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Russia

Una riflessione su quale pace sia possibile tra Ucrania e Russia e sul ruolo dell’Europa

Quale pace per l’Ucraina? Quale ruolo per l’Europa?

Mentre il termine pace può avere tanti significati e vi si possono applicare innumerevoli aggettivi: giusta, ingiusta, parziale, armata, precaria, stabile, ecc., ecc., il termine guerra identifica invece un’unica realtà, quella del conflitto armato, che genera solo morti, devastazioni, ingiustizie; un dolore generalizzato che si trasferisce alle generazioni successive e genera ulteriori drammi, conflitti e guerre, con un orizzonte temporale potenzialmente infinito.

Ce ne accorgiamo ogni volta che si riaccendono antichi rancori tra popoli confinanti, ma tenuti separati e incattiviti l’uno contro l’altro da governanti senza scrupoli, o tra gruppi politico-religiosi da secoli in competizione per il controllo sociale dei loro territori.

La guerra è solo quella cosa lì: tragica, inequivocabile, disgustosa.

È inaccettabile che la si possa preferire a qualsiasi straccio di pace, così come non è corretto che di fronte alla possibilità di un accordo che faccia tacere le armi, si metta in campo la questione della giustizia.

Ha senso uccidere e morire per affermare ciò che sembra essere giusto?

Certo sarebbe ingiusto se l’Ucraina, soggiogata con la forza delle armi da un paese evidentemente molto più forte militarmente, dovesse rinunciare all’esercizio della propria sovranità su vasti territori e su risorse di grande valore, ma, chiediamoci: questa ingiustizia è confrontabile con quella associata alla morte in guerra di mezzo milione di ucraini e di altrettanti russi, entrambi innocenti, immolati sull’altare della patria dai loro rispettivi governi?

Se è evidente che non può essere giusto mandare a morire centinaia di migliaia di concittadini per aggredire un paese, può essere giusto, invece, dall’altra parte, mandarne altrettanti, ugualmente a morire, per difendere il paese aggredito?

C’è, nel Vangelo (Lc 14,31-33), un brano di grande intelligenza popolare che considera come un’eventualità assurda quella in cui un Re, vedendo il proprio paese aggredito da un nemico, non si preoccupi di sapere se le proprie forze sono sufficienti a fermarlo, e qualora non lo siano, non gli mandi un’ambasciata di pace.

Si tratta forse di una saggezza antica non più applicabile? Che succede nella modernità, le questioni di principio (come la sovranità di uno stato) sono forse diventate più importanti della vita di milioni di persone? In realtà, a giudicare da come sono state trattate negli ultimi decenni certe questioni geopolitiche non si direbbe proprio, vedi Iraq, Afghanistan, Palestina, Yemen, Ruanda, Libia, Siria, ecc., ecc., in cui i paesi leader del mondo si sono regolarmente disinteressati del principio di sovranità, invadendo, devastando i territori e rovesciando i governi regolarmente in carica, oppure hanno lasciato che i contendenti si scannassero tra loro, magari supportando sotto banco la guerra, inviando armi e insegnando ad usarle, all’una o all’altra delle parti combattenti.

Gli Stati non combattono per giustizia, ma per interesse

Giustizia è una bellissima parola, ma quando viene invocata per giustificare una guerra si tratta sempre di una giustizia a geometria variabile, tesa come un velo a mascherare appetiti che prima o poi emergono dall’opacità.

Proprio come accade adesso con Trump che, come un capo mafioso senza freni inibitori, dopo che gli USA hanno aiutato l’Ucraina a difendersi da Putin, reclama il pagamento del pizzo (leggi “terre rare”) prospettando come alternativa ricattatoria l’abbandono degli ucraini alle mire del presidente russo.

Nella logica della forza il prezzo da pagare è la vita degli innocenti

La pace per l’Ucraina non può che passare attraverso un negoziato in cui, come in tutti i negoziati internazionali, il più debole perde qualcosa in più rispetto all’altro contendente. Pensarla diversamente significa non conoscere la Storia e anche rinunciare ad utilizzare la ragione. Perseguire la “vittoria” dell’Ucraina significherebbe stare comunque nella logica della forza, cioè armarla e sostenerla finché essa possa vincere contro il gigante militare russo che, non dimentichiamolo, possiede circa 6000 bombe atomiche.

Quale sarebbe il prezzo di un tale risultato?  Quanti morti, quanta devastazione? Quanto si allargherebbe il conflitto in corso? E, alla fine, che cosa si otterrebbe? Un’Ucraina, vincitrice, da ricostruire e una Russia piegata, impoverita, e ulteriormente incattivita. Ammesso che un eventuale conflitto, che potrebbe essere atomico, lasci ancora qualcosa di umano sul campo di battaglia.

E l’Europa? Ripudia ancora la guerra?

E l’Unione europea, col suo deposito secolare di saggezza e di cultura democratica, nata per difendere la pace, che fa di fronte a questo possibile scenario?

A giudicare dalle ultime notizie da Bruxelles, a seguito degli Stati Uniti che si arroccano nella difesa dei propri interessi particolari a corto raggio, l’Unione non trova di meglio che chiedere agli stati membri di armarsi fino ai denti per contrastare la possibilità di ulteriori conflitti ai propri confini, naturalmente non senza conseguenze sulla spesa sociale, che poi è l’unica che, al di là degli annunci, può offrire ai cittadini europei la possibilità di una giustizia vera e concreta, non fatta di proclami, ma di sostanza.

La Storia dimostra che le armi sono, da un punto di vista puramente economico, una merce come le altre, prodotta da soggetti che guadagnano in base alle leggi del mercato e soggetta alle stesse regole della società dei consumi, per cui produrre più armi significa automaticamente doverne usare di più, e perciò non possono costituire un freno alla guerra. Dovrebbe essere chiaro ed evidente per tutti: più armi e più soldati da una parte della barricata significano più armi e più soldati dall’altra parte.

Riformare le organizzazioni internazionali

Se ora è Putin a far paura all’Europa, domani potrebbero essere gli Stati Uniti (le minacce di Trump alla Groenlandia non possono lasciarci indifferenti) o una qualsiasi delle altre potenze mondiali.

E allora? Come si fa? Posto che le armi, ovviamente, non possono portare la pace, sarebbe invece necessario concentrare tutti gli sforzi europei verso l’innalzamento degli standard interni ed esterni di democrazia, giustizia e benessere; internamente, tra i cittadini dei paesi membri ed esternamente, puntando a potenziare le relazioni positive con tutti i paesi partner commerciali e istituzionali.

Tra questi paesi deve essere necessariamente ri-compresa anche la Russia, che rimane ad oggi uno dei membri più importanti dell’ONU.

Ricordiamoci infatti che essa ha diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, insieme a Cina, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Un assurdo giuridico che sarebbe da eliminare quanto prima in quanto blocca le decisioni più importanti e riduce gli altri membri delle Nazioni Unite a dei soggetti inferiori.

La pace va cercata prima di tutto incrementando la democrazia interna, l’autorevolezza e il potere regolatorio dell’ONU e degli altri organismi internazionali per la pace, rinforzando il dialogo e la cooperazione internazionale e promuovendo corrette relazioni commerciali, con attenzione alle condizioni etiche e di sostenibilità ambientale dei siti di produzione.

Se Von der Leyen e compagni decidessero di ri-orientare la spesa in modo da incrementare la democrazia e la giustizia, dentro e fuori la UE, farebbero davvero il bene degli europei e del mondo intero, ma purtroppo le decisioni sembrano già prese e vanno in tutt’altra direzione. Se si vuole la pace, non rimane che protestare e operare per un urgente, repentino, cambio di rotta.

Arnaldo Scarpa (Copresidente Rete Warfree – Lìberu dae sa gherra, Portavoce Comitato Riconversione Rwm)

Altra versione:  “Vogliamo ancora più armi e più guerra?” su SULCIS IGLESIENTE OGGI, 16 marzo 2025 – n. 9

Redazione Sardigna

Quale Europa? Nostra patria è il mondo intero!

La fortezza Europa affila i denti (per il momento quelli da latte) e prepara robuste dentiere d’acciaio per i tempi a venire quando IL nemico per eccellenza (l’orso russo) l’assalirà per prenderla alla gola. Avanti allora con lo stanziamento ‘previsto’ di 800 miliardi di euro per l’industria delle armi – europee ma soprattutto statunitensi – avanti con il riarmo, con la reintroduzione della leva militare e soprattutto con la militarizzazione dell’intera società. Avanti verso la guerra: in fin dei conti è sempre con un bagno di sangue che le nazioni nascono, crescono e si consolidano. La storia degli Stati europei è lì a raccontarcelo. L’ultima della serie è stato il conflitto sanguinoso (ormai dimenticato) degli anni ’90 nella ex Repubblica federativa d’Jugoslavia e la conseguente nascita di tanti staterelli. Ora è la volta dell’Europa che se vuole dar vita ai fatidici Stati Uniti d’Europa deve percorrere la strada del sacrificio bellico, del sangue comune versato contro IL nemico: l’unico metodo per fare sentire veramente europei, nazionalisti europei, popoli attraversati e separati da secoli di conflitti, di contrapposizioni, di antagonismi. Il linguaggio delle armi è unico, comprensibile e praticabile da tutti.

