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“Riapriamo le porte degli immobili fantasma”: la Campagna del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio

Dati dell’ISTAT certificano che nel nostro Paese quasi un terzo delle abitazioni esistenti risulta essere inutilizzato, vuoto, sfitto. Si tratta di un ingente patrimonio di oltre 10 milioni di abitazioni non occupate e di queste 5 milioni e mezzo sono “abitazioni vuote o occupate esclusivamente da persone non dimoranti abitualmente”. Quindi, 5 milioni di abitazioni (e più) sono sprangate e in declino.

Siamo di fronte ad un patrimonio abitativo che potrebbe ospitare una media di 10/12 milioni di abitanti e consentire l’azzeramento di tutte le previsioni edificatorie dei nostri Comuni. Un dato enorme, quasi sempre trascurato, al quale vanno sommati i tanti capannoni produttivi/commerciali/agricoli sparsi sui territori. Uno stock immenso di edifici “passivi”, privi di quella “funzione sociale” richiamata con lucida concretezza dall’articolo 42 della nostra Costituzione.

Gran parte di questo patrimonio immobiliare inutilizzato versa, poi, in stato di abbandono o degrado, ledendo l’estetica paesaggistica dei territori e creando condizioni di pericolo e di minaccia alla sicurezza dei cittadini. Questa rilevante parte edificata, che non assolve più a un “ruolo” sociale, quasi sempre non è presa in alcuna considerazione quando i nostri Enti locali si cimentano con Piani Regolatori o Piani di Gestione del Territorio che prevedono ampie possibilità di nuove costruzioni e, ovviamente, di ulteriori danni alle collettività causati dal conseguente consumo di suolo. Comuni che dovrebbero, invece, porsi l’obiettivo di azzerare il consumo di suolo senza penalizzare i bisogni della popolazione, attraverso azioni in grado di rimettere a loro disposizione proprio quell’ingente stock immobiliare oggi inutilizzato.

Il Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, già attivo con una Proposta di legge per l’arresto del consumo di suolo e il riuso dei suoli urbanizzati, ha avviato da tempo una nuova campagna rivolta ai Comuni affinché intervengano sugli immobili privati in stato di abbandono, tornando ad esercitare il loro diritto di proprietà, in linea con una corretta interpretazione e applicazione dell’articolo 42 della Costituzione, secondo le tesi di Paolo Maddalena, Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale, che ha puntualmente ricostruito la genesi della proprietà, che vede le sue radici nella proprietà collettiva, la quale precede storicamente la proprietà individuale e ancora oggi mantiene la sua prevalenza logica e giuridica su quest’ultima: https://www.youtube.com/watch?v=qjffb85On7Q.

Occorre ovviamente che i Comuni si dotino di un Regolamento comunale basato su una corretta applicazione dell’articolo 42 della Costituzione Italiana relativo alla “funzione sociale” che la proprietà privata deve assicurare alla collettività. Il comune marchigiano di Terre Roveresche (PU) ha già adottato, dal 2017, il regolamento. L’esperienza di questo Comune pionieristico è in atto da quasi dieci anni e ha già ottenuto sette acquisizioni al patrimonio comunale, dimostrando che si tratta di una strada applicabile ovunque. Ma le Amministrazioni comunali hanno bisogno di essere incentivate dalle cittadine e dai cittadini, i quali possono invitare – per esempio – i propri amministratori ad approfondire il tema per analizzare l’esempio virtuoso di Terre Roveresche.

Il Forum nazionale Salviamo il Paesaggio ha messo a punto per i Comuni un vero e proprio iter procedurale: 1. Attuare un censimento del patrimonio immobiliare esistente nel Comune, mettendo in luce il dato numerico di quanto già presente in condizioni di inutilizzo, i beni inutilizzati e/o derelitti di proprietà pubblica, privata o di altra natura che si trovino in uno stato di abbandono e/o di degrado, i beni che possano determinare danni per l’ambiente, pericoli per la pubblica o privata incolumità, preoccupazioni per le testimonianze culturali e storiche, i beni che possano essere occasione per attività e comportamenti illeciti, i beni in qualunque modo abbandonati e/o inutilizzati e quindi non più rispondenti ad alcuna funzione sociale e/o che possano ledere l’interesse generale, così come disciplinato dalla nostra Costituzione repubblicana nonché dall’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

2. Affrontare il tema sia all’interno del Consiglio comunale sia attraverso pubbliche assemblee, aperte a tutta la cittadinanza, per una necessaria disseminazione culturale e presa di coscienza individuale e collettiva.

