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Una riflessione su quale pace sia possibile tra Ucrania e Russia e sul ruolo dell’Europa

Quale pace per l’Ucraina? Quale ruolo per l’Europa?

Mentre il termine pace può avere tanti significati e vi si possono applicare innumerevoli aggettivi: giusta, ingiusta, parziale, armata, precaria, stabile, ecc., ecc., il termine guerra identifica invece un’unica realtà, quella del conflitto armato, che genera solo morti, devastazioni, ingiustizie; un dolore generalizzato che si trasferisce alle generazioni successive e genera ulteriori drammi, conflitti e guerre, con un orizzonte temporale potenzialmente infinito.

Ce ne accorgiamo ogni volta che si riaccendono antichi rancori tra popoli confinanti, ma tenuti separati e incattiviti l’uno contro l’altro da governanti senza scrupoli, o tra gruppi politico-religiosi da secoli in competizione per il controllo sociale dei loro territori.

La guerra è solo quella cosa lì: tragica, inequivocabile, disgustosa.

È inaccettabile che la si possa preferire a qualsiasi straccio di pace, così come non è corretto che di fronte alla possibilità di un accordo che faccia tacere le armi, si metta in campo la questione della giustizia.

Ha senso uccidere e morire per affermare ciò che sembra essere giusto?

Certo sarebbe ingiusto se l’Ucraina, soggiogata con la forza delle armi da un paese evidentemente molto più forte militarmente, dovesse rinunciare all’esercizio della propria sovranità su vasti territori e su risorse di grande valore, ma, chiediamoci: questa ingiustizia è confrontabile con quella associata alla morte in guerra di mezzo milione di ucraini e di altrettanti russi, entrambi innocenti, immolati sull’altare della patria dai loro rispettivi governi?

Se è evidente che non può essere giusto mandare a morire centinaia di migliaia di concittadini per aggredire un paese, può essere giusto, invece, dall’altra parte, mandarne altrettanti, ugualmente a morire, per difendere il paese aggredito?

C’è, nel Vangelo (Lc 14,31-33), un brano di grande intelligenza popolare che considera come un’eventualità assurda quella in cui un Re, vedendo il proprio paese aggredito da un nemico, non si preoccupi di sapere se le proprie forze sono sufficienti a fermarlo, e qualora non lo siano, non gli mandi un’ambasciata di pace.

Si tratta forse di una saggezza antica non più applicabile? Che succede nella modernità, le questioni di principio (come la sovranità di uno stato) sono forse diventate più importanti della vita di milioni di persone? In realtà, a giudicare da come sono state trattate negli ultimi decenni certe questioni geopolitiche non si direbbe proprio, vedi Iraq, Afghanistan, Palestina, Yemen, Ruanda, Libia, Siria, ecc., ecc., in cui i paesi leader del mondo si sono regolarmente disinteressati del principio di sovranità, invadendo, devastando i territori e rovesciando i governi regolarmente in carica, oppure hanno lasciato che i contendenti si scannassero tra loro, magari supportando sotto banco la guerra, inviando armi e insegnando ad usarle, all’una o all’altra delle parti combattenti.

Gli Stati non combattono per giustizia, ma per interesse

Giustizia è una bellissima parola, ma quando viene invocata per giustificare una guerra si tratta sempre di una giustizia a geometria variabile, tesa come un velo a mascherare appetiti che prima o poi emergono dall’opacità.

Proprio come accade adesso con Trump che, come un capo mafioso senza freni inibitori, dopo che gli USA hanno aiutato l’Ucraina a difendersi da Putin, reclama il pagamento del pizzo (leggi “terre rare”) prospettando come alternativa ricattatoria l’abbandono degli ucraini alle mire del presidente russo.

Nella logica della forza il prezzo da pagare è la vita degli innocenti

La pace per l’Ucraina non può che passare attraverso un negoziato in cui, come in tutti i negoziati internazionali, il più debole perde qualcosa in più rispetto all’altro contendente. Pensarla diversamente significa non conoscere la Storia e anche rinunciare ad utilizzare la ragione. Perseguire la “vittoria” dell’Ucraina significherebbe stare comunque nella logica della forza, cioè armarla e sostenerla finché essa possa vincere contro il gigante militare russo che, non dimentichiamolo, possiede circa 6000 bombe atomiche.

