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Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

Immagine in anteprima via Fanpage

 

Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

Immagine in anteprima via Fanpage

 

Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

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Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

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Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

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Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

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Fratelli di Chat: la paranoia del complotto e la caccia all’infame

Recuperando il libro intervista La versione di Giorgia, e scorrendo le sue quasi 300 pagine, si incontrano decine di passaggi in cui si accusa qualcuno di complotto, strumentalizzazione, rancore, odio, offese, falsità, invidia, egemonia, ai danni di Meloni stessa o della sua parte politica. Questo qualcuno di solito è “la sinistra”, ma abbiamo anche “omosessuali”, il “Deep state”, la “magistratura” politicizzata. Di Soros (“non credo ai burattinai, ma…”) a un certo Meloni dice: “gli italiani mi hanno eletto per fare questo e io proverò a farlo, che piaccia o no a George Soros o a chi per lui”. Persino la stampa estera o gli organismi internazionali possono ricadere in questa fissazione, diventando magari ingenui manovrati da fonti italiane di sinistra o antipatriottiche. Lo avevamo visto per esempio quando gli attacchi del governo alla libertà di espressione avevano attirato l’attenzione della Commissione Europea e della Media Freedom Rapid Response.

Da questo punto di vista, le chat dei gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia evidenziano i risvolti più nefasti e ufficiosi dell’ossessione identitaria. In particolare la divisione del mondo in “infami” e “patrioti”. Gli “infami” sono le persone senza “onore”, incapaci di connettersi a una mistica che mette patria e partito sullo stesso asse di valori. Quando inizia l’invasione su larga scala dell’Ucraina, per esempio, “infame” è Biden, “venduto alla lobby delle armi”, mentre Trump è un “patriota” che con “la forza avrebbe impedito la guerra”. Trump, sempre stando alle chat, dopo l’insurrezione golpista del 6 gennaio 2021 è visto come vittima di un complotto. Per Meloni e sodali, infatti, l’orda di Capitol Hill era manovrata dalla sinistra. I “patrioti” non cospirano, gli “infami” sì.

Durante la legislatura in corso ci sono state più volte pubblicazioni sui giornali di estratti o frasi di queste chat, tanto da spingere Meloni a sfogarsi per mandare un avvertimento. “L’infamia di pochi mi costringe a non avere rapporti con i gruppi”, scrive nell’ottobre scorso, aggiungendo “Io alla fine mollerò per questo. Perché fare sta vita per far eleggere sta gente anche no”. Frustrazione, certo, ma anche un modo per dire “dopo di me il diluvio”. Chat di questo tipo, oltre a coordinare i lavori, segnano infatti anche i comportamenti esemplari e i discorsi che sono premiati dalle gerarchie. L’antifona da capire per scalare i vertici del partito o per non finire in un cono d’ombra.

Ora queste conversazioni sono confluite nel libro Fratelli di chat del giornalista Giacomo Salvini. Il quale dichiara di aver avuto accesso, tramite almeno una fonte, a ben tre chat di parlamentari del partito di Meloni, per un arco di tempo che va dal 2018 al 2024: due appartenenti alla precedente legislatura, e una a quella attuale. Quest’ultima chat è stata poi chiusa, segno che le comunicazioni sono cambiate per proteggersi dalle talpe “infami”. 

Un fenomeno non inedito nei rapporti tra stampa e politica, ma che tra i parlamentari di Fratelli d’Italia innesca in tempo reale l’ossessione per il complotto (stavolta interno) e la caccia all’infame o agli infami. Del resto, se uno o più parlamentari hanno scaricato ben tre chat e le hanno passate a un giornalista, vuol dire che ci sono malumori e problemi così radicati da spingere a defezionare. 

Avevamo evidenziato anche ai tempi dell’inchiesta Gioventù meloniana di Fanpage la paura del partito per fughe di notizie, commentando le parole di Giovanni Donzelli sul metodo giornalistico basato sul “tradire gli amici”. Frase in apparenza illogica (perché i giornalisti di Fanpage dovrebbero essere amici?) ma che acquistava senso immaginando i vertici del partito attanagliati dal timore che tra i ranghi qualcuno potesse approfittarne per spifferre alla stampa. Lo stesso Giacomo Salvini, in una chat riportata nel libro, è descritto dalla deputata Carolina Varchi come uno che “scrive pezzi sotto dettatura di qualcuno di noi”.