Ormai la parola d’ordine dell’esercito europeo è sulla bocca di: media, intellettuali di prestigio, giornalisti d’eccellenza, politici di rango. In Europa e in Italia. Macron, che rispolvera di fatto addirittura i propositi della Nouvelle Droite, offre l’ombrello atomico insieme al laburista Starmer, il polacco Tusk afferma con sicumera che la guerra con la Russia è questione di poco, il tedesco Merz vuole a gran voce riarmo e bombe nucleari. Liberal-democratici, cristiano sociali, socialdemocratici tutti a braccetto a votare a Bruxelles per dare 800 miliardi alla famelica industria delle armi. In Italia è in scena il solito teatrino degli opportunismi tipico del ‘vorrei ma non posso’. La classe politica italiana deve fare i conti con un’opinione pubblica (quella vera, non quella interpretata dai media) che, in maggioranza, è contraria alla guerra e al riarmo, che non ama la burocrazia della UE, né Putin, né Trump. E vorrebbe piuttosto una sanità che funzioni, che aumentino i salari, che i servizi pubblici siano all’altezza della domanda sociale. Allora ecco le furbizie della Meloni che si barcamena tra Trump e la UE, il Partito Democratico con un piede in due scarpe e utilizza il voto sugli 800 miliardi per la resa dei conti interna, la Lega di Salvini che fa la voce grossa ma poi rimane nel governo che vota il riarmo.

E tutto questo in una cornice di retorica bellicista sparsa a piene mani da voci ‘autorevoli’ che richiamano i maschi italici all’orgoglio virile, allo spirito combattivo: tra poco arriveremo ai panciafichisti di mussoliniana memoria.

Non manca nemmeno chi, come Michele Serra, dalle colonne di Repubblica, il quotidiano della famiglia Elkann Agnelli, ha chiamato a scendere in piazza per manifestare per l’Europa raccogliendo adesioni a destra e a manca, un altro quadretto significativo di quanto sta accadendo nel nostro paese: occultare nel nome dell’unità europea il disegno del riarmo complessivo e della centralizzazione politica guidata dagli Stati più forti della UE. Sotto le bandiere blu gli azionisti della principale industria delle armi italiana, la Leonardo, hanno sfilato insieme alle bandiere arcobaleno della CGIL a quelle del PD e a Fratoianni. Ma l’Europa per la quale hanno sfilato è quella della Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, quella delle ultime, severe e inumane, leggi sul rimpatrio forzato degli immigrati irregolari. Non è l’Europa di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

L’occasione d’altronde è unica per il nazionalismo continentale, con Trump che attacca l’Unione europea minacciando sfracelli economici e il ritiro delle truppe americane (e intanto manda nelle basi USA del vecchio continente le bombe atomiche di ultima generazione…), addirittura l’uscita dalla NATO (quando in realtà vuole semplicemente usarla per maggiori forniture d’arma di marca USA) e l’alleanza sotto traccia con la Russia di Putin per incrinare il suo rapporto con la Cina.

La modifica della struttura dell’Unione può passare attraverso la scelta militare delegando agli Stati, economicamente e numericamente, più forti la direzione di fatto della sua politica. Francia, Germania, Polonia, Italia, Spagna han dato vita a riunioni separate facendo pure rientrare nell’alveo UE la Gran Bretagna a guida laburista. L’aumento delle spese militari, la riorganizzazione dell’industria militare, sono sul tavolo, il problema è, per loro, quale forma assumerà la necessaria centralizzazione e il comando dell’intera operazione.

La trasformazione della UE in un gigante imperialista e militarista alla pari di USA, Russia e Cina è da tempo nei desideri delle borghesie nazionali del vecchio continente. Fino ad ora hanno usufruito dei vantaggi della ‘protezione’ americana loro garantita nei confronti di ogni possibile insorgenza sociale, pur subendo il freno posto dagli USA ad ogni autonomia strategica. Ma ora che lo scontro intercapitalistico portato agli estremi da Trump è al calor bianco, grazie alla politica dei dazi, e agli appetiti crescenti nei confronti di altri territori e delle loro risorse (la Groenlandia – e in prospettiva l’Artico -, il Canada e Panama, per non parlare dell’accordo di rapina sulle terre rare ucraine), queste borghesie sono sul piede di guerra e pongono sul piatto il tema, ormai ineludibile per loro, dell’unità concreta, quindi politica e militare, dell’agglomerato dei 27.

Preservare i propri mercati, quindi i propri profitti e i propri apparati industriali diventa fondamentale per sopravvivere in questa fase dove uno degli attori principali, gli USA, ha deciso di andare alla riscossione dei propri crediti e alla riduzione dei propri debiti.

‘Il rapporto sulla competitività’ di Mario Draghi diventa, in questo quadro, la Bibbia del buon nazionalista europeo. Ecco quindi la revisione delle politiche comunitarie, in primis quella dell’industria dell’automobile, la riduzione dei piani di transizione ecologica, il rilancio del nucleare, e, ciliegina sulla torta, la costruzione di un polo militar-industriale continentale in grado di dare ossigeno all’apparato produttivo europeo, grazie all’enorme contributo economico degli 800 miliardi promessi da Ursula von der Leyen con il suo ‘ReArm Europe’, soldi a debito sottratti alle spese sociali. Non è una novità; da tempo, in Italia, siamo ormai assuefatti al trasferimento di ricchezza sociale dal pubblico al privato, e questo anche sull’onda delle politiche UE basate sull’austerità. Quell’austerità che ha impoverito pesantemente il proletariato europeo. Ricordiamoci della Grecia e di quanto soffrì la popolazione ellenica grazie a quelle politiche che fecero strame di una pur minima solidarietà tra i popoli, elemento fondante questa di una qualsivoglia concezione di unità. Quell’unità che oggi si invoca per far fronte al nemico, la stessa invocazione che si è sempre alzata al momento delle armi e del conflitto. Un’invocazione che nasconde un disegno ben più pericoloso di un nemico che non ha nessuna intenzione di arrivare fino a Lisbona: quello della militarizzazione della società, della sua gerarchizzazione spinta, della sua trasformazione/conversione in un blocco acefalo imbevuto di suprematismo comunque si manifesti.

Il crollo dell’ordine mondiale che stiamo vivendo, la fine del bipolarismo, l’emergere di nuovi soggetti politici ed economici, il riscaldamento climatico con tutti i suoi effetti e i processi migratori che genererà, i mutamenti indotti dall’applicazione crescente dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro e nella società, sono tutti elementi che spingono verso soluzioni autoritarie se non si sarà in grado di dare risposte efficaci, se non si innalzeranno barricate simboliche e concrete alla barbarie dilagante. Smascherare la retorica dell’unità della fortezza Europa e del suo esercito è un passo in questa direzione.

Massimo Varengo

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Cosa vogliono Putin e Trump

Durante il tardo pomeriggio di martedì 18 marzo a Mosca, mentre Vladimir Putin era impegnato in una lunga conversazione telefonica con Donald Trump, sono state rimosse le lettere Z, V, O – simboli dell’invasione russa dell’Ucraina – piazzate da più di un anno e mezzo davanti all’ambasciata degli Stati Uniti. Una notizia simbolica, che immediatamente ha visto reazioni ironiche da un lato e di sdegno dall’altro, ma durata poco: nel corso della serata le lettere son tornate al proprio posto – ufficialmente erano state rimosse per esser ripulite - a ricordare più ai moscoviti che ai dipendenti (pochi, dopo le espulsioni reciproche) della rappresentanza diplomatica americana di come il Cremlino continui a essere sulle proprie posizioni.

Può sembrare un’esagerazione, ma ieri dalle 15:30 per circa due ore agenzie di stampa, corrispondenti, diplomatici, analisti e anche comuni cittadini in varie parti del mondo hanno atteso gli esiti del vertice telefonico, forse aspettandosi un passo in avanti verso l’apertura di trattative di pace o, in seconda battuta, verso la proposta di tregua di 30 giorni avanzata nell’incontro tra le delegazioni statunitense e ucraina a Gedda; l’esito del colloquio è stato però ben diverso, e anche nel leggere il comunicato del Cremlino, pubblicato dal sito ufficiale della presidenza russa, e le dichiarazioni alla stampa da parte americana, colpisce come, al di là dell’ottimismo e del trionfalismo (quest’ultimo tra i marchi di fabbrica di Trump), vi sia abbastanza poco per quanto riguarda la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina.

A essere dominante, leggendo le parole scelte nel comunicare (parzialmente) i contenuti della telefonata, è l’impressione che da parte russa non vi sia alcuna fretta nel sedersi al tavolo dei negoziati, e si prenda tempo, una sensazione rafforzata dalla lettura di alcuni passaggi del comunicato, a partire dal secondo paragrafo:

Ribadendo il principio della risoluzione pacifica del conflitto, il presidente russo si è dichiarato disponibile a un'analisi approfondita con i partner americani delle possibili vie di soluzione, che dovrebbero essere globali, sostenibili e a lungo termine. Ha sottolineato, inoltre, la necessità imprescindibile di affrontare le cause profonde della crisi e di garantire il rispetto degli interessi legittimi della Russia in materia di sicurezza.

Misure come l’analisi approfondita richiedono il lavoro di decine di funzionari, consiglieri, diplomatici e esperti, e in termini di durata vanno ben oltre la volontà, espressa chiaramente, della Casa Bianca di voler procedere quanto più in fretta possibile a una soluzione negoziale, ma per Vladimir Putin non vi è alcuna necessità di velocizzare il processo, anzi: sempre nel comunicato si annuncia la costituzione di commissioni bilaterali per l’elaborazione di proposte per proseguire negli sforzi di risoluzione, una misura che di per sé richiede dei tempi tecnici la cui durata appare difficile da pronosticare.

La dilazione, tattica scelta dal Cremlino, non è però mai netta, come anche il rifiuto sostanziale di un accordo con l’Ucraina, almeno in questo momento: dopo aver denunciato ancora una volta “l’inaffidabilità” del governo di Kyiv, ulteriore rimando alla volontà di rimuovere Volodymyr Zelensky, si accetta una proposta di sospensione per 30 giorni degli attacchi alle infrastrutture energetiche – centrali elettriche, raffinerie, gasdotti e così via – come primo passo, assieme a uno scambio di 175 prigionieri di guerra per 175, verso future prove tecniche di trattativa, che appaiono però sempre distanti all’orizzonte. Nel comunicato del Cremlino leggiamo, in un breve paragrafo, che “condizione chiave” è “la cessazione totale degli aiuti militari stranieri e del supporto di intelligence” a Kyiv, un passaggio poi smentito indirettamente da Donald Trump, il quale in un’intervista a Fox News poco dopo la telefonata ha sostenuto di non aver discusso del riarmo ucraino. 