3. Individuare e predisporre un elenco di beni aventi le caratteristiche di “beni comuni”, pubblicandoli all’interno del sito web del Comune, e definire un protocollo di responsabilità che disciplini l’utilizzo dei singoli beni individuati.

4. Emettere un’Ordinanza intimando ai relativi proprietari di adottare (entro 120 giorni) tutti i provvedimenti necessari per eliminare eventuali condizioni di pericolo e urgenti opere di messa in sicurezza degli immobili, condizioni di pregiudizio alla sanità e igiene pubblica, ripristino delle condizioni di decoro dei beni fatiscenti o in stato di abbandono e inutilizzo, perseguimento della “funzione sociale”.

5. Decorsi i 120 giorni dalla notifica dell’atto, i proprietari hanno facoltà di presentare le proprie deduzioni o richiedere una proroga di 180 giorni. Decorso inutilmente il termine senza che sia stato adempiuto a quanto intimato dall’amministrazione, il Comune avrà la facoltà di acquisire (dichiarare acquisito il bene, ope constitutionis) al patrimonio del Comune e iniziare la procedura relativa, mediante deliberazione del Consiglio Comunale, successivamente trascritta nei pubblici registri immobiliari.

Spesso però i Comuni non dispongono di risorse finanziarie per ristrutturare/manutenere il bene immobile acquisito. Per questo, il Forum nella sua Proposta di legge per l’arresto del consumo di suolo e il riuso dei suoli urbanizzati, purtroppo ancora “ferma al palo”, ha inserito il recupero della “funzione sociale” dei beni abbandonati, che, se tornassero nuovamente nelle disponibilità delle nostre Comunità, renderebbero ancora più semplice imboccare la strada della crescita zero urbanistica: stop alle nuove edificazioni e contemporaneo riutilizzo di tutto l’ingente patrimonio oggi inutilizzato.

Qui per scaricare tutti i materiali: http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2025/03/immobili-privati-in-stato-di-abbandono-e-costituzione-la-repubblica-torna-ad-esercitare-il-suo-diritto-di-proprieta/.

Giovanni Caprio

Un nuovo Manifesto di Ventotene?

Lo sguardo sulla Terra da un satellite artificiale ha lasciato folgorati quasi tutti gli astronauti che lo hanno potuto gettare, tanto da indurre alcuni a cambiare completamente il loro modo di pensare. La Terra, ha dichiarato uno di loro, mi è apparsa un corpo unico, tutto interconnesso, molto fragile, tormentato dagli interventi umani. Quelle prime immagini pervenute dallo spazio avevano folgorato anche James Lovelock e Lynn Margulis, spingendoli a elaborare la teoria, o la visione, di Gaia: la Terra è un unico grande organismo che si autoregola, tenuto in vita da tutto ciò che la ricopre e la popola – acqua, aria, suolo ed ecosistemi – mentre molti degli interventi umani ne sono la malattia. E’ la verità dell’Antropocene, l’era della trasformazione della realtà fisica della Terra, ma anche della sua devastazione, da parte della specie umana.

Niente ci avvicina alla Terra più di quello sguardo da lontano. Per questo quelle immagini andrebbero mostrate, illustrate, commentate e approfondite il più spesso possibile nelle scuole, sui media e in ogni sede del discorso pubblico, perché parlano più e meglio di qualsiasi teoria e ne sono premesse e complementi indispensabili.