Proprio scorrendo le chat e confrontando le conversazioni con la cronaca politica, sono evidenti le crepe nelle posizioni di esponenti del partito come Fabio Rampelli, che nel 2024 viene persino escluso da un evento di Atreju dopo essersi espresso contro il nucleare. Oppure di Guido Crosetto, che dà vita a vari litigi nelle chat, tanto da abbandonarle in polemica più volte. “E dieci”, dice in un’occasione Meloni, dopo l’ennesima uscita di Crosetto e a seguito di un litigio diretto. O nel caso delle dimissioni di Francesco Spano, collaboratore del ministro della Cultura Alessandro Giuli: attraverso le chat è evidente che i malumori nel partito avessero connotazioni omofobiche, con tanto di insulti a tema e dimissioni di un importante dirigente locale del partito. 

Questa sfiducia non è soltanto legata al mantenimento del potere, al logorio, allo stress che provoca, alla paura di fughe di notizie. È anche la consapevolezza di quanto la classe dirigente del partito non sia all’altezza del momento storico e delle sue sfide; gli “infami”, oltre a non avere onore, sono meno capaci perché non capiscono la grandezza del progetto politico. Giorgia Meloni ha infatti una visione strategica indirizzata sul lungo periodo, e in base a quella imposta la tattica sul breve. Ma, per usare una simbologia a lei cara, sa dove vuole andare, solo che attorno a sé non ha manco un Sam Gamgee, figurarsi un Aragorn.

Sulla base di questa strategia si spiega il tragitto che, dai banchi dell’opposizione, ha portato a una guerra di logorio per fagocitare il consenso della Lega, individuando la debolezza di Salvini nel suo atteggiamento ondivago tra Mosca e Washington; Meloni ha infatti chiara l’importanza di allinearsi con la seconda sfera di influenza. Lo scandalo Metropol di Mosca, con l’inchiesta di Stefano Vergine e Giovanni Tizian per un possibile finanziamento del Cremlino alla Lega, è uno dei momenti chiave in cui si vede la differenza tra le due destre. Le chat sono piene di insulti verso Salvini, anche durante il periodo di governo, tanto che nel libro molti di questi sono stati lasciati fuori. Il disprezzo verso il leader della Lega è evidente, ed è probabile che Salvini sia stato messo in imbarazzo dalla pubblicazione di questi messaggi, perché se incassa senza reagire apparirà debole coi suoi.

Tuttavia, la visione e le mosse di Meloni spesso non vengono capite proprio dai suoi fedelissimi, scatenando in lei una comprensibile frustrazione. Può trattarsi di un’occasione storica e importante: ad esempio quando Meloni annuncia nel 2019 l’ingresso di Fratelli d’Italia nel gruppo europeo dei Conservatori e dei Riformisti, e si infuria perché i parlamentari stanno disertando l’avvenimento (“TUTTI I PARLAMENTARI DEVONO STARE A VILLA MIANI ORA!!!!”). Oppure perché il partito tralascia in campagna elettorale di indicare il suo nome come preferenza, esponendola a figuracce (“Giorgina non sarà più disponibile a mettere il suo nome in lista salvo che lo ritenga utile lei stessa. Non ha molto senso essere costretti a candidarsi da un partito che non è disponibile a portarti mentre tu porti i voti al partito”). 

