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La ‘pace imperiale’ di Trump e Putin imposta all’Ucraina punta a sventrare l’Europa dall’interno

“Ci sono dei decenni in cui non accade nulla. E poi delle settimane in cui accadono decenni”. Una delle massime più celebri di Lenin, accusato il 22 febbraio 2022 dal presidente russo Vladimir Putin di essere il principale colpevole dell’esistenza dell’Ucraina, può essere facilmente traslata a ciò che è accaduto dallo scorso 12 febbraio, giorno della telefonata tra il presidente statunitense Donald Trump e Putin. 

Una settimana intensa e scioccante, sebbene prevedibile già durante la campagna elettorale trumpiana, che sta sconvolgendo la politica europea e globale alla vigilia del terzo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina.

Cosa è successo dalla telefonata tra Putin e Trump in poi?

Monaco di Baviera, Riyad, Parigi, Ankara. Questi i centri gravitazionali delle evoluzioni che stanno portando a quella che Nathalie Tocci ha definito la ricerca di una ‘pace imperiale’ alle spalle di Kyiv e Bruxelles. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che il vertice tra russi e americani in Arabia Saudita è stato “una sorpresa” appresa dai media, durante una visita al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo a sua volta ha detto che la Turchia sarebbe un “posto ideale” per lo svolgimento di futuri negoziati per terminare la guerra in Ucraina, ribadendo l’inviolabilità dell’integrità territoriale di Kyiv. 

Trattative a cui gli Stati Uniti promettono di includere prima o poi anche europei e ucraini. Tuttavia, nella prima fase – un meeting di quattro ore e mezzo a Riyad – si sono tenute solamente tra russi e americani, alla presenza del ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, e del consigliere per la sicurezza nazionale saudita, Musaad bin Mohammed Al Aiban, che avrebbero però lasciato l’incontro anticipatamente.

A rappresentare gli Stati Uniti c’erano il segretario di Stato, Marco Rubio, il consigliere per la sicurezza, Mike Waltz, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha recentemente avuto un importante ruolo nel forzare il presidente Benjamin Netanyahu ad accettare un cessate il fuoco a Gaza. Spicca e pone delle domande l’assenza dell’inviato per Ucraina e Russia, Keith Kellogg, che nel frattempo incontrava la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Oltre al ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, e al consigliere per la politica estera, Yuri Ushakov, a guidare la delegazione russa era un personaggio poco noto al grande pubblico ma di fondamentale importanza. Kirill Dmitriev, noto nell’ambiente moscovita come Kiriusha e vicino alla figlia di Putin, è pure grande amico del principe saudita, Mohammad bin Salman Al Sa'ud, da cui ha ricevuto una medaglia al valore nel 2019, durante la presidenza Trump. Riyad è infatti un grande alleato sia per il tycoon che per Putin, e Dmitriev è soprattutto un uomo d’affari: è presidente del Russian Direct Investment Fund, fondo sovrano del Cremlino. 

E difatti, nonostante l’impegno per la creazione di gruppi di negoziazione, più che idee concrete per cercare quella pace “giusta e sostenibile [...] accettabile da tutte le parti in causa, incluse Ucraina, Europa e Russia,” come ha dichiarato Rubio, i partecipanti hanno discusso di uno dei temi preferiti dell’amministrazione Trump: le “opportunità economiche e di investimenti” possibili dopo la fine della guerra in Ucraina e una “normalizzazione” dei rapporti fra Washington e Mosca. E un primo affare, cruciale, per i russi potrebbe essere sbarazzarsi delle sanzioni imposte in questi tre (dieci) anni.

Nel frattempo, Zelensky che aveva annunciato proprio alla vigilia della caotica Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tenutasi tra il 14 e il 16 febbraio, una coincidente missione questa settimana negli Emirati Arabi, Turchia e proprio Arabia Saudita, ha cancellato la visita presso quest’ultima. Ha per di più aggiunto che non avrebbe partecipato al meeting nemmeno in caso di invito, reiterando il messaggio per cui un capo di Stato dovrebbe incontrare suoi pari, non presenti a Riyad. 

Putin non ha ufficialmente commentato l’esito dei colloqui, ma la portavoce del ministero degli Esteri Marija Zacharova, mentre rivolgeva l’ennesima minaccia a Sergio Mattarella, chiariva come una priorità di Mosca rimanesse “la cancellazione della dichiarazione del summit NATO a Bucarest del 2008” in cui si invitavano Ucraina e Georgia a entrare, in un futuro indefinito, nell’alleanza. Lavrov, invece, ha definito “inaccettabile” l’eventuale invio di forze di peacekeeping internazionali in Ucraina come parte delle richieste di sicurezza di Zelensky, ad ora raccolte in maniera credibile solo dal primo ministro britannico Keir Starmer (mentre Macron ha fatto un dietrofront sul ruolo francese).

Più in generale, è chiaro come l’obiettivo di Mosca sia ridiscutere l’intera architettura di sicurezza europea, un tema centrale nella retorica dell’invasione russa del 2022. Ciò che è nuovo è che per la prima volta riesce a farlo con il benestare di Washington. Trump, da una parte bastonando l’Unione Europea e accusando Kyiv dello scoppio della guerra, dall’altra annunciando un incontro col presidente russo entro fine mese, concede a Putin una vittoria comunicativa e politica che l’autocrate russo cercava da 25 anni: poter vendere al proprio pubblico interno, ma ancora di più all’estero, le relazioni USA-Russia come fra pari.

Una possibile, probabile e tragica pace imperiale che profuma di anni ‘30, per l’esclusione di Kyiv, ma che sa anche di Guerra Fredda, sebbene i rapporti di potere siano in realtà incomparabili, al di là della propaganda del Cremlino e delle concessioni di Trump. Nonostante la retorica, e seppur trainata dall’economia di guerra, Mosca impero non lo è più da tempo: e davanti alla facciata di grandezza appare chiara l’ombra cinese, non pronta tuttavia a formalizzare un’alleanza a lungo termine con due partner che ritiene inaffidabili come Russia e Corea del Nord, e piuttosto incline a voler sfruttare un disimpegno statunitense dall’Europa ma pure dall’Ucraina stessa.

Nel tentativo di coordinare una risposta, il presidente francese Emmanuel Macron ha organizzato una riunione emergenziale con Von der Leyen e i principali capi di Stato europei. Il tema sullo sfondo dell’incontro parigino era delineare una strategia chiara e condivisa per difendersi, a lungo termine, dall’aggressività di Mosca alla luce del disimpegno americano. I principali giornali europei, tra cui quelli più vicini a Bruxelles come Politico Europe, hanno sottolineato come i leader europei non abbiano trovato una “risposta pronta” alla bomba di Trump. 

Un obiettivo difficile, considerando pure le imminenti elezioni in Germania dove l’amministrazione trumpiana sostiene l’estrema destra di AfD, chiarendo in modo emblematico il piano globale di Trump – che poi è quello del Cremlino da metà anni ‘10: sfaldare l’Europa dall’interno, rendendola irrilevante di fronte al nuovo ordine globale, che più che di multipolarismo pare ora assumere la forma dell’anarchia. Un avvertimento parzialmente raccolto anche dall’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE Kaja Kallas. Una possibile alleanza tra Washington e Mosca, è un rischio esistenziale per l’Europa unita in quanto tale, avvertono i francesi.

In attesa di capire cosa sarà del piano da 700 miliardi euro per il sostegno all’Ucraina ipotizzato a Monaco, tra gli altri, dalla Ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock (a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato), ci sono state decisioni minori, come l’approvazione di un pacchetto di aiuti militari da 6 miliardi di euro. 

Ci si aspetta, però, che ulteriori risposte sulla strategia europea possano arrivare dal secondo meeting emergenziale di oggi 19 febbraio, di nuovo a Parigi, esteso a un gruppo più ampio di paesi, tra cui alleati ferrei di Kyiv come i paesi baltici, Canada e Norvegia. Durante il quale, idealmente, dovrebbero fare da faro le indicazioni di Mario Draghi per cui “l'UE è il principale nemico di sé stessa”: di fronte alla prospettiva concreta di rimanere soli, bisogna superare il tempo dei veti incrociati e delle attese.

Cosa sta cambiando?

Di certo non per decenni, ma per circa un anno la narrazione è stata quella di uno stallo sul campo di battaglia in Ucraina, dopo l’eroica resistenza di Kyiv tra il 2022 e l’inizio del 2023 che aveva portato alla difesa della capitale ucraina e alla liberazione di Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Kherson. 

Dopo la caduta di Bakhmut nella primavera del 2023, la guerra è diventata un lento logoramento che ha leggermente avvantaggiato il Cremlino, per lo meno dal punto di vista quantitativo - quel che conta di più per Putin, d’altronde.

Poche centinaia di metri quadrati al giorno, in media, di avanzata, al costo di centinaia di migliaia di vite perse - da una parte, come dall’altra. Secondo la maggioranza degli analisti, molte più per i russi che hanno pure dovuto cercare alleanze inedite come quella con la Corea del Nord nella difesa dell’oblast’ di Kursk, o con l’Iran a metà 2022 sui droni Shaheed, per portare avanti la distruzione di quello che la propaganda russa ha sempre definito un ‘paese fratello’.

In tre settimane Trump ha spazzato via l’incertezza che aleggiava negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden. Da diversi mesi si parlava di possibili quanto vaghi colloqui di pace riguardanti i territori occupati da Mosca, circa il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Ucraina. Trump e Vance hanno trasformato questa incertezza in caos durante la Conferenza di Monaco, tenutasi nello scorso fine settimana.

La nuova amministrazione repubblicana ha gradualmente alzato l’asticella comunicativa: da una parte bistrattando il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, chiarendo come un obiettivo secondario di Trump sia sentenziare la sua morte politica, dall’altra usando più la carota che il bastone con il Cremlino - quest’ultima una tattica priva di credibilità e sostegno, soprattutto all’interno dell’UE e soprattutto a Kyiv. Zelensky continua a ripetere come l’Ucraina non accetterà alcun ultimatum da parte russa.

Prima di essere esclusa dal tavolo di Riyad, Bruxelles ha ricordato a Trump di dover essere considerata parte di eventuali trattative. Lo stesso aveva dovuto fare Zelensky dopo la telefonata fra il presidente russo e quello americano: gli avvenimenti del 12 febbraio hanno definito un ordine di autorità, se non di preferenza, fra le due parti nell’astratto (ma sempre più concreto e cinico) piano di pace di Trump: Putin prima, Zelensky poi. Una rivoluzione rispetto all’approccio di Biden e dell’amministrazione democratica. 

Una rivoluzione in parte scontata, ma ugualmente una doccia fredda per uno Zelensky che era apparso, fino alla scorsa settimana, più concessivo nei confronti della retorica trumpiana, ma negli scorsi giorni sempre più veementemente ha cominciato a esprimere la propria rabbia e frustrazione per la tattica americana.

All’attesa Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, iniziata venerdì 14 febbraio, il vice-presidente JD Vance ha offerto un esempio di quella strategia comunicativa teorizzata da Steve Bannon che, in un’intervista di qualche anno fa, disse: “Il partito di opposizione sono i media. E i media, poiché stupidi e pigri, possono concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto ciò che dobbiamo fare è inondarli. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una sola, e riusciremo a fare tutto ciò che vogliamo. [...] Ma dobbiamo iniziare alla velocità della luce”. 

Vance, che in campagna elettorale aveva detto che la guerra in Ucraina è un problema dell’Europa, ha aperto la Conferenza di Monaco ipotizzando l’invio di soldati statunitensi a supporto di Kyiv qualora Mosca sabotasse le trattative, smentendo peraltro le dichiarazioni di appena due giorni prima del suo segretario alla Difesa, Pete Hegseth. 

Poche ore dopo, Vance smentiva doppiamente sé stesso, dicendo come si potrebbe arrivare “a un accordo ragionevole” per entrambe le parti: è il gioco delle parti della diplomazia del nuovo ordine trumpiano, non solo tra diversi esponenti del cerchio ristretto del presidente (e autoevidente nel Grand Old Party nel suo complesso) ma anche fra le loro molteplici personalità, come dimostrato dallo show bavarese di Vance, che ne ha avuto per tutti, soprattutto l’Unione Europea intesa come coalizione di forze politiche diverse dall’estrema destra sostenuta oggi da Washington (e foraggiata nell’ultimo decennio dal Cremlino).

Se le prime due settimane di presidenza di Trump si sono concentrate a smantellare l’ordine interno e su Gaza per quanto riguarda la politica estera, febbraio segna il mese di Kyiv e Mosca. Nella strategia di Washington a breve termine, ciò implica l’esclusione della prima.

Cosa ci aspetta?

La nuova fase aperta ufficialmente il 12 febbraio, in qualche modo prevista dalle analisi delle settimane precedenti che ha confermato, seppur non ancora nei fatti quanto più sul piano simbolico, l’avvio di una nuova fase della guerra in Ucraina e più in generale dei mutevoli equilibri globali: la possibile, probabile e, per almeno una e mezza delle parti in causa, desiderabile spartizione di uno Stato sovrano, evento a cui assistiamo in diretta per la prima volta da 80 anni. 

Con conseguenze imprevedibili per l’ordine internazionale, e anche questo è stato ripetuto a lungo negli ultimi tre anni. Mentre, al contrario, viene spesso dimenticato il destino di quelle milioni di persone che a Mariupol’, Donec’k, Berdyans’k e Luhans’k ci abitano.

Prima le proposte, da parte di Trump, più strampalate, ad esempio il ricatto sulle terre rare, e la sua nemmeno troppo velata retorica neocoloniale, espressa nel piano segreto che puntava a ottenere un controllo economico quasi totale sull’Ucraina, chiedendo a Kyiv un “risarcimento” di 500 miliardi di dollari in merito agli aiuti americani degli ultimi tre anni. Una retorica che punta a colpevolizzare l’Ucraina, rinforzata dalle dichiarazioni di Trump per cui sarebbe il paese invaso e non il Cremlino ad aver provocato lo scoppio della guerra.

