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Diritti Umani

Dal Consiglio UE nessuna decisione sugli “hub di rimpatrio”

1. Malgrado le aspettative italiane il Consiglio europeo del 20-21 marzo scorso ha affrontato i temi della migrazione e dei rimpatri soltanto a margine delle principali questioni che riguardavano il riarmo europeo, i conflitti in Ucraina e in Palestina, la competitività e il multilateralismo. Non è stata adottata alcuna decisione di carattere legislativo di immediata applicazione in materia di esternalizzazione dei rimpatri, ed il dibattito è rimasto nel solco dei regolamenti introdotti con il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo dello scorso anno, che dovrebbero diventare esecutivi entro il 2026. In contrasto con le dichiarazioni pubbliche dei politici di governo, che richiedono una accelerazione nella entrata in vigore del Regolamenti previsti dal Patto dello scorso anno, molti Stati membri, e tra questi, oltre l’Ungheria e la Polonia, l’Italia, sono però in ritardo nell’invio a Bruxelles dei Piani nazionali di attuazione delle misure introdotte con i nuovi Regolamenti. La legislazione europea tuttora vigente non potrà costituire dunque alcuna base legale per la esternalizzazione delle procedure di asilo in paesi terzi, sul modello del Protocollo Italia-Albania. Non c’è ancora nessun “ok a hub in Stati terzi”, oltre a generiche dichiarazioni d’intenti, utili a fini propagandistici, ma ancora di nessun impatto sul piano della normativa o della cosiddetta “cooperazione operativa” con i paesi terzi.

Il Consiglio europeo ha fatto il punto sui progressi compiuti nell’attuazione delle precedenti conclusioni sulla attuazione del Patto sulla migrazione e l’asilo, anche alla luce della recente lettera del Presidente della Commissione.

Il Consiglio ha incoraggiato ulteriori lavori in particolare su: “la dimensione esterna, in particolare attraverso partenariati globali; l’attuazione della legislazione UE adottata e l’applicazione della legislazione vigente; la prevenzione e il contrasto della migrazione irregolare, anche attraverso nuove modalità in linea con il diritto UE e internazionale; gli sforzi per facilitare, aumentare e accelerare i rimpatri, utilizzando tutte le pertinenti politiche, gli strumenti e i mezzi UE; i concetti di paesi terzi sicuri e paesi di origine sicuri; la lotta contro la strumentalizzazione, la tratta di esseri umani e il contrabbando; l’allineamento della politica sui visti da parte dei paesi vicini; nonché percorsi sicuri e legali in linea con le competenze nazionali”.

Il Consiglio europeo “ha ricordato la determinazione dell’UE a rafforzare la sicurezza alle sue frontiere esterne e a garantirne un controllo efficace, in linea con il diritto UE e internazionale”, invitando “i colegislatori a compiere progressi, in via prioritaria, sui fascicoli con una dimensione migratoria e in particolare, a esaminare rapidamente la recente proposta della Commissione sui rimpatri.”

La riunione “informale” sul “fenomeno migratorio” di alcuni capi di governo europeo, indetta dalla presidente del consiglio Meloni il 20 marzo, non ha avuto alcuna incidenza sui lavori del Consiglio europeo, che si è limitato a prendere atto della lettera della Presidente della Commissione europea Von der Leyen, in linea con il securitarismo che sta caratterizzando sempre più questa presidenza, senza però esprimere una posizione precisa in merito alla proposta di utilizzare paesi terzi come “hub di rimpatrio”. A livello europeo non c’è ancora accordo sulla nozione di paese terzo sicuro, da distinguere dalla nozione di “paese di origine sicuro” su cui dovrà pronunciarsi la Corte di Giustizia UE sulle questioni pregiudiziali sollevate dai giudici italiani in materia di trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo.

Nelle posizioni della presidente della Commissione, nel solco di una politica di esternalizzazione già evidente nel 2023, non si va oltre la mera constatazione, già espressa lo scorso anno in una analoga lettera al Consiglio UE, che l’accordo sul Patto non esaurisce la riflessione sugli strumenti a nostra disposizione, molti Stati membri stanno studiando strategie innovative per prevenire la migrazione irregolare, affrontando le domande di asilo più lontano dalla frontiera esterna dell’Ue“. Ma da questi passaggi, ribaditi nella lettera sulle politiche migratorie inviata dalla Von der Leyen al Consiglio Ue del 20-21 marzo, incentrata soprattutto sul rafforzamento di Frontex e sulla sua accresciuta capacità negoziale con i paesi terzi in materia di rimpatri, non si può ricavare alcuna base legale utilizzabile nell’immediato per il trattenimento amministrativo di richiedenti asilo nei centri di detenzione previsti dal Protocollo ITalia-Albania. Un “modello” al quale qualcuno in Europa guarda con interesse, ma senza che sia all’orizzonte un ulteriore sostegno ecomomico o una regolamentazione comune delle procedure accelerate alle frontiere (fittizie) esternalizzate nei paesi terzi.

Non si può neppure affermare che il Consiglio europeo abbia dato via libera per hub di rimpatrio in paesi terzi per “processare le richieste di asilo”, perché questi hub riguardano persone già presenti negli Stati membri e destinatarie di un provvedimento di allontanamento forzato. Esiste già un Regolamento europeo sulle procedure di asilo in frontiera che dovrebbe sostituire la vigente Direttiva Procedure 2013/32/UE, che prevede i casi di trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo, senza avallare la esternalizzazione della detenzione amministrativa, sul modello Albania per intenderci. Mentre le proposte di espellere in paesi terzi persone già presenti nel territorio degli Stati membri saranno inattuabili fino a quando resterà in vigore la attuale Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE che non consente “rimpatri” di persone, destinatarie di un provvedimento di espulsione, con accompagnamento forzato, in un paese terzo che non sia il paese di origine.

2. Il Consiglio dell’Unione europea, dunque, non ha “adottato” la “linea Italia sui rimpatri”. Le determinazioni finali sulla nuova proposta di Regolamento sui rimpatri dovranno essere assunte con una complessa procedura di codecisione, oltre che dal Parlamento, da parte del Consiglio UE, a maggioranza qualificata, da almeno 15 dei 27 Stati membri, che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione dell’Ue, un consenso molto ampio che non appare affatto scontato. La proposta del nuovo Regolamento rimpatri dovrà passare attraverso un processo di negoziazione molto lungo, tra il Consiglio e il Parlamento europeo, ed è ben difficile che trovi immediata applicazione entro la prossima estate, come auspicava il governo italiano.

Si può prevedere che il nuovo Regolamento sui rimpatri non entrerà in vigore prima dell’estate del 2027, e fino ad allora resterà in vigore l’attuale Direttiva rimpatri 2008/115/CE che impedisce sia la esternalizzazione delle procedure di asilo sul modello Albania sia la designazione di paesi terzi “sicuri” come “Hub di rimpatrio”. Non ci saranno dunque “rapidi sviluppi” per l’approvazione del Regolamento Rimpatri in Consiglio e in Parlamento europeo, “con l’obiettivo di renderlo il prima possibile operativo”.