Ovviamente gli “infami” per eccellenza sono i giornalisti e gli intellettuali che non si allineano. Fanpage, Formigli e Saviano sono i principali bersagli. Fanpage è doppiamente “infame”, per l’inchiesta Lobby nera e la già citata Gioventù meloniana. Giudizi che appaiono inquietanti se pensiamo al recente scandalo Paragon, che ha visto tra i giornalisti spiati il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. Di fronte alle doverose richieste di chiarimenti sui contratti con l’azienda israeliana, proprio in questi giorni il governo ha risposto alla Camera attraverso il ministro Ciriani. Ciriani ha negato che i contratti con Paragon siano stati disdetti, rispetto a quanto scritto dal Guardian, e ha dichiarato che il governo potrebbe querelare chi lo ha accusato di “spiare” giornalisti. Ma a prescindere dalle reali responsabilità dietro lo scandalo, quanto possiamo fidarci che una maggioranza e un governo di questo tipo tutelino la libertà di stampa e di dissenso in un caso del genere? 

Curiosamente, più o meno negli stessi giorni, rispondendo in un’intervista a una domanda sulle chat di Fratelli d’Italia finite nel libro, Donzelli allude alla possibilità che a essere spiato tramite App sia stato il suo partito. Ovviamente nulla lo lascia intendere, ma Donzelli non può dire in pubblico “ah, se becchiamo l’infame!”, perciò preferisce giocare sul classico vittimismo, per dire che alla fine i veri spiati non sono i giornalisti di Fanpage (gli infami) ma i patrioti come lui. 

“Infame” è ovviamente Roberto Saviano, che nelle chat è “citato trentadue volte, per lo più con offese, insulti e critiche politiche”. Saviano che, come scriveva Paolo Giordano dopo la censura subita dal primo al padiglione italiano della Fiera di Francoforte, è diventato “cartina al tornasole di certi criteri politici di inclusione ed esclusione”. È persino un peccato che molti di questi insulti siano stati risparmiati al pubblico, perché sono pertinenti nel comprendere come la strategia vittimista di Meloni sia la premessa per la repressione del dissenso.

Nel 2020 Meloni ha sporto querela contro Saviano, senza ritirarla dopo la nomina a Presidente del Consiglio. Il tribunale di Roma ha poi condannato lo scrittore a una multa di 1.000 euro. Prima, dopo e durante quella denuncia Saviano veniva intanto offeso nelle comunicazioni di un intero partito, additato dunque come avversario meritevole di essere bersagliato; parallelamente e in pubblico, gli esponenti di quel partito si atteggiavano a vittime dello scrittore, supportate da alcune tivù e giornali. Chat in cui non c’era solo l’attuale Presidente del Consiglio, ma anche Andrea Delmastro, che oltre a essere attuale Sottosegretario alla Giustizia è l’avvocato che nel 2020 ha depositato la querela per conto di Meloni. Delmastro in chat commenta così la condanna di Saviano:

Andrea Delmastro: Poi ci sarà il risarcimento. Questa è la condanna penale, rinvia a separato giudizio per la liquidazione del danno morale

[12/10/23, 18:27:53] Salvatore Deidda: @GiorgiaMeloni evviva. Paga infame
[12/10/23, 18:29:36] Salvatore Deidda: Non quanto avrebbe dovuto ma serva da lezione
[12/10/23, 18:43:45] Dario Bond: Troppo poco ha pagato !!!dovrebbe vangare almeno. 50 campi e seminare cipolle
[12/10/23, 19:06:30] Alessio Butti: Importante e molto simbolico che abbia pagato.
[12/10/23, 19:15:07] Salvatore Deidda: Poi non ho letto tutto ma urge riformare la giustizia
[12/10/23, 20:00:35] Andrea Delmastro: Poi ci sarà il risarcimento. Questa è la condanna penale, rinvia a separato giudizio per la liquidazione del danno morale
12/10/23, 20:17:55] Wanda Ferro: Troppo poco fosse dipeso da me avrei buttato le chiavi

Una vera e propria prassi politica ufficiosa che per forza di cose dialoga con le comunicazioni ufficiali, di cui fanno parte le querele. Di fronte a ciò, parte del dibattito pubblico sul caso ha preferito concentrarsi su un dilemma: “bastardi” viola o meno il galateo dei rapporti - - -(preferibilmente supini) tra intellettuali e potere?

