alla concentrazione di grandi quantità di risorse e beni comuni nelle mani di pochi potenti detentori del capitale. 

Mentre la società si trasforma sempre più in un agglomerato individualista secondo i dettami fascisti e le imposizioni gerarchiche. Questa invece dovrebbe incarnare un esempio, un monito di comunità laica, un sentire comunitario condiviso, fondato sulla solidarietà, l’accoglienza e l’inclusione e l’amore tra le persone e i popoli.

Il liberalfascismo deporta le persone verso una democrazia dello sfruttamento in un’accezione estremamente negativa dove il più debole e il più fragile e l’ultimo dell’anello sociale sono posti ai margini dall’individualismo che permea in senso dannoso e deleterio l’attuale società.

Quindi l’austerità contro la democrazia. Ossia si chiede sempre più un estremo sacrificio e illecita sottomissione da parte degli ultimi e di tutti i cittadini e lavoratori che vivono con il solo loro reddito al fine di incrementare la ricchezza nelle mani dei privati e non dello Stato sociale e dei servizi pubblici e al contrario nella concentrazione del massimo benessere e profitto nelle tasche dei più potenti e dei padroni che detengono il capitale. 

Per questo Cremaschi tratta di una ‘democrazia di Apartheid’ dove gli ultimi della società ‘civile’ scontano il lavoro coatto e la miseria di un nefasto e funesto sistema accumulatorio e predatorio che avvantaggia sempre i più potenti a livello globale e i benestanti e benpensanti e i padroni e i signori della guerra. 

Per questo non si vive in una democrazia sana e basata sugli ideali della Costituzione Repubblicana nata dalla lotta al nazifascismo in tutta Europa nel novecento, ma ci si scontra su un modello di ‘democrazia anticomunista’ che equipara, in modo revisionista, il modello comunista con la spregiudicatezza del fascismo e l’orrore e la barbarie di quello che è stato il nazifascismo nell’Europa del cosiddetto e nefasto secolo breve. Quindi risulta una ‘democrazia truccata’ perché non si attiene ai dettami e agli ideali e ai valori della costituzione e del diritto internazionale. Ma si avvale di disvalori mefitici, moralmente guasti e pericolosi, del fascismo più abietto con il tramite del militarismo che pervade attualmente e inizialmente il sistema scolastico e l’università e infine la società nel suo complesso.

Il motto più usuale in questo contesto appunto mefitico è Dio, patria, famiglia in quanto non si lascia spazio alla libertà di pensiero, alla libertà di scelta e alla laicità inclusiva e alla diversità delle differenze in nome di un bigottismo e un provincialismo e menefreghismo e della borghesizzazione del sociale che portano alla fascistizzazione del concetto e contesto comunitario come sosteneva don Milani.

Cremaschi denuncia un ritorno a un’Italia dei fasti repubblichini dove si assiste a un travaglio di passività di molte frange della popolazione e in contrapposizione a moti di ribellione soprattutto di diverse parti dei giovani che non vogliono sottostare alle imposizioni neoliberiste e alle minacce e emergenze che attanagliano la società a livello glocale e l’umanità a partire dall’universale. Per cui si assiste ad un ‘bivio della paura’ farneticante che porta a sgomento e allo stesso tempo a volontà di riflessione e di azione e rivolta da parte di alcune frange giovanili. 

I giovani di Fridays for Future e di Extinction Rebellion e di Ultima Generazione e gli studenti universitari e tutti i pacifisti, i disertori, i renitenti e gli obiettori che nel mondo si rifiutano di imbracciare le armi e di andare in trincea per combattere e andare incontro all’autodistruzione immediata, ma anche e soprattutto all’annientamento dell’intero genere umano sono le variegate realtà di lotta e resistenze estrema che tutti insieme dobbiamo sostenere come società libere e pensanti in una nuova stagione di resistenza per la pace universale, contro i metodi autoritari del fascismo all’interno dell’ideologia liberale come esito della capitalizzazione a destra del sistema neoliberista. Infatti, la globalizzazione liberista e la politica economica neoliberista stanno dominando stabilmente il mondo a discapito delle sinistre social-liberali che non vogliono le guerre e i genocidi e lottano e resistono, al contrario di questo contemporaneo sistema congiunturale distorto, per il valore e l’ideale più alto: la pace.