Tattiche comunicative e negoziali utili a confondere l’opinione pubblica e indebolire ulteriormente (nel tentativo ultimo di umiliare) la fragile posizione di Kyiv che si siederebbe al tavolo delle trattative in una posizione decisamente svantaggiata rispetto ad appena un anno fa. Nel farlo, il presidente americano ha persino dichiarato che “l’Ucraina potrebbe essere russa un giorno”, confermando paradossalmente i fondati timori sia ucraini che europei che le trattative annunciate saranno una tregua a orologeria, più che una pace duratura, nonostante le dichiarazioni dell’establishment americano puntino a narrare l’esatto opposto.

Il nuovo corso repubblicano getta benzina sul fuoco sulla difficile situazione interna di Kyiv, in cui il reclutamento è sempre più tortuoso (è d’altronde complicato trovare motivazioni, dopo tre anni di sofferenza, quando viene a mancare il senso complessivo della lotta di resistenza dopo il tradimento del principale alleato, che Zelensky ha paragonato a quello avvenuto in Afghanistan) e l’ordine politico sempre più caotico, come dimostrato dalle sanzioni ad personam verso l’ex presidente Petro Poroshenko, insieme ad altri oligarchi, approvate da Zelensky proprio il giorno successivo alla telefonata Putin-Trump.

Una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino, che persevera nella narrazione del ‘presidente illegittimo’.

Proprio il suo avversario Poroshenko, in un’intervista al media ucraino Censor.net dello scorso 16 febbraio, ha invitato “ad annotare questa data: 26 ottobre”. Poroshenko dichiara di avere le prove per cui le elezioni si terranno quel giorno: a quanto dice l’ex presidente ucraino la commissione elettorale centrale sta aggiornando i propri registri, mentre lo stabilimento tipografico 'Ucraina' “sta già elaborando quante schede elettorali saranno necessarie”.

Al di là della popolarità in discesa di Poroshenko, gli inside politici a Kyiv sono spesso manovrati dall’alto, e non sarebbe sorprendente se l’informazione sia arrivata all’ex presidente proprio da ambienti vicini all’attuale amministrazione per affossarne il futuro politico. In ogni caso, confermano come l’Ucraina stia entrando, probabilmente controvoglia, verso una nuova confrontazione politica interna. 

Mentre la guerra continua, e poche ore dopo Riyad alcuni droni russi dal Mar Nero attaccano quella che la propaganda del Cremlino definisce una delle città madri russe, Odessa, la stessa intelligence statunitense sottolinea come al momento non si scorgano reali volontà di Putin di fermare la guerra.

Le previsioni di Poroshenko d’altro canto affascinano gli amanti delle dietrologie e degli incastri celesti nella politica internazionale. Il 26 ottobre cade sei mesi dopo la data scelta da Trump, secondo Bloomberg, per il cessate il fuoco che aprirebbe a nuove elezioni. E dopo queste alla firma della pace da parte del nuovo governo ucraino, secondo fonti diplomatiche il più filorusso possibile nei desideri di Mosca e Washington, ispirate dallo ‘spirito di Riyad’.

La data è quella del 20 Aprile, celebrazione, quest’anno, della Pasqua sia di rito cattolico che ortodosso. Aspettando di comprendere fino in fondo quale mondo ci si troverà davanti fra due mesi: Trump si è insediato da meno della metà.

Immagine in anteprima: frame video FirstPost via YouTube

Caso Paragon: tutte le cose che non tornano sul segreto di Stato posto dal governo

Pubblichiamo con il permesso del direttore di Fanpage Francesco Cancellato il suo articolo sul caso Paragon, dal titolo "Il governo mette il segreto di Stato sul caso Paragon: tutte le cose che non tornano". Facciamo nostre le sue domande, dopo la decisione del governo Meloni di porre il segreto di Stato.

“Segreto di stato”. Così il governo Meloni ha messo una pietra tombale sulle nostre legittime domande relative al caso Paragon, l’azienda che produce lo spyware Graphite con cui sono stati infettati il telefono di chi scrive e di altri sei cittadini italiani. L’ha fatto per non rispondere a due interrogazioni parlamentari dell’opposizione che ponevano la stessa domanda: è vero che la polizia penitenziaria ha in dote questo strumento per le sue attività di polizia giudiziaria?

Non ci è chiaro, e probabilmente non ci sarà mai chiaro, perché il governo abbia tante remore a rispondere a questa domanda, laddove invece ha tranquillamente ammesso che i nostri servizi segreti – l’Aise, in particolare – hanno in dotazione questo strumento. Così come allo stesso modo polizia, carabinieri e guardia di finanza, tramite il loro ministero di riferimento, hanno già candidamente ammesso, al pari, di non averlo a disposizione.

Non fosse inquietante, insomma, farebbe sorridere che le comunicazioni del governo si interrompano proprio in relazione al potenziale utilizzatore di Paragon più improbabile di tutti. Anche perché, a questo punto il giallo si infittisce.

Primo: qual è la forza di polizia che ha in dotazione il software spia di Paragon? Da Israele ci fanno sapere che un contratto c’è, e che è stato interrotto al deflagrare dello scandalo, per violazioni nell’uso dello strumento. Dalle principali procure d’Italia e da tutte le forze di polizia (meno una) ci dicono che no, quel software non è in uso. E quando si chiede conto dell’ultima di queste forze di polizia, mettono il segreto di Stato. Applausi e sipario.

Secondo: come mai c’è tutto questo alone di mistero sulla penitenziaria, la forza di polizia che risponde al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro e che, tra le altre cose, ha l’incarico di presidiare il centro di detenzione dei migranti da rimpatriare in Albania? Se la polizia penitenziaria non usa lo spyware di Paragon, perché non dirlo, come l’hanno detto polizia, carabinieri e guardia di finanza?

Terzo: come mai il dibattito deve spostarsi dal Parlamento al Copasir, dove le sedute si svolgono a porte chiuse? Davvero lo spionaggio di un giornalista e qualche attivista che il governo Meloni considera ostili è una questione tale da non poter essere discussa in Parlamento? Cosa c’è in gioco di tanto segreto da impedire una discussione pubblica? 

Quarto: cosa (o chi) sta proteggendo il governo mettendo il “segreto di Stato” sulla vicenda? Non gli spiati, che dall’esecutivo e dalla maggioranza che li sostiene non hanno ricevuto nessun attestato di solidarietà, ma solo silenzio, rimproveri e minacce. Se non gli spiati, speriamo almeno che con questa mossa il governo non intenda tutelare degli improvvidi spioni.

Quinto:  perché tutte le mezze verità e tutte le omissioni e tutti i misteri di questi giorni? Perché non dire subito che l’Italia utilizzava Paragon e ammetterlo solo dopo che l’azienda stessa faceva sapere di aver interrotto entrambi i contratti con l’Italia? Perché parlare sempre e solo del contratto tra Paragon e i servizi segreti, omettendo sistematicamente di dare qualsivoglia informazione sul presunto contratto in uso a una non meglio precisata forza di polizia? Perché parlare di contratto pienamente funzionante, salvo poi smentirsi e dire che è sospeso, nel giro di 24 ore?

L’impressione, già l'ha scritto il condirettore di Fanpage, Adriano Biondi, è che il governo stia provando a confondere le acque in attesa che si abbassi l’attenzione sul caso. Dovessero arrivare risposte puntuali e convincenti saremo i primi a rallegrarcene e a darne conto, con mille scuse. Dovesse continuare invece questa sequenza di silenzi e bugie, continueremo a scavare e a fare domande, fino a che la verità non verrà a galla. E questa è una promessa, non una minaccia.

Immagine in anteprima via Fanpage

 

L’attacco a Mattarella da Mosca ai soliti noti in Italia: una combo fatale di ignoranza e malafede

Avete presente il fischietto per cani? In inglese un simile oggetto (dog-whistle) viene usato metaforicamente per indicare quei linguaggi in codice fatti di sottintesi: significati impercettibili ai più, ma che vengono compresi da chi ha l’orecchio predisposto a recepire certi suoni e le idee che veicolano. Ad esempio quando si parla di “realismo razziale” si fa intendere che si stia parlando del caro vecchio razzismo, impacchettato per essere più presentabile.

Ma il fischietto può funzionare anche per stanare. Ad esempio, provate a dire: Putin è un dittattore e ha invaso l’Ucraina per assecondare le sue mire imperialiste. Provate a modulare una simile frase in pubblico e attorno a voi sentirete un gran baccano. Non uno fatto di “bau” o “arf” o “woof”, ma piuttosto di “e allora…”, “e invece…”, “sì… ma…”. Varianti di benaltrismo ammassate su pulsioni che non osano farsi verbo, vuoi per pudore, vuoi per convenienza, vuoi per scarsa introspezione. Ma date loro tempo e il giusto clima politico, e quelle  correrarano gioiose e felici, almeno finché non incontreranno un albero o un auto da marcare. 

Ciò spiega molto delle reazioni al discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto nei giorni scorsi all’Università di Marsiglia, dove gli è stata conferita l'onorificenza di dottore honoris causa. Nell’occasione Mattarella ha tenuto un intervento, e dalle parti del Cremlino sono fischiate molte orecchie.

Cos’ha detto in sintesi Mattarella? Che l’ordine internazionale è un contratto sociale, e di fronte alla sua natura pattizia c’è chi può sottrarsi venendo meno alle proprie responsabilità. Un contratto sociale è anche una promessa di un ordine migliore; oltre al gergo giuridico è fatto dalla volontà di attuare la promessa. Quell’ordine sorto dopo la Seconda Guerra Mondiale non sempre è stato all’altezza, ha spiegato Mattarella, anche se ha garantito alcuni pilastri di civiltà. 

Ora i fondamenti di quell’ordine sono a rischio. Mattarella traccia un parallelismo con la crisi economica degli anni Venti  e Trenta, che “alimentò una spirale di protezionismo, di misure unilaterali, con il progressivo erodersi delle alleanze”. Furono così favoriti “fenomeni di carattere autoritario”, nella convinzione che fossero più efficaci nel tutelare gli interessi nazionali. Dice ancora Mattarella:

Il risultato fu l’accentuarsi di un clima di conflitto - anziché di cooperazione - pur nella consapevolezza di dover affrontare e risolvere i problemi a una scala più ampia. Ma, anziché cooperazione, a prevalere fu il criterio della dominazione. E furono guerre di conquista. Fu questo il progetto del Terzo Reich in Europa. L’odierna aggressione russa all’Ucraina è di questa natura.

Da qui traccia un altro parallelismo, stavolta con il “protezionismo di ritorno” in atto ora e che ha visto nel solo 2024 un’impennata vertiginosa delle barriere commerciali nel mondo. A questo isolazionismo economico, spiega Mattarella, si accompagna il cedimento all’isolazionismo e un aumento della belligeranza. Possiamo vedere la fondatezza di queste parole negli Stati Uniti di Trump, che si è ritirato dall’OMS e dall’Accordo di Parigi, nell’Argentina di Milei, e negli attacchi che sta subendo la Corte Penale Internazionale. Mentre in passato abbiamo visto vari paesi sfilarsi dalla Società delle Nazioni. E abbiamo visto una confererenza di Monaco, nel 1938, dove Francia, Inghilterra, Germania e Italia decisero il destino della Cecoslovacchia. Dice ancora Mattarella a proposito di quella Conferenza:


Un abbandono delle responsabilità condusse quei paesi a sacrificare i principi di giustizia e legittimità, nel proposito di evitare il conflitto, in nome di una soluzione qualsiasi e di una stabilità che, inevitabilmente, sarebbero venute a mancare. La strategia dell’appeasement non funzionò nel 1938. La fermezza avrebbe, con alta probabilità, evitato la guerra. Avendo a mente gli attuali conflitti, può funzionare oggi? Quando riflettiamo sulle prospettive di pace in Ucraina dobbiamo averne consapevolezza.

Il discorso arriva mentre si è da poco conclusa, ancora a Monaco, la Conferenza dove abbiamo assistito alla rottura dell’Occidente, proclamata a partire da JD Vance, vicepresidente degli Stati Uniti. “Goodbye, Americaha titolato il De Zeit. Cui è seguita la conferenza di Riyad, dove le trattative sulla fine della guerra in Ucraina hanno visto il paese invaso lontano dal tavolo. 

La reazione del Cremlino non si è fatta attendere. Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, ha dichiarato alla tivù di Stato russa che il paragone tra il suo paese e il Terzo Reich “non può, e non potrà mai, essere lasciato senza conseguenze”. Zakharova definisce inoltre “blasfeme invenzioni” il discorso di Mattarella. In seguito ha rincarato la dose, annunciando che quelle parole non rimarranno senza conseguenze. Ha anche ricordato una petizione casualmente - per così dire - lanciata dal creatore del canale Telegram “Donbass Italia”, con la quale il “popolo italiano” (i firmatari) si dissocia dal suo Presidente. Petizione su cui ovviamente non diamo maggiori informazioni perché se qualcuno vuole sostenere le narrazioni pro-Cremlino che quanto meno impari a usare Google.