Vladimir Putin ritiene di essere in vantaggio nel condurre la complessa partita con Donald Trump sugli equilibri globali, di cui l’Ucraina è una parte importante per la Russia ma appare (almeno adesso) esserlo molto meno per gli Stati Uniti, un elemento che appare presente indirettamente anche nel post su X della portavoce del presidente americano Karoline Leavitt, dove, a differenza del comunicato di Mosca, vi è un passaggio sulla sicurezza in Medio Oriente e sull’impegno dei due leader nell’evitare la “distruzione di Israele” da parte dell’Iran, parole che vengono dopo l’attacco statunitense alle basi degli Houthi in Yemen. Teheran, vicinissima alla Russia negli ultimi tre anni di guerra, attiva nei rifornimenti di missili e droni, potrebbe essere una pedina sacrificabile per Putin in cambio dell’Ucraina.

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Gli obiettivi del regime russo restano sempre gli stessi enunciati in queste settimane, e presenti sia nel comunicato che nell’intervento del presidente al congresso annuale dell’Unione degli industriali e degli imprenditori russi, avvenuto nella mattinata del 18 marzo: dopo aver ricordato ai presenti che vi sono 28.595 sanzioni nei confronti delle aziende e di esponenti russi e di dover per questo puntare allo sviluppo dell’economia nazionale solo sulle proprie forze, nel corso di una sessione chiusa al pubblico e rivolta a riferire di quali passi siano stati fatti nel corso dei contatti con gli americani, Putin e il suo consigliere economico Maksim Oreshkin avrebbero chiarito come per Mosca la situazione al fronte sia positiva, le truppe ucraina non riescono a “trincerarsi”, per cui  le condizioni avanzate restano quelle dichiarate, per far in modo come, secondo quanto riferito da alcune fonti al giornalista Andrei Kolesnikov:

Quanto ottenuto non possa esser tolto (alla Russia) e che si debbano riconoscere come parte della Russia la Crimea, Sebastopoli e i quattro territori già noti: le repubbliche di Luhansk e Donetsk, nonché le regioni di Kherson e Zaporizhya.
Se ciò dovesse accadere nel prossimo futuro, la Russia - mi hanno detto i partecipanti all’incontro - non rivendicherebbe Odessa né altri territori attualmente appartenenti all’Ucraina.
Tuttavia, anche questa posizione potrebbe cambiare, perché "non fanno in tempo a trincerarsi". (si riferiscono agli ucraini — GS)

Mosca ritiene, in questo momento, di poter ottenere – con la forza o con i negoziati, ma preferisce in questo momento la prima – i suoi obiettivi per poter dichiarare “vittoriosa” l’operazione speciale militare, e difficilmente Vladimir Putin cederà, perché si considera vicino alla meta; poco importa quali prezzi vi siano da pagare.

Nel corso della notte tra il 18 e il 19 marzo 57 droni ucraini, secondo il Ministero russo della Difesa, sarebbero stati abbattuti sui cieli delle regioni russe di Kursk, Orel, Tula, Bryansk e sul Mar d’Azov, mentre per il dicastero di Kyiv la Russia avrebbe attaccato con due missili Iskander, quattro C-300, e 145 droni, di cui 72 colpiti e 56 dispersi. Una raffineria nei pressi del villaggio di Kavkazskaya, nella regione di Krasnodar, è stata colpita dai droni ucraini, nella stessa notte a Kyiv per 6 ore c’è stata l’allerta aerea; la tregua e la pace, dai cieli di queste parti d’Europa, appaiono lontane, parole dette al telefono mentre il mondo attende, tra distruzioni e rovine.

Immagine in anteprima: frame video TG2000 via YouTube

Una riflessione su quale pace sia possibile tra Ucrania e Russia e sul ruolo dell’Europa

Quale pace per l’Ucraina? Quale ruolo per l’Europa?

Mentre il termine pace può avere tanti significati e vi si possono applicare innumerevoli aggettivi: giusta, ingiusta, parziale, armata, precaria, stabile, ecc., ecc., il termine guerra identifica invece un’unica realtà, quella del conflitto armato, che genera solo morti, devastazioni, ingiustizie; un dolore generalizzato che si trasferisce alle generazioni successive e genera ulteriori drammi, conflitti e guerre, con un orizzonte temporale potenzialmente infinito.

Ce ne accorgiamo ogni volta che si riaccendono antichi rancori tra popoli confinanti, ma tenuti separati e incattiviti l’uno contro l’altro da governanti senza scrupoli, o tra gruppi politico-religiosi da secoli in competizione per il controllo sociale dei loro territori.

La guerra è solo quella cosa lì: tragica, inequivocabile, disgustosa.

È inaccettabile che la si possa preferire a qualsiasi straccio di pace, così come non è corretto che di fronte alla possibilità di un accordo che faccia tacere le armi, si metta in campo la questione della giustizia.

Ha senso uccidere e morire per affermare ciò che sembra essere giusto?

Certo sarebbe ingiusto se l’Ucraina, soggiogata con la forza delle armi da un paese evidentemente molto più forte militarmente, dovesse rinunciare all’esercizio della propria sovranità su vasti territori e su risorse di grande valore, ma, chiediamoci: questa ingiustizia è confrontabile con quella associata alla morte in guerra di mezzo milione di ucraini e di altrettanti russi, entrambi innocenti, immolati sull’altare della patria dai loro rispettivi governi?

Se è evidente che non può essere giusto mandare a morire centinaia di migliaia di concittadini per aggredire un paese, può essere giusto, invece, dall’altra parte, mandarne altrettanti, ugualmente a morire, per difendere il paese aggredito?

C’è, nel Vangelo (Lc 14,31-33), un brano di grande intelligenza popolare che considera come un’eventualità assurda quella in cui un Re, vedendo il proprio paese aggredito da un nemico, non si preoccupi di sapere se le proprie forze sono sufficienti a fermarlo, e qualora non lo siano, non gli mandi un’ambasciata di pace.

Si tratta forse di una saggezza antica non più applicabile? Che succede nella modernità, le questioni di principio (come la sovranità di uno stato) sono forse diventate più importanti della vita di milioni di persone? In realtà, a giudicare da come sono state trattate negli ultimi decenni certe questioni geopolitiche non si direbbe proprio, vedi Iraq, Afghanistan, Palestina, Yemen, Ruanda, Libia, Siria, ecc., ecc., in cui i paesi leader del mondo si sono regolarmente disinteressati del principio di sovranità, invadendo, devastando i territori e rovesciando i governi regolarmente in carica, oppure hanno lasciato che i contendenti si scannassero tra loro, magari supportando sotto banco la guerra, inviando armi e insegnando ad usarle, all’una o all’altra delle parti combattenti.

Gli Stati non combattono per giustizia, ma per interesse

Giustizia è una bellissima parola, ma quando viene invocata per giustificare una guerra si tratta sempre di una giustizia a geometria variabile, tesa come un velo a mascherare appetiti che prima o poi emergono dall’opacità.

Proprio come accade adesso con Trump che, come un capo mafioso senza freni inibitori, dopo che gli USA hanno aiutato l’Ucraina a difendersi da Putin, reclama il pagamento del pizzo (leggi “terre rare”) prospettando come alternativa ricattatoria l’abbandono degli ucraini alle mire del presidente russo.

Nella logica della forza il prezzo da pagare è la vita degli innocenti

La pace per l’Ucraina non può che passare attraverso un negoziato in cui, come in tutti i negoziati internazionali, il più debole perde qualcosa in più rispetto all’altro contendente. Pensarla diversamente significa non conoscere la Storia e anche rinunciare ad utilizzare la ragione. Perseguire la “vittoria” dell’Ucraina significherebbe stare comunque nella logica della forza, cioè armarla e sostenerla finché essa possa vincere contro il gigante militare russo che, non dimentichiamolo, possiede circa 6000 bombe atomiche.

Quale sarebbe il prezzo di un tale risultato?  Quanti morti, quanta devastazione? Quanto si allargherebbe il conflitto in corso? E, alla fine, che cosa si otterrebbe? Un’Ucraina, vincitrice, da ricostruire e una Russia piegata, impoverita, e ulteriormente incattivita. Ammesso che un eventuale conflitto, che potrebbe essere atomico, lasci ancora qualcosa di umano sul campo di battaglia.

E l’Europa? Ripudia ancora la guerra?

E l’Unione europea, col suo deposito secolare di saggezza e di cultura democratica, nata per difendere la pace, che fa di fronte a questo possibile scenario?

A giudicare dalle ultime notizie da Bruxelles, a seguito degli Stati Uniti che si arroccano nella difesa dei propri interessi particolari a corto raggio, l’Unione non trova di meglio che chiedere agli stati membri di armarsi fino ai denti per contrastare la possibilità di ulteriori conflitti ai propri confini, naturalmente non senza conseguenze sulla spesa sociale, che poi è l’unica che, al di là degli annunci, può offrire ai cittadini europei la possibilità di una giustizia vera e concreta, non fatta di proclami, ma di sostanza.

La Storia dimostra che le armi sono, da un punto di vista puramente economico, una merce come le altre, prodotta da soggetti che guadagnano in base alle leggi del mercato e soggetta alle stesse regole della società dei consumi, per cui produrre più armi significa automaticamente doverne usare di più, e perciò non possono costituire un freno alla guerra. Dovrebbe essere chiaro ed evidente per tutti: più armi e più soldati da una parte della barricata significano più armi e più soldati dall’altra parte.