Le trattative sul futuro Regolamento “rimpatri” saranno fortemente influenzate dalla necessità di reperire, in un momento in cui il bilancio europeo è condizionato dalle politiche di riarmo, fondi immensi, da trasferire ai paesi membri, ed all’agenzia Frontex, se davvero si vuole perseguire la politica dei rimpatri di massa e della esternalizzazione nei paesi terzi. Una politica che l’Unione europea non potrà sostenere, oltre che per ragioni giuridiche, e politiche, anche per gli ingenti costi economici che comporterebbe.

L’Italia, al di là della recente ordinanza della Corte di Cassazione sul caso Diciotti, non si presenta al tavolo del negoziato europeo con le carte in regola, soprattutto per le numerose condanne inflitte dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, per trattenimenti arbitrari in frontiera, sanzionati anche da una cospicua giurisprudenza domestica in materia di procedure accelerate di asilo e di trattenimento amministrativo. In nessun caso i trasferimenti in paesi terzi di richiedenti asilo trattenuti nei centri di detenzione in Italia potranno realizzarsi senza una pronuncia definitiva che neghi il riconoscimento di un qualsiasi regime di protezione, dopo che gli stessi richiedenti abbiano potuto valersi di una difesa effettiva davanti agli organi giurisdizionali italiani.

Dai CPR di Trapani Milo e di Caltanissetta Pian del Lago in Sicilia, al CPR di Macomer in Sardegna, passando per i CPR di Gradisca d’IsonzoMilano (Via Corelli)Torino (via Brunelleschi) e Roma (Ponte Galeria), l’esperienza italiana continua a confermare condizioni indegne di trattenimento ed una diffusa violazione dei diritti fondamentali della persona, incluso il diritto alla salute (art.32 Cost.) riscontrate da anni già nei centri di detenzione all’interno del nostro territorio. Non si vede quale tutela possano avere questi diritti in strutture (hub di rimpatrio) ubicate in paesi nei quali non sarebbero neppure garantiti i diritti di difesa secondo gli standard formali europei. Senza che ci siano le stesse limitate possibilità di accesso, di difesa legale e di denuncia, da parte delle organizzazioni non governative che operano in Italia.

3. Ai sensi dell’attuale Direttiva sulla procedura di asilo 2013/32/CE (articolo 38(2)) e del futuro Regolamento sulla procedura di asilo (articolo 59(4)), i trasferimenti verso i paesi terzi sicuri sono permessi solo se esiste “un collegamento tra il richiedente e il paese terzo in questione sulla base del quale sarebbe ragionevole per lui o lei recarsi in quel paese”. Anche se il futuro regolamento sulla procedura di asilo, che si applicherà da giugno 2026, include una disposizione per la revisione del concetto di “Paesi terzi sicuri” entro giugno 2025 (articolo 77), la possibilità di un accordo tra i paesi membri su una lista comune appare ancora molto lontana, ben al di là di quanto dichiarato da alcuni leader europei alla fine dell’ultimo Consiglio UE.

Nella proposta di Regolamento sui rimpatri si stabilisce che un accordo, o intesa, può essere concluso con un paese terzo solo se sono rispettati gli standard e i principi internazionali sui diritti umani conformi al diritto internazionale, incluso il principio di non respingimento.  […]  Le stesse basi legali degli Hub di rimpatrio rimangono assai lacunose, non possono inventarsi all’interno di accordi bilaterali con paesi terzi, e non sembrano soddisfare il rispetto del principio di legalità affermato in materia di garanzie della libertà personale dalle Costituzioni nazionali, dalla Cedu e dalla legislazione dell’Unione europea.

L’articolo 17 del Regolamento “rimpatri” richiama soltanto la possibilità di rimpatriare cittadini di paesi terzi che hanno ricevuto una decisione di rimpatrio in un paese terzo con cui esiste un accordo o un’intesa per il rimpatrio (cd. “hub di rimpatrio”). La possibilità di rimpatriare migranti irregolari in tali paesi dovrebbe essere subordinata a condizioni specifiche per garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone interessate. Ma il (futuro) Regolamento europeo sui rimpatri non contiene alcuna norma che disciplini gli hub nei paesi terzi. Non si può dunque parlare di Hub di rimpatrio come strutture nelle quali viene limitata la libertà personale senza violazioni dei principi fondanti lo Stato di diritto. […]

L’art.26 della Proposta di Regolamento stabilisce poi il diritto al ricorso effettivo contro le decisioni di rimpatrio, i termini dell’appello, mentre l’effetto sospensivo dei ricorsi, è garantito dal successivo articolo 28 secondo cui ai cittadini di paesi terzi è concesso il diritto di presentare una domanda di sospensione dell’esecuzione di una decisione di rimpatrio prima che sia scaduto il termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un’autorità giudiziaria di primo grado.

L’autorità giudiziaria ha il potere di decidere, in seguito a un esame sia dei fatti che degli elementi di diritto, se l’esecuzione della decisione di rimpatrio debba essere sospesa in attesa dell’esito del ricorso. L’esecuzione della decisione di rimpatrio è sospesa quando vi è il rischio di violazione del principio di non respingimento. Se si considera il fenomeno delle convalide meramente “cartacee” del trattenimento, adottate da diversi giudici di pace quasi “in automatico” su moduli prestampati, con finte motivazioni individuali, la limitazione del diritto di ricorso con effetto sospensivo al primo grado di giudizio rischia di caducare l’effettività dei diritti di difesa.

In base all’art.31 della proposta di Regolamento sui rimpatri gli Stati membri devono stabilire misure alternative al trattenimento, ma la norma di fatto stabilisce una detenzione amministrativa generalizzata. Secondo il successivo articolo 32, “Il trattenimento è mantenuto per il periodo più breve possibile e finché sono soddisfatte le condizioni stabilite dall’articolo 29 e finché è necessario per garantire il rimpatrio con successo”. Si prevede poi che “Il trattenimento non supera i 12 mesi in un dato Stato membro”. Il trattenimento può essere prorogato per un periodo non superiore ad altri 12 mesi in un dato Stato membro qualora la procedura di rimpatrio possa durare più a lungo “a causa della mancanza di cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della documentazione necessaria dai paesi terzi.”