Con la crisi climatica e ambientale ci stiamo avvicinando a grandi passi all’orlo di un baratro da cui non si torna indietro. Molti ne sono consapevoli, ma pochi (e tra questi la quasi totalità dell’establishment politico, finanziario, industriale e dei media di tutto il mondo) trovano la voglia, la forza o la capacità di misurarsi con il problema. Molti altri abitanti della Terra ne percepiscono il rischio in modo indistinto e irriflesso a partire da quanto sta cambiando sotto i loro occhi: non solo il clima, soprattutto quando sono vittime di eventi metereologici estremi, ma anche “la natura”, il vivente e persino l’ambiente costruito e manomesso. Pochi ne sono realmente all’oscuro. A spingere il carro dell’indifferenza è per lo più l’attaccamento ad abitudini o privilegi a cui non si sa rinunciare, ma soprattutto la paura di rimanere soli e indifesi, molto più di una vera adesione alle tesi di coloro che hanno fatto del negazionismo climatico una professione, per lo più ben retribuita dall’industria del petrolio e affini. Ma nessuno, comunque, sembra vedere nella guerra, nelle tante guerre in corso, un acceleratore micidiale della crisi climatica e ambientale, e con essa, e per essa, anche della nostra umanità.

Per noi che invece siamo consapevoli della minaccia esistenziale (è una parola di moda) rappresentata dalla crisi climatica e da tutto ciò che ne consegue, la guerra è il culmine e il punto di approdo di un modo di agire e pensare diffuso, indotto dai poteri dominanti, che da decenni hanno consapevolmente deciso di sacrificare la salvaguardia della nostra vita su questo pianeta all’imperativo della “crescita” del prodotto interno lordo (il PIL); che altro non è che ciò che Marx, e tanti con lui, chiamavano – e ora non chiamano più – “accumulazione del capitale”.

Quindi, tutto ok per quanto riguarda la decarbonizzazione, purché non intralci la crescita, anzi, purché contribuisca, in tutto o in parte, ad alimentarla. Se no, lasciamola perdere! Così è stato lungo tutta la trentennale sequenza delle CoP per l’attuazione dell’Accordo Quadro sul Clima, che hanno continuato a riunire ogni anno decine e decine di migliaia di “addetti ai lavori” senza mai definire né imporre delle misure efficaci, e avvolgendo invece tutto in un velo di ipocrisia. Trump, con il suo negazionismo climatico a base ostentatamente affaristica e antiscientifica, non ha fatto che accelerare la fuga dalla decarbonizzazione delle tante banche, imprese e istituzioni che vi si erano – a parole – impegnate, ma che, fiutando l’aria, avevano già imboccato la propria ritirata anche prima del suo ritorno al governo degli Stati Uniti.

Ma la guerra in Ucraina, come le altre in corso, avrebbe dovuto far riflettere: sostenerle, in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo, è la negazione assoluta di ogni aspirazione, progetto o ipotesi di conversione ecologica. Perché sotto il cappello della conversione ecologica si raccoglie tutto ciò che risulta condizione o conseguenza di una transizione energetica effettiva: pace, ambiente, diritto alla vita, dignità, democrazia, decentramento, eguaglianza, salute, istruzione, mentre la guerra, con il suo consumo di combustibili e materiali, l’inquinamento di suolo, aria e acque, la devastazione di edifici, impianti, strade, ponti, macchinari, la distruzione di vite e di esistenze, il comando che non può essere discusso, è la negazione di tutte quelle cose.

Ma quelle distruzioni non sono forse anche un arresto della crescita, dell’accumulazione del capitale, dell’economia? No: accumulazione del capitale non è la stessa cosa che capitale accumulato. La prima è un processo, il motore dello sviluppo capitalistico e della società che esso modella, il secondo è uno stock di beni che può anche essere azzerato, purché la prima non si interrompa, anche ricominciando da capo. Così la produzione bellica, per sostituire, integrare, accrescere le armi impiegate o distrutte in guerra può alimentare la crescita al posto delle industrie che non lo fanno più, come quella dell’auto, o non possono essere attive sotto le bombe, come quella delle costruzioni. Dunque, anche per l’Europa la guerra non è un’alternativa alla crescita, come lo è invece alla conversione ecologica, anzi, ne sta diventando il supporto. Anche per questo, nei tre anni della guerra in Ucraina, non c’è stata una sola iniziativa o un solo cenno di mediazione da parte dell’Unione Europea o di uno dei suoi Stati membri.

Non possiamo più, se mai l’abbiamo fatto, continuare ad affidarci a coloro che hanno da tempo imboccato quella strada; la loro cultura, i loro interessi, le loro abitudini, la loro ignoranza vanno tutte in quella direzione. Né possiamo contare sulle divergenze tra i Governi degli Stati europei per un’inversione di rotta. Ci vuole un taglio netto tra chi sta ai vertici ed è responsabile di quella deriva e tutti coloro che si ritrovano alla base della piramide sociale e vorrebbero vivere in un mondo diverso e senza guerre.