Eppure la contiguità tra i due piani è ovvia, e da qui i criteri di interesse pubblico. La si vede in una discussione dove, commentando un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano, viene ipotizzata una legge ad personam per impedire a Marco Travaglio di dirigere il giornale, basata sul numero di condanne riportate dal giornalista. “Presenta un disegno di legge che preveda l'impossibilità, per chi è stato condannato più di due volte per diffamazione, di fare il giornalista, il direttore di giornale e l’editore” scrive Crosetto nel maggio 2019. La discussione viene però stoppata da Ignazio La Russa, perché ci sarebbe il rischio di colpire i giornali “amici”. 

Tornando agli “Infami”, rientra nella categoria il giornalista Corrado Formigli, ma non attraverso le chat - lì è solo “odiatore seriale”. Lo è nelle dichiarazioni pubbliche del dirigente RAI Paolo Corsini, che usa l’epiteto quando un’inviata di Piazza pulita prova a intervistarlo. Vedendo come il vocabolo sia strutturale da certe parti, l’impressione è che Corsini abbia detto a voce alta quello che di solito si mormora tra “patrioti”. 

“Infame” è anche Paolo Berizzi, che in alcune uscite pubbliche ha ricevuto le attenzioni formalmente scherzose di Ignazio LaRussa, spingendo la Federazione Nazionale della Stampa Italiana a prendere posizione per difendere il giornalista, che vive sotto scorta dal 2019.

Ma “infami” sono anche e soltanto quei giornalisti di area che semplicemente osano non allinearsi. L’epiteto viene infatti rivolto a Flavia Perina e Alessandro Sallusti, dopo articoli critici verso la linea della maggioranza. Basta davvero poco per smettere di essere considerati “patrioti”, anche solo per un giorno. 

In conclusione, poiché dall’epoca romana più che immaginari saluti col braccio teso abbiamo imparato l’importanza di ripetere le cose, è bene chiudere ribadendo un concetto chiave. Se è identitaria, questa destra non lo è in virtù delle proprie idee, ma dei nemici che individua come ostacolo o agente corruttore di quelle idee, che altrimenti da sole non starebbero in piedi. E se i nemici non escono allo scoperto, o non si trova qualcuno che somigli loro, allora vengono cercati tra le proprie fila, nei momenti più ossessivi che accompagnano la parabola del potere. Capita quando si è politici di un paese in cui le relazioni contano più delle procedure e delle consuetudini, ma capita quando si è politici di un’area indissolubilmente legata allo schema “noi vs loro”: le narrazioni non devono unire, ma trionfare. È proprio una mentalità che viene prima di qualunque strategia di propaganda. A cosa servono quelle idee, poi, ce lo spiegano gli esempi in fase avanzata, come l’Ungheria di Orbán, e ora gli Stati Uniti di Trump e Musk.

Occorre ripetere questi concetti, in una fase storica in cui, anche a livello internazionale, c’è ancora chi è convinto che se negli Stati Uniti vanno al potere dei fascisti è colpa della “cancel culture”. In certi schemi di analisi, il pretesto (l’ideologia gender, la wokeness ecc.) dietro cui una ideologia predatoria si nasconde per proliferare diventa la causa scatenante di quell’ideologia, e le soggettività colpite in base al pretesto diventano le principali responsabili. Occorre rifiutare questo schema come fosse una cura palliativa di fronte a un’epidemia potenzialmente letale. Oppure riconoscere la disonestà di chi non riesce ad ammettere che sì, andava bene che i predatori facessero il lavoro sporco, ma dovevano per l’appunto rimuovere lo sporco, mica distruggere lo Stato di diritto. Difetto di intensità, mica di direzione.

Ma occorre farlo anche perché a destra di Meloni non esiste certo il deserto. C’è invece chi già sta scalpitando e ammicca verso l’America di Trump e Musk, nella speranza di venire incluso nella “MEGA” (Make Europe Great Again) scia di Elon Musk. Il quale è impegnato anche a influenzare la politica del continente attraverso i partiti di estrema destra, più inclini a sposare la sua agenda. Insomma, le chat di oggi potrebbero essere la comunicazione istituzionale di domani.