 

Laura Tussi

Trentuno anni senza dimenticare Ilaria e Miran: le celebrazioni partono da Parma

La città di Parma continua anno dopo anno a ricordare la giornalista del tg3 Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin assassinati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio in Somalia.

Al ricordo si accompagna un appello per la verità e la giustizia che, in tutti questi anni, tante associazioni non hanno mai smesso di rilanciare, perché, anche dopo 31 anni, ancora non si conoscono gli esecutori materiali e i mandanti dell’attentato.

In vista dell’anniversario giovedì 6 marzo dalle ore 11 dall’Auditorium di Palazzo del Governatore (ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili) la Biblioteca Internazionale Ilaria Alpil’Assessorato alla Cultura, in collaborazione con Art. 21, Libera e Umberto e Ginevra Alpi, cugini della giornalista, promuoveranno anche per le scuole secondarie di Parma l’esperienza di un reportage giornalistico dal vivo grazie al “cantacronache” Stefano Corradino e al suo recente libro “Note di Cronaca” che raccoglie le notizie che curato per Rainews24. Storie di mafie, guerre, morti sul lavoro, diritti umani negati e giornalisti uccisi ed un intero capitolo/canzone dedicato ad Ilaria Alpi che ricordato insieme al giornalista RAI di lungo corso Giuseppe Giulietti e alla giornalista Costanza Spocci.
Ilaria era una cittadina del mondo, con una specializzazione in lingua araba e cultura islamica che nel 1990 entrò nella squadra di RAI3 come corrispondente da quel quadrante geo-politico molto conflittuale. Un anno dopo iniziò a seguire come inviata la missione ONU “Restore Hope” che avrebbe dovuto mettere fine alla guerra civile in Somalia, ma in Africa orientale un’inchiesta parallela andò a toccare traffici illeciti di armi e rifiuti tossici.

Il racconto di Stefano Corradino sarà arricchito dal contributo dei video inediti di Francesco Cavalli ideatore e direttore dell’omonimo Premio di Giornalismo, ma soprattutto colui che, insieme ad alcuni colleghi altrettanto tenaci, non ha mai smesso di indagare. Produttore televisivo e responsabile di un gruppo editoriale radiotelevisivo, ha realizzato come autore diversi reportage tra i quali Somalia Italia e Un clown a Gaza.

Il papà di Ilaria, Giorgio, originario del parmense aveva fatto scoprire estati d’Appennino ad Ilaria adolescente prima del trasferimento e degli studi a Roma. A Parma è intitolata ad Ilaria, dal 2009 una biblioteca internazionale, nella splendida cornice del Complesso del San Paolo dove nella mattinata del prossimo 6 marzo verrà deposto un omaggio floreale per ricordare l’anniversario.

Fonte: Comunicato del Comune di Parma

Redazione Italia

È finita la battaglia per la libertà di Maysoon Majidi, non quella del popolo Kurdo

Maysoon Majidi prima di tutto è una giovane kurda, poi attivista e regista, fuggita dal regime islamico dell’Iran, uno dei regimi occupanti del Kurdistan, che è stato sacrificato e diviso per la volontà dell’Occidente che nel primo dopoguerra ha modificato la carta geografica e i confini del Medioriente, creando alcuni paesi e sacrificandone altri. Così il Kurdistan è stato diviso tra Iraq, Iran, Turchia e Siria e in seguito il popolo kurdo è stato sempre perseguitato. Per questo ha dovuto scegliere tra rimanere sottomesso o combattere, scegliendo di combattere; da quel momento sono iniziate la resistenza e la lotta del popolo kurdo e in un secolo i Kurdi sono stati attaccati anche con armi chimiche, uccisi in massa subendo un genocidio.