Non si vede davvero come periodi tanto lunghi di trattenimento amministrativo siano compatibili con le strutture di detenzione esistenti in territorio europeo, in condizioni tanto degradate da costituire spesso luoghi di trattamenti inumani, e che potrebbero finire rapidamente ingolfate se non si praticheranno termini molto più brevi di detenzione in vista dei rimpatri. Si tratta comunque di previsioni particolarmente vessatorie che non incideranno sul numero dei rimpatri effettivamente eseguiti, perchè è ormai un dato di comune esperienza che se il paese di origine che deve accettare il rimpatrio forzato non risponde nei primi mesi, non arriverà più una risposta positiva sulla richiesta di collaborazione, neppure se proviene da un paese terzo “sicuro”. Se poi si dovesse arrivare al trattenimento amministrativo per 24 mesi in centri di detenzione ubicati in paesi terzi “hub per i rimpatri”, soprattutto in caso di mancata collaborazione al rimpatrio da parte dei paesi di origine, si arriverebbe alla istituzione di fatto a veri e propri campi di concentramento al di fuori delle frontiere europee. Con totale incertezza sulla successiva sorte di persone condannate all’infinito ad una situazione di irregolarità che, soprattutto in paesi terzi, può comportare la violazione di diritti fondamentali. […]

5. Una politica comune dei rimpatri non è neppure ipotizzabile se l’Unione europea non avrà una politica estera comune nei confronti dei paesi di origine, in alcuni dei quali sta crescendo in modo esponenziale l’influenza di altri paesi terzi, come la Turchia, la Russia. la Cina, e persino degli Stati Uniti, che ne possono condizionare le scelte di governo, all’insegna di una feroce spartizione delle risorse naturali, che conta molto più dei propositi europei di rimpatri di massa. Una politica estera verso i paesi dai quali provengono migranti forzati, costretti all’ingresso irregolare dalla mancanza di canali legali, si costruisce soltanto con il ripristino dello Stato di diritto, con la cooperazione economica in materia di migrazioni per lavoro e studio, di protezione dei richiedenti asilo e e di sviluppo eco-sostenibile, non con i voli di rimpatrio, con le forniture di armi e con la militarizzazione delle frontiere, dietro cui si cela la collaborazione con autorità statali che, come è emerso nel caso Almasri, non rispettano i diritti umani e non garantiscono alcuna protezione alle vittime.

Fulvio Vassallo Paleologo

Palestina: sconcertante silenzio internazionale di fronte allo sterminio

Il Comitato nazionale dell’ANPI lancia un appello a tutte le forze democratiche, alle istituzioni, ad ogni persona di buon senso e di buona volontà, perché in ogni modo e in ogni luogo si operi per contrastare la violentissima ripresa dello sterminio di palestinesi di Gaza da parte delle forze armate israeliane su ordine del loro governo.

Lo sterminio sta avvenendo in uno sconcertante silenzio internazionale, in particolare dell’Unione Europea e del nostro Paese, nonostante sia oramai evidente che l’obiettivo del governo israeliano è la deportazione dei palestinesi dalla striscia di Gaza e in alternativa il loro massacro, che la parte migliore della società israeliana si sta ribellando davanti a questa tragedia, che sono stati abbandonati al loro destino gli ostaggi israeliani ancora vivi nelle mani di Hamas rompendo il percorso di tregua, che lo spaventoso macello in corso avviene col pieno appoggio degli Stati Uniti.

Il silenzio dell’Italia e dell’Unione Europea davanti a ciò che sta avvenendo le condanna ad una incancellabile responsabilità storica e manifesta tragicamente ancora una volta la doppiezza della loro politica estera, ove si adottano in modo evidente due pesi e due misure quando sono calpestati nel modo più atroce i diritti umani.

Invitiamo con forza le istituzioni italiane e europee ad assumere ogni misura per contrastare questo massacro, compresa la cessazione di invio di armi, la sospensione di ogni accordo commerciale con Israele, che è subordinato dall’art. 2 del relativo trattato al rispetto dei diritti umani, la fermissima dichiarazione ai diplomatici israeliani della condanna nei confronti del governo del loro Paese.

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ANPI Nazionale

A rischio 1,3 milioni di bambini malnutriti in Nigeria ed Etiopia per crisi dei finanziamenti

A causa delle carenze di fondi in Etiopia e Nigeria quasi 1,3 milioni di bambini sotto i cinque anni affetti da malnutrizione acuta grave potrebbero perdere l’accesso alle cure nel corso dell’anno, con un rischio maggiore di morte.
La crisi dei finanziamenti va ben oltre l’Etiopia e la Nigeria, sta accadendo in tutto il mondo e a farne le spese sono i bambini più vulnerabili.
L’UNICEF stima che più di 213 milioni di bambini in 146 Paesi e territori avranno bisogno di assistenza umanitaria nel 2025.

Dichiarazione di Kitty van der Heijden, Vicedirettrice generale dell’UNICEF

23 marzo 2025 – “Negli ultimi 25 anni, abbiamo compiuto progressi significativi nell’affrontare la crisi globale della malnutrizione dei bambini. Dal 2000, il numero di bambini affetti da malnutrizione cronica è diminuito di 55 milioni, ovvero di un terzo. Nel 2024, l’UNICEF ed i suoi partner hanno raggiunto 441 milioni di bambini sotto i cinque anni con servizi per prevenire tutte le forme di malnutrizione, mentre 9,3 milioni di bambini hanno ricevuto cure per il grave deperimento e altre forme di malnutrizione acuta grave.

Questi progressi sono stati possibili grazie all’impegno dei Governi e alla generosità dei donatori – compresi quelli del Governo, del settore privato e delle organizzazioni filantropiche – il cui incessante sostegno è stato fondamentale per la prevenzione e il trattamento della malnutrizione infantile su scala globale.

Oggi, queste conquiste faticosamente ottenute vengono vanificate perché i partner umanitari e nutrizionali si trovano ad affrontare una crisi diversa e sempre più profonda, ovvero il forte calo dei finanziamenti per il nostro lavoro salvavita. Il problema non è solo la quantità delle riduzioni, il problema è anche il modo in cui sono state effettuate: in alcuni casi, all’improvviso e senza preavviso, non lasciandoci il tempo di mitigarne l’impatto sui nostri programmi per i bambini.

All’inizio di questa settimana, ho visto di persona le conseguenze della crisi dei finanziamenti visitando la regione di Afar, nel nord dell’Etiopia, e Maiduguri, nel nord-est della Nigeria. A causa delle carenze di fondi in entrambi i Paesi, quasi 1,3 milioni di bambini sotto i cinque anni affetti da malnutrizione acuta grave potrebbero perdere l’accesso alle cure nel corso dell’anno, con un rischio maggiore di morte.

Ad Afar, una regione soggetta a siccità e inondazioni ricorrenti, ho visitato un’équipe mobile per la salute e la nutrizione che fornisce servizi salvavita alle comunità di pastori in aree remote prive di cliniche sanitarie. Queste squadre sono fondamentali per fornire ai bambini assistenza vitale, tra cui il trattamento di gravi deperimenti, vaccinazioni e farmaci essenziali.
Senza questi interventi critici, la vita dei bambini è in pericolo. Solo 7 delle 30 unità mobili per la salute e la nutrizione che l’UNICEF sostiene ad Afar sono attualmente operative, e questo è il risultato diretto della crisi globale dei finanziamenti.