(Immagine anteprima via governo.it)

 

Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

Immagine in anteprima via Fanpage

 

Fratelli di Chat: la paranoia del complotto e la caccia all’infame

Recuperando il libro intervista La versione di Giorgia, e scorrendo le sue quasi 300 pagine, si incontrano decine di passaggi in cui si accusa qualcuno di complotto, strumentalizzazione, rancore, odio, offese, falsità, invidia, egemonia, ai danni di Meloni stessa o della sua parte politica. Questo qualcuno di solito è “la sinistra”, ma abbiamo anche “omosessuali”, il “Deep state”, la “magistratura” politicizzata. Di Soros (“non credo ai burattinai, ma…”) a un certo Meloni dice: “gli italiani mi hanno eletto per fare questo e io proverò a farlo, che piaccia o no a George Soros o a chi per lui”. Persino la stampa estera o gli organismi internazionali possono ricadere in questa fissazione, diventando magari ingenui manovrati da fonti italiane di sinistra o antipatriottiche. Lo avevamo visto per esempio quando gli attacchi del governo alla libertà di espressione avevano attirato l’attenzione della Commissione Europea e della Media Freedom Rapid Response.

Da questo punto di vista, le chat dei gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia evidenziano i risvolti più nefasti e ufficiosi dell’ossessione identitaria. In particolare la divisione del mondo in “infami” e “patrioti”. Gli “infami” sono le persone senza “onore”, incapaci di connettersi a una mistica che mette patria e partito sullo stesso asse di valori. Quando inizia l’invasione su larga scala dell’Ucraina, per esempio, “infame” è Biden, “venduto alla lobby delle armi”, mentre Trump è un “patriota” che con “la forza avrebbe impedito la guerra”. Trump, sempre stando alle chat, dopo l’insurrezione golpista del 6 gennaio 2021 è visto come vittima di un complotto. Per Meloni e sodali, infatti, l’orda di Capitol Hill era manovrata dalla sinistra. I “patrioti” non cospirano, gli “infami” sì.

Durante la legislatura in corso ci sono state più volte pubblicazioni sui giornali di estratti o frasi di queste chat, tanto da spingere Meloni a sfogarsi per mandare un avvertimento. “L’infamia di pochi mi costringe a non avere rapporti con i gruppi”, scrive nell’ottobre scorso, aggiungendo “Io alla fine mollerò per questo. Perché fare sta vita per far eleggere sta gente anche no”. Frustrazione, certo, ma anche un modo per dire “dopo di me il diluvio”. Chat di questo tipo, oltre a coordinare i lavori, segnano infatti anche i comportamenti esemplari e i discorsi che sono premiati dalle gerarchie. L’antifona da capire per scalare i vertici del partito o per non finire in un cono d’ombra.

Ora queste conversazioni sono confluite nel libro Fratelli di chat del giornalista Giacomo Salvini. Il quale dichiara di aver avuto accesso, tramite almeno una fonte, a ben tre chat di parlamentari del partito di Meloni, per un arco di tempo che va dal 2018 al 2024: due appartenenti alla precedente legislatura, e una a quella attuale. Quest’ultima chat è stata poi chiusa, segno che le comunicazioni sono cambiate per proteggersi dalle talpe “infami”. 

Un fenomeno non inedito nei rapporti tra stampa e politica, ma che tra i parlamentari di Fratelli d’Italia innesca in tempo reale l’ossessione per il complotto (stavolta interno) e la caccia all’infame o agli infami. Del resto, se uno o più parlamentari hanno scaricato ben tre chat e le hanno passate a un giornalista, vuol dire che ci sono malumori e problemi così radicati da spingere a defezionare. 

Avevamo evidenziato anche ai tempi dell’inchiesta Gioventù meloniana di Fanpage la paura del partito per fughe di notizie, commentando le parole di Giovanni Donzelli sul metodo giornalistico basato sul “tradire gli amici”. Frase in apparenza illogica (perché i giornalisti di Fanpage dovrebbero essere amici?) ma che acquistava senso immaginando i vertici del partito attanagliati dal timore che tra i ranghi qualcuno potesse approfittarne per spifferre alla stampa. Lo stesso Giacomo Salvini, in una chat riportata nel libro, è descritto dalla deputata Carolina Varchi come uno che “scrive pezzi sotto dettatura di qualcuno di noi”.