Ancora oggi quando si parla di bombardamento chimico e di genocidio, l’attenzione si rivolge subito e giustamente, a Hiroshima e alla Shoah; purtroppo la storia drammatica e la sofferenza dei Kurdi, come di altri popoli che hanno subìto genocidi negli ultimi anni, sono sistematicamente dimenticate, nel silenzio assordante delle istituzioni e dell’opinione pubblica. I Kurdi hanno vissuto la crudeltà di tutti i regimi che hanno governato e governano tuttora il Kurdistan. In Turchia ci chiamano i “turchi della montagna”, in Siria non abbiamo neanche il diritto di avere i documenti di identità, in Iraq non potevamo avere posti di lavoro se non eravamo del partito del Al-Bath, ci hanno mandato via dalle nostre case e hanno trasferito al nostro posto gli arabi per cambiare la demografia delle città kurde; in Iran eravamo considerati inesistenti: chi uccide un kurdo andrà in paradiso (fatwa di Khomeyni durante la preghiera del venerdì). In nessuno di questi stati occupanti si può parlare il kurdo, a differenza della Regione del Kurdistan autonomo in Iraq, regione federale dal 1990 dopo la guerra del Golfo, quando la lingua kurda è diventata la seconda lingua ufficiale del paese, ma ciò non vuol dire che sia tutto rose e fiori.

Il popolo kurdo, circa 40 milioni di persone, ancora oggi viene definito’ minoranza’ ed è senza una nazione. I diritti dei Kurdi sono calpestati da tutti e anche da coloro che si definiscono difensori dei diritti umani e dei valori di giustizia, che siano politici, giornalisti o attivisti. Per tornare al caso di attualità di Maysoon Majidi, tutti i media parlano in nome della difesa della libertà e dei diritti, ed invece sono i primi che li calpestano, senza che se ne rendano conto; infatti generalizzano il suo caso riferendosi alla norma del velo obbligatorio e alle leggi repressive per le donne in Iran. Riporto anche come esempio la vicenda della giovane kurda Jina Amini (che è stata la scintilla per accendere la rivoluzione “Jin Jyan Azadi” in Iran), che ancora oggi spesso viene chiamata “Mahsa”, il nome che le è stato dato dal regime per obbligo, perché i kurdi non possono avere o essere registrati con il nome kurdo. Nominarla come Mahsa rappresenta la negazione dei diritti della persona “Jina” e del popolo kurdo.

Quando si parla del regime islamico dell’Iran, della politica religiosa nel dominio assoluto, sia l’Occidente che gli stessi cittadini iraniani parlano di repressione nei quaranta anni di potere, che ha reso obbligatorio l’uso del foulard e ha limitato i diritti delle donne. Questo è vero fino a certo punto, perché democrazia e giustizia non c’erano nemmeno durante i regimi precedenti: è vero che lo shah, il sovrano di Persia, l’amico dell’Occidente, non obbligava l’uso del foulard, però non c’erano la democrazia, le libertà fondamentali e il rispetto dei diritti della persona; i kurdi erano sempre perseguitati. Ricordiamo che il carcere di Evrin era stato costruito per i kurdi, per i comunisti e per altri popoli (minoranze) oppositori in Iran. Oggi ad Evrin, dove è stata detenuta Cecilia Sala, si trovano anche tanti iraniani. I Kurdi, quindi, subiscono ingiustizia e repressione sin da quando il Kurdistan è stato smembrato, operazione che ha fatto sì che fuggissero e si rifugiassero in Europa e nel mondo.

Quindi Maysoon Majidi era ed è una dei milioni di Kurdi che si sono allontanati per salvarsi la vita e per avere la libertà; anche lei è dovuta scappare in Europa perché non ha trovato la sicurezza nemmeno in quella parte del Paese che oggi viene chiamato “Regione del Kurdistan autonomo in Iraq”, dove Maysoon si era recata per poter continuare la sua lotta e dove ha subìto gravi minacce. E’ scappata da un regime criminale e finita in un carcere italiano perché considerata ingiustamente scafista; in un paese libero invece di trovare la libertà “è caduta dalla bocca del lupo e finita nella bocca del leone”, come dice un proverbio kurdo.

Però non abbiamo mai perso la fiducia nella giustizia italiana. Maysoon da donna kurda ed attivista ha resistito e ha cercato di difendersi per avere la giustizia che non ha avuto in patria, con l’aiuto di tante persone, associazioni e anche di alcuni politici che le sono stati vicini. Ed è stata finalmente assolta!
Quello che importa sottolineare è che durante tutta l’assurda vicenda, ma anche dopo, Maysoon e il popolo kurdo continuano a subire ingiustizie e negazione dei diritti senza che vi sia alcuna attenzione dei media; c’è stato chi ha cercato purtroppo di strumentalizzare la vicenda di Maysoon per motivi politici e partitici.