Il percorso per invertire rotta passa attraverso il ritiro della delega concessa a Stati e Governi, che peraltro l’hanno da tempo ceduta, a loro volta, alla finanza internazionale. E lo sviluppo dell’iniziativa di base non può darsi che abbandonando l’ossessione dei confini da “difendere” dai migranti e da nemici costruiti ad arte, per lo più con la menzogna.

Il confederalismo democratico del Rojava, multietnico, egualitario, partecipato e femminista, un processo in corso, ma forse anche la constatazione che l’obiettivo dei due Stati in Palestina è ormai irrealizzabile, e che l’unica soluzione prospettabile, un sogno a venire, certamente “a lungo termine”, è la convivenza, su un piede di parità, di due comunità diverse in un unico territorio che non sia più uno Stato, alludono entrambe alla direzione che dovrebbe imboccare una rifondazione dell’Europa orientata non alla guerra ma alla conversione ecologica.

Di fronte ai venti di guerra che stanno investendo l’Europa, occorre un ripensamento radicale come quello che oltre ottant’anni fa, nel pieno dell’offensiva nazifascista, aveva indotto tre militanti imprigionati e isolati in uno sperduto angolo dell’Europa a concepirne la rinascita in una visione che allora sembrava assurda. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di non essere solo in tre, ma molti di più, di non essere prigionieri, ma ancora liberi di circolare e confrontarci e di non essere già in piena guerra mondiale, ma di poterla ancora fermare. Forse è arrivato il momento di redigere insieme un nuovo “Manifesto di Ventotene” o qualcosa di analogo, adattato al nostro tempo, per prospettare una rinascita dal basso dell’Europa tenendo ferma la rotta della conversione ecologica. Può sembrare un’utopia assurda, ma certo non più pazza di quella che aveva ispirato i Tre di Ventotene.

 

Guido Viale

Dalla sala delle Nazioni Unite fino a Milano: un viaggio nel cuore del disarmo nucleare

Il 21 marzo 2025, presso Base Gaia a Milano, si è svolta una serata dedicata al disarmo nucleare. L’evento ha avuto inizio con la proiezione del documentario “L’inizio della fine delle armi nucleari” di Alvaro Orus, che ha fornito una panoramica sugli sforzi globali per eliminare queste armi e promuovere un mondo più sicuro. Tra i narratori c’è Ican – Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari – che porta in luce quanto il contributo della società civile sia stato fondamentale in questi anni per la crescita del progetto TPAN.

Dopo la proiezione la giornalista Greta Triassi ha condiviso le sue impressioni e informazioni raccolte durante la Terza conferenza degli Stati parte del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN), tenutasi a New York. Triassi ha evidenziato i temi discussi durante l’incontro, tra cui:

  • I ruoli istituzionali e la società civile
  • La geopolitica attuale in collisione con il progetto del TPAN
  • L’introduzione al TPAN
  • L’Italia e l’Europa
  • Impressioni ed emozioni dell’esperienza nella sede Onu a New York

La serata ha rappresentato un’opportunità per approfondire tematiche cruciali legate al disarmo nucleare e per riflettere sull’importanza di iniziative come il TPAN nel promuovere un mondo libero da armi nucleari. Il pubblico è intervenuto con interesse e curiosità, tanto da stimolare un nuovo progetto di comunicazione, riguardo la divulgazione del trattato, al fine di informare e restituire la giusta consapevolezza a più società civile possibile. Si è così pensato di strutturare una serie itinerante di seminari per divulgare e portare ovunque il progetto Ican, incrementando il  coinvolgimento di tutti in questo dialogo antinucleare.

Presto saranno comunicate le prime date del tour.