Riformare le organizzazioni internazionali

Se ora è Putin a far paura all’Europa, domani potrebbero essere gli Stati Uniti (le minacce di Trump alla Groenlandia non possono lasciarci indifferenti) o una qualsiasi delle altre potenze mondiali.

E allora? Come si fa? Posto che le armi, ovviamente, non possono portare la pace, sarebbe invece necessario concentrare tutti gli sforzi europei verso l’innalzamento degli standard interni ed esterni di democrazia, giustizia e benessere; internamente, tra i cittadini dei paesi membri ed esternamente, puntando a potenziare le relazioni positive con tutti i paesi partner commerciali e istituzionali.

Tra questi paesi deve essere necessariamente ri-compresa anche la Russia, che rimane ad oggi uno dei membri più importanti dell’ONU.

Ricordiamoci infatti che essa ha diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, insieme a Cina, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Un assurdo giuridico che sarebbe da eliminare quanto prima in quanto blocca le decisioni più importanti e riduce gli altri membri delle Nazioni Unite a dei soggetti inferiori.

La pace va cercata prima di tutto incrementando la democrazia interna, l’autorevolezza e il potere regolatorio dell’ONU e degli altri organismi internazionali per la pace, rinforzando il dialogo e la cooperazione internazionale e promuovendo corrette relazioni commerciali, con attenzione alle condizioni etiche e di sostenibilità ambientale dei siti di produzione.

Se Von der Leyen e compagni decidessero di ri-orientare la spesa in modo da incrementare la democrazia e la giustizia, dentro e fuori la UE, farebbero davvero il bene degli europei e del mondo intero, ma purtroppo le decisioni sembrano già prese e vanno in tutt’altra direzione. Se si vuole la pace, non rimane che protestare e operare per un urgente, repentino, cambio di rotta.

Arnaldo Scarpa (Copresidente Rete Warfree – Lìberu dae sa gherra, Portavoce Comitato Riconversione Rwm)

Altra versione:  “Vogliamo ancora più armi e più guerra?” su SULCIS IGLESIENTE OGGI, 16 marzo 2025 – n. 9

Redazione Sardigna

Quale Europa? Nostra patria è il mondo intero!

La fortezza Europa affila i denti (per il momento quelli da latte) e prepara robuste dentiere d’acciaio per i tempi a venire quando IL nemico per eccellenza (l’orso russo) l’assalirà per prenderla alla gola. Avanti allora con lo stanziamento ‘previsto’ di 800 miliardi di euro per l’industria delle armi – europee ma soprattutto statunitensi – avanti con il riarmo, con la reintroduzione della leva militare e soprattutto con la militarizzazione dell’intera società. Avanti verso la guerra: in fin dei conti è sempre con un bagno di sangue che le nazioni nascono, crescono e si consolidano. La storia degli Stati europei è lì a raccontarcelo. L’ultima della serie è stato il conflitto sanguinoso (ormai dimenticato) degli anni ’90 nella ex Repubblica federativa d’Jugoslavia e la conseguente nascita di tanti staterelli. Ora è la volta dell’Europa che se vuole dar vita ai fatidici Stati Uniti d’Europa deve percorrere la strada del sacrificio bellico, del sangue comune versato contro IL nemico: l’unico metodo per fare sentire veramente europei, nazionalisti europei, popoli attraversati e separati da secoli di conflitti, di contrapposizioni, di antagonismi. Il linguaggio delle armi è unico, comprensibile e praticabile da tutti.

Ormai la parola d’ordine dell’esercito europeo è sulla bocca di: media, intellettuali di prestigio, giornalisti d’eccellenza, politici di rango. In Europa e in Italia. Macron, che rispolvera di fatto addirittura i propositi della Nouvelle Droite, offre l’ombrello atomico insieme al laburista Starmer, il polacco Tusk afferma con sicumera che la guerra con la Russia è questione di poco, il tedesco Merz vuole a gran voce riarmo e bombe nucleari. Liberal-democratici, cristiano sociali, socialdemocratici tutti a braccetto a votare a Bruxelles per dare 800 miliardi alla famelica industria delle armi. In Italia è in scena il solito teatrino degli opportunismi tipico del ‘vorrei ma non posso’. La classe politica italiana deve fare i conti con un’opinione pubblica (quella vera, non quella interpretata dai media) che, in maggioranza, è contraria alla guerra e al riarmo, che non ama la burocrazia della UE, né Putin, né Trump. E vorrebbe piuttosto una sanità che funzioni, che aumentino i salari, che i servizi pubblici siano all’altezza della domanda sociale. Allora ecco le furbizie della Meloni che si barcamena tra Trump e la UE, il Partito Democratico con un piede in due scarpe e utilizza il voto sugli 800 miliardi per la resa dei conti interna, la Lega di Salvini che fa la voce grossa ma poi rimane nel governo che vota il riarmo.

E tutto questo in una cornice di retorica bellicista sparsa a piene mani da voci ‘autorevoli’ che richiamano i maschi italici all’orgoglio virile, allo spirito combattivo: tra poco arriveremo ai panciafichisti di mussoliniana memoria.

Non manca nemmeno chi, come Michele Serra, dalle colonne di Repubblica, il quotidiano della famiglia Elkann Agnelli, ha chiamato a scendere in piazza per manifestare per l’Europa raccogliendo adesioni a destra e a manca, un altro quadretto significativo di quanto sta accadendo nel nostro paese: occultare nel nome dell’unità europea il disegno del riarmo complessivo e della centralizzazione politica guidata dagli Stati più forti della UE. Sotto le bandiere blu gli azionisti della principale industria delle armi italiana, la Leonardo, hanno sfilato insieme alle bandiere arcobaleno della CGIL a quelle del PD e a Fratoianni. Ma l’Europa per la quale hanno sfilato è quella della Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, quella delle ultime, severe e inumane, leggi sul rimpatrio forzato degli immigrati irregolari. Non è l’Europa di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

L’occasione d’altronde è unica per il nazionalismo continentale, con Trump che attacca l’Unione europea minacciando sfracelli economici e il ritiro delle truppe americane (e intanto manda nelle basi USA del vecchio continente le bombe atomiche di ultima generazione…), addirittura l’uscita dalla NATO (quando in realtà vuole semplicemente usarla per maggiori forniture d’arma di marca USA) e l’alleanza sotto traccia con la Russia di Putin per incrinare il suo rapporto con la Cina.

La modifica della struttura dell’Unione può passare attraverso la scelta militare delegando agli Stati, economicamente e numericamente, più forti la direzione di fatto della sua politica. Francia, Germania, Polonia, Italia, Spagna han dato vita a riunioni separate facendo pure rientrare nell’alveo UE la Gran Bretagna a guida laburista. L’aumento delle spese militari, la riorganizzazione dell’industria militare, sono sul tavolo, il problema è, per loro, quale forma assumerà la necessaria centralizzazione e il comando dell’intera operazione.

La trasformazione della UE in un gigante imperialista e militarista alla pari di USA, Russia e Cina è da tempo nei desideri delle borghesie nazionali del vecchio continente. Fino ad ora hanno usufruito dei vantaggi della ‘protezione’ americana loro garantita nei confronti di ogni possibile insorgenza sociale, pur subendo il freno posto dagli USA ad ogni autonomia strategica. Ma ora che lo scontro intercapitalistico portato agli estremi da Trump è al calor bianco, grazie alla politica dei dazi, e agli appetiti crescenti nei confronti di altri territori e delle loro risorse (la Groenlandia – e in prospettiva l’Artico -, il Canada e Panama, per non parlare dell’accordo di rapina sulle terre rare ucraine), queste borghesie sono sul piede di guerra e pongono sul piatto il tema, ormai ineludibile per loro, dell’unità concreta, quindi politica e militare, dell’agglomerato dei 27.

Preservare i propri mercati, quindi i propri profitti e i propri apparati industriali diventa fondamentale per sopravvivere in questa fase dove uno degli attori principali, gli USA, ha deciso di andare alla riscossione dei propri crediti e alla riduzione dei propri debiti.

‘Il rapporto sulla competitività’ di Mario Draghi diventa, in questo quadro, la Bibbia del buon nazionalista europeo. Ecco quindi la revisione delle politiche comunitarie, in primis quella dell’industria dell’automobile, la riduzione dei piani di transizione ecologica, il rilancio del nucleare, e, ciliegina sulla torta, la costruzione di un polo militar-industriale continentale in grado di dare ossigeno all’apparato produttivo europeo, grazie all’enorme contributo economico degli 800 miliardi promessi da Ursula von der Leyen con il suo ‘ReArm Europe’, soldi a debito sottratti alle spese sociali. Non è una novità; da tempo, in Italia, siamo ormai assuefatti al trasferimento di ricchezza sociale dal pubblico al privato, e questo anche sull’onda delle politiche UE basate sull’austerità. Quell’austerità che ha impoverito pesantemente il proletariato europeo. Ricordiamoci della Grecia e di quanto soffrì la popolazione ellenica grazie a quelle politiche che fecero strame di una pur minima solidarietà tra i popoli, elemento fondante questa di una qualsivoglia concezione di unità. Quell’unità che oggi si invoca per far fronte al nemico, la stessa invocazione che si è sempre alzata al momento delle armi e del conflitto. Un’invocazione che nasconde un disegno ben più pericoloso di un nemico che non ha nessuna intenzione di arrivare fino a Lisbona: quello della militarizzazione della società, della sua gerarchizzazione spinta, della sua trasformazione/conversione in un blocco acefalo imbevuto di suprematismo comunque si manifesti.

Il crollo dell’ordine mondiale che stiamo vivendo, la fine del bipolarismo, l’emergere di nuovi soggetti politici ed economici, il riscaldamento climatico con tutti i suoi effetti e i processi migratori che genererà, i mutamenti indotti dall’applicazione crescente dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro e nella società, sono tutti elementi che spingono verso soluzioni autoritarie se non si sarà in grado di dare risposte efficaci, se non si innalzeranno barricate simboliche e concrete alla barbarie dilagante. Smascherare la retorica dell’unità della fortezza Europa e del suo esercito è un passo in questa direzione.