Secondo le nostre stime, senza nuove fonti di finanziamento, a maggio l’UNICEF esaurirà le scorte di alimenti terapeutici pronti all’uso (RUTF) per il trattamento dei bambini affetti da grave deperimento, con conseguenze disastrose per i circa 74.500 bambini che, secondo le stime, in Etiopia hanno bisogno di cure ogni mese.
In Nigeria, dove circa 80.000 bambini al mese hanno bisogno di cure, potremmo esaurire le scorte di RUTF tra questo mese e la fine di maggio.

Tuttavia, l’attenzione non può essere concentrata solo sul RUTF o sul trattamento di un bambino quando diventa gravemente malnutrito. I programmi devono fornire servizi per evitare che in primo luogo i bambini diventino malnutriti, tra cui il sostegno all’allattamento, l’accesso all’integrazione di micronutrienti come la vitamina A e la garanzia di ricevere i servizi sanitari di cui hanno bisogno per altre malattie.
La crisi dei finanziamenti va ben oltre l’Etiopia e la Nigeria, sta accadendo in tutto il mondo e a farne le spese sono i bambini più vulnerabili.

La nostra più grande preoccupazione immediata è che anche un breve arresto delle attività critiche salvavita dell’UNICEF metta a rischio la vita di milioni di bambini in un momento in cui i bisogni sono già acuti. L’UNICEF stima che più di 213 milioni di bambini in 146 Paesi e territori avranno bisogno di assistenza umanitaria nel 2025.

Siamo determinati a rimanere e a fornire assistenza ai bambini del mondo, soprattutto in un momento di bisogno senza precedenti. L’UNICEF si impegna a collaborare con i suoi partner per garantire che gli sforzi umanitari e di sviluppo globali rimangano efficienti, efficaci e responsabili.

Mentre nelle capitali di tutto il mondo sono in corso le revisioni dell’assistenza estera, voglio ricordare ai leader di Governo che ritardare l’azione non danneggia solo i bambini, ma fa aumentare i costi per tutti noi. Investire nella sopravvivenza e nel benessere dei bambini non è solo la cosa giusta da fare, ma è anche la scelta economicamente più vantaggiosa che un governo possa fare”.

UNICEF

Le radici patriarcali del riarmo

Ursula Von del Leyen ritiene che l’unico modo di sventare la crisi esistenziale dell’Unione europea sia “riarmarsi”: ha già 27 eserciti a disposizione, più quattro di complemento; spende in armi una volta e mezza più della Russia da cui si sente minacciata, ma ritiene che occorra spendere il doppio, da ripartire tra l’industria delle armi degli Stati Uniti e quelle di ogni singolo Stato membro; comprese le fabbriche di armi atomiche di Francia e Gran Bretagna, in barba a quanto deliberato dall’Assemblea generale dell’Onu che le ha messe al bando.

Certo, con tutti quei soldi si potrebbe “risanare la Sanità”, ma forse anche l’istruzione e un po’ di ambiente, che sono da diversi anni troppo trascurati.

Il fatto è che per “riarmarsi” le armi non bastano.

Ci vogliono anche uomini disposti a combattere, ma l’Europa – e l’Italia più di tutti – sembra esserne a corto: più dell’Ucraina, che quelli da mandare al fronte li ha consumati quasi tutti tra morti, feriti, invalidi, imboscati a pagamento, disertori e renitenti.

A giustificare quel senso di superiorità che dovrebbe sostenere gli europei nella guerra, naturalmente per difendersi, ci ha comunque pensato, dal palco del 15 marzo di Piazza del Popolo, Roberto Vecchioni, snocciolando il rosario delle perle (letterarie) che «gli altri» non hanno. Mentre a promuovere una nuova leva di combattenti disposti a uccidere e a morire e un sano spirito guerriero ha provveduto oltre a Galli della Loggia, Antonio Scurati, con un articolo illustrato da autentici lanzichenecchi.

Ma qui sta il problema: non (solo) negli 800 miliardi a cui attingere per comprare sistemi d’arma per uccidere i nemici, e sistemi di sorveglianza per individuare i bersagli e respingere i migranti.

Bensì, e molto di più, in quell’intreccio tra il primatismo eurocentrico vantato da Vecchioni e il perduto spirito guerriero rimpianto da Scurati e Galli della Loggia.

Che cos’è quell’intreccio?

È il virilismo di chi vede nella guerra, e nel saperla fare (e vincere, a qualsiasi costo) il complemento e il completamento ineludibile di un’umanità che non tradisca la sua storia di guerre, stragi, efferatezze e sofferenze inflitte dagli uomini ad altri esseri umani: cioè la quintessenza del maschilismo e del patriarcato, anche quando quel “sentire” e soprattutto quel “subire” ha riguardato e riguarda sia uomini che donne.

Per questo è limitativo contrapporre allo spirito guerriero che sta dilagando su tutti i media e, a seguire, sui social e nel discorso politico, la rassegna di quanto di meglio si potrebbe fare con quegli 800 miliardi e più.

Il richiamo a quello spirito bellico non sente ragioni e travolge tutto, in attesa che chi non ne è stato ancora investito – la maggioranza dei cittadini europei, ma anche degli abitanti della Terra – venga travolto dal vento di quel “maggio radioso” ben noto alla storia patria, ma simile se non uguale in tanti altri Stati europei nel corso dei due ultimi secoli e più.

Ne risulta, in quella contrapposizione tra Occidente e Oriente mai rinnegata, o tra democrazia e dispotismo, “pezza forte” del primatismo Nato-centrico e bianco, una inversione delle parti: mentre rinuncia a farsi forte della maggior libertà che le donne si sono conquistate con le loro lotte nei rispettivi paesi, l’”Occidente democratico” sta riproducendo al suo interno i modelli del dispotismo orientale e del maschilismo islamico: il cittadino impregnato di virilismo guerriero – e per forza di cose, patriarcale – che si cerca di promuovere assomiglia sempre più a quel prototipo maschilista oggi impersonato da Putin non meno che da Trump, ma che ha un riscontro preciso nei capi carismatici del Jihad islamico o della teocrazia iraniana, quella contro cui sono in lotta le donne libere di tutti i paesi islamici al grido di «Donna Vita Libertà».

Ma anche le madri e le mogli che In Russia come in Ucraina protestano contro il sequestro dei loro uomini mandati al fronte.

Non sono le bombe e i razzi degli Stati Uniti e di Israele a minare lo Stato islamico, né le bande jihadiste sostenute da Erdogan a portare democrazia e libertà in Siria.

In entrambi i casi la minaccia esistenziale per i regimi islamici è rappresentata dalla rivolta delle donne contro l’oppressione a cui la loro controparte maschile non sa e non vuole rinunciare.

Ed è il confederalismo democratico del Rojava, egualitario, multietnico, partecipato e femminista a rappresentare una minaccia mortale per il maschilismo dei regimi islamici, mentre vent’anni di guerra e occupazione della Nato hanno fatto regredire allo zero assoluto la condizione delle donne afghane.

D’altronde, neanche la democrazia è mai stata esportata da qualche parte con le armi.

