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Podcast RSI – Microsoft accusata di leggere i documenti degli utenti di Word per addestrare la sua IA: i fatti fin qui

Questo è il testo della puntata del 25 novembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


[CLIP: brano della versione italiana della sigla iniziale della serie TV Il Prigioniero]

Sta circolando un’accusa pesante che riguarda il popolarissimo software Word di Microsoft: userebbe i testi scritti dagli utenti per addestrare l’intelligenza artificiale dell’azienda. Se l’accusa fosse confermata, le implicazioni in termini di privacy, confidenzialità e diritto d’autore sarebbero estremamente serie.

Questa è la storia di quest’accusa, dei dati che fin qui la avvalorano, e di come eventualmente rimediare. Benvenuti alla puntata del 25 novembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Le intelligenze artificiali hanno bisogno di dati sui quali addestrarsi. Tanti, tanti dati: più ne hanno, più diventano capaci di fornire risposte utili. Un’intelligenza artificiale che elabora testi, per esempio, deve acquisire non miliardi, ma migliaia di miliardi di parole per funzionare decentemente.

Procurarsi così tanto testo non è facile, e quindi le aziende che sviluppano intelligenze artificiali pescano dove possono: non solo libri digitalizzati ma anche pagine Web, articoli di Wikipedia, post sui social network. E ancora non basta. Secondo le indagini del New York Times [link diretto con paywall; copia su Archive.is], OpenAI, l’azienda che sviluppa ChatGPT, aveva già esaurito nel 2021 ogni fonte di testo in inglese pubblicamente disponibile su Internet.

Per sfamare l’appetito incontenibile della sua intelligenza artificiale, OpenAI ha creato uno strumento di riconoscimento vocale, chiamato Whisper, che trascriveva il parlato dei video di YouTube e quindi produceva nuovi testi sui quali continuare ad addestrare ChatGPT. Whisper ha trascritto oltre un milione di ore di video di YouTube, e dall’addestramento basato su quei testi è nato ChatGPT 4.

Questa stessa trascrizione di massa l’ha fatta anche Google, che inoltre ha cambiato le proprie condizioni di servizio per poter acquisire anche i contenuti dei documenti pubblici scritti su Google Docs, le recensioni dei ristoranti di Google Maps, e altro ancora [New York Times].

Da parte sua, Meta ha avvisato noi utenti che da giugno di quest’anno usa tutto quello che scriviamo pubblicamente su Facebook e Instagram per l’addestramento delle sue intelligenze artificiali, a meno che ciascuno di noi non presenti formale opposizione, come ho raccontato nella puntata del 7 giugno 2024.

Insomma, la fame di dati delle intelligenze artificiali non si placa, e le grandi aziende del settore sono disposte a compromessi legalmente discutibili pur di poter mettere le mani sui dati che servono. Per esempio, la legalità di usare massicciamente i contenuti creati dagli YouTuber senza alcun compenso o riconoscimento è perlomeno controversa. Microsoft e OpenAI sono state portate in tribunale negli Stati Uniti con l’accusa di aver addestrato il loro strumento di intelligenza artificiale Copilot usando milioni di righe di codice di programmazione pubblicate sulla piattaforma GitHub senza il consenso dei creatori di quelle righe di codice e violando la licenza open source adottata da quei creatori [Vice.com].

In parole povere, il boom dell’intelligenza artificiale che stiamo vivendo, e i profitti stratosferici di alcune aziende del settore, si basano in gran parte su un saccheggio senza precedenti della fatica di qualcun altro. E quel qualcun altro, spesso, siamo noi.

In questo scenario è arrivata un’accusa molto specifica che, se confermata, rischia di toccarci molto da vicino. L’accusa è che se scriviamo un testo usando Word di Microsoft, quel testo può essere letto e usato per addestrare le intelligenze artificiali dell’azienda.

Questo vorrebbe dire che qualunque lettera confidenziale, referto medico, articolo di giornale, documentazione aziendale riservata, pubblicazione scientifica sotto embargo sarebbe a rischio di essere ingerita nel ventre senza fondo delle IA, dal quale si è già visto che può essere poi rigurgitata, per errore o per dolo, rendendo pubblici i nostri dati riservati, tant’è vero che il già citato New York Times è in causa con OpenAI e con Microsoft perché nei testi generati da ChatGPT e da Copilot compaiono interi blocchi di testi di articoli della testata, ricopiati pari pari [Harvard Law Review].

Vediamo su cosa si basa quest’accusa.


Il 13 novembre scorso il sito Ilona-andrews.com, gestito da una coppia di scrittori, ha segnalato un problema con la funzione Esperienze connesse di Microsoft Word [Connected Experiences nella versione inglese]. Se non avete mai sentito parlare di questa funzione, siete in ottima e ampia compagnia: è sepolta in una parte poco frequentata della fitta foresta di menu e sottomenu di Word. Nell’articolo che accompagna questo podcast sul sito Attivissimo.me trovate il percorso dettagliato da seguire per trovarla, per Windows e per Mac.

  • Word per Windows (applicazione): File – Opzioni – Centro protezione – Impostazioni Centro protezione – Opzioni della privacy – Impostazioni di privacy – Dati di diagnostica facoltativi [in inglese: File – Options – Trust Center – Trust Center Settings – Privacy Options – Privacy Settings – Optional Connected Experiences]
  • Word per Mac (applicazione): Word – Preferenze – Privacy – Gestisci le esperienze connesse [in inglese: Word – Preferences – Privacy – Manage Connected Experiences]
  • Word su Web: File – Informazioni – Impostazioni privacy
Screenshot da Word per Mac italiano.
Screenshot da Word su web in italiano.

Secondo questa segnalazione di Ilona-andrews.com, ripresa e approfondita anche da Casey Lawrence su Medium.com, Microsoft avrebbe attivato senza troppo clamore in Office questa funzione, che leggerebbe i documenti degli utenti allo scopo di addestrare le sue intelligenze artificiali. Questa funzione è di tipo opt-out, ossia viene attivata automaticamente a meno che l’utente richieda esplicitamente la sua disattivazione.

L’informativa sulla privacy di Microsoft collegata a questa funzione dice testualmente che i dati personali raccolti da Microsoft vengono utilizzati, fra le altre cose, anche per “Pubblicizzare e comunicare offerte all’utente, tra cui inviare comunicazioni promozionali, materiale pubblicitario mirato e presentazioni di offerte pertinenti.” Traduzione: ti bombarderemo di pubblicità sulla base delle cose che scrivi usando Word. E già questo, che è un dato di fatto dichiarato da Microsoft, non è particolarmente gradevole.

Screenshot tratto dall’informativa sulla privacy di Microsoft.

Ma c’è anche un altro passaggio dell’informativa sulla privacy di Microsoft che è molto significativo: “Nell’ambito del nostro impegno per migliorare e sviluppare i nostri prodotti” diceMicrosoft può usare i dati dell’utente per sviluppare ed eseguire il training dei modelli di intelligenza artificiale”.

Sembra abbastanza inequivocabile, ma bisogna capire cosa intende Microsoft con l’espressione “dati dell’utente. Se include i documenti scritti con Word, allora l’accusa è concreta; se invece non li include, ma comprende per esempio le conversazioni fatte con Copilot, allora il problema c’è lo stesso ed è serio ma non così catastroficamente grave come può parere a prima vista.

Secondo un’altra pagina informativa di Microsoft, l’azienda dichiara esplicitamente di usare le “conversazioni testuali e a voce fatte con Copilot”*, con alcune eccezioni: sono esclusi per esempio gli utenti autenticati che hanno meno di 18 anni, i clienti commerciali di Microsoft, e gli utenti europei (Svizzera e Regno Unito compresi).**

* “Except for certain categories of users (see below) or users who have opted out, Microsoft uses data from Bing, MSN, Copilot, and interactions with ads on Microsoft for AI training. This includes anonymous search and news data, interactions with ads, and your voice and text conversations with Copilot [...]”
** “Users in certain countries including: Austria, Belgium, Brazil, Bulgaria, Canada, China, Croatia, Cyprus, the Czech Republic, Denmark, Estonia, Finland, France, Germany, Greece, Hungary, Iceland, Ireland, Israel, Italy, Latvia, Liechtenstein, Lithuania, Luxembourg, Malta, the Netherlands, Norway, Nigeria, Poland, Portugal, Romania, Slovakia, Slovenia, South Korea, Spain, Sweden, Switzerland, the United Kingdom, and Vietnam. This includes the regions of Guadeloupe, French Guiana, Martinique, Mayotte, Reunion Island, Saint-Martin, Azores, Madeira, and the Canary Islands.”

Nella stessa pagina, Microsoft dichiara inoltre che non addestra i propri modelli di intelligenza artificiale sui dati personali presenti nei profili degli account Microsoft o sul contenuto delle mail, e aggiunge che se le conversazioni fatte con l’intelligenza artificiale dell’azienda includono delle immagini, Microsoft rimuove i metadati e gli altri dati personali e sfuoca i volti delle persone raffigurate in quelle immagini. Inoltre rimuove anche i dati che potrebbero rendere identificabile l’utente, come nomi, numeri di telefono, identificativi di dispositivi o account, indirizzi postali e indirizzi di mail, prima di addestrare le proprie intelligenze artificiali.

Secondo le indagini di Medium.com, inoltre, le Esperienze connesse sono attivate per impostazione predefinitaper gli utenti privati, mentre sono automaticamente disattivate per gli utenti delle aziende che usano la crittografia DKE per proteggere file e mail.


In sintesi, la tesi che Microsoft si legga i documenti Word scritti da noi non è confermata per ora da prove concrete, ma di certo l’azienda ammette di usare le interazioni con la sua intelligenza artificiale a scopo pubblicitario, e già questo è piuttosto irritante. Scoprire come si fa per disattivare questo comportamento e a chi si applica è sicuramente un bonus piacevole e un risultato utile di questo allarme.

Ma visto che gli errori possono capitare, visto che i dati teoricamente anonimizzati si possono a volte deanonimizzare, e visto che le aziende spesso cambiano le proprie condizioni d’uso molto discretamente, è comunque opportuno valutare se queste Esperienze connesse vi servono davvero ed è prudente disattivarle se non avete motivo di usarle, naturalmente dopo aver sentito gli addetti ai servizi informatici se lavorate in un’organizzazione. Le istruzioni dettagliate, anche in questo caso, sono su Attivissimo.me.

E se proprio non vi fidate delle dichiarazioni delle aziende e volete stare lontani da questa febbre universale che spinge a infilare dappertutto l’intelligenza artificiale e la raccolta di dati personali, ci sono sempre prodotti alternativi a Word ed Excel, come LibreOffice, che non raccolgono assolutamente nulla e non vogliono avere niente a che fare con l’intelligenza artificiale.

Il problema di fondo, però, rimane: le grandi aziende hanno una disperata fame di dati per le loro intelligenze artificiali, e quindi continueranno a fare di tutto per acquisirli. Ad aprile 2023 Meta, che possiede Facebook, Instagram e WhatsApp, ha addirittura valutato seriamente l’idea di comperare in blocco la grande casa editrice statunitense Simon & Schuster pur di poter accedere ai contenuti testuali di alta qualità costituiti dal suo immenso catalogo di libri sui quali ha i diritti [New York Times].

OpenAI, invece, sta valutando un’altra soluzione: addestrare le intelligenze artificiali usando contenuti generati da altre intelligenze artificiali. In altre parole, su dati sintetici. Poi non sorprendiamoci se queste tecnologie restituiscono spesso dei risultati che non c’entrano nulla con la realtà. Utente avvisato, mezzo salvato.

Fonti aggiuntive

ChatGPT collected our data without permission and is going to make billions off it, Scroll.in (2023)
Panoramica delle esperienze connesse facoltative in Office (versione 30/10/2024)

Podcast RSI – Australia, vietati i social sotto i 16 anni: misura applicabile o teatrino della sicurezza?

Questo è il testo della puntata del 2 dicembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

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[CLIP: annuncio del Notiziario RSI del 28/11/2024: “L’Australia sarà il primo paese al mondo a vietare l’accesso ai social media ai giovani sotto i 16 anni…”]

La sperimentazione comincerà tra poche settimane, a gennaio 2025, e da novembre dello stesso anno in Australia nessuno sotto i 16 anni potrà usare legalmente Instagram, X, Snapchat, TikTok e altri social network. In vari paesi del mondo sono allo studio misure analoghe, richieste a gran voce dall’opinione pubblica, e in Svizzera un recente sondaggio rileva che la maggioranza della popolazione nazionale, ben il 78%, è favorevole a limitare a 16 anni l’accesso ai social media. C’è un piccolo problema: nessuno sa come farlo in pratica.

Questa è la storia dell’idea ricorrente di vietare i social network al di sotto di una specifica età e di come quest’idea, a prima vista così pratica e sensata, si è sempre scontrata, prima o poi, con la realtà tecnica che l’ha puntualmente resa impraticabile.

Benvenuti alla puntata del 2 dicembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Il 28 novembre scorso l’Australia ha approvato una legge che imporrà ai grandi nomi dei social network, da Instagram a TikTok, di impedire ai minori di sedici anni di accedere ai loro servizi. Se non lo faranno, rischieranno sanzioni fino a 32 milioni di dollari.

A gennaio inizieranno i test dei metodi che serviranno a far rispettare questa nuova legge, denominata Social Media Minimum Age Bill, e questa sperimentazione sarà osservata con molto interesse dai governi di altri paesi che hanno in cantiere o hanno già varato misure simili ma non così drastiche. La Francia e alcuni stati degli Stati Uniti, per esempio, hanno già in vigore leggi che limitano l’accesso dei minori ai social network senza il permesso dei genitori, ma il divieto australiano non prevede neppure la possibilità del consenso parentale: è un divieto assoluto.

Screenshot della pagina ufficiale di presentazione della legge australiana SMMA.

La nuova legge australiana prevede un elenco di buoni e di cattivi: non si applicherà ai servizi di messaggistica, come Facebook Messenger o WhatsApp, e includerà delle eccezioni specifiche per YouTube o Google Classroom, che vengono usati a scopo educativo. I cattivi, invece, includono TikTok, Facebook, Snapchat, Instagram, X e Reddit.

Questa legge vieta specificamente ai minori di sedici anni di avere un account su questi servizi, ma non di consultarli: per esempio, secondo il documento esplicativo che la accompagna i minori sarebbero ancora in grado di vedere i video di YouTube senza però poter essere iscritti a YouTube o avervi un account, e potrebbero ancora vedere alcune pagine di Facebook ma senza essere iscritti a questa piattaforma. La ragione di questa scelta apparentemente complicata è che non avere un account eliminerebbe il problema dello “stress da notifica”, ossia i disturbi del sonno e dell’attenzione causati dalle notifiche social che arrivano in continuazione.

Non sono però previste sanzioni per i minori che dovessero tentare di eludere il divieto e quindi aprire lo stesso un account sulle piattaforme soggette a restrizione. Le penalità riguardano soltanto le piattaforme, e comunque va notato che anche l’importo massimo delle sanzioni che le riguarderebbero ammonta per esempio a un paio d’ore del fatturato annuale di Meta, che possiede Facebook, Instagram e WhatsApp e che nel 2023 ha incassato quasi 135 miliardi di dollari.