E’ vero, tanti hanno difeso Maysoon ma allo stesso tempo tanti continuano a non riconoscere la sua identità di persona: alcuni giornali noti, conduttori televisivi che l’hanno intervistata e politici di chiara fama ancora oggi scrivono “ Maysoon, attivista iraniana, attivista kurda iraniana”, anzichè scrivere ‘attivista kurda’, punto e basta, o ‘attivista del Kurdistan occupato dall’Iran’, oppure ‘attivista di Rojhalat’; in questo modo, anche per ignoranza, negano l’identità e i diritti del popolo kurdo.
Ecco perché, tristemente, la storia del popolo kurdo è “la storia di uno Stato mai nato”.

Gulala Salih, donna Kurda, scrittrice e presidente di UDIK “ Unione donne Italiane e kurde”

Unione Donne Italiane e Kurde (UDIK)

Perché i neologismi “Pelecida” e “Pelecidio”?

A seguito del lancio di “Call to Action per la Palestina. Appello all’Accademia della Crusca” , finalizzata all’inserimento del lemma “Pelecidio” all’interno del vocabolario della lingua italiana, alcuni attivisti hanno sollevato legittimi dubbi relativamente all’utilizzo della parola ebraica תשלפ (Peleshet) quale radice del neologismo.

A ben considerare, si sarebbe potuto utilizzare il termine egiziano pꜣ-r-s-t (Peleset), diffuso durante tutto il XII secolo a.C. e rinvenuto in diverse iscrizioni coeve per quanto, l’utilizzo del termine egizio, non avrebbe modificato il conio del neologismo, data l’affinità fonologica tra i due termini, giustappunto insistenti entrambi in aree e periodi storici sovrapponibili.

Dunque, che si utilizzi la radice ebraica o quella egizia, il neologismo “pelecidio” non varia.
Fatta questa doverosa premessa, riteniamo tuttavia che l’utilizzo del termine ebraico, piuttosto che dell’equivalente egizio, dia ulteriore valore aggiunto e una più profonda stratificazione semantica.
Innanzitutto perchè sconfessa tutta la falsa retorica del “Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un popolo palestinese” per cui, secondo questo negazionismo storico, il popolo palestinese sarebbe “una finzione” elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista. (B. Smotrich, G. Meir e altri).

Quale migliore risposta a questi falsari storici se non farli sbugiardare direttamente dalla loro stessa lingua, dal loro stesso libro rivelato che, 3 millenni fa, certificava l’esistenza in Palestina del pre-esistente popolo dei תשלפ?

In seconda battuta, l’utilizzo di un termine ebraico per definire il genocidio del popolo palestinese lega indissolubilmente, dal punto di vista linguistico, l’oppressore all’atto genocidale da lui compiuto: ebraica è la radice della parola perché ebraica è la lingua parlata da coloro che (per lo meno, nella loro componente “pelecida” appunto) hanno la responsabilità di questi massacri.

Un abbraccio linguistico che sfida dunque il tempo e, anche fra secoli, continuerà ad agganciare attori e azioni.

A tal proposito rilanciamo la nostra campagna di segnalazioni sul sito dell’Accademia della Crusca, rimandando le istruzioni al seguente link: https://www.pressenza.com/it/2025/02/call-to-action-per-la-palestina-appello-allaccademia-della-crusca/

 

Luca Sciacchitano, Lorenzo Poli, Silvia Nocera, Veronica Tarozzi, Grazia Parolari, Paola Giordana Di Nardo, Simone Casu

Multimage

Storia e memoria: incontro a Pistoia per il Giorno del Ricordo

Nell’ambito delle celebrazioni del Giorno del Ricordo, organizzate dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPT), insieme all’Anpi, lunedì 17 febbraio, presso la libreria Feltrinelli di Pistoia, si è tenuto un interessante incontro dal titolo “Violenze e traumi del dopoguerra del Novecento nella regione Alto Adriatica”.