Proprio scorrendo le chat e confrontando le conversazioni con la cronaca politica, sono evidenti le crepe nelle posizioni di esponenti del partito come Fabio Rampelli, che nel 2024 viene persino escluso da un evento di Atreju dopo essersi espresso contro il nucleare. Oppure di Guido Crosetto, che dà vita a vari litigi nelle chat, tanto da abbandonarle in polemica più volte. “E dieci”, dice in un’occasione Meloni, dopo l’ennesima uscita di Crosetto e a seguito di un litigio diretto. O nel caso delle dimissioni di Francesco Spano, collaboratore del ministro della Cultura Alessandro Giuli: attraverso le chat è evidente che i malumori nel partito avessero connotazioni omofobiche, con tanto di insulti a tema e dimissioni di un importante dirigente locale del partito. 

Questa sfiducia non è soltanto legata al mantenimento del potere, al logorio, allo stress che provoca, alla paura di fughe di notizie. È anche la consapevolezza di quanto la classe dirigente del partito non sia all’altezza del momento storico e delle sue sfide; gli “infami”, oltre a non avere onore, sono meno capaci perché non capiscono la grandezza del progetto politico. Giorgia Meloni ha infatti una visione strategica indirizzata sul lungo periodo, e in base a quella imposta la tattica sul breve. Ma, per usare una simbologia a lei cara, sa dove vuole andare, solo che attorno a sé non ha manco un Sam Gamgee, figurarsi un Aragorn.

Sulla base di questa strategia si spiega il tragitto che, dai banchi dell’opposizione, ha portato a una guerra di logorio per fagocitare il consenso della Lega, individuando la debolezza di Salvini nel suo atteggiamento ondivago tra Mosca e Washington; Meloni ha infatti chiara l’importanza di allinearsi con la seconda sfera di influenza. Lo scandalo Metropol di Mosca, con l’inchiesta di Stefano Vergine e Giovanni Tizian per un possibile finanziamento del Cremlino alla Lega, è uno dei momenti chiave in cui si vede la differenza tra le due destre. Le chat sono piene di insulti verso Salvini, anche durante il periodo di governo, tanto che nel libro molti di questi sono stati lasciati fuori. Il disprezzo verso il leader della Lega è evidente, ed è probabile che Salvini sia stato messo in imbarazzo dalla pubblicazione di questi messaggi, perché se incassa senza reagire apparirà debole coi suoi.

Tuttavia, la visione e le mosse di Meloni spesso non vengono capite proprio dai suoi fedelissimi, scatenando in lei una comprensibile frustrazione. Può trattarsi di un’occasione storica e importante: ad esempio quando Meloni annuncia nel 2019 l’ingresso di Fratelli d’Italia nel gruppo europeo dei Conservatori e dei Riformisti, e si infuria perché i parlamentari stanno disertando l’avvenimento (“TUTTI I PARLAMENTARI DEVONO STARE A VILLA MIANI ORA!!!!”). Oppure perché il partito tralascia in campagna elettorale di indicare il suo nome come preferenza, esponendola a figuracce (“Giorgina non sarà più disponibile a mettere il suo nome in lista salvo che lo ritenga utile lei stessa. Non ha molto senso essere costretti a candidarsi da un partito che non è disponibile a portarti mentre tu porti i voti al partito”). 