In altre parole, se i social network dovessero decidere di non rispettare questa legge australiana, le conseguenze per loro sarebbero trascurabili. Se i giovani australiani dovessero decidere di fare altrettanto, le conseguenze per loro sarebbero addirittura inesistenti.

Le intenzioni sembrano buone, perché il governo australiano nota che nel paese “quasi i due terzi degli australiani fra i 14 e i 17 anni ha visto online contenuti estremamente dannosi, compresi l’abuso di farmaci, il suicidio o l’autolesionismo, oltre a materiale violento,” come ha dichiarato il ministro delle comunicazioni australiano Michelle Rowland. Ma questa legge, con le sue sanzioni blande o addirittura inesistenti, ha le caratteristiche tipiche di quello che gli esperti informatici chiamano “teatrino della sicurezza” o security theater: un provvedimento che dà l’impressione e la sensazione confortante di una maggiore sicurezza, ma fa poco o nulla per fornirla davvero.

Questo Social Media Minimum Age Bill non produce effetti formali, però può avere un effetto sociale importante: può essere un aiuto per i genitori, che a quel punto potranno rifiutare con più efficacia la richiesta dei figli di accedere ai social network in età sempre più precoce, perché potranno appoggiarsi al fatto che questo accesso è illegale e non è più una proibizione arbitraria scelta da loro. A patto, però, che ci sia un modo efficace per far valere questo divieto. Ed è qui che sta il problema.


La legge australiana parla infatti genericamente di “un obbligo dei fornitori di una piattaforma di social media soggetta a restrizioni di età di prendere misure ragionevoli per prevenire che gli utenti soggetti a restrizioni di età possano avere un account sulla piattaforma”. Ma non dice assolutamente nulla su come si debbano realizzare concretamente queste “misure ragionevoli”.

Anzi, la legge approvata prevede esplicitamente che gli utenti non siano obbligati a fornire dati personali, compresi quelli dei documenti di identità, e quindi si pone un problema molto serio: come si verifica online l’età di una persona, se non le si può nemmeno chiedere un documento?

Ci sono varie tecniche possibili: una è il riconoscimento facciale, che grazie all’intelligenza artificiale è in grado di stimare abbastanza affidabilmente l‘età di una persona in base alla forma del viso, alla consistenza della pelle o alle proporzioni del corpo.*

* Questa tecnologia viene già usata da Facebook, OnlyFans, SuperAwesome di Epic Games e altri siti. Ha il notevole vantaggio di rispettare la privacy, perché non chiede di fornire documenti o di dare il nome della persona. Non identifica la persona ma si limita a stimarne l’età, e una volta fatta la stima l‘immagine della persona può essere cancellata. Non richiedendo documenti, non dissemina tutti i dati di contorno presenti su un documento di identità o su una carta di credito, ed è più inclusiva, visto che oltre un miliardo di persone nel mondo (e una persona su cinque nel Regno Unito) non ha documenti di identità.

Un’altra è la verifica sociale, ossia la valutazione di quante connessioni e interazioni con adulti ha un utente e di come è fatta la sua cronologia social. Una terza è l’obbligo di fornire i dati di una carta di credito per iscriversi, presumendo che solo una persona che ha più di 16 anni possa normalmente avere accesso a una carta.

Nessuno di questi metodi è perfetto, e il legislatore australiano ne tiene conto sin da subito, dichiarando che si aspetta che qualche minore riesca a eludere queste restrizioni e questi controlli. Ma ciascun metodo ha un costo operativo non trascurabile e comporta delle possibilità di errore che rischiano di colpire soprattutto le persone particolarmente vulnerabili, come ha notato Amnesty International, dichiarando inoltre che “un divieto che isola le persone giovani non soddisferà l’obiettivo del governo di migliorare le vite dei giovani”.

Ben 140 esperti hanno sottoscritto una lettera aperta che manifesta la loro preoccupazione per l’uso di uno strumento definito “troppo grossolano per affrontare efficacemente i rischi” e che “crea rischi maggiori per i minori che continueranno a usare le piattaforme” e ha “effetti sul diritto di accesso e di partecipazione”.

I social network coinvolti, da parte loro, si sono dichiarati contrari a questa legge ma disposti a rispettarla. Meta, per esempio, ha detto di essere “preoccupata a proposito del procedimento che ha approvato in fretta e furia la legge senza considerare correttamente le evidenze, quello che il settore già fa per garantire esperienze adatte all’età, e le voci delle persone giovani”. Parole che suonano un po’ vuote per chi ha esperienza di Instagram o Facebook e sa quanto è invece facile subire esperienze decisamente non adatte all’età. Per non parlare poi di X, il social network noto un tempo come Twitter, che ospita contenuti pornografici estremi e di violenza e li rende facilmente accessibili semplicemente cambiando una singola impostazione nell’app.

L’opinione pubblica australiana è fortemente a favore del divieto, sostenuto dal 77% dei partecipanti a un sondaggio di YouGov. In Svizzera, praticamente la stessa percentuale, il 78%, ha risposto “sì” o “piuttosto sì” a un sondaggio pubblicato da Tamedia sull’ipotesi di limitare a 16 anni l‘accesso a certi social network.

Però il modo in cui funziona la tecnologia non si cambia a suon di leggi o sondaggi.


Per esempio, anche se nel caso dell’Australia la geografia aiuta, non è corretto pensare che un provvedimento nazionale risolva il problema. I social network sono entità transnazionali e non rispettano frontiere e barriere. Che si fa con i turisti, giusto per ipotizzare uno dei tanti scenari che la legge non sembra aver considerato? Chi arriverà in Australia per vacanza con un minore dovrà dirgli di non usare i social network per tutto il tempo della vacanza? Gli account social dei minori in visita verranno bloccati automaticamente?

Nulla impedisce, poi, a un minore di installare una VPN e simulare di trovarsi al di fuori dell’Australia. E ci sono tanti altri social network e tante piattaforme di scambio messaggi che non saranno soggetti alle restrizioni di questa legge: in altre parole, il rischio di queste misure decise di pancia, senza considerare gli aspetti tecnici, è che i giovani vengano involontariamente invogliati a usare servizi social ancora meno monitorati rispetto a TikTok, Facebook e Instagram, o semplicemente usino account su queste piattaforme offerti a loro da maggiorenni compiacenti. Il mercato nero degli account social altrui rischia insomma di essere potenziato.

Dunque questa legge australiana ha l’aria di essere più una mossa elettorale, una ricerca di consensi, un teatrino della sicurezza che una misura realmente utile a proteggere i giovani dai pericoli indiscussi dell’abuso dei social media.

Se si volesse davvero impedire concretamente l’accesso ai social network ai minori, o perlomeno renderlo estremamente difficile, un modo forse ci sarebbe. Invece di cercare di appioppare la patata bollente ai fornitori dei social network dando oro vaghe istruzioni, si potrebbe proibire l’uso degli smartphone da parte dei minori. Questo uso, soprattutto in pubblico ma anche in famiglia, è facilmente verificabile, perché lo smartphone è un oggetto tangibile e riconoscibile. Ma stranamente nessun governo osa proporre soluzioni di questo genere, che sarebbero estremamente impopolari.

Chi sta seguendo con interesse questo esperimento sociale australiano nella speranza di trarne delle lezioni applicabili altrove si troverà molto probabilmente in collisione con la realtà. Nel 2017, il primo ministro australiano di allora, Malcolm Turnbull, propose una nuova legge per obbligare le aziende del settore informatico a dare ai servizi di sicurezza pieno accesso ai messaggi protetti dalla crittografia, come per esempio quelli di WhatsApp. Gli esperti obiettarono che questa crittografia funziona sulla base di concetti matematici molto complessi, che sono quelli che sono e non sono modificabili a piacere.

Malcolm Turnbull, il primo ministro, rispose pubblicamente che “Le leggi della matematica sono lodevoli, ma l’unica legge che vige in Australia è la legge australiana” [“The laws of mathematics are very commendable, but the only law that applies in Australia is the law of Australia”]. Se è questo il livello di comprensione della tecnologia da parte dei politici, è il caso di aspettarsi altri teatrini della sicurezza dai quali si potrà solo imparare come esempi di cose da non fare e da non imitare.

Fonti

Social media reforms to protect our kids online pass Parliament, Pm.gov.au, (2024)

L’Australia è il primo Paese a vietare i social agli under 16, Rsi.ch (2024)

Social dai 16 anni, d’accordo la maggioranza della popolazione, Rsi.ch (2024)

Australia passes social media ban for children under 16, Reuters (2024)

Labor has passed its proposed social media ban for under-16s. Here’s what we know – and what we don’t, The Guardian (2024)

Australia passes world-first law banning under-16s from social media despite safety concerns, The Guardian (2024)

How facial age estimation is creating age-appropriate experiences, Think.Digital Partners (2023)

How facial age-estimation tech can help protect children’s privacy for COPPA and beyond, Iapp.org (2023)

UK open to social media ban for kids as government kicks off feasibility study, TechCrunch (2024)

Bill to ban social media use by under-16s arrives in Australia’s parliament, TechCrunch (2024)

Laws of mathematics don’t apply here, says Australian PM, New Scientist (2017)

Podcast RSI – Temu, quanto è insicura la sua app? L’analisi degli esperti svizzeri

Questo è il testo della puntata del 9 dicembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


[CLIP: spot di Temu in italiano]

Da tempo circolano voci e dicerie allarmistiche a proposito dell’app di Temu, il popolarissimo negozio online. Ora una nuova analisi tecnica svizzera fa chiarezza: sì, in questa app ci sono delle “anomalie tecniche” che andrebbero chiarite e la prudenza è quindi raccomandata. Ma i fan dello shopping online possono stare abbastanza tranquilli, se prendono delle semplici precauzioni.

Benvenuti alla puntata del 9 dicembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. In questa puntata vediamo cos’è Temu, cosa è accusata di fare in dettaglio, e cosa si può fare per rimediare. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


La popolarità del negozio online cinese Temu anche in Svizzera è indiscussa: la sua app è una delle più scaricate in assoluto negli app store di Google e di Apple, e le testate nazionali [Blick] parlano di mezzo milione di pacchetti in arrivo dall’Asia ogni giorno all’aeroporto di Zurigo, spediti principalmente dai colossi cinesi dell’e-commerce come Shein e, appunto, Temu.

Prevengo subito i dubbi sulla mia pronuncia di questi nomi: ho adottato quella usata dalle rispettive aziende, che non è necessariamente quella usata comunemente [pronuncia di Shein; deriva dal nome originale del sito, che era She Inside].

Ma se si immette in Google “temu app pericolosa” emergono molte pagine Web, anche di testate autorevoli, che parlano di questa popolare app in termini piuttosto preoccupanti, con parole tipo “spyware” e “malware”. Molte di queste pagine fondano i propri allarmi su una ricerca pubblicata dalla società statunitense Grizzly Research a settembre del 2023, che dice senza tanti giri di parole che l’app del negozio online cinese Temu sarebbe uno “spyware astutamente nascosto che costituisce una minaccia di sicurezza urgente” e sarebbe anche “il pacchetto di malware e spyware più pericoloso attualmente in circolazione estesa”.

Screenshot dal sito di Grizzly Research

Parole piuttosto pesanti. Online, però, si trovano anche dichiarazioni contrarie ben più rassicuranti.

A fare chiarezza finalmente su come stiano effettivamente le cose arriva ora un’analisi tecnica redatta dall’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza NTC, un’associazione senza scopo di lucro con sede a Zugo [video; l’acronimo NTC deriva dal tedesco Nationales Testinstitut für Cybersicherheit]. Secondo questa analisi [in inglese], l’app Temu ha delle “anomalie tecniche insolite” che vanno capite per poter valutare cosa fare.

La copertina dell’analisi dell’NTC

La prima anomalia descritta dai ricercatori dell’NTC è il cosiddetto “caricamento dinamico di codice in runtime proprietario”. Traduco subito: siamo abituati a pensare alle app come dei programmi che una volta scaricati e installati non cambiano, almeno fino a che decidiamo di scaricarne una nuova versione aggiornata. L’app di Temu, invece, è capace di modificarsi da sola, senza passare dal meccanismo degli aggiornamenti da scaricare da un app store. Questo vuol dire che può eludere i controlli di sicurezza degli app store e che può scaricare delle modifiche dal sito di Temu senza alcun intervento dell’utente, e questo le consente di adattare il suo comportamento in base a condizioni specifiche, come per esempio la localizzazione. L’esempio fatto dai ricercatori è sottilmente inquietante: un’app fatta in questo modo potrebbe comportarsi in modo differente, per esempio, solo quando il telefono si trova dentro il Palazzo federale a Berna oppure in una base militare e non ci sarebbe modo di notarlo.

Questo è il significato di “caricamento dinamico di codice”, e va detto che di per sé questo comportamento dell’app di Temu non è sospetto: anche altre app funzionano in modo analogo. Quello che invece è sospetto, secondo i ricercatori dell’NTC, è che questo comportamento si appoggi a un componente software, in gergo tecnico un cosiddetto “ambiente di runtime JavaScript”, che è di tipo sconosciuto, ossia non è mai stato visto in altre app, ed è proprietario, ossia appartiene specificamente all’azienda, invece di essere un componente standard conosciuto. È strano che un’azienda dedichi risorse alla creazione di un componente che esiste già ed è liberamente utilizzabile.

La seconda anomalia documentata dal rapporto tecnico dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza è l’uso di livelli aggiuntivi di crittografia. Anche qui, in sé l’uso della crittografia per migliorare la protezione dei dati è un comportamento diffusissimo e anzi lodevole, se serve per impedire che le informazioni personali degli utenti vengano intercettate mentre viaggiano via Internet per raggiungere il sito del negozio online. Ma nell’app di Temu la crittografia viene usata anche per “identificare in modo univoco gli utenti che non hanno un account Temu”. E viene adoperata anche per un’altra cosa: per sapere se il dispositivo sul quale sta funzionando l’app è stato modificato per consentire test e analisi. Questo vuol dire che l’app potrebbe comportarsi bene quando si accorge che viene ispezionata dagli esperti e comportarsi… diversamente sugli smartphone degli utenti.

Anche queste, però, sono cose che fanno anche altre app, senza necessariamente avere secondi fini.


C’è però un altro livello aggiuntivo di crittografia che i ricercatori non sono riusciti a decifrare: un pacchettino di dati cifrati che non si sa cosa contenga e che viene mandato a Temu. E a tutto questo si aggiunge il fatto che l’app può chiedere la geolocalizzazione esatta dell’utente, non quella approssimativa, e lo può fare in vari modi.

In sé queste caratteristiche non rappresentano una prova di comportamento ostile e potrebbero essere presenti per ragioni legittime, come lo sono anche in altre app. Ma sono anche le caratteristiche tipiche che si usano per le app che fanno sorveglianza di massa nascosta, ossia sono spyware. Di fatto queste caratteristiche rendono impossibile anche per gli esperti dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza determinare se l’app Temu sia pericolosa oppure no.