In Italia le reazioni politiche hanno visto la solidarietà istituzionale di Meloni e delle opposizioni (a parte i soliti). la Camera ha tributato un lungo applauso al Presidente della Repubblica, dopo le parole di sostegno della deputata PD Chiara Braga. Silenzio invece da parte di Matteo Salvini, ennesimo capitolo di un rapporto con il Cremlino oscillante tra ambiguità e aperto sostegno

La risposta muscolare di Mosca era ovviamente prevedibile. Sono veri e propri attacchi da mettere in conto e non è esclusiva della politica. Ricordiamo il caso dei giornalisti Rai Stefania Battistini e Simone Traini, prima minacciati e poi colpiti da un mandato di arresto del Cremlino per aver fatto il loro lavoro. In un clima politico del genere, dove l’Unione Europa è diventata un bersaglio dell’amministrazione Trump, non si dovrebbe commentare eludendo il significato di certe reazioni, come se non facessero parte del pacchetto e della natura della guerra in Ucraina. Durante la conferenza stampa in occasione della sua visita in Montenegro, Mattarella è di nuovo tornato sull'argomento, rispondendo a una domanda diretta sui rapporti da tenere con Mosca:

Da tre anni a questa parte la posizione dell’Italia – e in questo ambito quel che io personalmente ho sempre espresso ai numerosi interlocutori internazionali con cui mi sono incontrato nella vita internazionale - è nitida, limpida, chiarissima. Quella dell’invito al ristabilimento del rispetto del diritto internazionale e della sovranità di ogni Stato, della sua indipendenza e dignità - qualunque sia la sua dimensione - piccolo o grande che esso sia.Questa ferma, vigorosa affermazione sui principi della Carta dell’ONU, del diritto internazionale, dell’eguaglianza e dignità di ogni Stato è stata alla base del sostegno che l’Italia, con l’Unione europea e con gli Stati Uniti, ha assicurato all’Ucraina, per resistere alla violenza delle armi. Questa posizione è sempre stata accompagnata dall’auspicio che la Russia torni a svolgere il proprio ruolo, di grande rilievo e importanza, nella comunità internazionale, nel rispetto dei principi del diritto internazionale e della dignità e sovranità di ogni Stato. Questo auspicio è quello che anch’io ho sempre fatto negli incontri che ho avuto. È un auspicio di rispetto del diritto internazionale – ripeto - dalla Carta delle Nazioni Unite, della sovranità di ogni Stato e degli impegni bilaterali.

Tuttavia da subito il discorso di Marsiglia di Mattarella ha fatto scattare una serie di reazioni da parte di chi, per un motivo o per un altro, ha problemi quando c’è da mettere insieme nella stessa frase le parole “Russia”, “Ucraina”, “invasione”, “conquista”. E siccome siamo un paese di brava gente, certi impeti vengono subito coperti da abiti civilissimi. 

Perché via, va bene che Putin è un dittatore, tutto il male possibile, ci mancherebbe eh, ma mica è Hitler, spiega per esempio Peter Gomez, bacchettando Mattarella. Perché sennò qualunque aggressione nei confronti di un altro paese andrebbe considerata nazista. In sintesi: “E allora gli Stati Uniti in Iraq?”. Gomez usa quindi l’argomento fantoccio: Mattarella ha usato parallelismi con gli anni Trenta per definire il carattere dell’invasione su larga scala dell’Ucraina e il progetto politico di cui fa parte, non tanto per definire Putin come dittatore. Unendo i puntini del discorso di Gomez: se gli americani inventano armi di distruzione di massa, se invadono l’Iraq, mo Putin non si può prendere manco un pezzetto di Donbas senza passare per Hitler? 

Gli fa eco lo storico Luciano Canfora, co-autore con Fabrizio Borgonovo di un libro sulla guerra in Ucraina molto apprezzato dal paese aggressore. Intervistato dal Fatto Quotidiano, Canfora finge che Hitler non avesse un progetto di espansionismo nazionalista e razzista basato sullo “spazio vitale” delle popolazioni ariane da unire sotto l’insegna del Reich. Al massimo ce l’aveva con l’Unione Sovietica e sotto sotto faceva comodo a Inghilterra e soci. Insomma, è stato spinto a fare guerre di aggressione per tutelarsi. Un po’ come se uno invadesse prima la Cecenia, poi la Georgia e poi l’Ucraina per paura della NATO, viene da pensare. Quanto alla Conferenza di Monaco del 1938, il vero problema fu non aver invitato l’Unione Sovietica. “La Società delle Nazioni provoca” si sarebbe detto all’epoca.

Per Moni Ovadia, invece, le parole di Mattarella sono state addirittura “molto gravi”. Intervistato dal Fatto Quotidiano (sempre loro, sì), Moni Ovadia ha ricordato che “durante la Seconda guerra mondiale i sovietici hanno avuto 27 milioni di morti, di cui 12 milioni solo i russi”. E chissà chi erano gli altri 15 milioni, da che paesi provenivano e perché erano agli ordini di Stalin. Persino l’intervistatore deve fargli notare che è andato un po’ fuori tema, “Il paragone in realtà era tra le condizioni storiche del 1938 e quelle odierne”, gli dice Tommaso Rodano.

Ma del resto Moni Ovadia è quello che, nell’evento Pace proibita di Michele Santoro aveva basato il suo intervento sull’Ucraina usando come fonte principale Lara Logan, trovata “trafficando nella rete”. Ovvero una giornalista capace di farsi cacciare da Fox News, tanto è arrivata a spararle grosse. E che buttava là accuse a Zelensky, alludendo agli ebrei che secondo “un libro Newton Compton” combattevano nella Wehrmacht.  Ma cosa importa tutto ciò di fronte a una platea accalorata, di fronte all’unità aristotelica tra tempo, luogo e fregnacce? 

Chissà poi perché tutte queste analisi “storiografiche”  dove Unione Sovietica e Russia sono viste come unità contigue, intanto che si fanno le pulci a Mattarella. E chissà perché non ci si pone il problema di come ciò sia sovrapponibile alla narrazione dello stesso Cremlino, che deve celebrare quel passato glorioso per porsi oggi come aggressore tornato a “combattere i nazisti”.

Non hanno di questi problemi l’ANPI e il suo sciagurato presidente Gianfranco Pagliarulo, le cui opinioni sull’Ucraina già negli anni ‘10 (es: qui, qui e ancora qui), avrebbero dovuto spingere gli iscritti a restituire la tessera chiedendone le dimissioni. Con una capolavoro di bispensiero, Pagliarulo riesce sia a esprimere solidarietà a Mattarella, sia a richiedere di fronte a un “pur controverso spiraglio di pace” “messaggi di distensione”, stigmatizzando quindi gli “attacchi” e le “ulteriori tensioni internazionali”. E di chi sarebbero questi attacchi? Di Mattarella, di Zakharova, o facciamo cinquanta e cinquanta in nome della “pace”?

Carlo Rovelli intervistato a diMartedì è persino raggiante. Trump ha rotto l’Occidente? “Spero di sì”, dice, perché quella concezione ci stava portando verso la Terza Guerra Mondiale. “Se riuscisse a fare la pace in Ucraina”, o addirittura a portare al “disarmo nucleare” si “conquisterebbe un posto nella storia del mondo”. Fortunatamente non si spinge fino a ipotizzare il Nobel per la Pace a Trump, compito di cui si auto-investe Matteo Salvini.

Ma questa è l’Italia, una realtà parallela dove c’è chi festeggia una possibile “pace” mentre il Presidente degli Stati Uniti parla di Ucraina come di un paese aggressore, e chiede a Zelensky una quota di PIL superiore a quella che venne chiesta alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. Un fascista dittatore in fieri che si sceglie come compagno di merende geopolitiche un autocrate fatto e finito, e le cui parole sono interpretate persino con ottimismo dalle nostre parti.  

 Che i parallelismi di Mattarella abbiano più di una ragione lo dimostrano proprio queste reazioni, da cui si evince un massimalismo da Comintern di fine anni Venti. All’epoca parte della sinistra si convinse infatti che il vero nemico non fosse Hitler, sintomo casomai di una crisi globale del capitalismo, ma la social-democrazia vista come variante morbida del fascismo e ostacolo all’imminente rivoluzione. Ovviamente l’errore fu compreso quando era troppo tardi.

Così oggi, di fronte a leader di superpotenze che dicono chiaramente cosa hanno intenzione di fare, e ce lo mostrano in tempo reale, abbiamo ancora chi crede nelle rivoluzioni come fossero una profezia. E le profezie sono destinate ad avverarsi, non sono una possibilità nella storia da inverare, attraverso capacità materiali e di organizzazione. Non serve persuasione, ma fede. E se non si avverano, perché preoccuparsi della distruzione di ciò che le impedisce? 

Di fronte a simili ingegni, pronti a scattare appena si parla di guerra di aggressione russa, non si possono che scomodare parole prese dagli anni Trenta, riadattate al contesto italiano di oggi. Brecht ci aveva preso in parte: non è sfortunata la terra che ha bisogno di eroi, è sfortunata la terra che si accontenta di intellettuali scarsi.

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

 

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

Immagine in anteprima: frame video Mediaset Infinity

Il bullismo di Elon Musk contro l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale

di Oliver Bullough

Chiunque abbia fatto parte di un forum su Internet conosce il tipo di persona che finisce sempre per prendere il sopravvento: non è solo ignorante, ma anche aggressivamente male informata; è arrogante; scambia il bullismo per divertimento. Alla fine l'intero forum assume la sua personalità, i commentatori decenti se ne vanno e così fai anche tu. Ti mancheranno le conversazioni e la compagnia, ma la cosa che rendeva il forum degno di essere frequentato è sparita.

È triste, ma non è la vita reale. Ora invece lo è.

Il presidente degli Stati Uniti ha dato a quella persona carta bianca per comandare il forum, ma non è possibile cavarsela disconnettersi. Le noiose battute di Elon Musk, la politica grossolana e la crassa ignoranza non sono più confinate a X, o addirittura allo Studio Ovale, ma sono state scatenate sulle persone più vulnerabili del mondo. “La corruzione è una forma di sviluppo al contrario, devasta i risultati che cerchiamo in tutti i settori, erode lo Stato di diritto e mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nei processi di governo”, si legge in una dichiarazione di intenti (ora tristemente ironica) dell'USAID, pubblicata appena due anni fa. Una dichiarazione che ora non può essere letta sul sito web perché Musk l'ha chiuso.

Musk ha usato X e il suo status di “impiegato speciale del governo” per liquidare la più importante agenzia di aiuti del mondo come una “un'operazione di guerra psicologica della sinistra radicale”. Parole che probabilmente sono piaciute agli accoliti di Musk su X, ma che per me non significano nulla. Solo in base alle mie conoscenze, posso dire che questo vandalismo non gioverà a nessuno, se non ai nemici dell'America, e danneggerà i suoi amici.

Una forza benefica

Prendiamo, ad esempio, l'Anti-Corruption Action Center di Kyiv. Ha fatto più di chiunque altro per consolidare l'onestà in Ucraina, che dieci anni fa era senza dubbio la nazione più corrotta d'Europa. Il centro è stato finanziato al 20% da USAID. Oppure il Journalism Development Network, che ha denunciato la corruzione e il malgoverno in tutta l'Europa orientale e oltre, contribuendo notevolmente con i suoi reportage a impedire al Cremlino di estendere la propria influenza. Anche questo è stato finanziato dall'USAID. Questi progetti non sono importanti solo per informare le persone curiose, ma anche per le banche, che si affidano a notizie come queste per valutare se un potenziale cliente è un truffatore o un imprenditore. Senza il giornalismo finanziato dall'USAID, chi deve vigilare sul riciclaggio di denaro sarebbe cieco.

E non è tutto. Le guardie curde di un campo per ex combattenti dello Stato Islamico e le loro famiglie sono in grado di mantenerlo sicuro e di nutrire i suoi detenuti grazie ai soldi dell'USAID. Ecco un programma finanziato dall'USAID per combattere la corruzione nei porti marittimi; ecco una storia su una stazione radio in Afghanistan che ha ricevuto finanziamenti anche dall'USAID. L'USAID ha contribuito a diffondere la pratica della democrazia in luoghi dove non era mai stata presente. Il bilancio annuale dell'agenzia, pari a 43 miliardi di dollari, può sembrare molto, ma è inferiore a quanto Musk ha pagato per Twitter prima di distruggerlo, ed è appena un quinto dell'aumento della sua ricchezza personale solo negli ultimi dodici mesi.

Una questione di vita e di morte, non di politica

Naturalmente non tutto ciò che USAID ha fatto è stato ideale. Ma c'è un impressionante livello di idiozia nel non apprezzare che il modo più economico e facile per vincere una discussione è di non averne bisogno. USAID è il più grande donatore al mondo per cause umanitarie. Spendere soldi per farsi degli amici è un buon investimento.

“Elon Musk è l'uomo più ricco del mondo e in questo momento sembra avere il controllo con decisioni che saranno letteralmente una questione di vita o di morte per le persone più povere del mondo”, ha detto Giff Johnson, il laconico e saggio editore del Marshall Islands Journal, il principale quotidiano di un paese che dipende molto dagli aiuti e che si trova in una posizione strategica. Dove gli Stati Uniti si tirano indietro, la Cina farà un passo avanti. “È un'apertura per chiunque voglia colmare il vuoto, suppongo, finché Washington non deciderà cosa fare”.

Oltre a tutto questo, il Dipartimento di Giustizia ha sciolto la Task Force KleptoCapture, che faceva parte di uno sforzo internazionale per far pagare agli alleati corrotti e ai funzionari di Vladimir Putin il costo della guerra in Ucraina. Come se non bastasse, ha deciso di non indagare sull'intervento straniero nella politica statunitense.

C'è da pensare che gli Stati Uniti stiano cambiando schieramento. O forse l'hanno già fatto?

Il costo di avere dei principi

A cambiare schieramento sono stati anche i miliardari che si sono coalizzati attorno a Trump, in particolare Jeff Bezos, un tempo descritto come un “filantropo sveglio” per aver finanziato organizzazioni per il clima e scuole materne gratuite.

Nel 1947, la rivista Time riportò la storia di un giudice giapponese di 37 anni di nome Yoshitada Yamaguchi che, pagato troppo poco per vivere del suo stipendio e troppo onorevole per infrangere la legge, morì di fame. “È orribile oggigiorno essere sposati con un uomo onesto”, disse la sua vedova.

Mi sono ricordata di quella storia quando ho letto che la fondazione di beneficenza di Bezos aveva tagliato i finanziamenti al principale ente di certificazione climatica del mondo, apparentemente per evitare di infastidire Donald Trump. “Ovviamente Jeff Bezos e le aziende tecnologiche sono cambiate rispetto a otto anni fa”, ha detto una fonte al Financial Times.