Perché una cultura e una politica contrarie al vento guerriero che soffia in Europa si possa affermare è necessario riconoscere che anche da noi la sacrosanta battaglia contro il velleitario riarmo dell’Europa non può svilupparsi che a partire dalla capacità di scovare, riconoscere, smascherare e dissolvere di tutte le forme in cui il modello patriarcale, virilista e guerriero si presenta nelle diverse circostanze della vita quotidiana, prima ancora che nelle forme di potere attraverso cui si esercita.

Una battaglia a cui tutte e tutti ci dovremmo sentire chiamati dal riconoscimento del ruolo che spetta alle forme più radicali dei movimenti femministi.

Guido Viale

La ripresa dei bombardamenti su Gaza

La recente ripresa dei bombardamenti su Gaza ha portato con sé nuove sofferenze per la popolazione civile, aggravando una situazione di perenne conflitto che sembra non conoscere soluzione.

Promuovere una cultura della pace e della fraternità diventa non solo necessario, ma urgente.

La pace, infatti, non è semplicemente l’assenza di guerra, ma un processo dinamico che richiede impegno, dialogo e reciproco rispetto tra i popoli.

La fraternità, che implica una solidarietà autentica tra tutti gli esseri umani, si configura come la base per la costruzione di una convivenza pacifica.

Papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha sottolineato più volte l’importanza di lavorare per la pace.

In particolare, durante il suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di qualche anno fa, ha affermato che “la pace è un cammino di speranza e di responsabilità“.

Egli ha insistito sul fatto che la pace non può essere un obiettivo passeggero, ma deve essere un impegno costante, che coinvolge tutte le dimensioni della vita umana, dalla politica all’economia, fino alla cultura e all’educazione.

Il Papa ha anche affermato che “la fraternità e l’amicizia sociale” sono essenziali per superare le divisioni, per abbattere i muri dell’odio e per costruire ponti di solidarietà.

La ripresa delle ostilità a Gaza però, evidenzia tragicamente quanto siano lontani dall’essere realizzati questi principi.

I bombardamenti, che provocano la morte di innocenti, la distruzione di infrastrutture e la perdita di speranza, rappresentano un chiaro segno che le vie della diplomazia e del dialogo sono ancora insufficientemente percorse.

Le cause di questa violenza sono complesse e radicate in decenni di conflitto, ma la mancanza di uno spazio di incontro tra le parti continua ad alimentare il rancore e la paura.

La pace, quindi, non può essere raggiunta semplicemente con una tregua momentanea, ma richiede un mutamento profondo nelle mentalità e nelle azioni politiche.

In questo scenario, l’invito di Papa Francesco a “costruire una cultura della pace” è più che mai pertinente.

La pace deve diventare parte integrante della formazione delle nuove generazioni, insegnando il valore della giustizia, del rispetto e della compassione.

Solo attraverso la promozione di una cultura della pace e della fraternità si potrà sperare in un futuro in cui conflitti come quello israelo-palestinese non siano più la norma, ma un brutto e lontano ricordo.

(riceviamo e pubblichiamo dalla agenzia stampa Interris.it)

Redazione Italia

Turchia: continua a crescere la mobilitazione contro l’incarcerazione del principale rivale di Erdoğan

Centinaia di migliaia di turchi sono scesi in piazza sabato sera, 22 marzo, mentre il sindaco di Istanbul veniva arrestato con l’accusa di corruzione. L’opposizione promette di continuare la mobilitazione fino alla liberazione di Ekrem İmamoğlu.

Cresce la mobilitazione dell’opposizione turca nel quarto giorno di proteste, dopo l’arresto di Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale rivale del “sultano” Recep Tayyip Erdoğan. Il sindaco di Istanbul è stato incarcerato domenica 23 marzo per una montatura di reati connessi all’accusa di collusione con il terrorismo kurdo.

La sera di sabato 22 marzo, mentre il sindaco, accusato di frode, corruzione e terrorismo (a causa della sua alleanza locale con il partito filo-curdo DEM, accusato di essere legato alla guerriglia curda PKK), compariva davanti al procuratore, un’enorme folla di suoi sostenitori si è radunata davanti al municipio di Istanbul. La folla, stipata e a volte quasi soffocante, scandiva slogan ostili al governo o ridicolizzava il presidente Erdoğan. Non lontano da lì, nei pressi dell’acquedotto romano di Valente, la polizia ha bloccato l’accesso al viale Atatürk, che conduce alla simbolica piazza Taksim, che i dimostranti più determinati hanno cercato di raggiungere nonostante i gas lacrimogeni e una raffica di proiettili di plastica.

Gli scontri con le forze dell’ordine sono stati tuttavia limitati; gli organizzatori hanno più volte invitato i manifestanti a non attaccarle. “Dobbiamo tenere a freno le nostre emozioni, non ha senso attaccare la polizia”, ha detto Ahmet, 29 anni, che si è presentato indossando la maglia della squadra di calcio Fenerbahçe e un cartello di lotta contro il “colpo di stato” del governo. “Hanno distrutto l’economia del Paese, ci hanno tolto le libertà e ora stanno calpestando il nostro diritto di voto”, si lamenta. Non è membro del CHP, il principale partito di opposizione, laico e nazionalista, a cui appartiene İmamoğlu, ma domenica 23 marzo ha intenzione di recarsi presso la sede del partito per votare simbolicamente, come previsto da settimane, per designare il sindaco di Istanbul come candidato presidenziale del CHP. Ma la strategia di nominare ufficialmente il sindaco di Istanbul come candidato per le elezioni presidenziali del 2028 per proteggerlo dal crescente numero di procedimenti legali contro di lui ha avuto l’effetto opposto.

I ragazzi di Gezi
(NB: contro la gentrificazione e la distruzione del parco di Gezi per volere di Erdogan, nel 2013 ci fu una mobilitazione durissima che durò mesi)
Il giorno prima erano state arrestate 343 persone in tutto il Paese, alcune durante le proteste, altre, giovani studenti, a casa la mattina del 22 marzo. Questi arresti non hanno scoraggiato gli studenti che sono il grosso dei manifestanti radunati. Questa generazione non ha quasi nessuna esperienza con le proteste di massa, eppure molti di questi studenti si sono presentati preparati, dotati di occhiali protettivi e maschere per affrontare i gas lacrimogeni.

Le ultime manifestazioni di massa nelle strade della Turchia risalgono al 2013, durante le cosiddette proteste di Gezi Park a Istanbul, dirette contro lo stesso Recep Tayyip Erdoğan, che durarono tre mesi e provocarono la morte di sette dimostranti.
“I ragazzi di Gezi sono cresciuti”, proclama un cartello tenuto da Ayten, una studentessa in infermieristica di 19 anni. Lo spirito umoristico e l’autoironia che caratterizzarono il movimento Gezi sono ancora presenti, dodici anni dopo, negli slogan e nei cartelli. “Sii quello che vuoi, ma non essere apolitico!” Proclama un altro cartello, che in realtà è una citazione del poeta e mistico sufi Mevlana, morto in Turchia nel 1237 e noto per la sua saggezza.