Massimo Varengo

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Cosa vogliono Putin e Trump

Durante il tardo pomeriggio di martedì 18 marzo a Mosca, mentre Vladimir Putin era impegnato in una lunga conversazione telefonica con Donald Trump, sono state rimosse le lettere Z, V, O – simboli dell’invasione russa dell’Ucraina – piazzate da più di un anno e mezzo davanti all’ambasciata degli Stati Uniti. Una notizia simbolica, che immediatamente ha visto reazioni ironiche da un lato e di sdegno dall’altro, ma durata poco: nel corso della serata le lettere son tornate al proprio posto – ufficialmente erano state rimosse per esser ripulite - a ricordare più ai moscoviti che ai dipendenti (pochi, dopo le espulsioni reciproche) della rappresentanza diplomatica americana di come il Cremlino continui a essere sulle proprie posizioni.

Può sembrare un’esagerazione, ma ieri dalle 15:30 per circa due ore agenzie di stampa, corrispondenti, diplomatici, analisti e anche comuni cittadini in varie parti del mondo hanno atteso gli esiti del vertice telefonico, forse aspettandosi un passo in avanti verso l’apertura di trattative di pace o, in seconda battuta, verso la proposta di tregua di 30 giorni avanzata nell’incontro tra le delegazioni statunitense e ucraina a Gedda; l’esito del colloquio è stato però ben diverso, e anche nel leggere il comunicato del Cremlino, pubblicato dal sito ufficiale della presidenza russa, e le dichiarazioni alla stampa da parte americana, colpisce come, al di là dell’ottimismo e del trionfalismo (quest’ultimo tra i marchi di fabbrica di Trump), vi sia abbastanza poco per quanto riguarda la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina.

A essere dominante, leggendo le parole scelte nel comunicare (parzialmente) i contenuti della telefonata, è l’impressione che da parte russa non vi sia alcuna fretta nel sedersi al tavolo dei negoziati, e si prenda tempo, una sensazione rafforzata dalla lettura di alcuni passaggi del comunicato, a partire dal secondo paragrafo:

Ribadendo il principio della risoluzione pacifica del conflitto, il presidente russo si è dichiarato disponibile a un'analisi approfondita con i partner americani delle possibili vie di soluzione, che dovrebbero essere globali, sostenibili e a lungo termine. Ha sottolineato, inoltre, la necessità imprescindibile di affrontare le cause profonde della crisi e di garantire il rispetto degli interessi legittimi della Russia in materia di sicurezza.

Misure come l’analisi approfondita richiedono il lavoro di decine di funzionari, consiglieri, diplomatici e esperti, e in termini di durata vanno ben oltre la volontà, espressa chiaramente, della Casa Bianca di voler procedere quanto più in fretta possibile a una soluzione negoziale, ma per Vladimir Putin non vi è alcuna necessità di velocizzare il processo, anzi: sempre nel comunicato si annuncia la costituzione di commissioni bilaterali per l’elaborazione di proposte per proseguire negli sforzi di risoluzione, una misura che di per sé richiede dei tempi tecnici la cui durata appare difficile da pronosticare.

La dilazione, tattica scelta dal Cremlino, non è però mai netta, come anche il rifiuto sostanziale di un accordo con l’Ucraina, almeno in questo momento: dopo aver denunciato ancora una volta “l’inaffidabilità” del governo di Kyiv, ulteriore rimando alla volontà di rimuovere Volodymyr Zelensky, si accetta una proposta di sospensione per 30 giorni degli attacchi alle infrastrutture energetiche – centrali elettriche, raffinerie, gasdotti e così via – come primo passo, assieme a uno scambio di 175 prigionieri di guerra per 175, verso future prove tecniche di trattativa, che appaiono però sempre distanti all’orizzonte. Nel comunicato del Cremlino leggiamo, in un breve paragrafo, che “condizione chiave” è “la cessazione totale degli aiuti militari stranieri e del supporto di intelligence” a Kyiv, un passaggio poi smentito indirettamente da Donald Trump, il quale in un’intervista a Fox News poco dopo la telefonata ha sostenuto di non aver discusso del riarmo ucraino. 

Vladimir Putin ritiene di essere in vantaggio nel condurre la complessa partita con Donald Trump sugli equilibri globali, di cui l’Ucraina è una parte importante per la Russia ma appare (almeno adesso) esserlo molto meno per gli Stati Uniti, un elemento che appare presente indirettamente anche nel post su X della portavoce del presidente americano Karoline Leavitt, dove, a differenza del comunicato di Mosca, vi è un passaggio sulla sicurezza in Medio Oriente e sull’impegno dei due leader nell’evitare la “distruzione di Israele” da parte dell’Iran, parole che vengono dopo l’attacco statunitense alle basi degli Houthi in Yemen. Teheran, vicinissima alla Russia negli ultimi tre anni di guerra, attiva nei rifornimenti di missili e droni, potrebbe essere una pedina sacrificabile per Putin in cambio dell’Ucraina.

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Gli obiettivi del regime russo restano sempre gli stessi enunciati in queste settimane, e presenti sia nel comunicato che nell’intervento del presidente al congresso annuale dell’Unione degli industriali e degli imprenditori russi, avvenuto nella mattinata del 18 marzo: dopo aver ricordato ai presenti che vi sono 28.595 sanzioni nei confronti delle aziende e di esponenti russi e di dover per questo puntare allo sviluppo dell’economia nazionale solo sulle proprie forze, nel corso di una sessione chiusa al pubblico e rivolta a riferire di quali passi siano stati fatti nel corso dei contatti con gli americani, Putin e il suo consigliere economico Maksim Oreshkin avrebbero chiarito come per Mosca la situazione al fronte sia positiva, le truppe ucraina non riescono a “trincerarsi”, per cui  le condizioni avanzate restano quelle dichiarate, per far in modo come, secondo quanto riferito da alcune fonti al giornalista Andrei Kolesnikov:

Quanto ottenuto non possa esser tolto (alla Russia) e che si debbano riconoscere come parte della Russia la Crimea, Sebastopoli e i quattro territori già noti: le repubbliche di Luhansk e Donetsk, nonché le regioni di Kherson e Zaporizhya.
Se ciò dovesse accadere nel prossimo futuro, la Russia - mi hanno detto i partecipanti all’incontro - non rivendicherebbe Odessa né altri territori attualmente appartenenti all’Ucraina.
Tuttavia, anche questa posizione potrebbe cambiare, perché "non fanno in tempo a trincerarsi". (si riferiscono agli ucraini — GS)

Mosca ritiene, in questo momento, di poter ottenere – con la forza o con i negoziati, ma preferisce in questo momento la prima – i suoi obiettivi per poter dichiarare “vittoriosa” l’operazione speciale militare, e difficilmente Vladimir Putin cederà, perché si considera vicino alla meta; poco importa quali prezzi vi siano da pagare.

Nel corso della notte tra il 18 e il 19 marzo 57 droni ucraini, secondo il Ministero russo della Difesa, sarebbero stati abbattuti sui cieli delle regioni russe di Kursk, Orel, Tula, Bryansk e sul Mar d’Azov, mentre per il dicastero di Kyiv la Russia avrebbe attaccato con due missili Iskander, quattro C-300, e 145 droni, di cui 72 colpiti e 56 dispersi. Una raffineria nei pressi del villaggio di Kavkazskaya, nella regione di Krasnodar, è stata colpita dai droni ucraini, nella stessa notte a Kyiv per 6 ore c’è stata l’allerta aerea; la tregua e la pace, dai cieli di queste parti d’Europa, appaiono lontane, parole dette al telefono mentre il mondo attende, tra distruzioni e rovine.

Immagine in anteprima: frame video TG2000 via YouTube

Una riflessione su quale pace sia possibile tra Ucrania e Russia e sul ruolo dell’Europa

Quale pace per l’Ucraina? Quale ruolo per l’Europa?

Mentre il termine pace può avere tanti significati e vi si possono applicare innumerevoli aggettivi: giusta, ingiusta, parziale, armata, precaria, stabile, ecc., ecc., il termine guerra identifica invece un’unica realtà, quella del conflitto armato, che genera solo morti, devastazioni, ingiustizie; un dolore generalizzato che si trasferisce alle generazioni successive e genera ulteriori drammi, conflitti e guerre, con un orizzonte temporale potenzialmente infinito.

Ce ne accorgiamo ogni volta che si riaccendono antichi rancori tra popoli confinanti, ma tenuti separati e incattiviti l’uno contro l’altro da governanti senza scrupoli, o tra gruppi politico-religiosi da secoli in competizione per il controllo sociale dei loro territori.

La guerra è solo quella cosa lì: tragica, inequivocabile, disgustosa.

È inaccettabile che la si possa preferire a qualsiasi straccio di pace, così come non è corretto che di fronte alla possibilità di un accordo che faccia tacere le armi, si metta in campo la questione della giustizia.

Ha senso uccidere e morire per affermare ciò che sembra essere giusto?

Certo sarebbe ingiusto se l’Ucraina, soggiogata con la forza delle armi da un paese evidentemente molto più forte militarmente, dovesse rinunciare all’esercizio della propria sovranità su vasti territori e su risorse di grande valore, ma, chiediamoci: questa ingiustizia è confrontabile con quella associata alla morte in guerra di mezzo milione di ucraini e di altrettanti russi, entrambi innocenti, immolati sull’altare della patria dai loro rispettivi governi?

Se è evidente che non può essere giusto mandare a morire centinaia di migliaia di concittadini per aggredire un paese, può essere giusto, invece, dall’altra parte, mandarne altrettanti, ugualmente a morire, per difendere il paese aggredito?