È ovviamente irragionevole aspettarsi che le persone muoiano di fame piuttosto che tradire le esigenze della società in cui vivono, ma onestamente ci si aspetterebbe che un miliardario sia disposto a rinunciare alla sua pausa pranzo per difendere alcuni principi. Che senso ha avere tutte quelle cifre sul tuo estratto conto bancario se ti pieghi come un cane bastonato quando qualcuno minaccia di dirti qualcosa di brutto?

Quanto sono diversi Bezos e i suoi principi flessibili dall'avvocata guatemalteca Virginia Laparra Rivas, che ha dedicato la carriera alla lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata? La scorsa settimana ha vinto un premio a Londra per il suo lavoro e il suo coraggio. Dopo cinque anni di molestie, nel 2022 Laparra è stata condannata a due anni di carcere per abuso di autorità in qualità di capo della Procura Speciale contro l'Impunità di Quetzaltenango, in un processo che è stato ampiamente condannato.

“Mi chiedo quanti di noi che parlano e agiscono a sostegno dello Stato di diritto nel Regno Unito con tanta sicurezza avrebbero il coraggio e i principi per farlo in un paese come il Guatemala”, ha detto il giudice David Neuberger in un discorso alla cerimonia di premiazione.

E in un paese come gli Stati Uniti di questi giorni?

Nessun pesce è troppo piccolo per essere fritto

Sempre a proposito del coraggio necessario per affrontare i potenti. Quando leggerete questo articolo, Transparency International avrà pubblicato il suo indice annuale di percezione della corruzione, e ci sarà tutto il solito trambusto su come la Danimarca sia salita, il Sudan del Sud sia sceso e su come - cielo! - sotto Donald Trump gli Stati Uniti siano scivolati a... forse al trentesimo posto? Qualunque sia il punteggio effettivo, ci sarà una mappa che mostrerà l'Europa e il Nord America in un amichevole giallo, mentre l'Africa e l'Asia saranno di un rosso rabbioso, proprio come l'anno scorso e l'anno prima ancora.

Per favore, ignoratelo. L'indice è una sciocchezza senza senso, in cui “corrotto” è solo un sinonimo di povero. E fa davvero male, poiché la metrica dell'IPC filtra in tanti modi in cui le agenzie di aiuti prendono decisioni sui finanziamenti e le aziende decidono se fare o meno investimenti. Sono convinto che l'unico motivo per cui TI continua a produrlo è perché tutti ne parlano, quindi se smettiamo, forse lo faranno anche loro.

Articolo originale pubblicato su Coda Story e tradotto con il permesso della redazione.

(Immagine anteprima via FMT)

 

Tutte le bugie di Trump su Zelensky e l’Ucraina

In questi giorni in cui proseguono i colloqui con la Russia di Putin per la ‘pace imperiale’ imposta all’Ucraina, alle spalle di Kyiv e Bruxelles, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha rilasciato una serie di dichiarazioni, nel migliore dei casi controverse e nel peggiore dei casi completamente false e fuorvianti, sull’Ucraina e su Zelensky. Diverse testate giornalistiche hanno verificato le affermazioni di Trump. Abbiamo raccolto le principali.

All'Ucraina: non avreste mai dovuto iniziare (la guerra)

Trump: “Ma oggi ho sentito: 'Oh, beh, non siamo stati invitati'. Beh, siete stati lì per tre anni. Avreste dovuto farla finita tre anni fa. Non avreste mai dovuto iniziare. Avreste potuto fare un accordo”.

I fatti: Le autorità ucraine hanno espresso insoddisfazione per non aver preso parte ai colloqui di Riad. Ma Trump ha respinto queste affermazioni, dicendo ai giornalisti che l'Ucraina aveva avuto tre anni per porre fine alla guerra, facendo intendere che è stata Kyiv a iniziare il conflitto. In buona sostanza Trump è parso riprendere le posizioni della Russia. Nel febbraio 2024 il presidente russo Putin ha detto al conduttore statunitense Tucker Carlson: “Sono stati loro ad iniziare la guerra nel 2014. Il nostro obiettivo è fermare questa guerra. E non abbiamo iniziato questa guerra nel 2022”.

L'invasione russa dell'Ucraina non è stata provocata ed è stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale come un atto di aggressione. La Russia ha lanciato un'invasione su vasta scala dell'Ucraina nel febbraio 2022, dopo aver annesso la Crimea nel 2014. Come ricostruisce la storica statunitense Heather Cox Richardson nella newsletter Letter from America, l’annessione è avvenuta dopo che il presidente filorusso dell'Ucraina, Yanukovich, era stato spodestato dopo mesi di manifestazioni popolari. I cittadini ucraini protestavano per la decisione dell’allora presidente di interrompere la cooperazione con l’Unione Europea e accettare un prestito della Russia di tre miliardi di dollari, prima tranche di un piano complessivo di salvataggio da 15 miliardi di dollari, come aveva sostenuto all'epoca il ministro delle finanze russo Anton Siluanov.

La Russia ha anche sostenuto le forze che hanno occupato alcune zone dell'Ucraina orientale e ha accusato il nuovo governo di Kyiv di discriminazione e genocidio contro i russofoni. Accuse respinte dalla Corte internazionale di giustizia.

Dopo il fallimento degli accordi che miravano a porre fine al conflitto post-2014, la Russia ha iniziato un massiccio spiegamento di truppe al confine con l'Ucraina nella primavera del 2021. Putin ha lanciato l'invasione il 24 febbraio 2022, affermando che lo scopo dell'operazione era “demilitarizzare e denazificare” il governo filo-occidentale di Volodymyr Zelensky e impedire al paese di aderire alla NATO. Ma nelle elezioni del 2019, i partiti di estrema destra avevano preso appena il 2% e va sottolineato che Zelensky è ebreo e il suo partito è stato considerato centrista. Per quanto riguarda la NATO, non è stato avviato alcun processo formale di adesione dell’Ucraina, sebbene nel 2019 il governo di Poroshenko abbia deciso di inserire in Costituzione l’adesione alla NATO.

Nel periodo precedente all'invasione russa dell'Ucraina, Zelensky si è offerto ripetutamente di incontrare la sua controparte russa. Cinque giorni prima che le truppe russe entrassero in Ucraina, Zelensky ha dichiarato: “Siamo pronti a sederci e parlare. Scegliete la piattaforma che preferite”.

Per dissuadere Mosca dal lanciare l'invasione, gli Stati Uniti hanno declassificato e pubblicato rapporti dei servizi segreti che rivelavano i piani di attacco della Russia, avvertendo che sarebbero seguite dure sanzioni economiche se il Cremlino avesse proceduto.

Nei giorni e nelle settimane successive all'invasione, i negoziatori ucraini e russi hanno tenuto diversi cicli di colloqui in Bielorussia e Turchia. Tuttavia, le richieste della Russia erano massimaliste, inclusa la parziale smilitarizzazione dell'Ucraina che avrebbe di fatto paralizzato la capacità del paese di difendersi in futuro.

Anche Mike Pence, vicepresidente di Trump durante il suo primo mandato, ha voluto precisare in un post su X: “Signor Presidente, l'Ucraina non ha ‘iniziato’ questa guerra. La Russia ha lanciato un'invasione brutale e non provocata, che ha causato centinaia di migliaia di vittime”.

Zelensky è impopolare e impedisce le elezioni

Trump: “Abbiamo una situazione in cui non abbiamo avuto elezioni in Ucraina. Beh, abbiamo la legge marziale, essenzialmente la legge marziale in Ucraina, dove il leader in Ucraina, voglio dire, odio dirlo, ma ha un indice di gradimento del 4% e dove un paese è stato fatto a pezzi. La maggior parte delle città sono distrutte.”

I fatti: Le parole di Trump ricalcano quanto affermato a più riprese dal Cremlino. Il 28 gennaio il presidente russo Putin ha definito Zelensky “illegittimo”, in un’intervista ai media russi, proprio perché il suo mandato è terminato.

In effetti, il mandato quinquennale di Zelensky avrebbe dovuto concludersi nel maggio 2024. Tuttavia, l'Ucraina è sotto legge marziale dall'invasione russa del febbraio 2022, il che significa che le elezioni sono sospese. Ma c’è un però.

Le leggi marziali in Ucraina non nascono con Zelensky, sono state redatte nel 2015, poco dopo l'annessione della penisola di Crimea da parte della Russia e anni prima che Zelensky e il suo partito salissero al potere. 

Per quanto riguarda il consenso, Zelensky è diventato presidente dell’Ucraina nel 2019, ottenendo al ballottaggio il 73% dei voti in elezioni definite dall’OSCE “competitive e [dove] le libertà fondamentali sono state generalmente rispettate”.

Sebbene la popolarità del presidente ucraino sia diminuita dall'inizio dell'invasione russa, un sondaggio di febbraio condotto dall'Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev ha rilevato che il 57% degli ucraini si fida del presidente, in aumento rispetto al 52% di dicembre.

Altri sondaggi sembrano vedere in vantaggio il più diretto rivale di Zelensky, l'ex capo dell'esercito Valerii Zaluzhnyi, e in ogni caso prospettano un ballottaggio tra i due.

Zelensky ha promesso di indire nuove elezioni una volta terminato il conflitto e deve ancora confermare la sua intenzione di candidarsi. Alcuni esperti hanno osservato che sarebbe praticamente impossibile tenere elezioni in Ucraina prima della fine del conflitto, poiché persistono gli attacchi russi su molte città e milioni di cittadini sono sfollati all'estero o vivono sotto l'occupazione russa.

“La nostra posizione è che durante una guerra non c'è spazio per la politica, e soprattutto non per le elezioni”, ha dichiarato Valentyn Nalyvaichenko, un parlamentare del partito Patria dell'ex primo ministro Yulia Tymoshenko ed ex capo dell'agenzia di sicurezza SBU. “Sarebbe la fine per l'Ucraina. Iniziare un'attività politica o elettorale significherebbe la vittoria di Putin il giorno dopo”.

L'ex presidente Poroshenko ha dichiarato di avere le prove per cui le elezioni si terranno il 26 ottobre. Resta da capire quanto le sue affermazioni siano solide. Resta il fatto che una parte consistente del piano di Trump, in evoluzione, è obbligare Zelensky a tenere elezioni quest’anno, nella speranza che non sia l’attuale presidente ucraino a firmare l’effettivo accordo di pace col Cremlino.

Gli Stati Uniti danno più aiuti all'Ucraina rispetto all'Europa

Trump: “Credo che il presidente Zelensky abbia detto la scorsa settimana di non sapere dove sia finita metà dei soldi che gli abbiamo dato. Beh, credo che gli abbiamo dato 350 miliardi di dollari, ma diciamo che è qualcosa di meno. Ma è molto, e dobbiamo pareggiare con l'Europa perché l'Europa ha dato una percentuale molto più piccola di quella.

Penso che l'Europa abbia donato 100 miliardi di dollari e noi abbiamo donato, diciamo, più di 300 miliardi, ed è più importante per loro che per noi. Abbiamo un oceano in mezzo e loro no. Ma dove sono finiti tutti i soldi donati? Dove stanno andando? E non ho mai visto un resoconto. Noi doniamo centinaia di miliardi di dollari”.

I fatti: Ci sono molti numeri che girano, con diverse metodologie utilizzate per calcolare i singoli contributi. Secondo l’Ukraine Support Tracker dell'Istituto Kiel per l'economia mondiale, l'Europa, considerata come la somma dell'UE e dei singoli Stati membri, ha stanziato 132,3 miliardi di euro in aiuti all'Ucraina, contro i 114,2 miliardi di euro degli Stati Uniti. A questi, sempre secondo il tracker, si aggiungerebbero altri 115 miliardi di euro.

I maggiori contributi in percentuale del PIL sono stati effettuati da Estonia e Danimarca (2,5%), Lituania (2,1%), Lettonia (1,8%), Finlandia (1,3%), Svezia e Polonia (1,2%).

Martedì, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto notare all'inviato USA in Ucraina, Keith Kellogg “il ruolo fondamentale dell'UE nel garantire la stabilità finanziaria e la difesa dell'Ucraina”, sottolineando “più di ogni altro alleato”.

Il segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha dichiarato la scorsa settimana che nel 2024: “Gli alleati della NATO hanno fornito oltre 50 miliardi di euro in assistenza alla sicurezza all'Ucraina, di cui quasi il 60% proveniente dall'Europa e dal Canada”.

Inoltre, quando Zelensky dice di non sapere dove siano finiti i soldi degli aiuti americani, sta in realtà mettendo in discussione le cifre fornite da Trump. Queste le parole del presidente ucraino all’Associated Press il 2 febbraio: “Come presidente di una nazione in guerra, posso dirvi che abbiamo ricevuto più di 75 miliardi di dollari. (...) Stiamo parlando di cose tangibili perché questo aiuto non è arrivato in contanti ma piuttosto sotto forma di armi, che ammontavano a circa 70 miliardi di dollari. Ma quando si dice che l'Ucraina ha ricevuto 200 miliardi di dollari per sostenere l'esercito durante la guerra, non è vero”, ha detto Zelensky. “Non so dove siano finiti tutti quei soldi. Forse è vero sulla carta con centinaia di programmi diversi, non lo metto in discussione, e siamo immensamente grati per tutto. Ma in realtà abbiamo ricevuto circa 76 miliardi di dollari. È un aiuto significativo, ma non sono 200 miliardi di dollari“. 

In sintesi, Zelensky non ha fatto altro che ribadire quanto diversi esperti negli Stati Uniti e altrove hanno ripetutamente sottolineato, e cioè che gran parte degli aiuti USA all’Ucraina non sono arrivati sotto forma di denaro consegnato al governo ucraino.