Ovviamente gli “infami” per eccellenza sono i giornalisti e gli intellettuali che non si allineano. Fanpage, Formigli e Saviano sono i principali bersagli. Fanpage è doppiamente “infame”, per l’inchiesta Lobby nera e la già citata Gioventù meloniana. Giudizi che appaiono inquietanti se pensiamo al recente scandalo Paragon, che ha visto tra i giornalisti spiati il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. Di fronte alle doverose richieste di chiarimenti sui contratti con l’azienda israeliana, proprio in questi giorni il governo ha risposto alla Camera attraverso il ministro Ciriani. Ciriani ha negato che i contratti con Paragon siano stati disdetti, rispetto a quanto scritto dal Guardian, e ha dichiarato che il governo potrebbe querelare chi lo ha accusato di “spiare” giornalisti. Ma a prescindere dalle reali responsabilità dietro lo scandalo, quanto possiamo fidarci che una maggioranza e un governo di questo tipo tutelino la libertà di stampa e di dissenso in un caso del genere? 

Curiosamente, più o meno negli stessi giorni, rispondendo in un’intervista a una domanda sulle chat di Fratelli d’Italia finite nel libro, Donzelli allude alla possibilità che a essere spiato tramite App sia stato il suo partito. Ovviamente nulla lo lascia intendere, ma Donzelli non può dire in pubblico “ah, se becchiamo l’infame!”, perciò preferisce giocare sul classico vittimismo, per dire che alla fine i veri spiati non sono i giornalisti di Fanpage (gli infami) ma i patrioti come lui. 

“Infame” è ovviamente Roberto Saviano, che nelle chat è “citato trentadue volte, per lo più con offese, insulti e critiche politiche”. Saviano che, come scriveva Paolo Giordano dopo la censura subita dal primo al padiglione italiano della Fiera di Francoforte, è diventato “cartina al tornasole di certi criteri politici di inclusione ed esclusione”. È persino un peccato che molti di questi insulti siano stati risparmiati al pubblico, perché sono pertinenti nel comprendere come la strategia vittimista di Meloni sia la premessa per la repressione del dissenso.

Nel 2020 Meloni ha sporto querela contro Saviano, senza ritirarla dopo la nomina a Presidente del Consiglio. Il tribunale di Roma ha poi condannato lo scrittore a una multa di 1.000 euro. Prima, dopo e durante quella denuncia Saviano veniva intanto offeso nelle comunicazioni di un intero partito, additato dunque come avversario meritevole di essere bersagliato; parallelamente e in pubblico, gli esponenti di quel partito si atteggiavano a vittime dello scrittore, supportate da alcune tivù e giornali. Chat in cui non c’era solo l’attuale Presidente del Consiglio, ma anche Andrea Delmastro, che oltre a essere attuale Sottosegretario alla Giustizia è l’avvocato che nel 2020 ha depositato la querela per conto di Meloni. Delmastro in chat commenta così la condanna di Saviano:

Andrea Delmastro: Poi ci sarà il risarcimento. Questa è la condanna penale, rinvia a separato giudizio per la liquidazione del danno morale

[12/10/23, 18:27:53] Salvatore Deidda: @GiorgiaMeloni evviva. Paga infame
[12/10/23, 18:29:36] Salvatore Deidda: Non quanto avrebbe dovuto ma serva da lezione
[12/10/23, 18:43:45] Dario Bond: Troppo poco ha pagato !!!dovrebbe vangare almeno. 50 campi e seminare cipolle
[12/10/23, 19:06:30] Alessio Butti: Importante e molto simbolico che abbia pagato.
[12/10/23, 19:15:07] Salvatore Deidda: Poi non ho letto tutto ma urge riformare la giustizia
[12/10/23, 20:00:35] Andrea Delmastro: Poi ci sarà il risarcimento. Questa è la condanna penale, rinvia a separato giudizio per la liquidazione del danno morale
12/10/23, 20:17:55] Wanda Ferro: Troppo poco fosse dipeso da me avrei buttato le chiavi

Una vera e propria prassi politica ufficiosa che per forza di cose dialoga con le comunicazioni ufficiali, di cui fanno parte le querele. Di fronte a ciò, parte del dibattito pubblico sul caso ha preferito concentrarsi su un dilemma: “bastardi” viola o meno il galateo dei rapporti - - -(preferibilmente supini) tra intellettuali e potere?