L’incontro originariamente doveva essere condotto da Stefano Bartolini, direttore dell’Istituto Storico pistoiese, in dialogo con Marta Verginella, docente di Storia all’Università di Lubiana. Per motivi di salute purtroppo la Professoressa non ha potuto essere presente ed il dialogo si è svolto allora tra Stefano Bartolini e Francesco Cutolo, ricercato in storia e collaboratore dell’ISRPT, che ha introdotto il tema. E’ subito emersa la necessità di storicizzare gli avvenimenti verificatisi nel periodo indicato lungo il confine orientale, una regione mistilingue e multietnica di notevole complessità per le relazioni tra i vari gruppi, che per secoli avevano convissuto sotto l’Impero Asburgico, ove la costruzione di uno stato nazionale, per definizione monoetnico, incontra grosse difficoltà. Con le conquiste seguite alla Grande Guerra, l’Italia occupa nuove porzioni di questo territorio, ritenuto erroneamente italiano da sempre, scontrandosi con una realtà in cui la popolazione, si parla di circa 400.000 persone di etnia slovena o croata, ha invece grande diffidenza verso i nuovi arrivati. Tale atteggiamento sarà interpretato come apertamente ostile dall’esercito italiano, che inizia ad agire molto duramente, anche attraverso fucilazioni, accusando molti civili di essere sabotatori o spie del nemico. Dalla trattazione è emerso poi l’atteggiamento subito apertamente anti slavo e razzista del fascismo, che si è manifestato fino dal discorso che Mussolini tenne a Trieste il 2 settembre 1920, ove definì gli slavi “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili” e che poi sfociò, il 13 luglio del 1920, nell’incendio del Narodni Dom, la “casa della cultura” slovena di Trieste, nel corso di quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato“. Con la salita al potere del fascismo si assiste inoltre alla sistematica eliminazione di ogni riferimento alla lingua e alla cultura slovena. L’unica lingua ammessa, ovunque e comunque, è l’italiano. Tutti i nomi, sia di persone, che di località vengono italianizzati e tutte le organizzazioni slave, economiche, politiche o culturali, vengono cancellate, in ciò che è stato definito un vero e proprio etnocidio.

Nel maggio del 1941 l’Italia, con la Germania, invade la Slovenia e ne annette la parte meridionale, che diventa la Provincia Italiana di Lubiana. Nell’area, dove vivevano circa 320.000 persone, sorge subito un movimento di resistenza, guidato dai comunisti sloveni, per contrastare il quale l’Italia fascista invia un esercito di circa 60.000 uomini, che mette in atto una feroce repressione e una vera e propria guerra ai civili, durante la quale, in appena due anni, circa 50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese. Esemplari sono le parole del Generale Roatta, comandante le truppe italiane, che nel marzo del ’42, all’interno della famigerata circolare 3C, stabiliva che “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula «dente per dente», ma bensì da quella «testa per dente»”. Gli farà eco il suo sottoposto, generale Robotti, che in una nota ai suoi soldati osserva che “si ammazza troppo poco!”. Oltre a uccisioni, incendio di villaggi e altre violenze di vario tipo, l’esercito italiano colpisce la popolazione slovena con deportazioni di massa, tra cui donne e bambini, nel tentativo di creare terra bruciata intorno ai resistenti. I deportati sloveni, assieme ad altri croati, montenegrini, greci ed ebrei, per un totale di circa 100.000 persone, vengono internati in una serie di campi di concentramento, sparsi per Slovenia, Croazia e Italia, dove circa 5.000 di loro moriranno a causa di fame, freddo e malattie legate alle terribili condizioni di detenzione, intenzionalmente applicate dagli italiani. Illuminanti sono le affermazioni del generale Gambara che nel ’43, riferendosi al campo sull’isola di Arbe (Rab), scrisse “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”. Ad Arbe, su un totale di circa 10.000 civili deportati, compresi donne, vecchi e bambini, circa 1500 morirono per le condizioni di detenzione. Il più piccolo aveva meno di un anno, il più vecchio oltre novanta.