Come scriveva lo scorso maggio, ad esempio, il think tank Center for Strategic and International Studies: “Il concetto di ‘aiuto all'Ucraina’ è improprio. Nonostante le immagini di “pacchi di denaro” inviati all'Ucraina, circa il 72% di questo denaro in generale e l'86% degli aiuti militari saranno spesi negli Stati Uniti. La ragione di questa percentuale elevata è che le armi destinate all'Ucraina sono prodotte in fabbriche statunitensi, i pagamenti ai membri delle forze armate statunitensi sono per lo più spesi negli Stati Uniti e anche una parte degli aiuti umanitari viene spesa negli Stati Uniti”.

La Russia non sta schierando tutto il suo potenziale militare in Ucraina

Trump: “La Russia non intende distruggere Kiev, se avesse voluto, l'avrebbe già fatto. La Russia è in grado di spazzare via al 100% le città ucraine, compresa Kiev, ma al momento sta attaccando solo al 20%.”

I fatti: non ci sono indicazioni che la Russia abbia accumulato armi o trattenuto le sue capacità militari nella lotta. Anzi, in base alle informazioni a disposizione, la Russia ha scatenato tutta la sua forza militare, compresi missili e artiglieria a lungo raggio, sulle città ucraine, causando una distruzione diffusa, in particolare nella parte orientale.

Mentre le sue scorte diminuivano, Mosca ha fatto ricorso ai missili nordcoreani che continuano a colpire le città ucraine. 

La Russia vuole fermare la guerra

Trump: “Beh, molto più fiduciosi [sui colloqui]. Sono stati molto buoni. La Russia vuole fare qualcosa. Vogliono fermare la barbarie selvaggia”.

I fatti: i funzionari russi, compreso il presidente Vladimir Putin, hanno ripetutamente dichiarato che non fermeranno i combattimenti in Ucraina finché tutti gli obiettivi di Mosca non saranno raggiunti, sia attraverso la diplomazia che con la forza militare.

Putin ha già chiesto la “demilitarizzazione dell'Ucraina” e ha detto di volere il pieno controllo di quattro regioni dell'Ucraina orientale e meridionale – Donetsk, Kherson, Zaporizhzhia e Luhansk – che la Russia attualmente occupa in parte.

Secondo quattro funzionari dell'intelligence occidentale e due funzionari del Congresso degli Stati Uniti, le informazioni provenienti dagli Stati Uniti e dai paesi alleati, citate martedì dai media statunitensi, suggeriscono che Putin vuole ancora controllare tutta l'Ucraina.

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Quello di Donald Trump non è isolazionismo, è ‘mafia imperialism’

Nell’arco del primo mese della sua presidenza, Donald Trump sta distruggendo l’ordine legale internazionale che resisteva dal termine della seconda guerra mondiale: ha unilateralmente deciso di trattare con la Russia in merito all’invasione dell’Ucraina, ha parlato della necessità di costruire una “riviera di lusso” nella Striscia di Gaza, senza che i palestinesi possano più rivendicare alcun diritto sulla terra, ha cercato di acquistare la Groenlandia e di riottenere l’autorità sul Canale di Panama, ha minacciato dazi a Canada e Messico, ha chiesto ai paesi europei di alzare considerevolmente la loro spesa militare fino al 5% del PIL, ben più del 2% che l’Alleanza atlantica ha sempre richiesto.

Queste mosse generano ansia nei suoi alleati storici, che non vedono più negli Stati Uniti i garanti dell’ordine mondiale. Questo non implica però, come alcuni dicono, che Trump sia un presidente isolazionista, dato che interviene, anche in maniera estremamente muscolare, nelle vicende globali. Un intervento, però, non atto a garantire stabilità e legalità dell’ordine, ma a ottenere terre e risorse: un imperialismo sfruttatore di marca ottocentesca, in cui le nazioni più ricche potevano rubare risorse a quelle più povere in nome di una forza superiore. Mike Galsworthy, co-fondatore di Scientists for EU e Healthier IN the EU, lo ha definito 'mafia imperialism'.

Trump wants to land-grab in Ukraine— — just like Greenland, Gaza, Canada, Panama. He wants to grab other people’s land and natural resources all under the guise of “protection” and “development” of “the west” under his care. It’s pure mafia imperialism.

— Mike Galsworthy (@mikegalsworthy.bsky.social) 19 febbraio 2025 alle ore 07:43

L’ordine mondiale ereditato da Trump non era perfetto, ma aveva un vantaggio: le regole erano chiare. Tra queste, la principale riguardava il fatto che ogni paese rispettava la sovranità di tutti gli altri, e non avrebbe più tentato di acquisire territori per mezzo della forza: questo è il motivo per cui, dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, la Russia è stata velocemente allontanata dalla comunità internazionale e i maggiori paesi occidentali hanno approvato diversi pacchetti di sanzioni. Gli Stati Uniti, però, cercano oggi di riconsiderare quest’ordine, in virtù del fatto che si sentono i padroni assoluti dell’emisfero occidentale. Gli alleati, dopo decenni di affidamento sugli Stati Uniti nella gestione della difesa, si ritrovano soli e isolati: questo porterà necessariamente a nuovi tentativi di alleanze e al tentativo di rinforzare quelle già esistenti non a guida americana. 

Durante i discorsi del leader statunitense, è chiaro il tentativo di porre una grande attenzione sull’emisfero occidentale, un focus che ricorda da vicino la dottrina Monroe, posizione politica del quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, che affermava la padronanza statunitense sugli affari del continente americano. Monroe se la prendeva con le potenze europee, che cercavano di colonizzare terre che secondo gli Stati Uniti appartenevano alla loro sfera d’influenza, Trump principalmente con la Cina, che otterrebbe vantaggi commerciali dall’utilizzo del Canale di Panama e aggirerebbe i dazi statunitensi sulle automobili delocalizzando la propria produzione in Messico. Le direttrici entro cui si muove Trump nel riprioritizzare il continente americano sono due: da un lato attacchi in senso imperialistico, dall’altro la ricerca di una guerra commerciale.

A subire gli attacchi imperialistici sono principalmente Panama, paese indipendente dal 1903 e sul cui territorio è presente l’omonimo Canale, e la Groenlandia, regione artica oggi parte della Danimarca, che Trump vorrebbe acquistare sin dal suo primo mandato, ricevendo sempre dinieghi da Copenhagen. La tensione tra Trump e il presidente panamense Mulino si è alzata esponenzialmente durante queste settimane, col primo che rivorrebbe il controllo del Canale, ceduto dagli Stati Uniti nel 1977 e controllato da un’autorità del governo di Panama. Il Presidente americano li ha accusati di aver fatto sì che la Cina arrivasse a controllare l’Autorità che governa il canale, e per questo rivorrebbe una guida americana: non ci sono, però, prove che il governo cinese eserciti alcun tipo di controllo, nonostante negli anni ha molto investito in porti e terminal intorno al Canale, dato che le sue navi contano per il 21,4 per cento del traffico dell’area. 

Se Trump ha addotto una scusa per quanto concerne la questione panamense, non ci ha nemmeno provato riguardo alla Groenlandia. Trump ha asserito che il controllo della regione artica garantirebbe agli Stati Uniti una maggiore “sicurezza economica”, ma il motivo per cui ne è ossessionato è la gran quantità di risorse che otterrebbe: nickel, ferro e terre rare sono presenti in gran quantità in Groenlandia, poco sfruttate da una comunità Inuit di 56.000 residenti. L’obiettivo trumpiano grazie a queste nuove materie prime sarebbe quello di poter raggiungere l’indipendenza energetica e poter produrre internamente sempre più semiconduttori, utili per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale: un vero e proprio imperialismo di sfruttamento. La Danimarca si è rifiutata di sedersi a un tavolo delle trattative e le comunità del luogo non sono state minimamente interpellate: emissari americani sono andati nella regione e hanno regalato ad alcuni residenti un centinaio di dollari, una mossa vista dai cittadini come un ingeneroso tentativo di comprare la loro volontà. Gli Inuit che abitano la Groenlandia vorrebbero da anni staccarsi dalla Danimarca, che li controlla con metodi coloniali dal 1721, ma chiedono l’indipendenza, non di essere venduti a una nuova potenza. L’interesse per la posizione degli abitanti da parte degli Stati Uniti è nullo, tanto che i repubblicani hanno presentato al Congresso una legge per rinominare la Groenlandia “Terra bianca, rossa e blu”. (In inglese, Greenland sta per “terra verde” ndr). Per di più, se gli Stati Uniti possono decidere di modificare la sovranità dei paesi vicini, allora crolla il caposaldo che ha tenuto insieme l’ordine legale in questi decenni: verrebbe infatti meno ogni rimostranza mossa alla Cina ogni qualvolta esprime la volontà di assediare e conquistare l’isola di Taiwan.

Con i paesi più grandi del Nord America, Canada e Messico, Trump ha invece adottato la tattica di minacciare una guerra commerciale. Ha imposto dazi del 25% su tutti i beni importati dai due paesi, per poi revocarli non appena entrambi hanno concesso al presidente statunitense più truppe per controllare i confini.

Nonostante questo, la tensione col Canada è rimasta altissima, tanto che Trump ha più volte scritto che vorrebbe un’annessione agli Stati Uniti come cinquantunesimo Stato. Una posizione ovviamente irricevibile, atta a esacerbare lo scontro: Trump ritiene che la bilancia commerciale col Canada penda a svantaggio degli Stati Uniti per 250 miliardi di dollari e che Trudeau non faccia niente per contrastare l’arrivo del fentanyl, droga sintetica a base di oppioidi, negli Stati Uniti. Due affermazioni tendenziose, in quanto i dati sulla bilancia commerciale non tengono conto del fatto che le condutture di gas canadese passano all’interno del territorio statunitense e che solo lo 0,2% del fentanyl arriva dal Canada.

La minaccia di dazi così alti è poi, per la maggior parte degli economisti, un problema: con paesi come Messico e Canada gli USA sono molto interdipendenti. Nel settore automotive, per fare un esempio, alcuni pezzi di autovetture attraversano il confine varie volte prima che il prodotto sia completato, e ogni passaggio dovrebbe essere sottoposto a dazio. Questo alzerebbe esponenzialmente il prezzo delle auto negli Stati Uniti, e ricadrebbe tutto sul consumatore finale. Nonostante questo, per Trump i dazi imposti agli amici non sono altro che un monito: ricordare loro che non sono né alleati né amici degli Usa, ma semplicemente dei partner di minor peso, le cui economie possono essere messe in crisi in ogni momento.

Anche il rapporto con l’Unione Europea sta evolvendo in questo senso. Gli Stati Uniti stanno apertamente sconfessando i pilastri su cui è stata costruita l’Alleanza atlantica, e hanno iniziato a richiedere ai paesi europei una spesa in difesa difficile da attuare per le economie dell’Unione. Se nel primo mandato la richiesta era quella di adeguarsi alla spesa del 2% in relazione al PIL, obiettivo raggiungibile, oggi la richiesta è quella di passare velocemente al 5%, provocando uno scontro.

Inoltre, il vicepresidente Vance, parlando alla Conferenza di Monaco, ha apertamente avallato i partiti di estrema destra: ha incontrato Alice Weidel, leader di Afd, partito suprematista che le altre forze politiche tedesche vorrebbero tenere lontano dalle posizioni di governo, e ha criticato le politiche migratorie, climatiche e legate ai diritti LGBT europee. In più, Vance ha attaccato frontalmente il Digital Service Act (DSA) dell’Unione Europea che, a suo dire, regolamenterebbe troppo il settore dell’intelligenza artificiale, su cui gli Stati Uniti hanno molte meno regole; anche la moderazione eccessiva dei contenuti che si farebbe nel continente è stata definita una “censura autoritaria”.

Oltre a questo, la principale minaccia americana alle economie dell’Unione è quella dei dazi: Trump ha asserito che con la UE vuole costruire un sistema di tariffe reciproche, per cui tutti i balzelli che un bene americano deve subire nei confronti di un paese verranno applicati a tutti i beni di quel paese in ingresso negli Stati Uniti. Nel breve termine questo farà salire l’inflazione, che infatti a gennaio è già tornata a sforare il 3%, nonostante le promesse dell’amministrazione, e aprirà a molteplici trattati bilaterali e a possibili esenzioni per i leader che si dimostrano più vicini agli americani. 

A questa situazione critica si aggiunge il voltafaccia nella questione ucraina. Dopo un mese dall’insediamento, gli USA si sono appiattiti sulle posizioni della Russia, confermato anche dal rifiuto statunitense di fare da co-sponsor a una risoluzione ONU di condanna per il terzo anno dell’invasione. Una delegazione americana ha incontrato per la prima volta dal 2022 una delegazione russa a Riad, e questo è il viatico per un bilaterale tra Trump e Putin nel prossimo futuro. Nel frattempo, il Presidente ha fatto proprie le posizioni di Mosca, riaffermando la propaganda putiniana: ha definito Zelensky un “dittatore non eletto” che possiede “solo il 4% di sostegno nel paese” (un dato falso, in quanto le ultime rilevazioni lo attestano sopra il 50 per cento) e sta impedendo a Ucraina e Unione Europea di sedersi ai tavoli delle trattative che ha aperto con Mosca.

La motivazione con cui non permette alla UE di condividere il tavolo degli accordi è pretestuosa: Trump ritiene che gli USA hanno speso molto più degli altri paesi nel sostegno all’Ucraina. Questo è però falso, perché i paesi europei avrebbero speso 132 miliardi in aiuti, contro i 114 statunitensi. Inoltre, ha chiesto a Kyiv, in cambio di una non precisata “prosecuzione degli aiuti”, che gli vengano ceduti i diritti sulla metà dei profitti legati all’estrazione di risorse naturali nel paese in perpetuo. Questa proposta è stata commentata dal noto economista Paul Krugman come “puro imperialismo sfruttatore ottocentesco”: una vera e propria razzia di risorse, che Zelensky si è rifiutato di concedere.