C’è, nel Vangelo (Lc 14,31-33), un brano di grande intelligenza popolare che considera come un’eventualità assurda quella in cui un Re, vedendo il proprio paese aggredito da un nemico, non si preoccupi di sapere se le proprie forze sono sufficienti a fermarlo, e qualora non lo siano, non gli mandi un’ambasciata di pace.

Si tratta forse di una saggezza antica non più applicabile? Che succede nella modernità, le questioni di principio (come la sovranità di uno stato) sono forse diventate più importanti della vita di milioni di persone? In realtà, a giudicare da come sono state trattate negli ultimi decenni certe questioni geopolitiche non si direbbe proprio, vedi Iraq, Afghanistan, Palestina, Yemen, Ruanda, Libia, Siria, ecc., ecc., in cui i paesi leader del mondo si sono regolarmente disinteressati del principio di sovranità, invadendo, devastando i territori e rovesciando i governi regolarmente in carica, oppure hanno lasciato che i contendenti si scannassero tra loro, magari supportando sotto banco la guerra, inviando armi e insegnando ad usarle, all’una o all’altra delle parti combattenti.

Gli Stati non combattono per giustizia, ma per interesse

Giustizia è una bellissima parola, ma quando viene invocata per giustificare una guerra si tratta sempre di una giustizia a geometria variabile, tesa come un velo a mascherare appetiti che prima o poi emergono dall’opacità.

Proprio come accade adesso con Trump che, come un capo mafioso senza freni inibitori, dopo che gli USA hanno aiutato l’Ucraina a difendersi da Putin, reclama il pagamento del pizzo (leggi “terre rare”) prospettando come alternativa ricattatoria l’abbandono degli ucraini alle mire del presidente russo.

Nella logica della forza il prezzo da pagare è la vita degli innocenti

La pace per l’Ucraina non può che passare attraverso un negoziato in cui, come in tutti i negoziati internazionali, il più debole perde qualcosa in più rispetto all’altro contendente. Pensarla diversamente significa non conoscere la Storia e anche rinunciare ad utilizzare la ragione. Perseguire la “vittoria” dell’Ucraina significherebbe stare comunque nella logica della forza, cioè armarla e sostenerla finché essa possa vincere contro il gigante militare russo che, non dimentichiamolo, possiede circa 6000 bombe atomiche.

Quale sarebbe il prezzo di un tale risultato?  Quanti morti, quanta devastazione? Quanto si allargherebbe il conflitto in corso? E, alla fine, che cosa si otterrebbe? Un’Ucraina, vincitrice, da ricostruire e una Russia piegata, impoverita, e ulteriormente incattivita. Ammesso che un eventuale conflitto, che potrebbe essere atomico, lasci ancora qualcosa di umano sul campo di battaglia.

E l’Europa? Ripudia ancora la guerra?

E l’Unione europea, col suo deposito secolare di saggezza e di cultura democratica, nata per difendere la pace, che fa di fronte a questo possibile scenario?

A giudicare dalle ultime notizie da Bruxelles, a seguito degli Stati Uniti che si arroccano nella difesa dei propri interessi particolari a corto raggio, l’Unione non trova di meglio che chiedere agli stati membri di armarsi fino ai denti per contrastare la possibilità di ulteriori conflitti ai propri confini, naturalmente non senza conseguenze sulla spesa sociale, che poi è l’unica che, al di là degli annunci, può offrire ai cittadini europei la possibilità di una giustizia vera e concreta, non fatta di proclami, ma di sostanza.

La Storia dimostra che le armi sono, da un punto di vista puramente economico, una merce come le altre, prodotta da soggetti che guadagnano in base alle leggi del mercato e soggetta alle stesse regole della società dei consumi, per cui produrre più armi significa automaticamente doverne usare di più, e perciò non possono costituire un freno alla guerra. Dovrebbe essere chiaro ed evidente per tutti: più armi e più soldati da una parte della barricata significano più armi e più soldati dall’altra parte.

Riformare le organizzazioni internazionali

Se ora è Putin a far paura all’Europa, domani potrebbero essere gli Stati Uniti (le minacce di Trump alla Groenlandia non possono lasciarci indifferenti) o una qualsiasi delle altre potenze mondiali.

E allora? Come si fa? Posto che le armi, ovviamente, non possono portare la pace, sarebbe invece necessario concentrare tutti gli sforzi europei verso l’innalzamento degli standard interni ed esterni di democrazia, giustizia e benessere; internamente, tra i cittadini dei paesi membri ed esternamente, puntando a potenziare le relazioni positive con tutti i paesi partner commerciali e istituzionali.

Tra questi paesi deve essere necessariamente ri-compresa anche la Russia, che rimane ad oggi uno dei membri più importanti dell’ONU.

Ricordiamoci infatti che essa ha diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, insieme a Cina, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Un assurdo giuridico che sarebbe da eliminare quanto prima in quanto blocca le decisioni più importanti e riduce gli altri membri delle Nazioni Unite a dei soggetti inferiori.

La pace va cercata prima di tutto incrementando la democrazia interna, l’autorevolezza e il potere regolatorio dell’ONU e degli altri organismi internazionali per la pace, rinforzando il dialogo e la cooperazione internazionale e promuovendo corrette relazioni commerciali, con attenzione alle condizioni etiche e di sostenibilità ambientale dei siti di produzione.

Se Von der Leyen e compagni decidessero di ri-orientare la spesa in modo da incrementare la democrazia e la giustizia, dentro e fuori la UE, farebbero davvero il bene degli europei e del mondo intero, ma purtroppo le decisioni sembrano già prese e vanno in tutt’altra direzione. Se si vuole la pace, non rimane che protestare e operare per un urgente, repentino, cambio di rotta.

Arnaldo Scarpa (Copresidente Rete Warfree – Lìberu dae sa gherra, Portavoce Comitato Riconversione Rwm)

Altra versione:  “Vogliamo ancora più armi e più guerra?” su SULCIS IGLESIENTE OGGI, 16 marzo 2025 – n. 9

Redazione Sardigna

Quale Europa? Nostra patria è il mondo intero!

La fortezza Europa affila i denti (per il momento quelli da latte) e prepara robuste dentiere d’acciaio per i tempi a venire quando IL nemico per eccellenza (l’orso russo) l’assalirà per prenderla alla gola. Avanti allora con lo stanziamento ‘previsto’ di 800 miliardi di euro per l’industria delle armi – europee ma soprattutto statunitensi – avanti con il riarmo, con la reintroduzione della leva militare e soprattutto con la militarizzazione dell’intera società. Avanti verso la guerra: in fin dei conti è sempre con un bagno di sangue che le nazioni nascono, crescono e si consolidano. La storia degli Stati europei è lì a raccontarcelo. L’ultima della serie è stato il conflitto sanguinoso (ormai dimenticato) degli anni ’90 nella ex Repubblica federativa d’Jugoslavia e la conseguente nascita di tanti staterelli. Ora è la volta dell’Europa che se vuole dar vita ai fatidici Stati Uniti d’Europa deve percorrere la strada del sacrificio bellico, del sangue comune versato contro IL nemico: l’unico metodo per fare sentire veramente europei, nazionalisti europei, popoli attraversati e separati da secoli di conflitti, di contrapposizioni, di antagonismi. Il linguaggio delle armi è unico, comprensibile e praticabile da tutti.

Ormai la parola d’ordine dell’esercito europeo è sulla bocca di: media, intellettuali di prestigio, giornalisti d’eccellenza, politici di rango. In Europa e in Italia. Macron, che rispolvera di fatto addirittura i propositi della Nouvelle Droite, offre l’ombrello atomico insieme al laburista Starmer, il polacco Tusk afferma con sicumera che la guerra con la Russia è questione di poco, il tedesco Merz vuole a gran voce riarmo e bombe nucleari. Liberal-democratici, cristiano sociali, socialdemocratici tutti a braccetto a votare a Bruxelles per dare 800 miliardi alla famelica industria delle armi. In Italia è in scena il solito teatrino degli opportunismi tipico del ‘vorrei ma non posso’. La classe politica italiana deve fare i conti con un’opinione pubblica (quella vera, non quella interpretata dai media) che, in maggioranza, è contraria alla guerra e al riarmo, che non ama la burocrazia della UE, né Putin, né Trump. E vorrebbe piuttosto una sanità che funzioni, che aumentino i salari, che i servizi pubblici siano all’altezza della domanda sociale. Allora ecco le furbizie della Meloni che si barcamena tra Trump e la UE, il Partito Democratico con un piede in due scarpe e utilizza il voto sugli 800 miliardi per la resa dei conti interna, la Lega di Salvini che fa la voce grossa ma poi rimane nel governo che vota il riarmo.

E tutto questo in una cornice di retorica bellicista sparsa a piene mani da voci ‘autorevoli’ che richiamano i maschi italici all’orgoglio virile, allo spirito combattivo: tra poco arriveremo ai panciafichisti di mussoliniana memoria.

Non manca nemmeno chi, come Michele Serra, dalle colonne di Repubblica, il quotidiano della famiglia Elkann Agnelli, ha chiamato a scendere in piazza per manifestare per l’Europa raccogliendo adesioni a destra e a manca, un altro quadretto significativo di quanto sta accadendo nel nostro paese: occultare nel nome dell’unità europea il disegno del riarmo complessivo e della centralizzazione politica guidata dagli Stati più forti della UE. Sotto le bandiere blu gli azionisti della principale industria delle armi italiana, la Leonardo, hanno sfilato insieme alle bandiere arcobaleno della CGIL a quelle del PD e a Fratoianni. Ma l’Europa per la quale hanno sfilato è quella della Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, quella delle ultime, severe e inumane, leggi sul rimpatrio forzato degli immigrati irregolari. Non è l’Europa di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

L’occasione d’altronde è unica per il nazionalismo continentale, con Trump che attacca l’Unione europea minacciando sfracelli economici e il ritiro delle truppe americane (e intanto manda nelle basi USA del vecchio continente le bombe atomiche di ultima generazione…), addirittura l’uscita dalla NATO (quando in realtà vuole semplicemente usarla per maggiori forniture d’arma di marca USA) e l’alleanza sotto traccia con la Russia di Putin per incrinare il suo rapporto con la Cina.