Redazione Milano

“Proteggi il dissenso”, corteo a Milano

“Tanto per cominciare, Marley era morto. Sul fatto non c’era il minimo dubbio”, esordisce così Dickens nel suo Canto di Natale, diretto, senza fronzoli. Esattamente in questo modo vogliamo dare la notizia dell’avvenuta scomparsa del Dissenso. Ne ha dato il triste annuncio Casa Pace, che venerdì 21 marzo dalle ore 18.00 in Piazza Archinto ne ha celebrato il funerale davanti a famiglie, bambini, avventori seduti attorno ai tavolini dei locali affacciati sulla piazza. La Banda degli Ottoni riempiva il silenzio rotto solo da singhiozzi di commozione. Mancherai come l’aria, Dissenso.

Un’azione nonviolenta che ha sfilato lungo le strade del quartiere Isola a Milano, per aumentare la consapevolezza nelle persone, per far sentire la propria voce in modo pacifico, contro un decreto che contiene al suo interno norme repressive verso il diritto alla critica.

Il DDL 1660 (DDL SICUREZZA), approvato alla Camera dei deputati nel settembre 2024, in attesa dell’approvazione al Senato, introduce una trentina di modifiche al codice penale formulando venti nuovi reati, estendendo sanzioni e aggravanti, e in alcuni casi ampliando le pene previste per reati già esistenti.  

Resistenza passiva: Introduzione di sanzioni fino a due anni di carcere per chi partecipa a proteste pacifiche con atti di disobbedienza nonviolenta come picchetti o blocchi stradali. Pene fino a vent’anni per chi protesta nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e nelle carceri.

Revoca della cittadinanza: Possibilità di revoca della cittadinanza italiana entro 10 anni dalla condanna per terrorismo o eversione.

Occupazione di immobili: Pene severe per l’occupazione arbitraria di immobili, con reclusione fino a sette anni.

Allontanamento da aree urbane (zone rosse): Potere del questore di disporre l’allontanamento di un cittadino da una determinata area urbana fino a 48 ore.

Norme contro la tutela delle persone in gravidanza e bambini piccoli: Abolizione dell’obbligo di rinvio della pena per donne incinte o madri di bambini piccoli, e pene aggravate per chi organizza o induce all’accattonaggio.

Limitazione della libertà di espressione: La norma potrebbe essere interpretata in modo da reprimere il dissenso e le opinioni critiche, configurandosi come una forma di censura.

Ambiguità normativa: Le definizioni vaghe di alcuni reati potrebbero permettere interpretazioni arbitrarie, aumentando il rischio di abusi.

Aggravamento delle pene: Aumento delle pene per reati di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale, con limitazione delle attenuanti.

Ulteriore tutela legale per le forze dell’ordine: Viene garantita una maggiore tutela legale per gli agenti coinvolti in procedimenti giudiziari legati al loro operato, con copertura delle spese legali da parte dello Stato.

Porto d’armi fuori servizio: Gli agenti di pubblica sicurezza possono portare, senza licenza, un’arma diversa da quella d’ordinanza anche fuori servizio. È garantita, da norma, una maggiore flessibilità nell’uso di armi personali.

Collaborazione con i servizi segreti: Condivisione di informazioni sensibili da parte delle pubbliche amministrazioni (comprese le università) ai servizi segreti (DIS, AISE, AISI) anche in deroga alle normative sulla privacy.

Andrea Mancuso

Trump e il nuovo disordine mondiale

La disputa tra il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, alla Casa Bianca non è avvenuta per caso. Al contrario, è stata una mossa calcolata, progettata per indicare a tutti, specialmente alle élite del Partito Repubblicano, il tipo di politica estera che Trump intende perseguire nei prossimi quattro anni.

Isolazionismo o globalismo?

La tensione tra le tendenze isolazioniste e globaliste nella politica estera degli Stati Uniti esiste da più di un secolo. Una delle espressioni più significative delle aspirazioni globaliste si è verificata nel 1918, quando il presidente Woodrow Wilson delineò i suoi Quattordici Punti, sostenendo un nuovo ordine mondiale dopo la Prima Guerra Mondiale e proponendo la creazione della Società delle Nazioni. Tuttavia, una volta formatasi, il Senato degli Stati Uniti si rifiutò di aderire, dimostrando la forte tendenza isolazionista degli Stati Uniti.