La questione ucraina ha agitato molti senatori repubblicani, più vicini alle posizioni classiche del Partito in politica estera: il senatore Tillis ha per esempio affermato che la responsabilità è solo in capo a Putin. La speranza di molti analisti era la persona che Trump aveva scelto come segretario di Stato: Marco Rubio, senatore della Florida, proveniente da famiglia di esuli cubani, sempre dichiaratosi contro ogni forma di dittatura e, tra le altre cose, uno dei principali sfidanti di Trump alle primarie del 2016. Come analizzato da Politico, però, Rubio non ha peso nelle scelte dell’amministrazione, viene utilizzato per dire ovvietà e sta sempre in disparte rispetto a Trump e Musk, che plasmano con comunicati e lanci social tutta la politica estera. Una figura che doveva essere di garanzia, trasformata in una voce spenta e che ripete blandamente le posizioni del presidente. 

L’altro scenario in cui Trump dice di aver “fatto finire la guerra” è il Medio Oriente, in cui dopo pochi giorni dal suo insediamento Israele e Hamas hanno acconsentito a un cessate il fuoco, negoziato per mesi dall’amministrazione Biden ma ottenuto solo dopo il cambio di inquilino a Pennsylvania Avenue.

Il piano su cosa sarà della Striscia, sempre che la tregua regga in queste settimane, è stato attaccato da tutti i leader dei paesi arabi e da gran parte della comunità internazionale, e Trump è stato da più voci accusato, tra cui da 350 rabbini statunitensi, di aver proposto una pulizia etnica: il leader americano ha apertamente parlato di una Riviera di lusso nella Striscia di Gaza, con grandi alberghi e casinò, su cui i palestinesi non avranno più alcun diritto. Anzi, i profughi dovrebbero essere accolti da Egitto e Giordania, che si sono smarcati. I leader arabi sono fermi su un punto: c’è bisogno di uno Stato palestinese riconosciuto da tutti, posizione che però non sembra realizzabile con queste amministrazioni negli Stati Uniti e in Israele.

Tutte queste mosse attaccano direttamente l’ordine legale internazionale, non riconoscono le sovranità statali che dovrebbero essere garantite dalle Nazioni Unite e sconfessano la visione globalista a guida americana che ha dominato nella seconda parte del Novecento. A ottenere dividendi da queste posizioni è quello che Trump definisce il rivale principale degli Stati Uniti in quest’epoca: la Cina.

Tra gli ordini esecutivi che hanno contraddistinto il primo mese di amministrazione Trump – di cui abbiamo parlato estesamente su Valigia Blu - c’è stato lo svuotamento dei fondi per molte agenzie federali: tra queste USAID, che si occupa di sviluppo internazionale. Molti progetti esteri e aiuti internazionali, compresi quelli legati alla prevenzione della diffusione di virus letali come l’HIV, sono stati bloccati.

Di contro, la Cina sta cercando di intervenire e garantire questi aiuti attraverso China Aid: più gli Stati Uniti recedono dalla loro funzione di perno economico mondiale, più è il soft power cinese a ricoprire le stesse posizioni, garantendo però a Pechino un’influenza sempre maggiore. Tra le agenzie a cui sono stati tolti i fondi, poi, c’è anche China Labor Watch, che aveva il compito di indagare sullo sfruttamento dei lavoratori in Cina. Oltre a ricostruire in senso autoritario il paese internamente, Trump sta rivoluzionando anche la proiezione estera degli Stati Uniti: non più alleati né difensori dell’ordine, ma un mondo fatto di competitor a cui bisogna strappare accordi favorevoli, il tutto cercando di ottenere risorse dai paesi più deboli.

Tutto questo sta generando ansia e il tentativo di disallineamento dalle posizioni americane da parte di attori più o meno grandi, tra cui l’Unione Europea: sul breve termine, è la Cina a presentarsi di fronte alla comunità internazionale come una potenza responsabile, leader nelle rinnovabili e nell’aiuto umanitario, mentre gli Stati Uniti stanno diventando i distruttori dell’ordine che hanno contribuito a creare ottant’anni fa. Come ha scritto sull’Atlantic Anne Applebaum, “è il momento di riconoscere il cambiamento che stiamo vivendo, e dobbiamo trovare nuovi modi di vivere nel mondo che degli Stati Uniti diversi dal passato stanno contribuendo a creare”.

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Cosa possiamo aspettarci da un asse Putin-Trump

La conversazione telefonica tra Donald Trump e Vladimir Putin, avvenuta il 12 febbraio, ha aperto una nuova stagione nelle relazioni russo-americane, suggellata dall’incontro delle delegazioni dei due paesi il 18 febbraio a Riyad, in Arabia Saudita, dove il primo round di colloqui (senza la presenza di esponenti ucraini) è stato ritenuto soddisfacente dalle parti. Trova così conferma la posizione di un settore dell’establishment russo, che aveva visto nella rielezione di Trump un'opportunità per riaprire un canale di dialogo tra i due paesi, dopo anni di relazioni tese e sanzioni sempre più stringenti.

Tuttavia, a differenza del 2016, quando la vittoria di Trump aveva scatenato una vera e propria "trump-mania" in alcuni settori della politica e della società russa, questa volta le reazioni iniziali son state più tiepide, per poi diventare, nel corso dei sei giorni trascorsi, entusiaste, condizionate principalmente dal giudizio del presidente russo, apparso più che soddisfatto dalla conversazione con l’omologo statunitense e dai primi risultati del vertice saudita.

La diffidenza nei confronti delle dichiarazioni dell’entourage presidenziale statunitense, soprattutto all’interno del Ministero degli Esteri della Federazione Russa, dove prevaleva prudenza nel giudicare le prime mosse dell’amministrazione Trump, è stata sostituita dall’ebbrezza dovuta alle dichiarazioni del leader statunitense, che ha attaccato violentemente Volodymyr Zelensky, definito un “dittatore” responsabile della guerra in Ucraina, un comico fallito e altre amenità. Parole persino più forti di quanto detto e scritto dalla propaganda russa in questi anni.

La telefonata tra Putin e Trump: una corrispondenza d’amorosi sensi?

Putin, da parte sua, ha adottato una precisa strategia, inviando segnali mirati verso Washington, tra cui il recente scambio di prigionieri avvenuto poco prima della telefonata. L’operazione ha visto la liberazione dell’insegnante americano Marc Fogel, condannato a 14 anni di detenzione per possesso di marijuana, in cambio di Aleksandr Vinnik, fondatore della borsa di criptovalute BTC, estradato dalla Grecia negli Stati Uniti nel 2022. La scelta di Fogel non è stata casuale: Trump era stato sollecitato direttamente sul caso dalla madre del docente poco prima del comizio di Butler, durante il quale era rimasto ferito da un cecchino. Questo dettaglio ha conferito una valenza simbolica ancora più forte alla liberazione, permettendo a Trump di capitalizzare immediatamente sul piano politico la promessa di intervenire per la liberazione del cittadino americano detenuto in Russia. Un primo successo per la sua diplomazia personale, ottenuto senza eccessivo sforzo grazie alla collaborazione di Putin (d’altronde, arrestare qualcuno e poi rilasciarlo non richiede un grande sforzo da parte del Cremlino). Questo episodio ha inoltre permesso di ufficializzare i contatti e le conversazioni informali che si erano intensificati nelle settimane precedenti tra le due amministrazioni.

Se per Trump questo gesto rappresenta un passo iniziale fortunato in un percorso negoziale che si preannuncia complesso e irto di ostacoli, per Putin la tanto attesa telefonata giunge in un momento in cui ritiene di trovarsi in una posizione di vantaggio. La prospettiva russa è chiara: se i negoziati dovessero decollare, Mosca potrebbe cercare di ottenere concessioni significative; se invece fallissero o non prendessero mai realmente avvio, la situazione attuale costituisce già un successo per il Cremlino. Le dinamiche sul campo di battaglia confermano questa percezione: nel sud-est dell’Ucraina l’esercito russo, tra difficoltà, avanza lentamente ma con costanza, mentre Kyiv affronta problemi sempre più urgenti, dalla carenza di uomini da inviare al fronte all’incertezza sui rifornimenti militari occidentali. Le polemiche di Trump sul sostegno finanziario e militare garantito dall’amministrazione Biden all’Ucraina, unite ai segnali lanciati nelle prime settimane della sua presidenza, rafforzano l’impressione, a Mosca, che un ridimensionamento dell’impegno americano possa tradursi in vantaggi strategici per la Russia, in termini di minore pressione militare e difficoltà logistiche per Kyiv.

Le rivendicazioni di Putin restano sostanzialmente invariate rispetto agli ultimi anni: lo status dell’Ucraina come paese non solo neutrale, ma sottoposto all'influenza russa diretta; il cambio ai vertici della leadership di Kyiv, una posizione che trova un’eco, seppur indiretta, nelle dichiarazioni di Trump sulla necessità di elezioni presidenziali in Ucraina quanto prima possibile; e infine il riconoscimento de facto dell’occupazione russa del sud-est ucraino. Questi punti, tuttavia, vanno ben oltre un semplice compromesso diplomatico e rappresentano richieste che, se accettate, equivarrebbero a una vittoria completa per il Cremlino.

Al di là dell’Ucraina, un altro elemento significativo per Putin della conversazione tra i due leader è stato il Medio Oriente, con particolare riferimento ai rapporti con Teheran, con cui Mosca potrebbe svolgere un ruolo d’intermediazione. Il solo fatto che Trump abbia discusso di queste tematiche con Putin conferma, agli occhi del Cremlino, il riconoscimento della Russia come attore imprescindibile in scenari di crisi globali. In questo contesto, le reazioni europee alla telefonata hanno fornito ulteriori spunti di riflessione per Mosca: lo spaesamento evidente dei leader del Vecchio Continente, la contrarietà non troppo velata di esponenti della Commissione Europea come Kaja Kallas, le critiche del ministro tedesco della Difesa Boris Pistorius e le dichiarazioni di Ursula von der Leyen alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dove ha ribadito la necessità di ottenere la pace attraverso la forza, hanno evidenziato le profonde divisioni interne all’Occidente. 

Anche l’estromissione, forse temporanea, di Keith Kellogg, rappresentante speciale di Trump per l’Ucraina, dal team di contatto con i russi, è stata interpretata come un segnale favorevole a Mosca, data la nota ostilità dell’ex militare nei confronti del Cremlino. E a essere ottimisti sono anche alcuni esponenti dell’establishment russo: l’ex presidente Dmitry Medvedev, noto per le sue posizioni oltranziste, in questo caso ha sottolineato come

la conversazione tra i presidenti di Russia e Stati Uniti è di per sé un evento di grande importanza. La precedente amministrazione statunitense aveva interrotto tutti i contatti ai massimi livelli, con l'obiettivo di punire e umiliare la Russia. Il risultato è stato che il mondo è stato sull’orlo dell’apocalisse.

Il presidente della commissione Affari Esteri della Duma Leonid Slutsky ha invece evidenziato “la rottura dell’isolamento imposto dall’Occidente” per poi lasciarsi a considerazioni sul “ruolo delle personalità nella storia”. Significative anche le reazioni dei canali Telegram di orientamento ultranazionalista e di sostegno alla guerra, gestiti dai cosiddetti Z-aktivisty e voenkory (gli attivisti nazionalisti presenti al fronte come blogger e corrispondenti). Rybar, tra i più letti, ha scritto commentando la conversazione tra Trump e Putin: “quanto accaduto si distingue nettamente rispetto agli ultimi anni, durante i quali la posizione ufficiale dell’Occidente collettivo si riassumeva nel principio ‘niente sull'Ucraina senza l'Ucraina’. Come si può notare, ora ci si è dimenticati di quel principio”. Nel commentare le dichiarazioni alla stampa del presidente americano dopo la telefonata, addirittura Vladimir Solovyov, il noto presentatore televisivo e propagandista, ha contato quante parole siano state utilizzate dalle fonti statunitensi per descrivere le conversazioni con Putin e Zelensky: 315 a fronte di 107, per poi aggiungere “balza agli occhi la differenza di accenti, è evidente la differenza con cui si relaziona la Casa Bianca”.

Il vertice di Riyad, il ruolo di Kirill Dmitriev e l’ottimismo di Putin

Non è affatto casuale che sia stato scelta l’Arabia Saudita come prima sede degli incontri ufficiali tra le delegazioni russa e americana. Le buone relazioni tra il paese e gli Stati Uniti rappresentano un pilastro fondamentale della politica estera di Riyad, così come il sostegno militare garantito da Washington continua a rivestire un ruolo determinante nella sicurezza del regno. Allo stesso tempo, negli ultimi anni, i legami con la Russia si sono notevolmente rafforzati, nonostante un passato segnato da tensioni, in particolare durante gli anni Novanta e Duemila, quando l’Arabia Saudita sostenne l’ala islamista nei conflitti in Cecenia e nel Daghestan.

Un momento chiave di questo riavvicinamento si ebbe nell’ottobre del 2017, con la prima visita ufficiale di un monarca saudita a Mosca: il re Salman si presentò accompagnato da una delegazione imponente di oltre mille persone, tra funzionari, diplomatici e membri della famiglia reale. La visita non passò inosservata, tra mostre, ricevimenti, apertura di nuovi progetti d’investimento, promesse reciproche e la capitale russa bloccata da immensi codazzi di limousine e imponenti misure di sicurezza. Quella dimostrazione di potere e ricchezza era la manifestazione plastica di un interesse reciproco solido, fondato su obiettivi economici condivisi tra due grandi produttori di petrolio e gas.

L’Arabia Saudita, inoltre, è stata ripetutamente invitata a entrare nei BRICS e, secondo le previsioni, sarebbe dovuta diventare membro a pieno titolo nel 2024. Tuttavia, ciò non è avvenuto, in parte per via dei rapporti strategici che il regno continua a mantenere con Washington, il cui peso resta determinante nelle scelte di politica internazionale saudita.