Tutto ciò terminerà l’8 settembre 1943, con l’armistizio e lo sfascio totale dell’esercito italiano. Nelle regioni di confine parte a questo punto la vendetta delle popolazioni slave che, con una sorta di rivolta contadina non organizzata, aggrediscono, in vendette personali e regolamenti di conti, i simboli e i rappresentanti dello stato occupante. E’ questa la prima parte della vicende delle cosiddette foibe, cavità carsiche, dove vengono gettate alcune delle persone uccise, al fine di occultarne i corpi. Questa fase si conclude rapidamente con l’arrivo dell’esercito tedesco, che riprese subito il controllo del territorio, poi direttamente annesso al Reich, e continuò l’occupazione e la guerra con la consueta catena di crimini e stragi di civili. Nella primavera del 1945 la guerra termina con la vittoria dell’armata titina, che arriva a Trieste, assieme agli Alleati e ai partigiani italiani. E’ in questo periodo che, nelle zone controllate dall’esercito jugoslavo, si svolge la seconda e più vasta fase della sanguinosa vicenda delle foibe, anche se in questo caso la maggior parte delle vittime non moriranno nelle foibe, ma nei campi di prigionia jugoslavi, non per fucilazioni, bensì ancora per le pessime condizioni di detenzione. In questa fase, alla fine della guerra, la Jugoslavia è un vero e proprio Stato comunista, che vuole imporre il proprio controllo su tutti i territori liberati, sia punendo coloro che sono considerati criminali di guerra, collaborazionisti o comunque nemici della Resistenza, sia colpendo tutti quelli ritenuti pericolosi, perché contrari al comunismo, o, nel caso del confine, perché contrari all’instaurazione del potere jugoslavo.

E’ sempre nell’ambito di queste violente vicende belliche e post belliche che si inseriscono anche gli altrettanto dolorosi avvenimenti dell’esodo da Dalmazia, Istria e Venezia Giulia, sia delle popolazione italiane che là vivevano da tempo immemore, sia di quelle immigrate dopo le conquiste territoriali della prima guerra mondiale o a seguito dei tentativi dell’Italia fascista di italianizzare i territori originariamente slavi o multietnici. L’esodo di circa 250.000 italiani e 50.000 tra sloveni e croati, si svolgerà in più fasi, che corrispondono alla stabilizzazione del quadro statuale e dei confini, con l’allargamento progressivo delle zone amministrate dalla Stato Jugoslavo il quale, pur non emanando mai alcuna norma che obbligasse nessuno ad andarsene, fece in vario modo pressioni per favorire la partenza degli italiani. Le partenze si concentrarono infatti soprattutto in occasione dei trattati del 1947 e del 1954, quando apparve chiaro che gli jugoslavi non se ne sarebbero andati dai territori loro assegnati.

Dalla lunga disamina dei relatori è emerso quindi che le tragiche vicende di foibe ed esodo vadano comprese, anche se non giustificate, all’interno di un contesto storico, che spesso non coincide con la memoria dei singoli.

Enrico Campolmi

“Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo” – Dal 26 febbraio su Sky Documentaries e in streaming solo su NOW

Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo è un documentario Sky Original in due parti, prodotto da Sky e Palomar in associazione con Sky Studios in esclusiva dal 26 febbraio alle 21.15 su Sky Documentaries e in streaming solo su NOW. La docuserie di e con Roberto Saviano, racconta di un uomo che cambia pelle, sapendo restare straordinariamente fedele a sé stesso, e di 30 anni di indagini per far riemergere la verità sul suo omicidio.

Con soggetto e sceneggiatura di Roberto Saviano e Stefano Piedimonte e la regia di Giovanni Troilo, il documentario è un viaggio intorno a una figura straordinaria, capace di trasformarsi in tante vite diverse attraversando epoche e forme di lotta differenti, col suo carisma e il suo bisogno di cambiare senza però smettere di obbedire allo stesso principio guida: il costante desiderio di curare sé stesso e il mondo.

Una storia che culmina col suo omicidio politico, i depistaggi e gli anni di ricerche che sono stati necessari per ottenere verità e giustizia, nel labirinto di incompetenze e occultamento delle prove.