Eppure la contiguità tra i due piani è ovvia, e da qui i criteri di interesse pubblico. La si vede in una discussione dove, commentando un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano, viene ipotizzata una legge ad personam per impedire a Marco Travaglio di dirigere il giornale, basata sul numero di condanne riportate dal giornalista. “Presenta un disegno di legge che preveda l'impossibilità, per chi è stato condannato più di due volte per diffamazione, di fare il giornalista, il direttore di giornale e l’editore” scrive Crosetto nel maggio 2019. La discussione viene però stoppata da Ignazio La Russa, perché ci sarebbe il rischio di colpire i giornali “amici”. 

Tornando agli “Infami”, rientra nella categoria il giornalista Corrado Formigli, ma non attraverso le chat - lì è solo “odiatore seriale”. Lo è nelle dichiarazioni pubbliche del dirigente RAI Paolo Corsini, che usa l’epiteto quando un’inviata di Piazza pulita prova a intervistarlo. Vedendo come il vocabolo sia strutturale da certe parti, l’impressione è che Corsini abbia detto a voce alta quello che di solito si mormora tra “patrioti”. 

“Infame” è anche Paolo Berizzi, che in alcune uscite pubbliche ha ricevuto le attenzioni formalmente scherzose di Ignazio LaRussa, spingendo la Federazione Nazionale della Stampa Italiana a prendere posizione per difendere il giornalista, che vive sotto scorta dal 2019.

Ma “infami” sono anche e soltanto quei giornalisti di area che semplicemente osano non allinearsi. L’epiteto viene infatti rivolto a Flavia Perina e Alessandro Sallusti, dopo articoli critici verso la linea della maggioranza. Basta davvero poco per smettere di essere considerati “patrioti”, anche solo per un giorno. 

In conclusione, poiché dall’epoca romana più che immaginari saluti col braccio teso abbiamo imparato l’importanza di ripetere le cose, è bene chiudere ribadendo un concetto chiave. Se è identitaria, questa destra non lo è in virtù delle proprie idee, ma dei nemici che individua come ostacolo o agente corruttore di quelle idee, che altrimenti da sole non starebbero in piedi. E se i nemici non escono allo scoperto, o non si trova qualcuno che somigli loro, allora vengono cercati tra le proprie fila, nei momenti più ossessivi che accompagnano la parabola del potere. Capita quando si è politici di un paese in cui le relazioni contano più delle procedure e delle consuetudini, ma capita quando si è politici di un’area indissolubilmente legata allo schema “noi vs loro”: le narrazioni non devono unire, ma trionfare. È proprio una mentalità che viene prima di qualunque strategia di propaganda. A cosa servono quelle idee, poi, ce lo spiegano gli esempi in fase avanzata, come l’Ungheria di Orbán, e ora gli Stati Uniti di Trump e Musk.

Occorre ripetere questi concetti, in una fase storica in cui, anche a livello internazionale, c’è ancora chi è convinto che se negli Stati Uniti vanno al potere dei fascisti è colpa della “cancel culture”. In certi schemi di analisi, il pretesto (l’ideologia gender, la wokeness ecc.) dietro cui una ideologia predatoria si nasconde per proliferare diventa la causa scatenante di quell’ideologia, e le soggettività colpite in base al pretesto diventano le principali responsabili. Occorre rifiutare questo schema come fosse una cura palliativa di fronte a un’epidemia potenzialmente letale. Oppure riconoscere la disonestà di chi non riesce ad ammettere che sì, andava bene che i predatori facessero il lavoro sporco, ma dovevano per l’appunto rimuovere lo sporco, mica distruggere lo Stato di diritto. Difetto di intensità, mica di direzione.

Ma occorre farlo anche perché a destra di Meloni non esiste certo il deserto. C’è invece chi già sta scalpitando e ammicca verso l’America di Trump e Musk, nella speranza di venire incluso nella “MEGA” (Make Europe Great Again) scia di Elon Musk. Il quale è impegnato anche a influenzare la politica del continente attraverso i partiti di estrema destra, più inclini a sposare la sua agenda. Insomma, le chat di oggi potrebbero essere la comunicazione istituzionale di domani.

(Immagine anteprima via governo.it)

 

Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

Immagine in anteprima via Fanpage