Infine, il ruolo dell’Arabia Saudita nello scacchiere geopolitico è stato recentemente evocato anche da Donald Trump, che ha fatto appello a Riyad a lavorare ad un incremento della produzione petrolifera al fine di abbassare il prezzo del greggio. Questo riferimento, inserito nel contesto più ampio dei negoziati per la pace in Ucraina, suona come un messaggio chiaro rivolto a Mosca: un aumento delle estrazioni saudite—sebbene al momento un’ipotesi poco probabile—potrebbe compromettere seriamente i meccanismi alternativi con cui la Russia riesce a vendere il proprio petrolio e gas eludendo le sanzioni. 

Uno scenario simile rappresenterebbe un colpo significativo per l’economia russa e per le strategie messe in atto dal Cremlino per aggirare le restrizioni imposte dall’Occidente. Non a caso, nella delegazione russa giunta nella capitale saudita vi era anche Kirill Dmitriev, a capo del Fondo sovrano d’investimenti diretti, l’RFPI: nativo di Kyiv, Dmitriev negli anni Novanta ha studiato a Stanford e Harvard, e ha lavorato alla Goldman Sachs e alla Kinsley. A Mosca Dmitriev si è trasferito nel 2000, lavorando per altre compagnie statunitensi tra cui la Delta Private Equity e dopo una parentesi in Ucraina come direttore della Icon Private Equity nel 2007, è stato nominato a capo dell’appena formato fondo sovrano russo tre anni dopo.

La nomina è stata resa possibile, secondo quanto ricostruito dal media indipendente Vazhnye istorii, dai rapporti d’amicizia tra la moglie di Dmitriev, Natalia Popova, e Katerina Tikhonova, figlia di Vladimir Putin, al vertice della compagnia Innopraktika. Già nel 2013 il direttore dell’RFPI si era distinto come tramite tra il principe saudita Bandar bin Sultan, all’epoca a capo dell’intelligence del paese, e il Cremlino, facendosi latore di una proposta di investimenti da parte di Riyad in cambio del ritiro del sostegno russo al regime di Bashar al Assad in Siria e all’Iran, senza però ottenere alcun risultato. La rete di relazioni di Dmitriev è estesa dagli Stati Uniti ai paesi arabi fino alla Cina, e in alcune circostanze è stato l’intervento dell’amico della famiglia Putin a risolvere casi delicati, come l’arresto e la condanna di Michael Calvey, fondatore della Baring Vostok Capital Partners, tra le più importanti compagnie private d’investimenti in Russia, liberato dai domiciliari e scagionato dalle accuse grazie a Dmitriev.

Il nome del manager russo di Stato figura anche nel rapporto di Robert Mueller sui legami tra Donald Trump e le autorità russe durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2016: le indagini hanno stabilito che pochi giorni prima dell’inaugurazione del primo mandato del tycoon, Dmitriev si è incontrato con Erik Prince, fondatore della compagnia privata di contractors Blackwater, alle isole Seychelles. Sempre nell’inverno del 2017, durante il forum di Davos, l’esponente russo ha avuto un incontro con Anthony Scaramucci, allora consigliere di Trump per l’impresa.

L’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff, commentando alla stampa il rilascio di Marc Fogel, ha attribuito i meriti a un “gentiluomo di nome Kirill”, riferimento chiaro al direttore del fondo russo d’investimenti, candidato ad essere una figura cruciale nel corso dei negoziati tra le due potenze. Poco prima dell’inizio dell’incontro di Riyad, Dmitriev ha rilasciato una dichiarazione alla stampa in merito alle prospettive future delle relazioni economiche tra Russia e Stati Uniti, sottolineando la necessità di sviluppare iniziative congiunte in diversi ambiti strategici. “Dobbiamo realizzare progetti congiunti, ad esempio, nell'Artico e in altri settori; iniziative comuni ci consentiranno di avere maggior successo”, ha affermato, lasciando intendere che i colloqui tra le due potenze non siano limitati alla guerra in Ucraina, ma abbiano l’intenzione di affrontare una più ampia dimensione economica e geopolitica a livello globale.

Le parole del manager sembrerebbero suggerire che Mosca stia cercando di posizionarsi come un partner commerciale e industriale potenzialmente appetibile per Washington, offrendo nuove opportunità di investimento in settori strategici. In particolare, il riferimento all’Artico appare significativo: la regione, oltre a rappresentare una riserva cruciale di risorse naturali, è anche un teatro di crescente competizione internazionale, con implicazioni economiche, ambientali e militari. L’idea di una cooperazione russo-americana in un’area così sensibile sembra quindi avere una duplice funzione: da un lato, proporre un terreno di dialogo economico che vada oltre le tensioni politiche; dall’altro, rivolgersi a interlocutori specifici, come Donald Trump, noto per il suo interesse verso le opportunità di sfruttamento delle risorse naturali e per una visione delle relazioni internazionali basata sugli interessi economici come riferimento principale.

In questo contesto, l’apertura della Russia a progetti congiunti può essere letta come un tentativo di Mosca di provare a superare anche la politica delle sanzioni (della cui revoca si discute negli incontri) attraverso il coinvolgimento di attori economici statunitensi, cercando di alimentare dinamiche di “business as usual” che possano, nel tempo, tradursi in una maggiore influenza diplomatica e in una possibile rimodulazione dei rapporti bilaterali.

Vladimir Putin ha commentato i lavori del vertice russo-americano all’indomani, il 19 febbraio: d’ottimo umore, il presidente russo ha sottolineato come al centro del summit vi siano stati anche temi quali la collaborazione nello spazio e in Medio Oriente, per poi fornire una valutazione ottimista delle prospettive future. “Il lavoro continua e le prospettive sono buone, questo è stato oggetto di discussione e analisi durante l'incontro a Riyad” ha poi aggiunto Putin “il cui esito è stato valutato positivamente. In generale, da quanto mi è stato riferito, il vertice si è svolto in un clima molto cordiale, secondo i nostri partecipanti la delegazione americana era composta da interlocutori completamente diversi rispetto al passato: aperti a negoziati, privi di pregiudizi e senza alcuna intenzione di condannare ciò che è stato fatto in passato. Almeno nei contatti bilaterali non vi è stata alcuna traccia di tali atteggiamenti, anzi, i rappresentanti statunitensi si sono mostrati disponibili e orientati alla collaborazione”.

Tuttavia, al di là delle convergenze, delle tattiche e delle percezioni di vantaggio, permangono nodi che sembrano difficilmente risolvibili. Le mosse della Casa Bianca di queste ultime settimane fanno intravedere, come durante la campagna per le presidenziali, la volontà di riconsiderare il sostegno militare all'Ucraina e un riassetto delle priorità strategiche più in linea con gli obiettivi di Putin. Tuttavia la completa accettazione delle condizioni poste da quest'ultimo appare un passo fin troppo rischioso. Il Cremlino continua a insistere sulla sua visione dell’Ucraina come zona soggetta all’influenza russa, Trump ha provato a far accettare a Zelensky molto più di un "rimborso" per i rifornimenti militari e gli aiuti inviati.

La partita, quindi, è ancora aperta. I primi contatti formali, salutati entusiasticamente in Russia e negli Stati Uniti dai sostenitori di Putin e Trump, hanno gettato le basi per un processo di trattative ad ampio raggio, ma finora è difficile immaginare una trattativa per una pace giusta e duratura che tenga conto di cosa vuole Kyiv. Intanto, paesi come Germania e Francia stanno valutando di inviare le proprie truppe sul territorio ucraino come "forza rassicurante".

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

Giacomo Matteotti e l’attualità del suo impegno antifascista

Pubblichiamo un estratto dal libro "Matteotti. Dieci vite" (Neri Pozza) di Vittorio Zincone.

Li ha visti arrivare. Prima degli altri, più degli altri. Diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime, Giacomo Matteotti percepisce l’avvento di una dittatura. Lancia l’allarme. Cerca di impedire l’ascesa di Mussolini e il consolidarsi del governo del Duce. Muore il 10 giugno 1924, rapito e accoltellato da un commando della cosiddetta Ceka fascista.

(…)

Ma chi era Giacomo Matteotti, martire della democrazia e icona della più tenace opposizione al fascismo? Figlio ricco del poverissimo Polesine, socialista riformista, giurista brillante, sindacalista energico, neutralista-pacifista, anti-retorico, anti-populista e molto coerente nei comportamenti. Marito assente, ma presentissimo. I quotidiani ostili oggi scriverebbero di lui: «il socialista impellicciato». Ed è esattamente quello che scrivevano i suoi detrattori negli anni Venti del Novecento. A dimostrazione (e non è l’unica similitudine) che alcuni vizi della politica, della propaganda e dell’informazione hanno radici profonde almeno cento anni. La sua storia è quella di un uomo, di un leader politico, che ha visto avanzare il fascismo centimetro dopo centimetro. È la storia di allarmi lanciati e rimasti inascoltati. La storia di una resa, quella dell’Italia e della sua classe dirigente, nelle mani di Mussolini.

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Matteotti era un socialista riformista. Gradualista, ma radicale e intransigente. Nulla a che vedere con l’accezione che spesso si dà oggi del riformismo, come declinazione sbiadita del moderatismo o del compromesso al ribasso.

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Non subì mai il fascino della dittatura del proletariato. Anzi. Persino nell’utilizzo degli scioperi sosteneva che ci si dovesse limitare. Era convinto che prendere il potere con le armi fosse cosa facile, ma allo stesso tempo inutile, perché poi la difficoltà più grande era sempre quella di costruire il socialismo dentro le persone: lo spirito socialista, la cultura socialista, mai disgiunta, come per tutti i riformisti, da quella liberale. Di qui l’attenzione alla scuola, continua e incessante, come momento primo di educazione necessaria e pilastro democratico per edificare l’emancipazione dei singoli. Di qui la difesa dello Stato di diritto e di tutte le libertà costituzionali: di espressione, di stampa, di riunione. Di qui la necessità di costruire un fisco che colpisse chi aveva di più e non solo chi era più raggiungibile; e di organizzare un’amministrazione pubblica efficiente, per ridurre gli sprechi e per difendere il bene comune, anche a costo di essere pedanti e troppo puntigliosi.

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Matteotti ha attraversato sulle barricate il passaggio delicatissimo dall’Italia liberale dei notabili a quella dei partiti di massa. Vide crescere la violenza dei fascisti nelle sue terre. Fu uno dei primi a comprendere la natura predatoria delle squadracce nere, il loro legame con gli interessi economici locali e l’immobilismo, o peggio la collusione, degli apparati dello Stato. E poi l’evoluzione sempre più aggressiva del fascismo, con l’attacco alle amministrazioni, la presa del potere, lo svuotamento delle prerogative del Parlamento per mezzo di un eccesso di decretazioni. Fu anche uno dei primi a parlare di dittatura e a denunciare alla Camera i crimini di Mussolini. E non parliamo, ovviamente, delle oscene leggi razziali o della partecipazione disastrosa alla Seconda guerra mondiale, perché quelle arrivarono con Matteotti già morto da più di un decennio. Parliamo della fine della democrazia sotto i colpi dei manganelli, dell’illegalità imperante, della stretta assillante alla libertà di espressione, dei soprusi e dello svuotamento delle istituzioni. Matteotti denunciò tutto a Montecitorio. Le sue denunce restarono inascoltate, colpevolmente inascoltate, caddero nel vuoto e nel silenzio di una classe dirigente liberale che sperava ingenuamente di ammansire il Duce.

Matteotti pagò tutto. Nel marzo del 1921 venne rapito, picchiato e abbandonato in un campo. Volevano umiliarlo anche per interrompere la sintonia creata negli anni con le masse proletarie. I fascisti gli imposero il «bando». Cioè, malgrado fosse un deputato del Regno, non poté più circo- lare nella provincia dove era stato eletto, dove risiedeva e dove si trovavano la sua casa e la sua famiglia. Tutto questo nell’indifferenza (o nell’impotenza) delle forze dell’ordine. Tutto questo mentre in Parlamento i fascisti in pratica non avevano rappresentanza (i primi trentacinque deputati fascisti ufficiali sono eletti nel maggio del 1921). Negli anni successivi subì altre aggressioni. Non si fermò mai.

Nel denunciare le violenze fasciste e le complicità governative arrivò a ipotizzare una ritorsione forte da parte dei proletari socialisti. Soprattutto nel corso dell’anno 1921, cioè prima della Marcia su Roma e prima dell’incarico di governo a Mussolini, cercò di smuovere le coscienze della vecchia maggioranza liberale, minacciando una reazione delle masse contro i soprusi fascisti. Ma forse sapeva che questa reazione non ci sarebbe stata.

E sapeva anche che nel rapporto con la violenza, il socialismo, soprattutto quello massimalista, si era sempre trovato nella peggiore posizione possibile: quella di chi predicava la necessità della violenza rivoluzionaria e poi non la praticava, se non in modo confuso, sporadico, non strategico, quindi senza una reale capacità di ribaltare il tavolo o almeno di contrastare le azioni delle milizie fasciste. Così facendo anzi, i socialisti legittimavano le manganellate nere di fronte alla classe dirigente liberale: il pericolo delle piccole violenze socialiste che annunciavano la grande rivoluzione rossa fece preferire all’establishment italiano la grande violenza fascista che almeno era al servizio degli industriali e dei proprietari terrieri, e che ristabiliva un ordine apparente.

Matteotti era perfettamente consapevole di questo meccanismo e per questo, dopo l’ascesa di Mussolini alla Presidenza del Consiglio, scrisse un volumetto per denunciare l’ondata di brutalità delle camicie nere e per smascherare sia le false promesse economiche del Duce sia il mito del fascismo come salvatore della patria dalla minaccia barbarica dei bolscevichi. Mito che, purtroppo, era stato comodamente sposato dal re, dal papa e dalla classe dirigente liberale.

Inoltre, proprio per spezzare i legami con Mussolini di tutti quelli che avevano creduto alle sue favole, lavorò incessantemente alla costruzione di un fronte larghissimo antifascista, che comprendesse anche i cattolici del Partito popolare di don Luigi Sturzo. L’operazione fallì.