“La mia generazione è stata a lungo accusata di essere apolitica, amorfa”, spiega l’autrice ventunenne, “ma è un caso grave. Siamo politicizzati, la maggior parte dei miei compagni di classe è scesa in piazza e coloro che hanno troppa paura di farlo ci sostengono sui social media”.
I parallelismi con il movimento Gezi sono evidenti ovunque, forse anche nelle debolezze del movimento. La folla è infatti composta più da ragazzi istruiti provenienti dalle classi medie e alte che da quelli della classe operaia, e la gioventù curda, senza dubbio scettica riguardo a certi slogan nazionalisti, non è presente in gran numero.

Coraggio contagioso
Mentre tutti i partecipanti hanno chiesto l’anonimato, Ilker Köklük, 48 anni, ha insistito nel rivelare la sua identità: “Mi rifiuto di avere paura”, ha dichiarato il regista e drammaturgo. Le nostre richieste sono le stesse del tempo di Gezi: la protezione delle nostre libertà, delle minoranze, della natura, della cultura, di tutto ciò che è bello e che loro stanno attaccando”. “Non sono riusciti a creare una loro cultura, quindi stanno attaccando gli artisti”, aggiunge, poiché la repressione scatenata da mesi contro attivisti dell’opposizione, avvocati e giornalisti colpisce anche il mondo della cultura, compresi attori e attrici mainstream delle serie TV turche.

La famosa regista e produttrice cinematografica Ayse Barim è stata arrestata a gennaio per aver partecipato alle proteste di Gezi 12 anni fa, e alcuni dei suoi attori di alto profilo devono affrontare accuse di falsa testimonianza per essersi rifiutati di testimoniare contro di lei. Tuttavia, vuole restare fiduciosa: “Questa volta siamo più numerosi rispetto all’inizio di Gezi e, come allora, vediamo che il coraggio è contagioso, anche nelle roccaforti conservatrici della Turchia, sul Mar Nero o nell’Anatolia centrale, la gente marcia contro il governo”, osserva.

A poche strade di distanza, nel conservatore quartiere di Fatih, i negozianti siedono a sorseggiare il tè, restando svegli fino a tardi come al solito in questa notte di Ramadan. “Tutti questi giovani eccitati sono privi di adrenalina, fanno spettacolo e poi se ne vanno a casa”, liquidano con disprezzo i sostenitori del governo. “È illegale contestare una decisione del tribunale in questo modo, ma non sono favorevole al fatto che la polizia li disperda con la violenza; alla fine si stancheranno da soli”, ha affermato uno di loro. “Se necessario, il nostro Stato saprà come tagliare le teste che si alzano”, aggiunge un altro, in tono più minaccioso.

Davanti al municipio, la maggior parte dei dimostranti afferma di essere consapevole di giocare una delle sue ultime carte. “Se non vinciamo questa volta, non ci saranno più elezioni in questo Paese, o almeno saranno solo di facciata, come in Russia”, si preoccupa uno di loro. Su un palco improvvisato sul tetto di un autobus, oratori e musicisti si alternano. Prende posto il cantante e scrittore Zülfü Livaneli, quasi ottantenne. Ironicamente, cosa che sfugge ai manifestanti più giovani, l’artista aveva tentato di entrare in politica negli anni Novanta, prima di essere sconfitto alle elezioni comunali di Istanbul del 1994 da un certo Recep Tayyip Erdoğan, che avrebbe forgiato un destino nazionale basato su questa vittoria. Tre anni dopo, il leader islamista divenuto sindaco di Istanbul fu condannato a quattro mesi di carcere e gli fu interdetto a vita ogni impegno politico. Una sanzione che ebbe un forte impatto sulla sua popolarità e lo aiutò nella sua definitiva conquista del potere nel 2002.

Il parallelo con İmamoğlu è ovvio. Un destino simile attende forse il suo moderno rivale?
Sul palco, lo sfortunato Zülfü Livaneli si è lanciato nell’esecuzione di una delle sue canzoni più note, cantata in coro dal pubblico: “Ey Özgürlük”. Una canzone che non è altro che la messa in musica di una poesia scritta nel 1942, durante l’occupazione, dal poeta comunista francese Paul Eluard: “Nei miei quaderni di scuola. Sulla mia scrivania e sugli alberi. Sulla sabbia sulla neve. Scrivo il tuo nome […] E con il potere di una parola. Sto ricominciando la mia vita. Sono nato per conoscerti. Per darti un nome Libertà.”

Ma la fugace speranza della notte durò poco.
La domenica mattina Istanbul si è svegliata con il rumore dei clacson e delle pentole che sbattevano contro le finestre. Dopo quattro giorni di custodia della polizia, il sindaco della città è stato trasferito al carcere di Silivri, un sobborgo di Istanbul, tristemente famoso per essere il luogo in cui viene trattenuto un gran numero di prigionieri politici del Paese.

Yann Pouzols, 23 marzo 2025

https://www.mediapart.fr/journal/international/230325/en-turquie-la-mobilisation-contre-l-incarceration-du-principal-rival-d-erdogan-continue-prendre-de

Redazione Italia

25 marzo 1970. Gli S.O.S dal terremoto nella prima radio libera d’Italia

Il 25 e il 26 marzo 1970 i collaboratori di Danilo Dolci Franco Alasia e Pino Lombardo a Partinico (PA) denunciarono le difficili condizioni dei terremotati del Belice attraverso la prima radio libera della storia d’Italia. Dopo 26 ore l’intervento della polizia, con grande spiegamento di forze, interruppe le trasmissioni. Parte dei testi trasmessi furono pubblicati da Danilo Dolci ne “Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi” (Laterza Ed. 1970).

“Sos, Sos… la popolazione del Belice è abbandonata, qui tra lo Jato e il Carboi viviamo nello sfascio, siamo dei poveri cristi… Sos, Sos… aiutateci, questa è la radio dei poveri cristi, l’unico mezzo che abbiamo per farci sentire. L’articolo 21 della Costituzione dice che tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Non ci fermeremo …” era uno dei messaggi trasmessi da Alasia e Lombardo, in anni in cui Danilo Dolci scriveva sui muri “Chi tace è complice”.

La chiamavano “radio della nuova Resistenza”, sul modello delle radio-ombra clandestine che avevano reso possibile l’informazione tra i partigiani della Seconda Guerra Mondiale, era un’antenna che informava dal basso, come espressione alternativa nei confronti di uno Stato assente. A oltre mezzo secolo di distanza, anche se oggi il monopolio della RAI non esiste più, anche dopo la nascita di internet, in un mondo nel quale la comunicazione è condizionata dal dominio del più forte, ascoltare democraticamente ogni voce è la base di ogni osmosi creativa tra gli esseri umani.