Ma allora come mai i ricercatori di Grizzly Research sono stati invece così categorici? L’analisi tecnica svizzera spiega che Grizzly non è un’azienda dedicata alla sicurezza informatica, ma è una società che si occupa di investimenti finanziari e “ha un interesse economico nel far scendere le quotazioni di borsa e quindi non è neutrale”.

I ricercatori svizzeri, tuttavia, non possono scagionare completamente l’app di Temu proprio perché manca la trasparenza. Fatta come è attualmente, questa app potrebbe (e sottolineo il potrebbe) “contenere funzioni nascoste di sorveglianza che vengono attivate solo in certe condizioni (per esempio in certi luoghi o certi orari)” e non sarebbe possibile accorgersene. L’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza nota inoltre che Temu e la società che la gestisce, la PDD, sono soggette al diritto cinese, che non garantisce una protezione adeguata dei dati degli utenti dal punto di vista europeo, e aggiunge che “le agenzie governative in Cina hanno accesso facilitato ai dati personali e le aziende vengono spesso obbligate a condividere dati con queste agenzie”.

Un’app che ha tutte le caratteristiche tecniche ideali per farla diventare uno strumento di sorveglianza di massa e appartiene a un’azienda soggetta a un governo che non offre le garanzie di protezione dei dati personali alle quali siamo abituati non è un’app che rassicura particolarmente. Ma non ci sono prove di comportamenti sospetti.

Per questo i ricercatori svizzeri sono arrivati a una raccomandazione: in base a un principio di prudenza, è opportuno valutare con attenzione se installare Temu in certe circostanze, per esempio su smartphone aziendali o governativi o di individui particolarmente vulnerabili, e tutti gli utenti dovrebbero fare attenzione ai permessi richiesti ogni volta durante l’uso dell’app, per esempio la geolocalizzazione o l’uso della fotocamera, e dovrebbero tenere costantemente aggiornati i sistemi operativi dei propri dispositivi.

Tutto questo può sembrare davvero troppo complicato per l’utente comune che vuole solo fare shopping, ma per fortuna i ricercatori dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza hanno una soluzione più semplice e al tempo stesso sicura.


Se siete preoccupati per il rischio tecnicamente plausibile di essere spiati da Temu o da app analoghe, soprattutto se vivete o lavorate in ambienti sensibili, i ricercatori svizzeri propongono una scelta facile e a costo zero: invece di usare l’app di Temu, accedete al sito di Temu usando il browser del telefono o del tablet o del computer. Questo vi permette di avere maggiore controllo, riduce la superficie di attacco disponibile per eventuali abusi, e riduce drasticamente gli appigli tecnici che consentirebbero un’eventuale sorveglianza di massa.

C’è invece un altro aspetto di sicurezza, molto concreto, che emerge da altre indagini tecniche svolte su Temu e sulla sua app: il rischio di furto di account. È altamente consigliabile attivare l’autenticazione a due fattori, che Temu ha introdotto a dicembre 2023, oltre a scegliere una password robusta e complessa. Questa misura antifurto si attiva andando nelle impostazioni di sicurezza dell’app e scegliendo se si vuole ricevere un codice di verifica via SMS oppure immettere un codice generato localmente dall’app di autenticazione, quando ci si collega al sito. Temu è un po’ carente sul versante sicurezza: secondo i test di Altroconsumo, quando un utente si registra su Temu non gli viene chiesto di scegliere una password sicura e robusta. Gli sperimentatori hanno immesso come password “1234” e Temu l’ha accettata senza batter ciglio.

Questa è insomma la situazione: nessuna prova, molti sospetti, un’architettura che si presterebbe molto bene ad abusi, e una dipendenza da leggi inadeguate ai nostri standard di riservatezza. Ma la soluzione c’è: usare un browser al posto dell’app. Gli esperti dell’Istituto nazionale di test per la cibersicurezza non hanno invece soluzioni per un altro problema dei negozi online: la scarsissima qualità, e in alcuni casi la pericolosità, dei prodotti offerti. Giocattoli con pezzi piccoli che potrebbero portare al soffocamento, assenza di istruzioni in italiano, mancanza delle omologazioni di sicurezza previste dalle leggi, assenza di elenco degli ingredienti dei cosmetici e imballaggi difficilissimi da smaltire sono fra i problemi più frequentemente segnalati.

Forse questo, più di ogni dubbio sulla sicurezza informatica, è un buon motivo per diffidare di questi negozi online a prezzi stracciati.

Fonti aggiuntive

Comunicato stampa dell’Istituto Nazionale di test per la cibersicurezza NTC (in italiano), 5 dicembre 2024

Un istituto di prova indipendente aumenta la sicurezza informatica nazionale in Svizzera, M-Q.ch (2022)

Temu da… temere – Puntata di Patti Chiari del 18 ottobre 2024

People only just learning correct way to pronounce Shein – it’s not what you think, Manchester Evening News, 2024

Temu è uno spyware? Cosa c’è di vero nelle ipotesi di Grizzly Research – Agenda Digitale (2023)

Podcast RSI – Le ginnaste mostruose di OpenAI rivelano i trucchi delle IA

Questo è il testo della puntata del 16 dicembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


Il 9 dicembre scorso OpenAI, l’azienda che ha creato ChatGPT, ha rilasciato al pubblico Sora, un generatore di video basato sull’intelligenza artificiale, che era stato presentato a febbraio senza però renderlo pubblicamente disponibile. Con Sora, si descrive a parole la scena che si desidera, e il software produce il video corrispondente, in alta definizione.

Gli spezzoni dimostrativi sono straordinariamente realistici, e Sora a prima vista sembra essere un altro prodotto vincente e rivoluzionario di OpenAI, ma il giorno dopo il suo debutto ha iniziato a circolare in modo virale sui social network [Bluesky; X] un video, realizzato con Sora da un utente, che è così profondamente sbagliato e grottesco che diventa comico. Per qualche strano motivo, Sora sa generare di tutto, dai cani che corrono e nuotano alle persone che ascoltano musica ai paesaggi tridimensionali, ma è totalmente incapace di generare un video di una ginnasta che fa esercizi a corpo libero.

here's a Sora generated video of gymnastics

[image or embed]

— Peter Labuza (@labuzamovies.bsky.social) 11 dicembre 2024 alle ore 18:35

Il video diventato virale mostra appunto quella che dovrebbe essere una atleta che compie una serie di movimenti ginnici ma invece diventa una sorta di frenetica ameba fluttuante dal cui corpo spuntano continuamente arti a caso e le cui braccia diventano gambe e viceversa; dopo qualche secondo la testa le si stacca dal corpo e poi si ricongiunge. E non è l’unico video del suo genere.

Un risultato decisamente imbarazzante per OpenAI, ben diverso dai video dimostrativi così curati presentati dall’azienda. Un risultato che rivela una delle debolezze fondamentali delle intelligenze artificiali generative attuali e mette in luce il “trucco” sorprendentemente semplice usato da questi software per sembrare intelligenti.

Questa è la storia di quel trucco, da conoscere per capire i limiti dell’intelligenza artificiale ed evitare di adoperarla in modo sbagliato e pagare abbonamenti costosi ma potenzialmente inutili.

Benvenuti alla puntata del 16 dicembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Dieci mesi dopo il suo annuncio iniziale, OpenAI ha reso disponibile al pubblico il generatore di video Sora basato sull’intelligenza artificiale. Dandogli una descrizione, o prompt, Sora produce un video che può durare fino a venti secondi e rispecchia fedelmente la descrizione fornita.

Sora è la naturale evoluzione delle intelligenze artificiali generative: nel giro di pochi anni, dalla semplice produzione di testi siamo passati alla generazione di immagini, ormai diventate fotorealistiche, sempre partendo da un prompt testuale, e ora arrivano i video generati.

OpenAI non è l’unica azienda che ha presentato intelligenze artificiali che generano video: lo hanno già fatto Google, Runway, Kling e Minimax, giusto per fare qualche nome. Ma Sora sembrava essere molto superiore alla concorrenza, perlomeno fino al momento in cui ha iniziato a circolare il video della ginnasta ameboide.

Va detto che tutti i prodotti attuali di generazione di video hanno gli stessi problemi: spesso producono videoclip mostruosi e deformi, e tocca generarne tanti per ottenerne uno buono. Ma come mai il prodotto di punta di un’azienda leader nel settore fallisce miseramente proprio con la ginnastica artistica?

Per capirlo bisogna ragionare sul modo in cui lavorano le intelligenze artificiali: vengono addestrate fornendo loro un numero enorme di testi, foto o video di esempio di vario genere. Le foto e i video vengono accompagnati da una dettagliata descrizione testuale, una sorta di etichettatura. In questa fase di addestramento, l’intelligenza artificiale crea delle associazioni statistiche fra le parole e le immagini. Quando poi le viene chiesto di creare un testo, un’immagine o un video, attinge a questo vastissimo catalogo di associazioni e lo usa per il suo trucco fondamentale: calcolare il dato successivo più probabile.

Nel caso della generazione di testi, l’intelligenza artificiale inizia a scegliere una prima parola o sequenza di parole, basata sulla descrizione iniziale, e poi non fa altro che mettere in fila le parole statisticamente più probabili per costruire i propri testi. Nelle risposte di ChatGPT, per capirci, non c’è nessuna cognizione o intelligenza: quello che scrive è in sostanza la sequenza di parole più probabile. Sto semplificando, ma il trucco di base è davvero questo.

Lo ha detto chiaramente Sam Altman, il CEO di OpenAI, in una dichiarazione resa davanti a un comitato del Senato statunitense nel 2023:

La generazione attuale di modelli di intelligenza artificiale – dice – è costituita da sistemi di predizione statistica su vasta scala: quando un modello riceve la richiesta di una persona, cerca di prevedere una risposta probabile. Questi modelli operano in maniera simile al completamento automatico sugli smartphone […] ma a una scala molto più ampia e complessa […] – dice sempre Altman – Gli strumenti di intelligenza artificiale sono inoltre in grado di imparare i rapporti statistici fra immagini e descrizioni testuale e di generare nuove immagini basate su input in linguaggio naturale.

[fonte, pag. 2]

In altre parole, ChatGPT sembra intelligente perché prevede le parole o frasi più probabili dopo quelle immesse dall’utente. Nel caso dei video, un’intelligenza artificiale calcola l’aspetto più probabile del fotogramma successivo a quello corrente, basandosi sull’immenso repertorio di video che ha acquisito durante l’addestramento. Tutto qui. Non sa nulla di ombre o forme o di come si muovono gli oggetti o le persone (o, in questo caso, gli arti delle ginnaste): sta solo manipolando pixel e probabilità. Sora affina questa tecnica tenendo conto di numerosi fotogrammi alla volta, ma il principio resta quello.

Ed è per questo che va in crisi con la ginnastica.


Come spiega Beni Edwards su Ars Technica, i movimenti rapidi degli arti, tipici della ginnastica a corpo libero, rendono particolarmente difficile prevedere l’aspetto corretto del fotogramma successivo usando le tecniche attuali dell’intelligenza artificiale. E così Sora genera, in questo caso, un collage incoerente di frammenti dei video di ginnastica a corpo libero che ha acquisito durante l‘addestramento, perché non sa quale sia l’ordine giusto nel quale assemblarli. E non lo sa perché attinge a medie statistiche basate su movimenti del corpo molto differenti tra loro e calcolate su una quantità modesta di video di ginnastica a corpo libero.

Non è un problema limitato alla ginnastica artistica: in generale, se il tipo di video chiesto dall’utente è poco presente nell’insieme di dati usato per l’addestramento, l’intelligenza artificiale è costretta a inventarsi i fotogrammi, creando così movimenti mostruosi e arti supplementari che sono l’equivalente video delle cosiddette “allucinazioni” tipiche delle intelligenze artificiali che generano testo.

Sora, in questo senso, è nonostante tutto un passo avanti: alcuni generatori di video concorrenti usciti nei mesi scorsi facevano addirittura svanire le atlete a mezz’aria o le inglobavano nei tappeti o negli attrezzi, in una sorta di versione IA del terrificante morphing del robot T-1000 alla fine di Terminator 2: Il giorno del giudizio.

Questo suggerisce una possibile soluzione al problema: aumentare la quantità e la varietà di video dati in pasto all’intelligenza artificiale per addestrarla, ed etichettare con molta precisione i contenuti di quei video. Ma non è facile, perché quasi tutti i video sono soggetti al copyright. Soprattutto quelli degli eventi sportivi, e quindi non sono liberamente utilizzabili per l’addestramento.

Sora fa sorridere con i suoi video mostruosamente sbagliati in questo campo, ma non vuol dire che sia da buttare: è comunque una tappa molto importante verso la generazione di video di qualità. Se i video che avete bisogno di generare rappresentano scene comuni, come una persona che cammina o gesticola oppure un paesaggio, Sora fa piuttosto bene il proprio mestiere e consente anche di integrare oggetti o immagini preesistenti nei video generati.

Al momento, però, non è disponibile in Europa, salvo ricorrere a VPN o soluzioni analoghe, e accedere alle funzioni di generazione video costa: gli abbonati che pagano 20 dollari al mese a ChatGPT possono creare fino a 50 video al mese, in bassa qualità [480p] oppure possono crearne di meno ma a qualità maggiore. Gli abbonati Pro, che pagano ben 200 dollari al mese, possono chiedere risoluzioni maggiori e durate più lunghe dei video generati.

Se volete farvi un’idea delle attuali possibilità creative di Sora, su Vimeo trovate per esempio The Pulse Within, un corto creato interamente usando spezzoni video generati con questo software, e sul sito di Sora, Sora.com, potete sfogliare un ricco catalogo di video dimostrativi.

Siamo insomma ancora lontani dai film creati interamente con l’intelligenza artificiale, ma rispetto a quello che si poteva fare un anno fa, i progressi sono stati enormi. Ora si tratta di decidere come usare questi nuovi strumenti e le loro nuove possibilità creative.

Infatti il rapidissimo miglioramento della qualità di questi software e la loro disponibilità di massa significano anche che diventa più facile e accessibile produrre deepfake iperrealistici o, purtroppo, anche contenuti di abuso su adulti e minori. Sora ha già implementato filtri che dovrebbero impedire la generazione di questo tipo di video, e i contenuti prodotti con Sora hanno delle caratteristiche tecniche che aiutano a verificare se un video è sintetico oppure no, ma questo è un settore nel quale la gara fra chi mette paletti e chi li vuole scardinare non conosce pause. Nel frattempo, noi comuni utenti possiamo solo restare vigili e consapevoli che ormai non ci si può più fidare neppure dei video. A meno che, per ora, siano video di ginnastica artistica.

Fonti aggiuntive

Ten months after first tease, OpenAI launches Sora video generation publicly, Ars Technica

Podcast RSI – Google Maps diventa meno ficcanaso

Questo è il testo della puntata del 23 dicembre 2024 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS. Il podcast riprenderà il 13 gennaio 2025.