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Come ha scritto lo storico Degl’Innocenti, «il mondo di Matteotti non c’è più. Ma proprio per questo quando compaiono similitudini e coincidenze significative, vanno valutate alla luce del “respiro profondo della storia”». Le ingiustizie sociali procedono con costanza, la corruzione e i conflitti d’interesse navigano indisturbati, le pulsioni securitarie riaffiorano (in forma quasi grottesca, ma riaffiorano), i tentativi di accentramento del potere si fanno sempre più concreti.

Quindi, dicevamo, «avercene» di Matteotti!

Nell’Italia dei nostri tempi, con politici, ministri e sottosegretari che più o meno nascostamente, usano spesso la politica anche per migliorare la propria condizione economica e i propri affari, per trovare case o accumulare benefit e prebende a cui i comuni cittadini non hanno accesso, quanto sarebbe concretamente e simbolicamente importante un segretario di partito o un parlamentare che fa l’opposto come Matteotti?

Nell’Italia dei rider col cubo sulle spalle, dei clandestini che lavorano la terra come schiavi, degli stipendi che sembrano mance, dei servizi sociali e pubblici che arrancano... quanto sarebbe salutare avere un politico capace di leggere i bilanci dello Stato e delle aziende, preparato e pronto a difendere il potere d’acquisto del salario, che invece di arrendersi e dire «il pubblico non funziona quindi deleghiamo ai privati», rilanciasse, lottando perché il bene comune resti tale e venga gestito meglio?

In un Paese dove molti leader e molti politici twittano e retwittano tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore, dove si ascoltano strafalcioni immondi dai banchi dei deputati, dove la coerenza è un miraggio e la preparazione una chimera, quanto sarebbe tranquillizzante un deputato che non cambiasse idea a ogni tremolio dell’opinione pubblica, e che soprattutto tendesse a fare, in termini di leggi e di provvedimenti, quello che ha dichiarato ai suoi elettori e ai suoi lettori?

Sono domande che si è fatto anche Sergio Luzzatto, nella prefazione al volume Contro il fascismo, in cui sono pubblicati due importanti discorsi parlamentari di Matteotti (quello del 31 gennaio 1921 e quello del 30 maggio 1924).

Sono domande a cui non si può rispondere se non dicendo «sarebbe importante», «sarebbe salutare», «sarebbe tranquillizzante».

Eppure, nel porre queste domande, quasi banali, già si sente l’eco degli annoiati, dei sempre scettici, dei cinici del tanto meglio tanto peggio, dei senza speranza, di quelli per cui essere contro il populismo giustizialista e incompetente vuol dire sventolare il motto atroce «meglio lo Stato corrotto che lo Stato rotto».

Ecco, Matteotti lottava, e lo ha fatto fino all’ultimo giorno della sua vita, per uno Stato integro e sano. Era sia contro il populismo sia contro la corruzione, sia per il ri- spetto del diritto, sia per la soluzione concreta dei problemi dei cittadini, avendo sempre ben presente la meta di una trasformazione socialista del Paese.

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I tagli degli aiuti USAID voluti da Musk e l’impatto sull’informazione indipendente nel mondo

di: Andrea Braschayko (Valigia Blu), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna), Aleksandar Samardjiev (OBCT, Macedonia del Nord), Darko Kurić e Lorenzo Ferrari (OBCT Italia), Petr Jedlička (Denik Referendum, Repubblica Ceca), Gabriel Bejan (Hotnews, Romania), Emma Louise Stenholm (Føljeton, Danimarca)

Lo scorso 20 gennaio, l'amministrazione Trump ha annunciato la sospensione immediata di tutti i finanziamenti e delle operazioni dell'agenzia governativa USAID per 90 giorni, che potrebbe essere definitivamente smantellata, definita dal presidente americano come un’agenzia “incompetente e corrotta”.

USAID è in maniera innegabile anche uno strumento del soft power americano, ma l’atto di bullismo di Elon Musk e Trump verso essa decreta soprattutto l’interruzione di una fonte di sostegno finanziario fondamentale in diverse aree del mondo. La sua interruzione improvvisa, infatti, mette in pericolo milioni di vite.

Ad esempio, la decisione dell’amministrazione Trump di sospendere per 90 giorni i finanziamenti ai programmi di aiuti internazionali ha di fatto congelato il supporto umanitario degli Stati Uniti all’Ucraina. Molte ONG sono state costrette a interrompere le proprie attività, privando dell’assistenza necessaria civili sulla linea del fronte, sfollati interni e famiglie di soldati. USAID, principale fonte di aiuti per l’Ucraina con oltre 37 miliardi di dollari stanziati dal 2022, sosteneva anche gran parte dell’informazione indipendente del paese, lavorando con circa l’80% dei media ucraini secondo Oksana Romaniuk, direttrice dell'Institute of Mass Information (IMI).

Tra le altre cose, i fondi USAID sono stati infatti molto utili a finanziare il sistema mediatico sia in contesti di fragilità, come l’Ucraina, così come nei paesi dell’Unione Europea stessa. Sebbene i programmi per i media promossi dall’UE restino operativi, quest’ultima destina a questo settore una frazione minima del suo bilancio – che peraltro andrà rinegoziata nei prossimi mesi, in un contesto che già registra notevoli pressioni per ridurre il sostegno dell’UE alle organizzazioni della società civile.

Il giornale ucraino Bilopilshchyna, la pubblicazione cartacea più antica dell’oblast di Sumy, vicino al confine con la Russia, con 105 anni di storia, ha smesso di essere pubblicato solo due volte: “Tra il 1941 e il 1943, durante la Seconda guerra mondiale, e tra febbraio e aprile del 2022, quando la nostra zona era sotto assedio russo”, spiega Nataliia Kalinichenko, direttrice di questo giornale con sede nel comune di Bilopillya. 

Kalinichenko, che dirige anche l’Associazione Regionale dei Media di Sumy, racconta che, grazie ai fondi dell’USAID attraverso il programma Internews, ha permesso al suo piccolo giornale di lanciare un’ambiziosa rivista mensile di analisi in collaborazione con un altro media, Peremoga, della vicina Krasnopillya. L’hanno chiamata ‘Spilno-pillya’, un gioco di parole tra ‘Spilno’ (‘condiviso’ in ucraino) e il suffisso nella seconda parte del nome delle due città. Ora il progetto è a rischio per mancanza di finanziamenti. La situazione è ancora più critica per le testate digitali, come Cukr.

Se per i giornali locali e regionali ucraini la dipendenza dai finanziamenti internazionali è minore – a causa della complessità burocratica, spiega Kalinichenko – per alcuni media nazionali è fondamentale. Oksana Romaniuk, direttrice dell’Istituto per l’Informazione di Massa (IMI), stima che il 90% della stampa ucraina dipenda da sovvenzioni e che l’80% dei media del paese riceva finanziamenti da USAID. L’elenco dei media ucraini a rischio a causa dei tagli di USAID è lungo e include testate digitali come Ukrainska Pravda, Hromadske e Slidstvo.info, che hanno indagato su casi di corruzione e abusi di potere, anche durante la guerra.

Uno dei progetti più colpiti è il Media Programme for Ukraine, un’iniziativa finanziata da USAID e implementata da Internews Network dal 2018, con una durata prevista fino al 2025. Si tratta del maggiore investimento nel settore dei media in Ucraina, con un budget di 75 milioni di dollari. Il programma si è concentrato sulla lotta alla disinformazione nelle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina, promuovendo riforme nei media e ha rafforzato le istituzioni chiave che tutelano la libertà di stampa.

Il possibile ritorno degli oligarchi nei media

Nel 2022 l’Ucraina si trovava al 106º posto nel ranking mondiale sulla libertà di stampa di Reporters sans Frontières (97º prima dell’invasione). Nel 2024 è salita al 61º, superando paesi dell’UE come Grecia, Cipro e Ungheria. Senza risorse, i media indipendenti affrontano una minaccia esistenziale. Romaniuk ricorda che, in passato, il panorama mediatico ucraino era controllato da soli cinque oligarchi. “Qualcuno potrebbe approfittare della situazione per assumere il controllo dello spazio mediatico; spero sinceramente che non accada”, avverte.

Per decenni, i miliardi di dollari di USAID hanno avuto un ruolo cruciale nel contrasto a malattie, catastrofi o nella fornitura di acqua potabile. Gli Stati Uniti investivano oltre 40 miliardi di dollari l’anno nella lotta all’HIV, alla malaria, alla tubercolosi e nell’assistenza in caso di disastri nel mondo. 

La sospensione e il possibile smantellamento di USAID segnano la fine di 60 anni di una delle maggiori leve del cosiddetto soft power americano, che perseguiva la sicurezza nazionale attraverso l’attrazione e non la coercizione. 

“Quando riesci a far sì che gli altri ammirino i tuoi ideali e desiderino ciò che vuoi, non hai bisogno di spendere tanto in minacce e sanzioni per farli seguire il tuo esempio”, scriveva Joseph Nye in Soft Power. The Means to Success in World Politics nel 2004.

La storia dell’USAID

L’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti (USAID) fu fondata dal presidente John F. Kennedy con un ordine esecutivo nel 1961. “Non lo fece per puro spirito di carità, né perché negli Stati Uniti si avvertiva la responsabilità di combattere la fame nel mondo”, afferma Michael Crowley, corrispondente della Casa Bianca per il New York Times, in un recente podcast. 

Secondo Crowley, “era una questione di sicurezza nazionale”. Kennedy riteneva che “gli Stati Uniti dovessero dimostrare di non sfruttare il mondo, ma di preoccuparsi del suo benessere” e, in ultima analisi, “di essere preferiti rispetto all’Unione Sovietica”. 

Di conseguenza, gli Stati Uniti hanno fornito più aiuti esteri di qualsiasi altro paese, con un investimento di circa 60 miliardi di dollari nel 2023, pari all’1% del budget federale, secondo Associated Press. Ora, migliaia di organizzazioni nel mondo, tra cui centinaia di media indipendenti, rischiano la sopravvivenza. 

Sempre secondo Reporters sans Frontières, nel 2025 USAID avrebbe dovuto destinare 268 milioni di dollari (circa 241 milioni di euro) al finanziamento dei media in tutto il mondo.

Chi deve finanziare l’informazione?

Garantire la sostenibilità di un media in un piccolo paese come la Macedonia del Nord, con meno di 2 milioni di abitanti, è una sfida per editori e giornalisti. Aleksandar Manasiev, giornalista con oltre vent’anni di esperienza, racconta di aver assistito alla trasformazione portata da USAID nel panorama mediatico macedone, contribuendo a indagare corruzione, stato di diritto e diritti umani. 

“Ci vorrà tempo affinché queste piccole e coraggiose redazioni si riprendano, ma non ho dubbi che ce la faranno”, afferma Žaneta Trajkovska, direttrice dell’Istituto di Studi sulla Comunicazione. La misura colpisce anche altre ONG macedoni: secondo un’analisi di TV Telma, più di 72 milioni di dollari destinati a 22 progetti di USAID sono stati bloccati nel paese.

La sospensione dei fondi statunitensi ha innescato un acceso dibattito su chi debba finanziare l’informazione. Peter Erdelyi, direttore del Centro per i Media Sostenibili in Ungheria, sottolinea che il supporto pubblico non determina automaticamente la qualità dell’informazione. “Si può avere sostegno pubblico e fare giornalismo di interesse pubblico, o essere semplicemente strumenti di propaganda”, afferma. Secondo lui, il sostegno pubblico è spesso necessario per garantire la sopravvivenza di alcune forme di giornalismo. “L’alternativa è non avere affatto certi tipi di giornalismo”, conclude.

Erdelyi ritiene che, purtroppo, il modello di business del giornalismo sia cambiato radicalmente negli ultimi anni, al punto che il sostegno del settore pubblico è diventato indispensabile. “Molte forme di giornalismo sono semplicemente impossibili da realizzare in altro modo”, aggiunge. “E la questione non è se il supporto pubblico sia la soluzione ideale, perché non lo è”, puntualizza. “Ma l’alternativa è non avere affatto alcuni tipi di giornalismo”, conclude.

I media rappresentano solo la punta di un iceberg che sta scuotendo organizzazioni in tutto il mondo. In Romania, il programma nazionale di prevenzione del traffico di minori, dal valore di 10 milioni di dollari e finanziato dal governo statunitense, è stato anch’esso bloccato alla fine di gennaio, come confermato a HotNews da Mihaela Năbar, direttrice esecutiva di World Vision Romania, una delle organizzazioni coinvolte.

In Repubblica Ceca, il principale beneficiario degli aiuti statunitensi è la grande organizzazione non profit People in Need, attiva in programmi umanitari e di sviluppo, ma anche nella promozione della democrazia. Il suo budget annuale ammonta a 243 milioni di euro, di cui 68 milioni provenienti da sovvenzioni statunitensi. L’ultima tessera del domino a cadere è stata il Consiglio Danese per i Rifugiati, che ha annunciato di dover licenziare 2.000 dipendenti.

Per comprendere l’impatto di questa sospensione in Europa, basta guardare ai Balcani. Negli ultimi quattro anni, USAID ha destinato 1,7 miliardi di dollari ai Balcani Occidentali, di cui oltre 400 milioni solo alla Bosnia ed Erzegovina. Dal 1995 al 2024, gli Stati Uniti hanno investito circa due miliardi di dollari nel paese. Solo nel 2024, 40 milioni di dollari sono stati assegnati a un paese di circa tre milioni di abitanti. La brusca interruzione ha portato alcuni giornali a non poter pagare gli stipendi di febbraio o a rinunciare ai servizi di contabilità e supporto informatico. 

Le conseguenze a lungo termine sono ad ora imprevedibili, ma non potranno che essere disastrose: la distruzione del sistema mediatico iniziata da Musk con l’acquisizione di Twitter due anni fa, è entrata nella sua fase cruciale. E riguarda il mondo intero.

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito delle Reti tematiche di PULSE, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali

Immagine in anteprima: frame video YouTube via Five Minutes News