Quale sarebbe il prezzo di un tale risultato?  Quanti morti, quanta devastazione? Quanto si allargherebbe il conflitto in corso? E, alla fine, che cosa si otterrebbe? Un’Ucraina, vincitrice, da ricostruire e una Russia piegata, impoverita, e ulteriormente incattivita. Ammesso che un eventuale conflitto, che potrebbe essere atomico, lasci ancora qualcosa di umano sul campo di battaglia.

E l’Europa? Ripudia ancora la guerra?

E l’Unione europea, col suo deposito secolare di saggezza e di cultura democratica, nata per difendere la pace, che fa di fronte a questo possibile scenario?

A giudicare dalle ultime notizie da Bruxelles, a seguito degli Stati Uniti che si arroccano nella difesa dei propri interessi particolari a corto raggio, l’Unione non trova di meglio che chiedere agli stati membri di armarsi fino ai denti per contrastare la possibilità di ulteriori conflitti ai propri confini, naturalmente non senza conseguenze sulla spesa sociale, che poi è l’unica che, al di là degli annunci, può offrire ai cittadini europei la possibilità di una giustizia vera e concreta, non fatta di proclami, ma di sostanza.

La Storia dimostra che le armi sono, da un punto di vista puramente economico, una merce come le altre, prodotta da soggetti che guadagnano in base alle leggi del mercato e soggetta alle stesse regole della società dei consumi, per cui produrre più armi significa automaticamente doverne usare di più, e perciò non possono costituire un freno alla guerra. Dovrebbe essere chiaro ed evidente per tutti: più armi e più soldati da una parte della barricata significano più armi e più soldati dall’altra parte.

Riformare le organizzazioni internazionali

Se ora è Putin a far paura all’Europa, domani potrebbero essere gli Stati Uniti (le minacce di Trump alla Groenlandia non possono lasciarci indifferenti) o una qualsiasi delle altre potenze mondiali.

E allora? Come si fa? Posto che le armi, ovviamente, non possono portare la pace, sarebbe invece necessario concentrare tutti gli sforzi europei verso l’innalzamento degli standard interni ed esterni di democrazia, giustizia e benessere; internamente, tra i cittadini dei paesi membri ed esternamente, puntando a potenziare le relazioni positive con tutti i paesi partner commerciali e istituzionali.

Tra questi paesi deve essere necessariamente ri-compresa anche la Russia, che rimane ad oggi uno dei membri più importanti dell’ONU.

Ricordiamoci infatti che essa ha diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, insieme a Cina, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Un assurdo giuridico che sarebbe da eliminare quanto prima in quanto blocca le decisioni più importanti e riduce gli altri membri delle Nazioni Unite a dei soggetti inferiori.

La pace va cercata prima di tutto incrementando la democrazia interna, l’autorevolezza e il potere regolatorio dell’ONU e degli altri organismi internazionali per la pace, rinforzando il dialogo e la cooperazione internazionale e promuovendo corrette relazioni commerciali, con attenzione alle condizioni etiche e di sostenibilità ambientale dei siti di produzione.

Se Von der Leyen e compagni decidessero di ri-orientare la spesa in modo da incrementare la democrazia e la giustizia, dentro e fuori la UE, farebbero davvero il bene degli europei e del mondo intero, ma purtroppo le decisioni sembrano già prese e vanno in tutt’altra direzione. Se si vuole la pace, non rimane che protestare e operare per un urgente, repentino, cambio di rotta.

Arnaldo Scarpa (Copresidente Rete Warfree – Lìberu dae sa gherra, Portavoce Comitato Riconversione Rwm)

Altra versione:  “Vogliamo ancora più armi e più guerra?” su SULCIS IGLESIENTE OGGI, 16 marzo 2025 – n. 9

Redazione Sardigna