Se avete ricevuto una strana mail che sembra provenire da Google e che parla di “spostamenti” e “cronologia delle posizioni” ma non avete idea di cosa voglia dire, siete nel posto giusto per levarvi il dubbio e capire se e quanto siete stati pedinati meticolosamente da Google per anni: siete nella puntata del 23 dicembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica, e dedicato in questo caso agli importanti cambiamenti della popolarissima app Google Maps. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Se siete fra i tantissimi utenti che hanno installato e usano Google Maps sullo smartphone, forse non vi siete mai accorti che questa utilissima app non vi dice soltanto dove siete e dove si trovano i punti di interesse intorno a voi, ma si ricorda ogni vostro spostamento sin da quando l’avete installata, anche quando le app di Google non sono in uso. In altre parole, Google sa dove siete stati, minuto per minuto, giorno per giorno, e lo sa molto spesso per anni di fila.

Infatti se andate nell’app e toccate l’icona del vostro profilo, compare un menu che include la voce Spostamenti. Toccando questa voce di menu compare un calendario con una dettagliatissima cronologia di tutti i vostri spostamenti, che include gli orari di partenza e di arrivo e anche il mezzo di trasporto che avete usato: bici, auto, nave, treno, aereo, piedi.

Google infatti usa i sensori del telefono per dedurre la vostra posizione: non solo il tradizionale GPS, che funziona solo all’aperto, ma anche il Wi-Fi e il Bluetooth, che permettono il tracciamento della posizione anche al coperto. Anche se non vi collegate a una rete Wi-Fi mentre siete in giro, Google Maps fa una scansione continua delle reti Wi-Fi presenti nelle vicinanze e confronta i loro nomi con una immensa mappa digitale, costantemente aggiornata, delle reti Wi-Fi in tutto il mondo. Se trova una corrispondenza, deduce che siete vicini a quella rete e quindi sa dove vi trovate, anche al chiuso.

Moltissime persone non sono a conoscenza di questo tracciamento di massa fatto da Google. Quando vado nelle scuole a presentare agli studenti le questioni di sicurezza e privacy informatica, mostrare a uno specifico studente la sua cronologia degli spostamenti archiviata da Google per anni è una delle dimostrazioni più efficaci e convincenti della necessità di chiedersi sempre quali dati vengono raccolti su di noi e come vengono usati. Sposta immediatamente la conversazione dal tipico “Eh, ma quante paranoie” a un più concreto “Come faccio a spegnerla?”

Disattivare il GPS non basta, perché Maps usa appunto anche il Wi-Fi per localizzare il telefono e quindi il suo utente. Bisognerebbe disattivare anche Wi-Fi e Bluetooth, ma a quel punto lo smartphone non sarebbe più uno smartphone, perché perderebbe tutti i servizi basati sulla localizzazione, dal navigatore alla ricerca del ristorante o Bancomat più vicino, e qualsiasi dispositivo Bluetooth, come cuffie, auricolari o smartwatch, cesserebbe di comunicare. Si potrebbe disabilitare GPS, Bluetooth e Wi-Fi solo per Maps, andando nei permessi dell’app, ma è complicato e molti utenti non sanno come fare e quindi rischiano di disabilitare troppi servizi e trovarsi con un telefono che non funziona più correttamente.

Maps permette di cancellare questa cronologia, per un giorno specifico oppure integralmente, ma anche in questo caso viene il dubbio: e se un domani ci servisse sapere dove eravamo in un certo giorno a una certa ora? Per esempio per catalogare le foto delle vacanze oppure per dimostrare a un partner sospettoso dove ci trovavamo e a che ora siamo partiti e arrivati? Non ridete: ci sono persone che lo fanno. Lo so perché le incontro per lavoro. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, sbarazzarsi di questo Grande Fratello non è facile. Ma ora è arrivata una soluzione alternativa, ed è questo il motivo della mail di Google.


Il titolo della mail firmata Google, nella versione italiana, è “Vuoi conservare i tuoi Spostamenti? Decidi entro il giorno 18 maggio 2025”, e il messaggio di solito arriva effettivamente da Google, anche se è probabile che i soliti sciacalli e truffatori della Rete invieranno mail false molto simili per cercare di ingannare gli utenti, per cui conviene comunque evitare di cliccare sui link presenti nella mail di avviso e andare direttamente alle pagine di Google dedicate a questo cambiamento; le trovate indicate su Attivissimo.me.

La prima buona notizia è che se siete sicuri di non voler conservare questa cronologia dei vostri spostamenti, è sufficiente non fare nulla: i dati e le impostazioni degli Spostamenti verranno disattivati automaticamente dopo il 18 maggio 2025 e Google smetterà di tracciarvi, perlomeno in questo modo.

Se invece volete conservare in tutto o in parte questa cronologia, dovete agire, e qui le cose si fanno complicate. Il grosso cambiamento, infatti, è che i dati della cronologia degli spostamenti non verranno più salvati sui server di Google ma verranno registrati localmente sul vostro telefono, in maniera molto meno invadente rispetto alla situazione attuale.

Per contro, Google avvisa che dopo il 18 maggio, se non rinunciate alla cronologia, i dati sui vostri spostamenti verranno raccolti da tutti i dispositivi che avete associato al vostro account Google, quindi non solo dal vostro telefono ma anche da eventuali tablet o computer o altri smartphone, e verranno raccolti anche se avevate disattivato la registrazione degli spostamenti su questi altri dispositivi.

Un’altra novità importante è che la cronologia degli spostamenti non sarà più disponibile nei browser Web, ma sarà accessibile soltanto tramite l’app Google Maps e soltanto sul telefono o altro dispositivo sul quale avete scelto di salvare la copia locale della cronologia.

La procedura di cambiamento di queste impostazioni di Google Maps è semplice e veloce ed è usabile anche subito, senza aspettare maggio del 2025. Con pochi clic si scelgono le preferenze desiderate e non ci si deve pensare più. Se si cambia idea in futuro, si possono sempre cambiare le proprie scelte andando a myactivity.google.com/activitycontrols oppure entrare nell’app Google Maps e scegliere il menu Spostamenti. I dati scaricati localmente, fra l’altro, occupano pochissimo spazio: la mia cronologia degli spostamenti, che copre anni di viaggi, occupa in tutto meno di tre megabyte.

Resta un ultimo problema: se i dati della cronologia degli spostamenti vi servono e d’ora in poi verranno salvati localmente sul vostro telefono, come farete quando avrete bisogno di cambiare smartphone? Semplice: Google offre la possibilità di fare un backup automatico dei dati, che viene salvato sui server di Google e può essere quindi importato quando si cambia telefono.

Ma allora siamo tornati al punto di partenza e i dati della cronologia restano comunque a disposizione di Google? No, perché il backup è protetto dalla crittografia e Google non può leggerne il contenuto, come descritto nelle istruzioni di backup fornite dall’azienda.


Resta solo da capire cosa fa esattamente Google con i dati di localizzazione di milioni di utenti. Sul versante positivo, questi dati permettono di offrire vari servizi di emergenza, per esempio comunicando ai soccorritori dove vi trovate. Se andate a correre e usate lo smartphone o smartwatch per misurare le vostre prestazioni, la localizzazione permette di tracciare il vostro chilometraggio. Se cercate informazioni meteo o sul traffico, la localizzazione consente di darvi più rapidamente i risultati che riguardano la zona dove vi trovate. Se smarrite il vostro telefono, questi dati permettono di trovarlo più facilmente. E se qualcuno accede al vostro account senza il vostro permesso, probabilmente lo fa da un luogo diverso da quelli che frequentate abitualmente, e quindi Google può insospettirsi e segnalarvi la situazione anomala.

Sul versante meno positivo, le informazioni di localizzazione permettono a Google di mostrarvi annunci più pertinenti, per esempio i negozi di scarpe nella vostra zona se avete cercato informazioni sulle scarpe in Google. In dettaglio, Google usa non solo i dati di posizione, ma anche l’indirizzo IP, le attività precedenti, l’indirizzo di casa e di lavoro che avete memorizzato nel vostro account Google, il fuso orario del browser, i contenuti e la lingua della pagina visitata, il tipo di browser e altro ancora. Tutti questi dati sono disattivabili, ma la procedura è particolarmente complessa.

Non stupitevi, insomma, se il vostro smartphone a volte vi offre informazioni o annunci così inquietantemente azzeccati e pertinenti da farvi sospettare che il telefono ascolti le vostre conversazioni. Google non lo fa, anche perché con tutti questi dati di contorno non gli servirebbe a nulla farlo. E se proprio non volete essere tracciati per qualunque motivo, c’è sempre l’opzione semplice e pratica di lasciare il telefono a casa o portarlo con sé spento.

Usare Google senza esserne usati è insomma possibile, ma servono utenti informati e motivati, non cliccatori passivi. Se sono riuscito a darvi le informazioni giuste per decidere e per motivarvi, questo podcast ha raggiunto il suo scopo. E adesso vado subito anch’io a salvare la mia cronologia degli spostamenti.

Podcast RSI – Davvero la scienza dice che “il fact-checking non funziona”?

Questo è il testo della puntata del 13 gennaio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


Pochi giorni fa Meta ha annunciato che chiuderà il proprio programma di fact-checking gestito tramite esperti esterni e lo sostituirà con le cosiddette Community notes, ossia delle annotazioni redatte dagli stessi utenti dei suoi social network, come ha già fatto la piattaforma concorrente X di Elon Musk.

Questa decisione, che per citare un titolo del Corriere della Sera è stata vista come una “resa definitiva a Trump (e Musk)”, ha rianimato la discussione su come contrastare la disinformazione. Walter Quattrociocchi, professore ordinario dell’Università La Sapienza di Roma, ha dichiarato che “Il fact-checking è stato un fallimento, ma nessuno vuole dirlo”, aggiungendo che “[l]a comunità scientifica lo aveva già dimostrato”. Queste sono sue parole in un articolo a sua firma pubblicato sullo stesso Corriere.

Detta così, sembra una dichiarazione di resa incondizionata della realtà, travolta e sostituita dai cosiddetti “fatti alternativi” e dai deliri cospirazionisti. Sembra un’ammissione che non ci sia nulla che si possa fare per contrastare la marea montante di notizie false, di immagini fabbricate con l’intelligenza artificiale, di propaganda alimentata da interessi economici o politici, di tesi di complotto sempre più bizzarre su ogni possibile argomento. I fatti hanno perso e le fandonie hanno vinto.

Se mi concedete di portare per un momento la questione sul piano personale, sembra insomma che la scienza dica che il mio lavoro di “cacciatore di bufale” sia una inutile perdita di tempo, e più in generale lo sia anche quello dei miei tanti colleghi che fanno debunking, ossia verificano le affermazioni che circolano sui social network e nei media in generale e le confermano o smentiscono sulla base dei fatti accertati.

È veramente così? Difendere i fatti è davvero fatica sprecata? Ragioniamoci su in questa puntata, datata 13 gennaio 2025, del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Nel suo annuncio pubblico, Mark Zuckerberg ha spiegato che il programma di fact-checking lanciato nel 2016 dalla sua piattaforma e basato su organizzazioni indipendenti specializzate in verifica dei fatti voleva dare agli utenti “più informazioni su quello che vedono online, in particolare sulle notizie false virali, in modo che potessero giudicare da soli quello che vedevano e leggevano”, scrive Zuckerberg.

Ma a suo dire questo approccio non ha funzionato perché anche gli esperti, dice, “come tutte le persone, hanno i propri pregiudizi e i propri punti di vista”, e quindi è giunto il momento di sostituire gli esperti esterni con gli utenti dei social network. Saranno loro, dice Zuckerberg, a “decidere quando i post sono potenzialmente ingannevoli e richiedono più contesto”, e saranno “persone che hanno una vasta gamma di punti di vista” a “decidere quale tipo di contesto è utile che gli altri utenti vedano”.

Zuckerberg non spiega, però, in che modo affidare la valutazione delle notizie agli utenti farà magicamente azzerare quei pregiudizi e quei punti di vista di cui parlava. In fin dei conti, gli utenti valutatori saranno un gruppo che si autoselezionerà invece di essere scelto in base a criteri di competenza. Anzi, l’autoselezione è già cominciata, perché Zuckerberg ha già pubblicato i link per iscriversi alla lista d’attesa per diventare valutatori su Facebook, Instagram e Threads. Mi sono iscritto anch’io per vedere dall’interno come funzionerà questa novità e raccontarvela.

Invece le Linee guida della community, ossia le regole di comportamento degli utenti di Meta, sono già state riscritte per togliere molte restrizioni sui discorsi d’odio, aggiungendo specificamente che dal 7 gennaio scorso sono consentite per esempio le accuse di malattia mentale o anormalità basate sul genere o l’orientamento sessuale* ed è accettabile paragonare le donne a oggetti e le persone di colore ad attrezzi agricoli oppure negare l’esistenza di una categoria di persone o chiedere l’espulsione di certi gruppi di individui.**

* Il 10 gennaio, Meta ha eliminato da Messenger i temi Pride e Non-Binary che aveva introdotto con così tanta enfasi rispettivamente 2021 e nel 2022 [404 media; Platformer.news]. Intanto Mark Lemley, avvocato per le questioni di copyright e intelligenza artificiale di Meta, ha troncato i rapporti con l’azienda, scrivendo su LinkedIn che Zuckerberg e Facebook sono in preda a “mascolinità tossica e pazzia neonazista”.

** Confesso che nel preparare il testo di questo podcast non sono riuscito a trovare parole giornalisticamente equilibrate per definire lo squallore infinito di un‘azienda che decide intenzionalmente di riscrivere le proprie regole per consentire queste specifiche forme di odio. E così ho contenuto sia il conato che la rabbia, e ho deciso di lasciare che le parole di Meta parlassero da sole.

Un’altra novità importante è che Meta smetterà di ridurre la visibilità dei contenuti sottoposti a verifica e gli utenti, invece di trovarsi di fronte a un avviso a tutto schermo che copre i post a rischio di fandonia, vedranno soltanto “un’etichetta molto meno invadente che indica che sono disponibili ulteriori informazioni per chi le vuole leggere”. In altre parole, sarà più facile ignorare gli avvertimenti.

Insomma, è un po’ come se una compagnia aerea decidesse che tutto sommato è inutile avere dei piloti addestrati e competenti ed è invece molto meglio lasciare che siano i passeggeri a discutere tra loro, insultandosi ferocemente, su come pilotare, quando tirare su il carrello o farlo scendere, quanto carburante imbarcare e cosa fare se l’aereo sta volando dritto verso una montagna. Ed è un po’ come se decidesse che è più saggio che gli irritanti allarmi di collisione vengano sostituiti da una voce sommessa che dice “secondo alcuni passeggeri stiamo precipitando, secondo altri no, comunque tocca lo schermo per ignorare tutta la discussione e guardare un video di tenerissimi gattini.

Va sottolineato che queste scelte di Meta riguardano per ora gli Stati Uniti e non si applicano in Europa, dove le leggi* impongono ai social network degli obblighi di moderazione e di mitigazione della disinformazione e dei discorsi d’odio.