La radio allora era uno stadio del lavoro educativo di Dolci, che si sarebbe via via perfezionato attraverso gli studi sulla maieutica e sulla comunicazione. Secondo Dolci infatti trasmettere e comunicare sono due attitudini molto differenti, che esprimono due diverse culture, opposte nel concepire e gestire le relazioni. Trasmettere esclude la reciprocità nelle relazioni e avanza l’intenzione di subordinare e dominare. Comunicare, fondato sul dialogo e sul confronto, sviluppa dibattito, porta ad azioni condivise, accresce davvero il senso della comunità, il superamento di una contrapposizione, indirizzando il progresso sociale. Trattandosi di comportamenti che influenzano i rapporti di potere, avremmo bisogno di comprendere e strutturare tali relazioni per arrivare alla risoluzione dei conflitti. A questo fine Danilo Dolci ha proposto la maieutica reciproca: evoluzione culturale che oggi, purtroppo, è un’utopia se si analizzano le dinamiche che i capi di stato stabiliscono nell’illusione di arrivare alla pace.

Nell’anniversario della prima radio libera d’Italia, il 25 marzo alle 11.00, Pino Lombardo – ultimo protagonista, dopo la scomparsa di Alasia – Amico Dolci, figlio di Danilo e Ottavio Navarra incontreranno al Liceo Impastato di Partinico Maurizio Piscopo per un confronto con docenti e studenti sulla lezione “dolciana”.

 

Bruna Alasia

Cisgiordania nord“Sfollamenti e distruzione. Aumentare la risposta umanitaria”

Cisgiordania nord, MSF: “Sfollamenti di massa e distruzione. Aumentare la risposta umanitaria”
40.000 persone sfollate da gennaio a Jenin, Tulkarem e Nur Shams

24 marzo 2025 – Medici Senza Frontiere (MSF) lancia un allarme sulle decine di migliaia di persone sfollate nel nord della Cisgiordania, che non hanno un riparo sicuro, servizi essenziali né accesso all’assistenza sanitaria.

Dopo il cessate il fuoco di gennaio 2025 a Gaza, Israele ha avviato l’operazione militare Iron Wall nei territori occupati della Cisgiordania, costringendo migliaia di persone a lasciare le proprie case e lasciandole in una situazione estremamente precaria.

Israele deve interrompere immediatamente questi trasferimenti forzati e la risposta umanitaria deve essere intensificata per raggiungere chi ne ha bisogno.

“Non si vedevano sfollamenti forzati dei campi e una distruzione di questa portata da decenni.
Le persone non possono tornare nelle proprie case: l’accesso ai campi è stato bloccato dalle forze israeliane, le abitazioni e le infrastrutture sono state distrutte.
I campi sono diventati mucchi di macerie e polvere” spiega Brice de la Vingne, direttore delle operazioni di MSF per la Cisgiordania. “Israele deve fermare tutto questo ed è necessaria una maggiore risposta umanitaria”.

Dall’inizio della guerra a Gaza, nell’ottobre 2023, le forze israeliane hanno intensificato l’uso della violenza fisica estrema contro i palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania, come denunciato da MSF nel rapporto “Inflicting harm and denying care”.

Da ottobre 2023 in Cisgiordania sono stati uccisi 930 palestinesi, tra cui 187 bambini, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

L’accesso alle cure mediche è stato gravemente compromesso, come riportato dai team di MSF sul campo, che hanno assistito a un’oppressione sistematica verso operatori sanitari e pazienti da parte di Israele.

La situazione è peggiorata ulteriormente dopo il cessate il fuoco a Gaza e l’avvio dell’operazione Iron Wall, che ha portato allo svuotamento dei 3 principali campi profughi del nord della Cisgiordania – Jenin, Tulkarem e Nur Shams – provocando lo sfollamento forzato di oltre 40.000 palestinesi, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA).

“L’esercito [israeliano] ha fatto irruzione in casa nostra e ci ha ordinato di evacuarla. Non ci hanno permesso di portare via nulla – nemmeno i documenti.
Ci hanno solo detto: ‘Fuori’” racconta Issam, 55 anni, paziente di MSF sfollato dal campo di Nur Shams. “Essere sfollati è una grande sofferenza, un’angoscia silenziosa. Ti si annida nel cuore un dolore profondo e gli occhi si riempiono di lacrime, ma facciamo il possibile per trattenerle”.

Lo stato di salute mentale dei pazienti è allarmante: molte persone soffrono di stress, ansia e depressione a causa della violenza e dell’imprevedibilità delle incursioni e degli sfollamenti.
“Le persone non sanno cosa sia successo alle proprie case, ha subito perdite immense, incluso il senso stesso della propria esistenza” dice Mohammad, 30 anni, promotore della salute per MSF in Cisgiordania.

“I droni sorvolano le case, ordinando ai residenti di uscire. Di solito distruggono qualcosa, ma mai così tanto, una cosa del genere non era mai successa prima” racconta Abdel, residente del campo di Jenin.

MSF forniva supporto nei campi di Jenin, Tulkarem e Nur Shams, ma ha dovuto adattare le sue attività a causa dello sfollamento della popolazione e degli alti rischi per la sicurezza.

Oggi, i team MSF sono quotidianamente presenti a Tulkarem e Jenin con cliniche mobili, per offrire assistenza medica alle persone sfollate.
Le cliniche mobili di MSF trattano anche patologie croniche come diabete e ipertensione, aggravate dalla mancanza di accesso ai farmaci, ma anche infezioni respiratorie e disturbi muscolo-scheletrici.
I team di MSF distribuiscono inoltre kit igienici e pacchi alimentari per sostenere le persone costrette a fuggire e prive di risorse o beni personali.
MSF sta fornendo anche acqua all’ospedale Khalil Suleiman di Jenin, il principale della zona, colpito da frequenti interruzioni idriche a causa dei danni subiti durante le operazioni militari.

Medecins sans Frontieres

Il capitalismo della conoscenza

Il tempo si è velocizzato. Tutto corre.

Naturalmente trascina anche noi.

I ragazzi delle superiori spesso si annoiano: in genere finiscono per “fare i compiti”, ma conoscono 5G e sono tentati di farsi fare le ricerche.

Restano ignoranti, ma le vecchie generazioni facevano le ricerche sulla Treccani; quando si è imposto Internet non c’era preparazione per insegnare come fare ricerche non solo sul pc, ma sul cellulare.

Lo smartphone è diventato un oggetto di culto, non quello che in realtà è uno strumento prezioso, frutto dell’ingegnosità umana, ma che è uno strumento che “serve” e va usato per ciò che giova, non per tutti i contatti futili che ha generato.

Capisci di più se stai dentro le chat, se mandi migliaia di whatsapp non necessarie, per “restare in contatto” con tanti che chiami “amici” anche se non li conosci e non li vedrai mai ?

O ancora se pratichi gli scambi, anche di insulti, di oscenità, di politica, di odio e comunque viscerale dei social?

Il capitalismo odierno imprigiona il tempo.