Rostagno rappresenta uno spaccato della storia italiana per 20 anni, dal 1968 al 1988, attraversando le lotte giovanili del 1968, l’esperienza ai vertici di Lotta Continua, la fondazione del centro sociale milanese per l’attivismo politico e l’espressione creativa Macondo, l’appartenenza all’ashram di Osho a Pune, la creazione del suo ashram siciliano trasformato in centro di riabilitazione per tossicodipendenti, Samaan. Ha sempre fatto parte di qualcosa, senza mai essere inghiottito ed etichettato, senza perdere la sua originalità. Rostagno, in tutte le sue vite, è sempre stato un personaggio scomodo, perché ha gridato a piena voce le sue convinzioni, approdando perfino a RTC, una piccola televisione locale, reinventandosi giornalista e denunciando le collusioni tra mafia e politica locale. Dopo l’omicidio di Rostagno, avvenuto il 26 settembre 1988, le indagini hanno preso mille direzioni diverse.

Un lungo, doloroso ed estenuante slalom prima di accertare la verità: ad uccidere Mauro è stata la mafia, su cui Rostagno stava caparbiamente indagando, contro cui stava lottando con la sua ironia feroce e la sua intelligenza infaticabile.

Redazione Italia

I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Diversamente da altri Paesi del resto dell’Europa occidentale in cui la documentazione della storia coloniale, delle relative ambizioni di conquista territoriale e socio-economica, delle conseguenze dell’imperialismo e dei crimini compiuti dagli attuali Stati-nazione con i quali tali trascorsi sono identificati oggigiorno, in particolare per quanto riguarda gli imperi britannico, belga e francese, sono diffuse anche nelle pratiche culturali, educative e a livello di società civile, nei paesi dell’Europa meridionale un approccio costante e sistematico alla storia meno conveniente, ma non per questo meno reale, è ancora di lenta costituzione.

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove. Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta. 

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca. Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici cosi come le università a le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”. Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie. Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano” non per la una particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 odonimi legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove. Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti.

A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi. A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione. 

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso. 

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia” promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma.

Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali. Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime.

Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti. 

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche. 

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario “Pagine nascoste” di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del “Festival delle Culture 2025”. 

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa. La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione. 

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di «Aufarbeitung», ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione. Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

Anna Lodeserto

Un seminario on line sulla militarizzazione e il riarmo

Martedì 25 febbraio inizia il quarto seminario formativo online del GIGA Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati in collaborazione con UniGramsci, promosso anche dai Cobas scuola.
I seminari sono gratuiti e, a richiesta, rilasciano attestato di partecipazione come corso di formazione da depositare nelle segreterie scolastiche o per altri utilizzi.

L’argomento di questo seminario è Economia di guerra, politiche di riarmo e militarizzazione dei territori.
Il corso si articolerà in quattro lezioni secondo il seguente programma:

* martedì 25 febbraio – Lezione 1: Tensioni geopolitiche, guerre e politiche di riarmo [Francesco Dall’Aglio, analista geopolitico, esperto di questioni militari]

* martedì 4 marzo – Lezione 2: Militarizzazione dei territori e della scuola [Candida di Franco: Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università]

* martedì 11 marzo – Lezione 3: I movimenti locali contro la militarizzazione dei territori: una prospettiva di realizzazione di un movimento nazionale [Federico Giusti: No Camp Darby – Beppe Corioni: Coordinamento No NATO Brescia]

* martedì 18 marzo – Lezione 4: L’economia di guerra: concetto, sguardo retrospettivo e situazione attuale [Andrea Vento: coordinamento del Giga, autore della serie di saggi “Economia di guerra oggi”]

Inizio lezioni ore 18.00

Per la partecipazione è necessaria la preiscrizione tramite compilazione del modulo online che trovate QUI

Il link di collegamento alle videoconferenze sarà trasmesso il giorno precedente allo svolgimento delle lezioni.

Gli incontri saranno registrati e poi resi disponibili insieme agli atti delle relazioni a questo link dove sono presenti le registrazioni e gli atti dei seminari GIGA già svolti.

Chi ha necessità del rilascio dell’attestato di partecipazione può segnalarlo al seguente indirizzo mail: gigamail2014@gmail.com.

Seminari GIGA e UniGramsci: Economia di guerra, politiche di riarmo e militarizzazione dei territori | COBAS SCUOLA PALERMO

Redazione Palermo