*  In particolare il Digital Services Act o DSA, nota Martina Pennisi sul Corriere.

Ma una cosa è certa: questa nuova soluzione costerà molto meno a Meta. I valutatori indipendenti vanno pagati (lo so perché sono stato uno di loro per diversi anni), mentre gli utenti che scriveranno le Note della comunità lo faranno gratis. Cosa mai potrebbe andare storto?


Ma forse Mark Zuckerberg tutto sommato ha ragione, perché è inutile investire in verifiche dei fatti perché tanto “il fact-checking non funziona,” come scrive appunto il professor Quattrociocchi, persona che conosco dai tempi in cui abbiamo fatto parte dei numerosi consulenti convocati dalla Camera dei Deputati italiana sul problema delle fake news.

In effetti Quattrociocchi presenta dei dati molto rigorosi, contenuti in un articolo scientifico di cui è coautore, intitolato Debunking in a world of tribes, che si basa proprio sulle dinamiche sociali analizzate dettagliatamente su Facebook fra il 2010 e il 2014. Questo articolo e altri indicano che “il fact-checking, lungi dall’essere una soluzione, spesso peggiora le cose” [Corriere] perché crea delle casse di risonanza o echo chamber, per cui ogni gruppo rimane della propria opinione e anzi si polarizza ancora di più: se vengono esposti a un fact-checking, i complottisti non cambiano idea ma anzi tipicamente diventano ancora più complottisti, mentre chi ha una visione più scientifica delle cose è refrattario anche a qualunque minima giusta correzione che tocchi le sue idee.

Ma allora fare il mio lavoro di cacciatore di bufale è una perdita di tempo e anzi fa più male che bene? Devo smettere, per il bene dell’umanità, perché la scienza dice che noi debunker facciamo solo danni?

Dai toni molto vivaci usati dal professor Quattrociocchi si direbbe proprio di sì. Frasi come “nonostante queste evidenze, milioni di dollari sono stati spesi in soluzioni che chiunque con un minimo di onestà intellettuale avrebbe riconosciuto come fallimentari” sono facilmente interpretabili in questo senso. Ma bisogna fare attenzione a cosa intende esattamente il professore con “fact-checking”: lui parla specificamente di situazioni [nel podcast dico “soluzioni” – errore mio, che per ragioni tecniche non posso correggere] in cui il debunker, quello che vorrebbe smentire le falsità presentando i fatti, va a scrivere quei fatti nei gruppi social dedicati alle varie tesi di complotto. In pratica, è come andare in casa dei terrapiattisti a dire loro che hanno tutti torto e che la Terra è una sfera: non ha senso aspettarsi che questo approccio abbia successo e si venga accolti a braccia aperte come portatori di luce e conoscenza.

Anche senza il conforto dei numeri e dei dati raccolti da Quattrociocchi e dai suoi colleghi, è piuttosto ovvio che un fact-checking del genere non può che fallire: tanto varrebbe aspettarsi che andare a un derby, sedersi tra i tifosi della squadra avversaria e tessere le lodi della propria squadra convinca tutti a cambiare squadra del cuore. Ma il fact-checking non consiste soltanto nell’andare dai complottisti; anzi, i debunker evitano accuratamente questo approccio.

Il fact-checking, infatti, non si fa per chi è già parte di uno schieramento o dell’altro. Si fa per chi è ancora indeciso e vuole informarsi, per poi prendere una posizione, e in questo caso non è affatto inutile, perché fornisce le basi fattuali che rendono perlomeno possibile una decisione razionale.

Del resto, lo stesso articolo scientifico del professor Quattrociocchi, e il suo commento sul Corriere della Sera, sono in fin dei conti due esempi di fact-checking: su una piattaforma pubblica presentano i dati di fatto su un tema e li usano per smentire una credenza molto diffusa. Se tutto il fact-checking fosse inutile, se davvero presentare i fatti non servisse a nulla e fosse anzi controproducente, allora sarebbero inutili, o addirittura pericolosi, anche gli articoli del professore.


Resta la questione delle soluzioni al problema sempre più evidente dei danni causati dalla disinformazione e dalla malinformazione circolante sui social e anzi incoraggiata e diffusa anche da alcuni proprietari di questi social, come Elon Musk.

Il professor Quattrociocchi scrive che “L’unico antidoto possibile, e lo abbiamo visto chiaramente, è rendere gli utenti consapevoli di come interagiamo sui social.” Parole assolutamente condivisibili, con un piccolo problema: non spiegano come concretamente arrivare a rendere consapevoli gli utenti di come funzionano realmente i social network.

Sono ormai più di vent’anni che esistono i social network, e finora i tentativi di creare questa consapevolezza si sono tutti arenati. Non sono bastati casi clamorosi come quelli di Cambridge Analytica; non è bastata la coraggiosa denuncia pubblica, nel 2021, da parte di Frances Haugen, data scientist di Facebook, del fatto che indignazione e odio sono i sentimenti che alimentano maggiormente il traffico dei social e quindi i profitti di Meta e di tutti i social network. Come dice anche il professor Quattrociocchi insieme a numerosi altri esperti, “[s]i parla di fake news come se fossero il problema principale, ignorando completamente che è il modello di business delle piattaforme a creare le condizioni per cui la disinformazione prospera.”

La soluzione, insomma, ci sarebbe, ma è troppo radicale per gran parte delle persone: smettere di usare i social network, perlomeno quelli commerciali, dove qualcuno controlla chi è più visibile e chi no e decide cosa vediamo e ha convenienza a soffiare sul fuoco della disinformazione. Le alternative prive di controlli centrali non mancano, come per esempio Mastodon al posto di Threads, X o Bluesky, e Pixelfed al posto di Instagram, ma cambiare social network significa perdere i contatti con i propri amici se non migrano anche loro, e quindi nonostante tutto si finisce per restare dove si è, turandosi il naso. Fino al momento in cui non si sopporta più: il 20 gennaio, per esempio, è la data prevista per #Xodus, l’uscita in massa da X da parte di politici, organizzazioni ambientaliste, giornalisti* e utenti di ogni genere.

* La Federazione Europea dei Giornalisti (European Federation of Journalists, EFJ), la più grande organizzazione di giornalisti in Europa, che rappresenta oltre 295.000 giornalisti, ha annunciato che non pubblicherà più nulla su X dal 20 gennaio 2025: “Come molte testate europee (The Guardian, Dagens Nyheter, La Vanguardia, Ouest-France, Sud-Ouest, ecc.) and e organizzazioni di giornalisti, come l’Associazione dei Giornalisti Tedeschi (DJV), la EFJ ritiene di non poter più partecipare eticamente a un social network che è stato trasformato dal suo proprietario in una macchina di disinformazione e propaganda.”

Funzionerà? Lo vedremo molto presto.

Aggiornamento (2025/01/20)

Il quotidiano francese Le Monde ha annunciato di aver interrotto la condivisione dei propri contenuti su X, dove ha 11,1 milioni di follower.

Podcast RSI – Il finto Brad Pitt e la sua vittima messa alla gogna

Questo è il testo della puntata del 20 gennaio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


Probabilmente avete già sentito la notizia della donna francese che ha inviato in totale oltre 800.000 euro a dei truffatori perché era convinta di essere in chat con Brad Pitt e di doverlo aiutare economicamente perché i conti del celeberrimo attore erano bloccati dalla causa legale con l’ex moglie, Angelina Jolie. Se l’avete sentita, probabilmente l’avete commentata criticando l’ingenuità della vittima. Molte persone sono andate oltre e hanno insultato e preso in giro la vittima pubblicamente sui social; lo ha fatto persino Netflix France. Una gogna mediatica rivolta esclusivamente alla persona truffata, senza spendere una parola sulla crudeltà infinita dei truffatori. Ed è stata tirata in ballo l’intelligenza artificiale, che però in realtà c’entra solo in parte.

Questa è la storia di un inganno che in realtà è ben più complesso e ricco di sfumature di quello che è stato diffusamente raccontato, e che permette di conoscere in dettaglio come operano i truffatori online e cosa succede nella mente di una persona che diventa bersaglio di questo genere di crimine.

Benvenuti alla puntata del 20 gennaio 2025 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Questa storia inizia a febbraio del 2023, quando Anne, una donna francese sposata con un facoltoso imprenditore, scarica Instagram perché vuole postare le foto di una sua vacanza nelle Alpi francesi. Viene contattata subito da qualcuno che dice di essere Jane Etta Pitt, la madre dell’attore Brad Pitt, che chatta con lei e le dice che sarebbe la persona giusta per suo figlio. Poco dopo la contatta online qualcuno che afferma di essere Brad Pitt in persona e chiede di conoscerla meglio. Soprattutto vuole sapere se Anne lavora per caso nei media, perché lui ci tiene molto a proteggere la sua vita privata.

Questo contatto insospettisce la donna, ma Anne non conosce i meccanismi dei social network. Non sa, per esempio, che i controlli di Instagram sulle identità degli utenti sono scarsissimi e che quindi il falso Brad Pitt e la sua altrettanto falsa madre sono liberi di agire praticamente indisturbati e di tentare la stessa truffa contemporaneamente con migliaia di persone. Una truffa complessa e articolata, che include fra i suoi espedienti la capacità dei criminali di passare mesi e mesi a circuire una vittima chattando amorevolmente con lei, perché nel frattempo ne stanno raggirando tante altre, in una sorta di catena di montaggio dell’inganno.

Fra questi espedienti ci sono anche trucchi come i finti regali. A un certo punto, il falso Brad Pitt scrive ad Anne, dicendo che ha tentato di inviarle dei regali di lusso ma che non ha potuto pagare la dogana perché i suoi conti correnti sono bloccati dalla causa di divorzio da Angelina Jolie. E così Anne invia ai truffatori 9000 euro. Il servizio attraverso il quale invia il denaro non la avvisa che questa transazione è sospetta.

Anne, invece, si insospettisce parecchie volte durante questo lungo corteggiamento online, ma ogni volta che le viene un dubbio, i truffatori riescono a farglielo passare, mandandole per esempio un falso documento d’identità dell’attore. La figlia di Anne cerca di avvisarla che si tratta di una truffa e tenta di ragionare con lei per oltre un anno, ma la donna è troppo coinvolta emotivamente in questa relazione a distanza. Anche perché questo falso Brad Pitt le ha chiesto di sposarlo, e lei ovviamente ha accettato una proposta così lusinghiera dopo aver divorziato dal marito.

I truffatori giocano anche la carta della compassione oltre a quella della seduzione e della lusinga. Scrivono ad Anne, fingendo sempre di essere Brad Pitt, e le dicono che l’attore ha bisogno di contanti per poter pagare le cure per il tumore al rene che lo ha colpito. Mandano ad Anne delle fotografie false che sembrano mostrare Brad Pitt ricoverato in ospedale. La donna è reduce da un tumore, e quindi i truffatori toccano un suo tasto emotivo particolarmente sensibile.

Anne cerca su Internet le foto di Brad Pitt ricoverato e non le trova, ma giustifica questa mancanza pensando che quelle fotografie siano confidenziali e siano dei selfie scattati specificamente per lei.

E così Anne invia ai criminali tutto il denaro che ha ottenuto dal divorzio, ossia 775.000 euro, convinta di contribuire a salvare la vita di una persona in gravi difficoltà. Anche qui, i servizi di trasferimento di denaro usati dalla vittima la lasciano agire senza bloccare la transazione, che dovrebbe essere già sospetta in partenza per il suo ammontare così elevato.

Quando i giornali che si occupano di gossip legato alle celebrità pubblicano immagini del vero Brad Pitt con la sua nuova compagna, Ines de Ramon, Anne si insospettisce di nuovo, ma i truffatori le mandano un falso servizio televisivo nel quale il conduttore (in realtà generato dall’intelligenza artificiale)* parla di un rapporto esclusivo con una persona speciale che va sotto il nome di Anne. Questo la rassicura per qualche tempo, ma poi Brad Pitt e Ines de Ramon annunciano ufficialmente il loro legame sentimentale. Siamo a giugno del 2024, e a questo punto Anne decide di troncare le comunicazioni.

* Dopo la chiusura del podcast sono riuscito a recuperare uno spezzone [YouTube, a 1:08] di questo servizio televisivo e ho scoperto che il conduttore sintetico è invece una conduttrice, perlomeno in base al suo aspetto.
Un fermo immagine dal finto servizio di telegiornale creato dai truffatori (C à Vous/YouTube).

Ma i truffatori insistono, spacciandosi stavolta per agenti speciali dell’FBI, e cercano di ottenere dalla donna altro denaro. Lei segnala la situazione alla polizia, e vengono avviate le indagini. Pochi giorni fa, Anne ha raccontato pubblicamente la propria vicenda sul canale televisivo francese TF1, per mettere in guardia altre potenziali vittime. E qui è cominciato un nuovo calvario.


Sui social network, infatti, centinaia di utenti cominciano a prenderla in giro. Uno dei più importanti programmi radiofonici mattutini francesi le dedica uno sketch satirico. Netflix France pubblica su X un post nel quale promuove quattro film con Brad Pitt, specificando fra parentesi che il servizio di streaming garantisce che si tratti di quello vero, con una chiara allusione alla vicenda di Anne. Il post è ancora online al momento in cui preparo questo podcast.

Screenshot del post di Netflix France su X.

La società calcistica Toulouse FC pubblica un post ancora più diretto, che dice “Ciao Anne, Brad ci ha detto che sarà allo stadio mercoledì, e tu?”. Il post è stato poi rimosso e la società sportiva si è scusata.

France 24 mostra il post del Toulouse FC.

TF1 ha tolto il servizio dedicato ad Anne dalla propria piattaforma di streaming dopo che la testimonianza della donna ha scatenato questa ondata di aggressioni verbali, ma il programma resta reperibile online qua e là. Anne, in un’intervista pubblicata su YouTube, ha dichiarato che TF1 ha omesso di precisare che lei aveva avuto dubbi, ripetutamente, e ha aggiunto che secondo lei qualunque persona potrebbe cadere nella complessa trappola dei truffatori se si sentisse dire quelle che lei descrive come “parole che non hai mai sentito da tuo marito.”

In altre parole, una donna che era in una situazione particolarmente vulnerabile è stata truffata non da dilettanti improvvisati ma da professionisti dell’inganno, disposti a manipolare pazientemente per mesi le loro vittime usando senza pietà le leve emotive più sensibili, ha deciso di raccontare pubblicamente la propria vicenda per mettere in guardia le altre donne, e ne ha ottenuto principalmente dileggio, scherno e derisione. Uno schema purtroppo molto familiare alle tante donne che scelgono di raccontare abusi di altro genere di cui sono state vittime e di cui la gogna mediatica le rende vittime due volte invece di assisterle e sostenerle.

In questa vicenda, oltretutto, non sono solo gli utenti comuni a postare sui social network commenti odiosi: lo fanno anche professionisti dell’informazione, che in teoria dovrebbero sapere benissimo che fare satira su questi argomenti è un autogol di comunicazione assoluto e imperdonabile.