Già Zuckenberg e Bezos, prima di Elon Musk, in vent’anni hanno messo insieme patrimoni che nessuno aveva mai immaginato, costruiti da quanti non si rendono conto che, ogni tastino che pigiano, loro ci guadagnano.

Cinquant’anni fa i progressisti reagivano all’”imperialismo delle multinazionali”.

Nessuno ha percepito che non lo chiamiamo “imperialismo”, ma domina non solo le condizioni di vita – anche se ieri l’impiegata della casa di fronte ha ricevuto il licenziamento via what’s up – ma le coscienze.

Da quando Musk collabora con la presidenza Tramp, anche gli altri boss del digitale si sono allineati e Zuckerberg ha tolto il controllo di sicurezza a Facebook e Istagram.

A prescindere dalle tante considerazioni che si possono fare sull’abuso delle nuove tecnologie, è evidente che siamo entrati nel capitalismo della conoscenza.

Purtroppo imprevedibile, anche se Mc Luhan ha pubblicato ‘Il mezzo è il messaggio’ nel 1964 e abbiamo visto intristire la sezioni di partito a partire dall’arrivo della televisione.

Ovviamente adesso si comprende che non bisognava preferire “Lascia o raddoppia” alla relazione del segretario, ma che bisognava trovare i modi di rinnovare l’interesse per un fare politica che non è concorrenziale all’ uso del tempo libero.

Da diversi anni succede che persone che usano le tecnologie quotidianamente per ragioni di lavoro, nella pausa pranzo telefonano ad Amazon per farsi portare una pizza in ufficio invece di andare sanamente al bar dell’angolo e la sera si fanno un gioco elettronico.

Sono molti i modi con cui si usano male le cose buone che scienza e tecnologia ci forniscono e ci obbligano a cambiare l’approccio al mondo.

Perché la conoscenza è davvero il modo con cui il progresso – o il regresso – vengono condizionati dalle masse: per capire le dinamiche trasformative occorre capirle.

Non nel senso di essere laureati in cosmologia per capire che siamo in ritardo nel chiedere che la politica europea si affretti ad approvare regole sull’uso dello spazio da quando siamo condizionati dai satelliti.

I fumetti sono sempre stati pieni di guerre stellari, ma incominciamo a pensare che ci si potrebbe anche arrivare se è vero che Elon Mask ha regalato la copertura dalle interferenze russe all’Ucraina (se Trump gli dicesse di toglierla, cambierebbe la trattativa per por fine alla guerra con la Russia).

La quale, a sua volta, con o senza satelliti nella precedente elezione di Trump aveva appoggiato la sua candidatura contro quella dei democratici.

Non una grande novità: per strumentalizzare il popolo bastava Menenio Agrippa che incartò le proteste della plebe nel 494 a.C. raccontando la storia che il corpo “non sa”, solo la testa “sa”: e quelli che “sanno” comandano.

Abbiamo avuto le ideologie, non ci hanno aiutato se bastano i social a farmi votare o non votare: perché dovremmo farlo se “sono tutti uguali”, “è tutto un magna-magna”, “non ce l’hanno fatta nemmeno “i Cinque Stelle” che avevano sconfitto la povertà”.

Siamo vulnerabili e per primi sono vulnerabili i movimenti di buona volontà privi di fiducia delle istituzioni e più attrezzati alla protesta che alla ricerca di uscire dal disagio e rifare la coscienza delle Istituzioni.

Che Pierpaolo Pasolini sempre complicato definiva “commoventi”.

Sono arrivata adesso a capire l’emozione di vedere che a nessuno sta a cuore il Parlamento, dove vive la rappresentanza degli interessi del popolo sovrano che a sua volta vota il governo e l’opposizione di cui siamo i responsabili.

Le elezioni politiche del 2022 ci hanno dato un governo votato da due terzi dell’elettorato.

Un terzo non è “rappresentato” e non ne prova dispiacere: non si cura del diritto di cittadinanza in un tempo in cui i diritti vanno rideclinati, non peggiorati se l’Italia – ma non solo l’Italia – va a destra.

Sconfortati e indifferenti non possono perdere la coscienza della libertà.

Che, anche se è sempre individuale prima di essere collettiva, fino a quando sarà difesa dalla libertà di stampa se i giornali perdono pubblico e la lettura elettronica è diversa.

Dobbiamo difenderla prima di qualunque censura o riduzione o cambio di direzioni, bisogna sentirsi liberi perché vogliamo prevenire.

( riceviamo e pubblichiamo dalla giornalista Giancarla Codrignani )

Redazione Italia

Manifestazione in solidarietà con il popolo palestinese a Palermo

La Giornata della Terra Palestinese nasce come risposta di movimenti, attivisti e intellettuali palestinesi contro l’occupazione israeliana. Il 30 marzo 1976 fu indetta una protesta contro il piano di esproprio israeliano in Galilea per espandere gli insediamenti sionisti. Alla vigilia della mobilitazione, le forze israeliane schierarono migliaia di soldati, arrestarono i leader locali e attaccarono i villaggi palestinesi, ferendo numerosi abitanti. Il giorno successivo, la repressione causò sei morti.

La Giornata della Terra ha segnato un punto di svolta nella lotta palestinese e noi la celebriamo come una giornata di azione unitaria che unisce i palestinesi di tutto il mondo e le persone di tutto il mondo in solidarietà con la Palestina.

Alla luce della protratta situazione di estrema criticità in tutti i Territori Palestinesi, il giorno 30 marzo alle 10:30 ci uniremo in un corteo, che partirà da piazza Sant’Antonino a Palermo, a cui invitiamo tutti/e a livello regionale per pretendere con forza i seguenti punti:

• Cessate il fuoco permanente a Gaza e fine dell’occupazione.
• Apertura dei valichi per gli aiuti umanitari.
• Indagini indipendenti sui crimini di guerra nei tribunali internazionali.
• Fine della colonizzazione e dell’apartheid in Cisgiordania e Gaza.
• Diritto al ritorno dei profughi palestinesi (Risoluzione ONU 194).
• Liberazione dei prigionieri, in particolare minorenni e detenuti amministrativi.
• Elezioni libere e democratiche nei territori occupati.
• Riconoscimento della resistenza palestinese come legittima.
• Boicottaggio commerciale, militare, tecnologico e accademico delle istituzioni sioniste.
• Stop agli accordi diplomatici con Israele e inizio di sanzioni.
• Ritiro delle truppe italiane dal Medio Oriente e dal Mar Rosso.
• Smilitarizzazione della Sicilia, con la chiusura di basi militari come Sigonella e il MUOS di Niscemi, e STOP ai piani di riarmo europeo.
• Fine della complicità del governo Meloni con lo stato criminale sionista.
– Scarcerazione immediata di ANAN YAESH e fine della complicità italiana con Israele nella persecuzione dei palestinesi sul nostro territorio

Comunità palestinese di Palermo e Our Voices

Redazione Palermo