La modifica della struttura dell’Unione può passare attraverso la scelta militare delegando agli Stati, economicamente e numericamente, più forti la direzione di fatto della sua politica. Francia, Germania, Polonia, Italia, Spagna han dato vita a riunioni separate facendo pure rientrare nell’alveo UE la Gran Bretagna a guida laburista. L’aumento delle spese militari, la riorganizzazione dell’industria militare, sono sul tavolo, il problema è, per loro, quale forma assumerà la necessaria centralizzazione e il comando dell’intera operazione.

La trasformazione della UE in un gigante imperialista e militarista alla pari di USA, Russia e Cina è da tempo nei desideri delle borghesie nazionali del vecchio continente. Fino ad ora hanno usufruito dei vantaggi della ‘protezione’ americana loro garantita nei confronti di ogni possibile insorgenza sociale, pur subendo il freno posto dagli USA ad ogni autonomia strategica. Ma ora che lo scontro intercapitalistico portato agli estremi da Trump è al calor bianco, grazie alla politica dei dazi, e agli appetiti crescenti nei confronti di altri territori e delle loro risorse (la Groenlandia – e in prospettiva l’Artico -, il Canada e Panama, per non parlare dell’accordo di rapina sulle terre rare ucraine), queste borghesie sono sul piede di guerra e pongono sul piatto il tema, ormai ineludibile per loro, dell’unità concreta, quindi politica e militare, dell’agglomerato dei 27.

Preservare i propri mercati, quindi i propri profitti e i propri apparati industriali diventa fondamentale per sopravvivere in questa fase dove uno degli attori principali, gli USA, ha deciso di andare alla riscossione dei propri crediti e alla riduzione dei propri debiti.

‘Il rapporto sulla competitività’ di Mario Draghi diventa, in questo quadro, la Bibbia del buon nazionalista europeo. Ecco quindi la revisione delle politiche comunitarie, in primis quella dell’industria dell’automobile, la riduzione dei piani di transizione ecologica, il rilancio del nucleare, e, ciliegina sulla torta, la costruzione di un polo militar-industriale continentale in grado di dare ossigeno all’apparato produttivo europeo, grazie all’enorme contributo economico degli 800 miliardi promessi da Ursula von der Leyen con il suo ‘ReArm Europe’, soldi a debito sottratti alle spese sociali. Non è una novità; da tempo, in Italia, siamo ormai assuefatti al trasferimento di ricchezza sociale dal pubblico al privato, e questo anche sull’onda delle politiche UE basate sull’austerità. Quell’austerità che ha impoverito pesantemente il proletariato europeo. Ricordiamoci della Grecia e di quanto soffrì la popolazione ellenica grazie a quelle politiche che fecero strame di una pur minima solidarietà tra i popoli, elemento fondante questa di una qualsivoglia concezione di unità. Quell’unità che oggi si invoca per far fronte al nemico, la stessa invocazione che si è sempre alzata al momento delle armi e del conflitto. Un’invocazione che nasconde un disegno ben più pericoloso di un nemico che non ha nessuna intenzione di arrivare fino a Lisbona: quello della militarizzazione della società, della sua gerarchizzazione spinta, della sua trasformazione/conversione in un blocco acefalo imbevuto di suprematismo comunque si manifesti.

Il crollo dell’ordine mondiale che stiamo vivendo, la fine del bipolarismo, l’emergere di nuovi soggetti politici ed economici, il riscaldamento climatico con tutti i suoi effetti e i processi migratori che genererà, i mutamenti indotti dall’applicazione crescente dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro e nella società, sono tutti elementi che spingono verso soluzioni autoritarie se non si sarà in grado di dare risposte efficaci, se non si innalzeranno barricate simboliche e concrete alla barbarie dilagante. Smascherare la retorica dell’unità della fortezza Europa e del suo esercito è un passo in questa direzione.

Massimo Varengo

L'articolo Quale Europa? Nostra patria è il mondo intero! proviene da .

Cosa vogliono Putin e Trump

Durante il tardo pomeriggio di martedì 18 marzo a Mosca, mentre Vladimir Putin era impegnato in una lunga conversazione telefonica con Donald Trump, sono state rimosse le lettere Z, V, O – simboli dell’invasione russa dell’Ucraina – piazzate da più di un anno e mezzo davanti all’ambasciata degli Stati Uniti. Una notizia simbolica, che immediatamente ha visto reazioni ironiche da un lato e di sdegno dall’altro, ma durata poco: nel corso della serata le lettere son tornate al proprio posto – ufficialmente erano state rimosse per esser ripulite - a ricordare più ai moscoviti che ai dipendenti (pochi, dopo le espulsioni reciproche) della rappresentanza diplomatica americana di come il Cremlino continui a essere sulle proprie posizioni.

Può sembrare un’esagerazione, ma ieri dalle 15:30 per circa due ore agenzie di stampa, corrispondenti, diplomatici, analisti e anche comuni cittadini in varie parti del mondo hanno atteso gli esiti del vertice telefonico, forse aspettandosi un passo in avanti verso l’apertura di trattative di pace o, in seconda battuta, verso la proposta di tregua di 30 giorni avanzata nell’incontro tra le delegazioni statunitense e ucraina a Gedda; l’esito del colloquio è stato però ben diverso, e anche nel leggere il comunicato del Cremlino, pubblicato dal sito ufficiale della presidenza russa, e le dichiarazioni alla stampa da parte americana, colpisce come, al di là dell’ottimismo e del trionfalismo (quest’ultimo tra i marchi di fabbrica di Trump), vi sia abbastanza poco per quanto riguarda la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina.

A essere dominante, leggendo le parole scelte nel comunicare (parzialmente) i contenuti della telefonata, è l’impressione che da parte russa non vi sia alcuna fretta nel sedersi al tavolo dei negoziati, e si prenda tempo, una sensazione rafforzata dalla lettura di alcuni passaggi del comunicato, a partire dal secondo paragrafo:

Ribadendo il principio della risoluzione pacifica del conflitto, il presidente russo si è dichiarato disponibile a un'analisi approfondita con i partner americani delle possibili vie di soluzione, che dovrebbero essere globali, sostenibili e a lungo termine. Ha sottolineato, inoltre, la necessità imprescindibile di affrontare le cause profonde della crisi e di garantire il rispetto degli interessi legittimi della Russia in materia di sicurezza.

Misure come l’analisi approfondita richiedono il lavoro di decine di funzionari, consiglieri, diplomatici e esperti, e in termini di durata vanno ben oltre la volontà, espressa chiaramente, della Casa Bianca di voler procedere quanto più in fretta possibile a una soluzione negoziale, ma per Vladimir Putin non vi è alcuna necessità di velocizzare il processo, anzi: sempre nel comunicato si annuncia la costituzione di commissioni bilaterali per l’elaborazione di proposte per proseguire negli sforzi di risoluzione, una misura che di per sé richiede dei tempi tecnici la cui durata appare difficile da pronosticare.

La dilazione, tattica scelta dal Cremlino, non è però mai netta, come anche il rifiuto sostanziale di un accordo con l’Ucraina, almeno in questo momento: dopo aver denunciato ancora una volta “l’inaffidabilità” del governo di Kyiv, ulteriore rimando alla volontà di rimuovere Volodymyr Zelensky, si accetta una proposta di sospensione per 30 giorni degli attacchi alle infrastrutture energetiche – centrali elettriche, raffinerie, gasdotti e così via – come primo passo, assieme a uno scambio di 175 prigionieri di guerra per 175, verso future prove tecniche di trattativa, che appaiono però sempre distanti all’orizzonte. Nel comunicato del Cremlino leggiamo, in un breve paragrafo, che “condizione chiave” è “la cessazione totale degli aiuti militari stranieri e del supporto di intelligence” a Kyiv, un passaggio poi smentito indirettamente da Donald Trump, il quale in un’intervista a Fox News poco dopo la telefonata ha sostenuto di non aver discusso del riarmo ucraino. 

Vladimir Putin ritiene di essere in vantaggio nel condurre la complessa partita con Donald Trump sugli equilibri globali, di cui l’Ucraina è una parte importante per la Russia ma appare (almeno adesso) esserlo molto meno per gli Stati Uniti, un elemento che appare presente indirettamente anche nel post su X della portavoce del presidente americano Karoline Leavitt, dove, a differenza del comunicato di Mosca, vi è un passaggio sulla sicurezza in Medio Oriente e sull’impegno dei due leader nell’evitare la “distruzione di Israele” da parte dell’Iran, parole che vengono dopo l’attacco statunitense alle basi degli Houthi in Yemen. Teheran, vicinissima alla Russia negli ultimi tre anni di guerra, attiva nei rifornimenti di missili e droni, potrebbe essere una pedina sacrificabile per Putin in cambio dell’Ucraina.