Mentre abbondano i commenti che criticano Anne, scarseggiano invece quelli che dovrebbero far notare il ruolo facilitatore di queste truffe dei social network e dei sistemi di pagamento. Questi falsi account che si spacciano per Brad Pitt (usando in questo caso specifico parte del nome completo dell’attore, ossia William Bradley Pitt) sono alla luce del sole. Dovrebbero essere facilmente identificabili da Meta, un’azienda che investe cifre enormi nell’uso dell’intelligenza artificiale per monitorare i comportamenti dei propri utenti a scopo di tracciamento pubblicitario eppure non sembra in grado di usarla per analizzare le conversazioni sulle sue piattaforme e notare quelle a rischio o rilevare gli account che pubblicano foto sotto copyright.

Basta infatti una banale ricerca in Google per trovare falsi account a nome di Brad Pitt, che hanno migliaia di follower, pubblicano foto dell’attore di cui chiaramente non hanno i diritti ed esistono in alcuni casi da anni, come per esempio @william_bradley_pitt767, creato a febbraio del 2021 e basato in Myanmar. E lo stesso vale per moltissime altre celebrità. Queste truffe, insomma, prosperano grazie anche all’indifferenza dei social network.

Uno dei tanti account falsi a nome di Brad Pitt su Instagram.
Informazioni sul falso account.

C’è anche un altro aspetto di questa vicenda che è stato raccontato in maniera poco chiara da molte testate giornalistiche: l’uso dell’intelligenza artificiale per generare le foto di Brad Pitt ricoverato. Quelle foto sono in realtà dei fotomontaggi digitali tradizionali, e lo si capisce perché anche il più scadente software di generazione di immagini tramite intelligenza artificiale produce risultati di gran lunga più coerenti, nitidi e dettagliati rispetto alle foto d’ospedale ricevute da Anne.

Fonte: X.com/CultureCrave.

L’intelligenza artificiale è stata sì usata dai criminali, ma non per quelle foto. È stata usata per creare dei videomessaggi dedicati ad Anne, nei quali un finto Brad Pitt si rivolge direttamente alla donna, le confida informazioni personali chiedendole di non condividerle, muovendosi e parlando in modo naturale.

France24 mostra uno dei videomessaggi falsi creati dai truffatori animando il volto di Brad Pitt.

Questi video sono nettamente più credibili rispetto alle false foto del ricovero che circolano sui social media in relazione a questa vicenda; sono forse riconoscibili come deepfake da parte di chi ha un occhio allenato, ma chi come Anne si è affacciato da poco ai social network non ha questo tipo di sensibilità nel rilevare gli indicatori di falsificazione, e non tutti sanno che esistono i deepfake. Mostrare solo quei fotomontaggi, senza includere i video, significa far sembrare Anne molto più vulnerabile di quanto lo sia stata realmente.

La qualità delle immagini sintetiche migliora in continuazione, ma per il momento può essere utile cercare alcuni elementi rivelatori. Conviene per esempio guardare la coerenza dei dettagli di contorno dell’immagine, come per esempio la forma e la posizione delle dita oppure la coerenza delle scritte presenti sugli oggetti raffigurati. Un altro indicatore è lo stile molto patinato delle immagini sintetiche, anche se i software più recenti cominciano a essere in grado di generare anche foto apparentemente sottoesposte, mosse o dilettantesche. Si può anche provare una ricerca per immagini, per vedere se una certa foto è stata pubblicata altrove. Inoltre la ricerca per immagini permette spesso di scoprire la fonte originale della foto in esame e quindi capire se ha un’origine autorevole e affidabile. E ovviamente l’indicatore più forte è il buon senso: è davvero plausibile che un attore popolarissimo vada sui social network a cercare conforto sentimentale?

Fra l’altro, nel caso specifico di Brad Pitt il suo portavoce ha ribadito che l’attore non ha alcuna presenza nei social. In altre parole, tutti i “Brad Pitt” che trovate online sono degli impostori.

In coda a questa vicenda amara c’è però un piccolo dettaglio positivo: il racconto pubblico di questo episodio è diventato virale in tutto il mondo, per cui si può sperare che molte vittime potenziali siano state allertate grazie al coraggio di Anne nel raccontare quello che le è successo. E va ricordato che a settembre 2024 in Spagna sono state arrestate cinque persone durante le indagini su un’organizzazione criminale che aveva truffato due donne spacciandosi proprio per Brad Pitt, ottenendo dalle vittime ben 350.000 dollari.

Non sempre i truffatori la fanno franca, insomma, e se gli utenti diventano più consapevoli e attenti grazie al fatto che questi pericoli vengono segnalati in maniera ben visibile dai media, le vittime di questi raggiri crudeli diminuiranno. Più se ne parla, anche in famiglia, e meglio è.

Fonti

Brad Pitt’s team reminds fans he’s not on social media after a woman gets big-time scammed, LA Times

Brad Pitt AI scam: Top tips on how to spot AI images, BBC

French Woman Faces Cyberbullying After Forking Over $850,000 to AI Brad Pitt, Rollingstone.com

AI Brad Pitt dupes French woman out of €830,000, BBC

French TV show pulled after ridicule of woman who fell for AI Brad Pitt, The Guardian

French Woman Scammed Out Of $850k By Fake ‘Brad Pitt’—And The AI Photos Are Something Else, Comic Sands

How an AI Brad Pitt conned a woman out of €830,000, triggering online mockery, France 24 su YouTube

Une femme arnaquée par un faux Brad Pitt – La Story – C à Vous, YouTube (include approfondimenti, spezzoni del finto servizio televisivo, il commento dell’avvocato della vittima sulle responsabilità delle banche che hanno effettuato i trasferimenti di denaro)

Podcast RSI – A che punto è l’auto a guida autonoma? A San Francisco è già in strada ma non in vendita

Questo è il testo della puntata del 3 febbraio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


[CLIP: rumori del traffico veicolare di San Francisco, registrati da me pochi giorni fa in loco]

Pochi giorni fa sono stato a San Francisco, una delle poche città al mondo nelle quali delle automobili completamente prive di conducente, guidate da speciali computer di bordo, circolano in mezzo al normale traffico veicolare e pedonale.

Sono i taxi di Waymo, un’azienda che da anni sta lavorando alla guida autonoma e da qualche tempo offre appunto un servizio commerciale di trasporto passeggeri a pagamento. I clienti usano un’app per prenotare la corsa e un’auto di Waymo li raggiunge e accosta per accoglierli a bordo, come un normale taxi, solo che al posto del conducente non c’è nessuno. Il volante c’è, ma gira da solo, e l’auto sfreccia elettricamente e fluidamente nel traffico insieme ai veicoli convenzionali. È molto riconoscibile, perché la selva di sensori che le permettono di fare tutto questo sporge molto cospicuamente dalla carrozzeria in vari punti e ricopre il tetto della vettura, formando una sorta di cappello high-tech goffo e caratteristico, e queste auto a San Francisco sono dappertutto: uno sciame silenzioso di robot su ruote che percorre incessantemente le scoscese vie della città californiana.*

* Purtroppo non sono riuscito a provare questi veicoli: l’app necessaria per prenotare un taxi di Waymo è disponibile solo per chi ha l‘App Store o Play Store statunitense e non ho avuto tempo di organizzarmi con una persona del posto che la installasse e aprisse un account.

Ma allora la sfida tecnologica della guida autonoma è risolta e dobbiamo aspettarci prossimamente “robotaxi” come questi anche da noi? Non proprio; c’è ancora letteralmente tanta strada da fare. Provo a tracciarla in questa puntata, datata 3 febbraio 2025, del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Benvenuti. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


È il sogno di ogni pendolare a quattro ruote: un’auto che si guida da sola, nella quale è sufficiente salire a bordo e dirle la destinazione desiderata per poi potersi rilassare completamente per tutto il viaggio, senza dover gestire code o ingorghi e senza trascorrere ore frustranti dietro il volante. Un sogno che ha radici lontane: i primi esperimenti di guida almeno parzialmente autonoma iniziarono alla fine degli anni Settanta del secolo scorso e furono svolti in Germania, Giappone e Italia [Computerhistory.org]. Ma si trattava di veicoli costosissimi, stracarichi di computer che ne riempivano il bagagliaio, e comunque funzionavano solo su strade semplici e ben demarcate. Anche così, ogni tanto dovevano arrendersi e chiedere aiuto umano.

Ma le strade di una città sono invece complesse, caotiche, piene di segnaletica da decodificare e di ostacoli che possono comparire all’improvviso e confondere i sistemi di riconoscimento automatici: per esempio un pedone che attraversa la strada, un cantiere, un’ambulanza o anche semplicemente un riflesso dell’auto stessa in una vetrata oppure una figura umana stampata sul portellone posteriore di un camion o su un cartellone pubblicitario.

Per cominciare a interpretare tutti questi fattori è stato necessario attendere a lungo che migliorasse il software e diventasse meno ingombrante l’hardware: il primo viaggio su strada urbana normale di un’automobile autonoma, senza conducente e senza scorta di polizia, risale a meno di dieci anni fa ad opera del progetto di Google per la guida autonoma, poi trasformatosi in Waymo.

Waymo è stata la prima a offrire un servizio commerciale di veicoli autonomi su strade urbane, a dicembre 2018 [Forbes], dopo dieci anni di sperimentazione, con un servizio di robotaxi limitato ad alcune zone della città statunitense di Phoenix e comunque all’epoca con un conducente d’emergenza a bordo. Nel 2021 a Shenzen, in Cina, ha debuttato il servizio di robotaxi gestito da Deeproute.ai. Nel 2022 a Waymo si è affiancata la concorrente Cruise, che è stata la prima a ottenere il permesso legale di fare a meno della persona dietro il volante, pronta a intervenire, in un servizio commerciale [CNBC].

Anche Uber aveva provato a entrare nel settore della guida autonoma, ma aveva sospeso la sperimentazione dopo che uno dei suoi veicoli di test aveva investito e ucciso un pedone, Elaine Herzberg, nel 2018 in Arizona, nonostante la presenza di un supervisore umano a bordo.

Probabilmente avete notato che fra i nomi che hanno segnato queste tappe dell’evoluzione della guida autonoma manca quello di Tesla, nonostante quest’azienda sia considerata da una buona parte dell’opinione pubblica come quella che fabbrica auto che guidano da sole. Non è affatto così: anche se il suo software si chiama Full Self-Drive, in realtà legalmente il conducente è tenuto a restare sempre pronto a intervenire.*

* Non è solo un requisito legale formale, mostrato esplicitamente sullo schermo a ogni avvio: deve proprio farlo, perché ogni tanto FSD sbaglia molto pericolosamente, anche nella versione più recente chiamata ora FSD (Supervised), come ben documentato da questa prova pratica di Teslarati di gennaio 2025.

E la famosa demo del 2016 in cui una Tesla effettuava un tragitto urbano senza interventi della persona seduta al posto di guida era una messinscena, stando a quanto è emerso in tribunale. A fine gennaio 2025 Elon Musk ha dichiarato che Tesla offrirà la guida autonoma senza supervisione a Austin, in Texas, a partire da giugno di quest’anno, a titolo sperimentale.

Ma come mai Tesla è rimasta così indietro rispetto alle concorrenti? Ci sono due motivi: uno tecnico, molto particolare, e uno operativo e poco pubblicizzato.


Ci sono fondamentalmente due approcci distinti alla guida autonoma. Uno è quello di mappare in estremo dettaglio e preventivamente le strade e consentire ai veicoli di percorrere soltanto le strade mappate in questo modo, il cosiddetto geofencing o georecinzione, dotando le auto di un assortimento di sensori di vario genere, dalle telecamere ai LiDAR, ossia sensori di distanza basati su impulsi laser.

Questo consente al veicolo [grazie al software di intelligenza artificiale che ha a bordo] di “capire” con molta precisione dove si trova, che cosa ha intorno a sé in ogni momento e di ricevere in anticipo, tramite aggiornamenti continui via Internet, segnalazioni di cantieri o di altri ostacoli che potrà incontrare.

Questa è la via scelta da Waymo e Cruise, per esempio, e funziona abbastanza bene, tanto che le auto di queste aziende sono già operative e hanno un tasso di incidenti estremamente basso, inferiore a quello di un conducente umano medio [CleanTechnica]. Ma è anche una soluzione molto costosa: richiede sensori carissimi e ingombranti e impone un aggiornamento costante della mappatura, ma soprattutto limita le auto a zone ben specifiche.

Le zone fruibili di San Francisco a gennaio 2025 (Waymo).

Anche a San Francisco, per esempio, Waymo è usabile soltanto in alcune parti della città [Waymo]*, e per aggiungere al servizio un’altra città bisogna prima mapparla tutta con precisione centimetrica.

Waymo sta iniziando a provare le proprie auto sulle autostrade (freeway) intorno a Phoenix oltre che in città, ma per ora trasportano solo dipendenti dell’azienda [Forbes].
Una mia ripresa di uno dei tantissimi veicoli autonomi di Waymo che abbiamo incontrato girando per la città.

L’altro approccio consiste nell’usare l’intelligenza artificiale a bordo del veicolo per decifrare i segnali che arrivano dai sensori e ricostruire da quei segnali la mappa tridimensionale di tutto quello che sta intorno all’auto. Questo evita tutto il lavoro preventivo di mappatura e quello di successivo aggiornamento e consente al veicolo di percorrere qualunque strada al mondo, senza restrizioni.

Questa è la via che Elon Musk ha deciso per Tesla, rinunciando inoltre ai sensori LIDAR per contenere i costi complessivi dei veicoli e usando soltanto le immagini provenienti dalle telecamere perimetrali per riconoscere gli oggetti e “capire” la situazione di tutti gli oggetti circostanti e come gestirla. Ma il riconoscimento fatto in questo modo non è ancora sufficientemente maturo, e questo fatto ha portato al ritardo di Tesla di vari anni rispetto alle aziende concorrenti.

Quale sia la soluzione migliore è ancora tutto da vedere. Waymo e Cruise stanno investendo cifre enormi, e nonostante le loro auto siano strapiene di sensori che costano più del veicolo stesso ogni tanto si trovano in situazioni imbarazzanti.

A ottobre 2023, un’auto di Cruise ha trascinato per alcuni metri un pedone che le era finito davanti dopo essere stato urtato da un’automobile guidata da una persona [Cruise]. A giugno 2024, un robotaxi di Waymo a Phoenix è andato a sbattere contro un palo telefonico mentre cercava di accostare per accogliere un cliente, perché il palo era piantato sul bordo della superficie stradale invece di sorgere dal marciapiedi e il software non era in grado di riconoscere un palo. Non si è fatto male nessuno e il problema è stato risolto con un aggiornamento del software, ma è un ottimo esempio del motivo per cui queste auto hanno bisogno di una mappatura preventiva incredibilmente dettagliata prima di poter circolare [CNN].

A dicembre 2024, inoltre, un cliente Waymo si è trovato intrappolato a bordo di uno dei taxi autonomi dell’azienda, che continuava a viaggiare in cerchio in un parcheggio senza portarlo a destinazione [BBC]. Ha dovuto telefonare all’assistenza clienti per farsi dire come ordinare al veicolo di interrompere questo comportamento anomalo, e a quanto pare non è l’unico del suo genere, visto che è diventato virale un video in cui un’altra auto di Waymo continua a girare ad alta velocità su una rotonda senza mai uscirne, fortunatamente senza nessun cliente a bordo [Reddit].