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Gli obiettivi del regime russo restano sempre gli stessi enunciati in queste settimane, e presenti sia nel comunicato che nell’intervento del presidente al congresso annuale dell’Unione degli industriali e degli imprenditori russi, avvenuto nella mattinata del 18 marzo: dopo aver ricordato ai presenti che vi sono 28.595 sanzioni nei confronti delle aziende e di esponenti russi e di dover per questo puntare allo sviluppo dell’economia nazionale solo sulle proprie forze, nel corso di una sessione chiusa al pubblico e rivolta a riferire di quali passi siano stati fatti nel corso dei contatti con gli americani, Putin e il suo consigliere economico Maksim Oreshkin avrebbero chiarito come per Mosca la situazione al fronte sia positiva, le truppe ucraina non riescono a “trincerarsi”, per cui  le condizioni avanzate restano quelle dichiarate, per far in modo come, secondo quanto riferito da alcune fonti al giornalista Andrei Kolesnikov:

Quanto ottenuto non possa esser tolto (alla Russia) e che si debbano riconoscere come parte della Russia la Crimea, Sebastopoli e i quattro territori già noti: le repubbliche di Luhansk e Donetsk, nonché le regioni di Kherson e Zaporizhya.
Se ciò dovesse accadere nel prossimo futuro, la Russia - mi hanno detto i partecipanti all’incontro - non rivendicherebbe Odessa né altri territori attualmente appartenenti all’Ucraina.
Tuttavia, anche questa posizione potrebbe cambiare, perché "non fanno in tempo a trincerarsi". (si riferiscono agli ucraini — GS)

Mosca ritiene, in questo momento, di poter ottenere – con la forza o con i negoziati, ma preferisce in questo momento la prima – i suoi obiettivi per poter dichiarare “vittoriosa” l’operazione speciale militare, e difficilmente Vladimir Putin cederà, perché si considera vicino alla meta; poco importa quali prezzi vi siano da pagare.

Nel corso della notte tra il 18 e il 19 marzo 57 droni ucraini, secondo il Ministero russo della Difesa, sarebbero stati abbattuti sui cieli delle regioni russe di Kursk, Orel, Tula, Bryansk e sul Mar d’Azov, mentre per il dicastero di Kyiv la Russia avrebbe attaccato con due missili Iskander, quattro C-300, e 145 droni, di cui 72 colpiti e 56 dispersi. Una raffineria nei pressi del villaggio di Kavkazskaya, nella regione di Krasnodar, è stata colpita dai droni ucraini, nella stessa notte a Kyiv per 6 ore c’è stata l’allerta aerea; la tregua e la pace, dai cieli di queste parti d’Europa, appaiono lontane, parole dette al telefono mentre il mondo attende, tra distruzioni e rovine.

Immagine in anteprima: frame video TG2000 via YouTube

Una riflessione su quale pace sia possibile tra Ucrania e Russia e sul ruolo dell’Europa

Quale pace per l’Ucraina? Quale ruolo per l’Europa?

Mentre il termine pace può avere tanti significati e vi si possono applicare innumerevoli aggettivi: giusta, ingiusta, parziale, armata, precaria, stabile, ecc., ecc., il termine guerra identifica invece un’unica realtà, quella del conflitto armato, che genera solo morti, devastazioni, ingiustizie; un dolore generalizzato che si trasferisce alle generazioni successive e genera ulteriori drammi, conflitti e guerre, con un orizzonte temporale potenzialmente infinito.

Ce ne accorgiamo ogni volta che si riaccendono antichi rancori tra popoli confinanti, ma tenuti separati e incattiviti l’uno contro l’altro da governanti senza scrupoli, o tra gruppi politico-religiosi da secoli in competizione per il controllo sociale dei loro territori.

La guerra è solo quella cosa lì: tragica, inequivocabile, disgustosa.

È inaccettabile che la si possa preferire a qualsiasi straccio di pace, così come non è corretto che di fronte alla possibilità di un accordo che faccia tacere le armi, si metta in campo la questione della giustizia.

Ha senso uccidere e morire per affermare ciò che sembra essere giusto?

Certo sarebbe ingiusto se l’Ucraina, soggiogata con la forza delle armi da un paese evidentemente molto più forte militarmente, dovesse rinunciare all’esercizio della propria sovranità su vasti territori e su risorse di grande valore, ma, chiediamoci: questa ingiustizia è confrontabile con quella associata alla morte in guerra di mezzo milione di ucraini e di altrettanti russi, entrambi innocenti, immolati sull’altare della patria dai loro rispettivi governi?

Se è evidente che non può essere giusto mandare a morire centinaia di migliaia di concittadini per aggredire un paese, può essere giusto, invece, dall’altra parte, mandarne altrettanti, ugualmente a morire, per difendere il paese aggredito?

C’è, nel Vangelo (Lc 14,31-33), un brano di grande intelligenza popolare che considera come un’eventualità assurda quella in cui un Re, vedendo il proprio paese aggredito da un nemico, non si preoccupi di sapere se le proprie forze sono sufficienti a fermarlo, e qualora non lo siano, non gli mandi un’ambasciata di pace.

Si tratta forse di una saggezza antica non più applicabile? Che succede nella modernità, le questioni di principio (come la sovranità di uno stato) sono forse diventate più importanti della vita di milioni di persone? In realtà, a giudicare da come sono state trattate negli ultimi decenni certe questioni geopolitiche non si direbbe proprio, vedi Iraq, Afghanistan, Palestina, Yemen, Ruanda, Libia, Siria, ecc., ecc., in cui i paesi leader del mondo si sono regolarmente disinteressati del principio di sovranità, invadendo, devastando i territori e rovesciando i governi regolarmente in carica, oppure hanno lasciato che i contendenti si scannassero tra loro, magari supportando sotto banco la guerra, inviando armi e insegnando ad usarle, all’una o all’altra delle parti combattenti.

Gli Stati non combattono per giustizia, ma per interesse

Giustizia è una bellissima parola, ma quando viene invocata per giustificare una guerra si tratta sempre di una giustizia a geometria variabile, tesa come un velo a mascherare appetiti che prima o poi emergono dall’opacità.

Proprio come accade adesso con Trump che, come un capo mafioso senza freni inibitori, dopo che gli USA hanno aiutato l’Ucraina a difendersi da Putin, reclama il pagamento del pizzo (leggi “terre rare”) prospettando come alternativa ricattatoria l’abbandono degli ucraini alle mire del presidente russo.

Nella logica della forza il prezzo da pagare è la vita degli innocenti

La pace per l’Ucraina non può che passare attraverso un negoziato in cui, come in tutti i negoziati internazionali, il più debole perde qualcosa in più rispetto all’altro contendente. Pensarla diversamente significa non conoscere la Storia e anche rinunciare ad utilizzare la ragione. Perseguire la “vittoria” dell’Ucraina significherebbe stare comunque nella logica della forza, cioè armarla e sostenerla finché essa possa vincere contro il gigante militare russo che, non dimentichiamolo, possiede circa 6000 bombe atomiche.

Quale sarebbe il prezzo di un tale risultato?  Quanti morti, quanta devastazione? Quanto si allargherebbe il conflitto in corso? E, alla fine, che cosa si otterrebbe? Un’Ucraina, vincitrice, da ricostruire e una Russia piegata, impoverita, e ulteriormente incattivita. Ammesso che un eventuale conflitto, che potrebbe essere atomico, lasci ancora qualcosa di umano sul campo di battaglia.

E l’Europa? Ripudia ancora la guerra?

E l’Unione europea, col suo deposito secolare di saggezza e di cultura democratica, nata per difendere la pace, che fa di fronte a questo possibile scenario?

A giudicare dalle ultime notizie da Bruxelles, a seguito degli Stati Uniti che si arroccano nella difesa dei propri interessi particolari a corto raggio, l’Unione non trova di meglio che chiedere agli stati membri di armarsi fino ai denti per contrastare la possibilità di ulteriori conflitti ai propri confini, naturalmente non senza conseguenze sulla spesa sociale, che poi è l’unica che, al di là degli annunci, può offrire ai cittadini europei la possibilità di una giustizia vera e concreta, non fatta di proclami, ma di sostanza.

La Storia dimostra che le armi sono, da un punto di vista puramente economico, una merce come le altre, prodotta da soggetti che guadagnano in base alle leggi del mercato e soggetta alle stesse regole della società dei consumi, per cui produrre più armi significa automaticamente doverne usare di più, e perciò non possono costituire un freno alla guerra. Dovrebbe essere chiaro ed evidente per tutti: più armi e più soldati da una parte della barricata significano più armi e più soldati dall’altra parte.

Riformare le organizzazioni internazionali

Se ora è Putin a far paura all’Europa, domani potrebbero essere gli Stati Uniti (le minacce di Trump alla Groenlandia non possono lasciarci indifferenti) o una qualsiasi delle altre potenze mondiali.

E allora? Come si fa? Posto che le armi, ovviamente, non possono portare la pace, sarebbe invece necessario concentrare tutti gli sforzi europei verso l’innalzamento degli standard interni ed esterni di democrazia, giustizia e benessere; internamente, tra i cittadini dei paesi membri ed esternamente, puntando a potenziare le relazioni positive con tutti i paesi partner commerciali e istituzionali.

Tra questi paesi deve essere necessariamente ri-compresa anche la Russia, che rimane ad oggi uno dei membri più importanti dell’ONU.

Ricordiamoci infatti che essa ha diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, insieme a Cina, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Un assurdo giuridico che sarebbe da eliminare quanto prima in quanto blocca le decisioni più importanti e riduce gli altri membri delle Nazioni Unite a dei soggetti inferiori.

La pace va cercata prima di tutto incrementando la democrazia interna, l’autorevolezza e il potere regolatorio dell’ONU e degli altri organismi internazionali per la pace, rinforzando il dialogo e la cooperazione internazionale e promuovendo corrette relazioni commerciali, con attenzione alle condizioni etiche e di sostenibilità ambientale dei siti di produzione.

Se Von der Leyen e compagni decidessero di ri-orientare la spesa in modo da incrementare la democrazia e la giustizia, dentro e fuori la UE, farebbero davvero il bene degli europei e del mondo intero, ma purtroppo le decisioni sembrano già prese e vanno in tutt’altra direzione. Se si vuole la pace, non rimane che protestare e operare per un urgente, repentino, cambio di rotta.

Arnaldo Scarpa (Copresidente Rete Warfree – Lìberu dae sa gherra, Portavoce Comitato Riconversione Rwm)

Altra versione:  “Vogliamo ancora più armi e più guerra?” su SULCIS IGLESIENTE OGGI, 16 marzo 2025 – n. 9

Redazione Sardigna