Gli episodi di intralcio al traffico da parte di veicoli autonomi vistosamente in preda allo smarrimento informatico sono sufficientemente frequenti da renderli impopolari fra le persone che abitano e soprattutto guidano nelle città dove operano i robotaxi [BBC].

A San Franscisco, un’auto di Waymo ignora gli addetti che stanno cercando di evitare che i veicoli (autonomi o meno) finiscano in una grossa buca allagata, a febbraio 2025 [ABC7/Boingboing].

Del resto, dover subire per tutta la notte per esempio il concerto dei clacson di un gruppo di auto Waymo parcheggiate e impazzite, come è successo a San Francisco l’estate scorsa, non suscita certo simpatie nel vicinato [TechCrunch].

Per risolvere tutti questi problemi, Waymo e Cruise ricorrono a un trucco.


Se ne parla pochissimo, ma di fatto quando un’auto autonoma di queste aziende non riesce a gestire da sola una situazione, interviene un guidatore umano remoto. In pratica in questi casi il costoso gioiello tecnologico diventa poco più di una grossa automobilina radiocomandata. Lo stesso farà anche Tesla con i suoi prossimi robotaxi, stando ai suoi annunci pubblici di ricerca di personale [Elettronauti].

È una soluzione efficace ma imbarazzante per delle aziende che puntano tutto sull’immagine di alta tecnologia, tanto che sostanzialmente non ne parlano* [BBC] e sono scarsissime le statistiche sulla frequenza di questi interventi da parte di operatori remoti: Cruise ha dichiarato che è intorno allo 0,6% del tempo di percorrenza, ma per il resto si sa ben poco.

*Uno dei pochi post pubblici di Waymo sui suoi guidatori remoti o fleet response agent spiega che l’operatore remoto non comanda direttamente il volante ma indica al software di bordo quale percorso seguire o quale azione intraprendere.
Un video di Waymo mostra un intervento dell’operatore remoto e rivela come il software di bordo rappresenta l’ambiente circostante.

Lo 0,6% può sembrare pochissimo, ma significa che l’operatore umano interviene in media per un minuto ogni tre ore. Se un ascensore si bloccasse e avesse bisogno di un intervento manuale una volta ogni tre ore per farlo ripartire, quanti lo userebbero serenamente?

Per contro, va detto che pretendere la perfezione dalla guida autonoma è forse utopico; e sarebbe già benefico e accettabile un tasso di errore inferiore a quello dei conducenti umani. Nel 2023 in Svizzera 236 persone sono morte in incidenti della circolazione stradale e ne sono rimaste ferite in modo grave 4096. Quei 236 decessi sono la seconda cifra più alta degli ultimi cinque anni, e il numero di feriti gravi è addirittura il più alto degli ultimi dieci anni [ACS; BFU.ch]. Se la guida autonoma può ridurre questi numeri, ben venga, anche qualora non dovesse riuscire ad azzerarli.

Vedremo anche da noi scene come quelle statunitensi? Per ora sembra di no. È vero che il governo svizzero ha deciso che da marzo 2025 le automobili potranno circolare sulle autostrade nazionali usando sistemi di guida assistita (non autonoma) che consentono la gestione automatica della velocità, della frenata e dello sterzo, ma il conducente resterà appunto conducente e dovrà essere sempre pronto a riprendere il controllo quando necessario.

I singoli cantoni potranno designare alcuni percorsi specifici sui quali potranno circolare veicoli autonomi, senza conducente ma monitorati da un centro di controllo. Inoltre presso i parcheggi designati sarà consentita la guida autonoma, ma solo nel senso che l’auto potrà andare a parcheggiarsi da sola, senza conducente a bordo. Di robotaxi che circolano liberamente per le strade, per il momento, non se ne parla [Swissinfo].*

* In Italia, a Brescia, è iniziata la sperimentazione di un servizio di car sharing che usa la guida autonoma. Finora il singolo esemplare di auto autonoma, una 500 elettrica dotata di un apparato di sensori molto meno vistoso di quello di Waymo, ha percorso solo un chilometro in modalità interamente autonoma, è limitato a 30 km/h ed è monitorato sia da un supervisore a bordo, sia da una sala di controllo remota. È la prima sperimentazione su strade pubbliche aperte al traffico in Italia [Elettronauti].

Insomma, ancora per parecchi anni, se vogliamo assistere a scene imbarazzanti e pericolose che coinvolgono automobili, qui da noi dovremo affidarci al talento negativo degli esseri umani.

Fonti aggiuntive

Welcome To ‘Waymo One’ World: Google Moon Shot Begins Self-Driving Service—With Humans At The Wheel For Now, Forbes (2018)

Where to? A History of Autonomous Vehicles, Computerhistory.org (2014)

Waymo Road Trip Visiting 10+ Cities in 2025, CleanTechnica (2025)

Waymo employees can hail fully autonomous rides in Atlanta now, TechCrunch (2025)

Waymo to test its driverless system in ten new cities in 2025, Engadget (2025)

Waymo, Cruise vehicles have impeded emergency vehicle response 66 times this year: SFFD, KRON4 (2023)

How robotaxis are trying to win passengers’ trust, BBC (2024)

Bad Week for Unoccupied Waymo Cars: One Hit in Fatal Collision, One Vandalized by Mob, Slashdot (2025)

Hidden Waymo feature let researcher customize robotaxi’s display, TechCrunch (2025)

Tesla’s Autonomous Driving Strategy Stranded By Technological Divergence, CleanTechnica (2025)

Zeekr RT, the robotaxi built for Waymo, has the tiniest wipers, TechCrunch (2025)

Should Waymo Robotaxis Always Stop For Pedestrians In Crosswalks?, Slashdot (2025)

Podcast RSI – Informatici in campo per salvare i dati scientifici cancellati dal governo Trump

Questo è il testo della puntata del 10 febbraio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


Siamo a fine gennaio 2025. In tutti gli Stati Uniti e anche all’estero, scienziati, ricercatori, studenti, tecnici informatici si stanno scambiando frenetici messaggi di allarme: salvate subito una copia dei vostri dati pubblicati sui siti governativi statunitensi. È l’inizio di una maratona digitale collettiva per mettere in salvo dati sanitari, statistici, sociali, storici, climatici, tecnici ed economici che stanno per essere cancellati in una purga antiscientifica che ha pochi precedenti: quella derivante dalla raffica di ordini esecutivi emessi dalla presidenza Trump.

Persino la NASA è coinvolta e il 22 gennaio diffonde ai dipendenti l’ordine di “mollare tutto” [“This is a drop everything and reprioritize your day request”] e cancellare dai siti dell’ente spaziale, entro il giorno stesso, qualunque riferimento a minoranze, donne in posizione di autorità, popolazioni indigene, accessibilità, questioni ambientali e molti altri temi per rispettare questi ordini esecutivi [404 Media].

Per fortuna molti dei partecipanti a questa maratona si sono allenati in precedenza e sono pronti a scattare, e le risorse tecniche per sostenerli non mancano.

Questa è la storia di questa corsa per salvare scienza, conoscenza e cultura. E non è una corsa che riguarda solo gli Stati Uniti e che possiamo contemplare con inorridito distacco, perché piaccia o meno è lì che di fatto si definiscono gli standard tecnici e scientifici mondiali e si svolge gran parte della ricerca che viene utilizzata in tutto il mondo.

Benvenuti alla puntata del 10 febbraio 2025 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica… e questa è decisamente una storia strana e difficile da raccontare. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


La vastità e pervasività della cancellazione e riscrittura dei contenuti dei siti governativi statunitensi in corso dopo l’elezione del presidente Trump è difficile da comprendere guardando soltanto i suoi numeri. Secondo il New York Times, sono scomparse oltre 8000 pagine web di informazione sparse su una dozzina di siti governativi [NYT]. Inoltre sono svanite almeno 2000 raccolte di dati [404 Media]. Dati scientifici che riguardano le epidemie in corso, l’inquinamento e il clima, per esempio.

Conteggio dei dataset governativi su Data.gov prima e dopo gli ordini di Trump [404 Media].

Va detto che ogni avvicendamento di un’amministrazione statunitense comporta qualche modifica dei dati governativi disponibili, per rispecchiare gli orientamenti politici di chi è stato eletto, ma è la scala e la natura delle modifiche attualmente in atto che spinge molte autorità scientifiche, solitamente sobrie e compassate, a protestare pubblicamente e a paragonare la situazione di oggi a quella del romanzo distopico 1984 di George Orwell [Salon.com], alle censure sovietiche o ai roghi di intere biblioteche di libri scientifici da parte del regime nazista in Germania nel 1933 [Holocaust Memorial Day Trust; Wikipedia].

Quando riviste scientifiche prestigiosissime come Nature o il British Medical Journal si sentono in dovere di scendere in campo, vuol dire che la situazione è grave.

Non ritireremo articoli pubblicati, se un autore ce lo chiede perché contengono cosiddette parole bandite” scrive il British Medical Journal, aggiungendo che le buone prassi scientifiche e l’integrità professionale non cederanno di fronte a ordini di imbavagliamento o soppressione o capricci autoritari […] Se c’è qualcosa che va proibito, è l’idea che le riviste mediche e scientifiche, il cui dovere è rappresentare integrità ed equità, debbano piegarsi a censure politiche o ideologiche”, conclude il BMJ.

Ma non siamo nel 1933. Non si bruciano più vistosamente in piazza i libri malvisti dal potere. Oggi si danno ordini esecutivi e i database sanitari spariscono silenziosamente con un clic, per cui è facile non rendersi conto della portata delle istruzioni impartite dall’amministrazione Trump. E i numeri non aiutano a capire questa portata: come in ogni grande disastro, sono troppo grandi e astratti per essere compresi realmente. Forse tutto diventa più chiaro citando qualche caso specifico e concreto.


Prendiamo per esempio un argomento ben distante dagli schieramenti politici come l’astronomia. In Cile c’è il modernissimo Osservatorio Vera Rubin, intitolato all’omonima astronoma statunitense e gestito dalla National Science Foundation del suo paese. Il sito di quest’osservatorio ospitava questa frase:

La scienza è ancora un campo dominato dagli uomini, ma l’Osservatorio Rubin si adopera per aumentare la partecipazione delle donne e di altre persone che storicamente sono state escluse dalla scienza, accoglie chiunque voglia contribuire alla scienza, e si impegna a ridurre o eliminare le barriere che escludono i meno privilegiati.”

Questa frase, che non sembrerebbe essere particolarmente controversa, è stata rimossa e riscritta per rispettare gli ordini esecutivi del presidente Trump e adesso parla della dominazione maschile della scienza come se fosse una cosa passata [“what was, during her career, a very male-dominated field”] [ProPublica].

Oppure prendiamo il Museo Nazionale di Crittologia dell’NSA, che sta ad Annapolis, nel Maryland. La scienza dei codici segreti parrebbe forse ancora più lontana dalla politica di quanto lo sia l’astronomia, ma lo zelo degli esecutori degli ordini di Trump è arrivato anche lì: dei pannelli informativi che raccontavano il ruolo delle donne e delle persone di colore nella crittografia sono stati coperti in fretta e furia con fogli di carta da pacchi [Mark S. Zaid su X], rimossi solo dopo che la grossolana censura è stata segnalata ed è diventata virale sui social network.*

* La foga (o la paura di perdere il posto di lavoro) ha fatto addirittura cancellare un video che spiega il concetto grammaticale di pronome [404 Media].

Quelli che ho raccontato sono piccoli esempi, che illustrano la natura pervasiva e meschina* degli effetti delle direttive del governo Trump. Ma ovviamente la preoccupazione maggiore riguarda i grandi archivi di dati scientifici su argomenti che l’attuale amministrazione americana considera inaccettabili perché menzionano anche solo di striscio questioni di genere, di discriminazione e di accessibilità.

* 404 Media usa “pettiness”, ossia “meschinità”, per descrivere alcune delle cancellazioni dei siti governativi documentate tramite Github.

Il CDC, l’agenzia sanitaria federale statunitense, ha eliminato moltissime pagine di risorse scientifiche dedicate all’HIV, alle malattie sessualmente trasmissibili, all’assistenza alla riproduzione, alla salute delle minoranze, alla salute mentale dei minori, al monitoraggio dell’influenza, e ha ordinato a tutti i propri ricercatori di rimuovere dai propri articoli in lavorazione termini come “genere, transgender, persona in gravidanza, LGBT, transessuale, non binario, biologicamente maschile, biologicamente femminile”. La rimozione non riguarda solo gli articoli pubblicati dall’ente federale ma anche qualunque articolo da inviare a riviste scientifiche [Inside Medicine; Washington Post].

Screenshot del sito del CDC [Dr Emma Hodcroft su Mastodon].

Il NOAA, l’ente federale per la ricerca atmosferica e oceanica degli Stati Uniti, ha ordinato di eliminare persino la parola “empatia” da tutti i propri materiali [Mastodon].*

* La National Science Foundation, che finanzia una quota enorme della ricerca scientifica in USA, ha sospeso i finanziamenti a qualunque progetti che tocchi in qualche modo questioni di diversità o uguaglianza [Helen Czerski su Mastodon]. La sezione “Razzismo e salute” del CDC non esiste più [Archive.org; CDC.gov]. Dal sito della NASA sono stati rimossi moduli educativi sull‘open science [Archive.org; NASA]. Dal sito della Casa Bianca sono scomparsi la versione in spagnolo e la dichiarazione d’intenti di renderlo accessibile a persone con disabilità; l’Office of Gun Violence Prevention è stato cancellato [NBC].

Di fatto, qualunque ricerca scientifica statunitense che tocchi anche solo vagamente questi temi è bloccata, e anche le ricerche su altri argomenti che però usano dati del CDC oggi rimossi sono a rischio; è il caso, per esempio, anche delle indagini demografiche, che spesso contengono dati sull’orientamento sessuale, utili per valutare la diffusione di malattie nei vari segmenti della popolazione. Il Morbidity and Mortality Weekly Report, uno dei rapporti settimanali fondamentali del CDC sulla diffusione delle malattie, è sospeso per la prima volta da sessant’anni. È una crisi scientifica che imbavaglia persino i dati sull’influenza aviaria [Salon.com; KFF Health News], perché gli ordini esecutivi di Trump vietano in sostanza agli enti sanitari federali statunitensi di comunicare con l’Organizzazione Mondiale della Sanità [AP].

Ma c’è un piano informatico per contrastare tutto questo.


Il piano in questione si chiama End of Term Archive: è un progetto nato nel 2008 che archivia i dati dei siti governativi statunitensi a ogni cambio di amministrazione [Eotarchive.org]. È gestito dai membri del consorzio internazionale per la conservazione di Internet, che includono le biblioteche nazionali di molti paesi, Svizzera compresa, e a questa gestione prendono parte anche i membri del programma statunitense di conservazione dei dati digitali (NDIIPP).

Non è insomma una soluzione d’emergenza nata specificamente per la presidenza attuale. Nel 2020, durante la transizione da Trump a Biden, l’End of Term Archive raccolse oltre 266 terabyte di dati, che sono oggi pubblicamente accessibili presso Webharvest.gov insieme a quelli delle transizioni precedenti.

Questa iniziativa di conservazione si appoggia tecnicamente all’Internet Archive, una delle più grandi biblioteche digitali del mondo, fondata dall’imprenditore informatico Brewster Kahle come società senza scopo di lucro nell’ormai lontano 1996 e situata fisicamente a San Francisco, con copie parziali in Canada, Egitto e Paesi Bassi e accessibile online presso Archive.org.

Questa colossale biblioteca online archivia attualmente più di 866 miliardi di pagine web oltre a decine di milioni di libri, video, notiziari televisivi, software, immagini e suoni. Le raccolte di dati delle transizioni presidenziali statunitensi sono ospitate in una sezione apposita di Archive.org; quella del 2024, già disponibile, contiene oltre mille terabyte di dati.

Ma molti giornalisti, ricercatori e scienziati hanno provveduto a scaricarsi copie personali dei dati governativi che temevano di veder sparire, passando notti insonni a scaricare e soprattutto catalogare terabyte di dati [The Atlantic; The 19th News; Jessica Valenti; Nature]. Lo ha fatto anche l’Università di Harvard, mentre la Columbia University ha aggiornato il suo Silencing Science Tracker, una pagina che traccia i tentativi dei governi statunitensi di limitare o proibire la ricerca, l’educazione e la discussione scientifica dal 2016 in avanti.

È facile sottovalutare l’impatto pratico sulla vita di tutti i giorni di un ordine esecutivo che impone la riscrittura di un enorme numero di articoli e di pagine Web informative su temi scientifici e in particolare medici. La virologa Angela Rasmussen spiega in un’intervista al sito Ars Technica che non è semplicemente una questione di cambiare della terminologia o riscrivere qualche frase e tutto tornerà a posto: vengono rimosse informazioni critiche. Per esempio, i dati governativi statunitensi sulla trasmissione dell’Mpox, la malattia nota precedentemente come “vaiolo delle scimmie”, sono stati censurati rimuovendo ogni riferimento agli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini, dice Rasmussen. Queste persone “non sono le uniche a rischio negli Stati Uniti, ma sono quelle che hanno il maggior rischio di esposizione all’Mpox. Togliere il linguaggio inclusivo nasconde alle persone a rischio le informazioni che servirebbero a loro per proteggersi”.

La giornalista Jessica Valenti ha salvato e ripubblicato online documenti rimossi dall’amministrazione Trump e riguardanti la contraccezione, la pianificazione familiare, la salute sessuale, i vaccini, la violenza fra partner e altri argomenti assolutamente centrali nella vita di quasi ogni essere umano.

La presidenza Trump ha presentato la libertà di parola come uno dei propri mantra centrali, e uno degli ordini esecutivi che hanno portato a questo oscuramento, o oscurantismo se vogliamo chiamarlo con il suo vero nome, ha un titolo che parla di difesa delle donne e di “ripristino della verità biologica” (Defending Women from Gender Ideology Extremism and Restoring Biological Truth to the Federal Government). Censurare i fatti scientifici sulla salute e le informazioni che aiutano una donna a proteggersi è un modo davvero orwelliano di fare i paladini della libertà di espressione e i difensori delle donne.

George Orwell, in 1984, usava il termine doublethink (bipensiero o bispensiero nella traduzione italiana) per descrivere il meccanismo mentale che consente di ritenere vero un concetto e contemporaneamente anche il suo contrario. Sembra quasi che ci sia una tendenza diffusa a interpretare quel libro non come un monito ma come un manuale di istruzioni. Al posto dell’inceneritore delle notizie passate non più gradite al potere c’è il clic sull’icona del cestino, al posto della propaganda centralizzata c’è la disinformazione in mille rivoli lasciata correre o addirittura incoraggiata dai social network, e al posto dei teleschermi che sorvegliano a distanza ogni cittadino oggi ci sono gli smartphone e i dati raccolti su ciascuno di noi dai loro infiniti sensori, ma il concetto è lo stesso e gli effetti sono uguali: cambia solo lo strumento, che oggi è informatico.

Ed è ironico che sia proprio l’informatica a darci una speranza di conservare per tempi migliori quello che oggi si vuole invece seppellire. Forse conviene che ciascuno di noi cominci, nel proprio piccolo, a diventare un pochino hacker.

Fonti aggiuntive

The CDC’s Website Is Being Actively Purged to Comply With Trump DEI Order, 404 Media (2025)

CDC datasets uploaded before January 28th, 2025, Archive.org (2025)

BREAKING NEWS: CDC orders mass retraction and revision of submitted research across all science and medicine journals. Banned terms must be scrubbed, Inside Medicine (2025). Cita il concetto di vorauseilender Gehorsam, o “ubbidienza preventiva”

National Center for Missing & Exploited Children site scrubbed of transgender kids, Advocate.com (2025)

‘Breathtakingly Ignorant and Dangerous’: Trump’s DOT Orders Sweeping Purge of Climate, Gender, Race, Environmental Justice Initiatives, Inside Climate News (2025)

Trump scrubs all mention of DEI, gender, climate change from federal websites, The Register (2025)

Internet Archive played crucial role in tracking shady CDC data removals, Ars Technica (2025)

Researchers rush to preserve federal health databases before they disappear from government websites, The Journalist’s Resource (2025)

US Information Erasure Hurts Everyone, Human Rights Watch (2025)

Hot Topics in IPC: Avian Flu and Results From Trump’s Executive Orders, Infection Control Today (2025)

Podcast RSI – Social network senza algoritmi e senza padroni, grazie al fediverso

Questo è il testo della puntata del 17 febbraio 2025 del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto. Il testo include anche i link alle fonti di questa puntata.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, YouTube Music, Spotify e feed RSS.


Ci sono sempre stati buoni motivi tecnici di privacy e di sicurezza per essere diffidenti verso i social network e usarli con molta cautela. Ora se ne è aggiunto un altro particolarmente importante: l’allineamento dichiarato e repentino di tutti i principali proprietari di social network e dei più influenti CEO del settore informatico alle direttive esplicite e implicite della presidenza Trump.

Screenshot della pagina della AP che mostra Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sundar Pichal (CEO di Google) e Elon Musk alla cerimonia di insediamento di Trump.

Una scelta di allineamento – o forse bisognerebbe chiamarla genuflessione – che, sommata a tutte le ragioni tecniche preesistenti, rende urgente chiedersi se si possa ancora far finta di niente e continuare a lasciare che la comunicazione, l’informazione e i dati personali di quattro miliardi di persone siano gestiti arbitrariamente da fantastiliardari che hanno dimostrato di essere capricciosi, impulsivi e vendicativi e di essere pronti a reinsediare nei loro social network persone e ideologie prima impresentabili, a zittire le voci scomode, a eliminare le iniziative contro la disinformazione e persino a riscrivere le cartine geografiche pur di compiacere il potente di turno e avere così carta bianca per massimizzare i propri profitti a spese di noi utenti e del concetto stesso di realtà condivisa.

Se vi attira l’idea di un social network senza padroni e algoritmi che vi dicono cosa vedere e cosa leggere, senza utenti più privilegiati di altri e senza immensi sistemi di schedatura di massa che ficcano incessantemente il loro naso virtuale nei fatti vostri e li danno in pasto ai pubblicitari e alle intelligenze artificiali, allora benvenuti alla puntata del 17 febbraio 2025 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Questa puntata, infatti, è dedicata al cosiddetto fediverso. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]


Comincio con un breve ripasso del concetto di fediverso. Ne ho già parlato in dettaglio in podcast precedenti [24 novembre 2022; 15 settembre 2023], ma in sintesi questo termine indica un ampio assortimento di servizi per creare social network che possono comunicare tra loro usando uno standard comune, che si chiama protocollo ActivityPub.

Detto così non sembra un granché, ma in realtà questa possibilità di intercomunicazione cambia tutto. Siamo abituati da anni all’idea dei social network che non si parlano: gli utenti di Instagram non possono scambiare messaggi con quelli di X o di WhatsApp e viceversa, per esempio. Ma questo muro è una costruzione artificiale, fatta apposta per tenere rinchiusi gli utenti e obbligarli a fare i salti mortali per passare informazioni da un social a un altro. Il fediverso non ha muri: è uno spazio nel quale tutti possono parlare con tutti.

Questa possibilità di comunicare con tutti ha una conseguenza non tecnica molto interessante: non c’è più bisogno di un ricco padrone centrale che investa in risorse tecniche adatte a reggere centinaia di milioni di utenti e che gestisca e controlli tutto e quindi possa permettersi di fare il bello e il cattivo tempo, come sta facendo per esempio in questi giorni X, il social network di Elon Musk, che sta bloccando qualunque link a Signal, un popolare sistema di messaggistica cifrata concorrente, con la scusa falsa che sarebbero link pericolosi, e non è la prima volta che si comporta in questo modo, visto che nel 2022 aveva bloccato ogni link a Instagram e al rivale Mastodon [Ars Technica].

Nel fediverso, invece, ogni utente o gruppo di utenti può crearsi il proprio mini-social network capace di comunicare con gli altri mini-social network. Al posto di un ambiente monolitico centralizzato c’è insomma una galassia di utenti indipendenti che collaborano: un universo federato, da cui il termine fediverso.


Per fare un esempio concreto, proprio oggi la Scuola politecnica federale di Losanna o EPFL ha inaugurato un proprio server nel fediverso per consentire ai membri della comunità della Scuola di “condividere contenuti in una maniera allineata con i valori della scienza aperta”, come dice l’annuncio ufficiale dell’EPFL, precisando di aver scelto il software Mastodon, un equivalente libero di X/Twitter, Bluesky o Threads, per intenderci, “perché l’indipendenza e gli strumenti efficaci di comunicazione sono critici,” prosegue l’annuncio, aggiungendo che “i suoi algoritmi sono trasparenti e non sono progettati per far spiccare i post emotivamente carichi” come fanno invece i social network commerciali.

Questa soluzione, nota il comunicato, garantisce inoltre che i dati degli utenti non vengano monetizzati e che non possano entrare in gioco (cito) “i capricci strategici di un’azienda orientata al profitto”. Il server Mastodon dell’EPFL è federato, cioè scambia messaggi, con altri server dello stesso tipo, e quindi la comunità della Scuola politecnica può dialogare con gli utenti Mastodon di tutto il mondo senza doversi affidare a Elon Musk, Mark Zuckerberg e simili.

Mastodon non contiene pubblicità, non fa profilazione degli utenti, e non ha una sezione “Per te” di account che qualcuno ha deciso che dobbiamo assolutamente vedere e seguire. Ogni utente vede solo i post degli utenti che ha deciso di seguire, e li vede tutti, senza filtri arbitrari. In altre parole, è Internet come dovrebbe essere, al servizio degli utenti, invece di essere uno strumento per rendere servi gli utenti e pilotarne le opinioni. E mai come in questo momento è evidente, dalle notizie di cronaca, che X e Instagram, o meglio Elon Musk e Mark Zuckerberg, stanno usando i propri social network come strumenti di questo secondo secondo tipo.


Il fediverso, però, non è solo Mastodon come sostituto di X; non è solo una piattaforma di microblogging. Include anche alternative che possono rimpiazzare Instagram per la condivisione di foto e video e di messaggi diretti, come per esempio Pixelfed, disponibile come app per iOS e Android presso Pixelfed.org. Pixelfed è senza pubblicità, open source e decentrato, e i suoi feed predefiniti sono puramente cronologici.

L’elenco delle app libere e aperte da usare per sostituire i social network commerciali è piuttosto completo: per condividere video, al posto di YouTube c’è PeerTube; al posto di Facebook c’è Friendica; al posto di TikTok c’è Loops.video; e WhatsApp si può sostituire con il già citato Signal.

Su Internet si è diffusa la data del primo febbraio scorso come Global Switch Day, la giornata in cui gli utenti passano dai social network commerciali a quelli del fediverso, e sembra che il maggior beneficiario dell’esodo di utenti da X, come protesta per le recenti azioni politiche di Elon Musk, sia stato Bluesky, che oggi ha circa 30 milioni di utenti ma non è un’app federata in senso stretto, usa un standard differente dal resto del fediverso ed è comunque sotto il controllo di una singola persona, Jack Dorsey, l’ex CEO di Twitter*, per cui c’è il rischio di passare dalla padella alla brace.

* Correzione: Dorsey è il fondatore di Bluesky e ha lasciato il consiglio di amministrazione di Bluesky a maggio 2024 [The Verge].

Lo stesso vale per Threads, che è federato*, per cui i suoi utenti possono seguire anche le persone che sono su Mastodon, per esempio, ma è comunque un’app di Meta, quindi soggetta agli umori e alle affiliazioni politiche del momento di Mark Zuckerberg.

*  Almeno parzialmente, da dicembre 2024: “Threads users can't see posts from other fediverse platforms on their feeds yet. But you can follow accounts from those platforms if they've liked, followed, or replied to your federated posts from Threads. You're also able to share your Threads posts to other fediverse platforms and can opt-in by navigating to Profile > Settings > Account > Fediverse sharing. Threads and Instagram boss Adam Mosseri has shared a few more details about the latest update. When a Threads user receives a like or reply from a federated account, they can navigate to the profile without leaving the app. It'll appear like a Threads account even though it's technically from the fediverse. The fediverse user handles and profiles will show that the user is from a Mastodon server or other part of the federiverse. You can also choose to be notified when the federated user replies or posts on their server.” [PCMag.com, 2024/12/05]

Ma il problema di fondo di tutte queste iniziative di abbandono collettivo che periodicamente vengono proposte è che tecnicamente questi social alternativi fanno le stesse cose di quelli commerciali, anzi le fanno anche meglio dal punto di vista degli utenti, ma trasferirsi lì significa lasciarsi dietro tutti gli amici e i contatti che non si trasferiscono. E così nessuno muove il primo passo,* e tutto rimane com’era prima.

* È quello che è successo con l‘istanza Mastodon della Cancelleria federale svizzera, aperta nel 2023 a titolo sperimentale e chiusa a settembre 2024 per mancanza di traffico (3500 follower sparsi su sei account) [Admin.ch].

Fino al momento in cui qualcuno compie quel primo passo, e gli altri decidono di seguirlo perché non ne possono più di stare dove stanno. Provate a chiedervi se quella persona che compie quel primo passo, all’interno della vostra cerchia di contatti, potreste essere voi.

Fonti aggiuntive

Addio Facebook e Instagram: è ora di ricostruire le nostre case digitali, Arianna Ciccone su ValigiaBlu.it (2025/01/24)

La scelta di lasciare FB e IG: alcune obiezioni e le nostre risposte, Arianna Ciccone su ValigiaBlu.it (2025/02/04)

These apps are building Instagram alternatives on open protocols, TechCrunch (2025/02/09)