Gli americani hanno le loro ragioni per sostenere l’isolazionismo. Il fatto che il paese sia protetto geograficamente da due oceani e condivida confini solo con il Canada e il Messico garantisce una certa sicurezza. Inoltre, la sua posizione lontana da Europa e Asia rafforza l’inclinazione a evitare coinvolgimenti in conflitti stranieri. Un altro motivo di questo isolazionismo introspettivo è la grande dimensione e la diversità interna degli Stati Uniti. Essendo una federazione di 50 stati e con un territorio quasi 40 volte più grande del Regno Unito, molti americani ritengono di avere già abbastanza spazio per lo sviluppo e l’esplorazione, riducendo così la necessità di viaggiare e interagire con il resto del mondo.

Nonostante tutte queste condizioni, gli Stati Uniti adottarono una politica estera globalista dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sconfissero il Giappone e la Germania, per poi applicare una politica di contenimento globale nei confronti dell’Unione Sovietica. Durante questo periodo, gli Stati Uniti rappresentavano quasi il 40% della produzione economica mondiale. La necessità delle aziende americane di nuovi mercati internazionali e la crescente dipendenza dalle importazioni di petrolio resero le politiche globaliste un imperativo economico.

Con il crollo dell’Unione Sovietica, la Guerra Fredda giunse al termine. Tuttavia, un decennio dopo, gli attentati dell’11 settembre 2001 segnarono l’inizio di una nuova priorità mondiale: la lotta al terrorismo. L’amministrazione di George W. Bush invase l’Iraq e l’Afghanistan. Sebbene Barack Obama considerasse queste invasioni come errori strategici, la sua amministrazione mantenne in gran parte le politiche globaliste. Trump, al contrario, vinse le elezioni con lo slogan “Prima l’America” durante il suo primo mandato, segnando una svolta verso l’isolazionismo. Tuttavia, la sua presidenza non portò a cambiamenti sostanziali nella politica estera. Dopo Trump, l’amministrazione di Joe Biden ha riaffermato l’alleanza occidentale sotto la leadership degli Stati Uniti in risposta all’invasione russa dell’Ucraina.

Caos in casa, caos nel mondo

Subito dopo la sua rielezione, il presidente Trump ha preso provvedimenti per ridurre il supporto all’Ucraina, adottando una retorica filorussa per allontanare gli Stati Uniti dal blocco occidentale e abbandonare il loro ruolo di garanti dell’ordine mondiale.

La posizione di Trump su due importanti zone di conflitto riflette un modello costante: schierarsi dalla parte dei più forti. Per quanto riguarda Gaza, suggerisce apertamente di espellere i palestinesi, un’idea che persino Israele si era astenuto dall’affermare apertamente. Sul fronte ucraino, descrive Zelensky (falsamente) come un dittatore impopolare che ha iniziato la guerra, un’accusa grave che nemmeno la Russia aveva osato fare.

Sul fronte estero, Trump ha seguito una politica di confronto con la Cina, che ha portato a un’escalation delle tensioni nel Mar Cinese Meridionale.

La proposta di Trump su Gaza viola il diritto internazionale e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite. Le sue azioni nei confronti dell’Ucraina ignorano i trattati internazionali firmati da Stati Uniti e Russia per garantire l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio della cessione delle sue armi nucleari. Tuttavia, per Trump, tali impegni non sono importanti. Il suo unico principio guida è il potere.

Trump ha il potere di fare ciò che vuole nel breve periodo. È improbabile che i repubblicani al Congresso e la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, si oppongano a un presidente repubblicano appena eletto. Ma riuscirà a ottenere successo a lungo termine? Tre fattori importanti mettono in dubbio questa prospettiva.

In primo luogo, Trump ha vinto le elezioni con il sostegno di solo metà dell’elettorato, e i suoi indici di approvazione sono già scesi sotto il 50%. Le sue due principali politiche economiche – l’aumento dei dazi e l’espulsione di un numero ingente di immigrati – porteranno a un aumento dei prezzi e dell’inflazione. Tuttavia, ha intrapreso una campagna per ridurre i costi e, a differenza di altri popoli, gli americani hanno una bassa tolleranza per lo stallo economico.

In secondo luogo, Trump non ha molti alleati nella politica internazionale, a parte la Russia e Israele. In appena un mese, è riuscito a inasprire i rapporti con il vicino più prossimo degli Stati Uniti, il Canada, e con alcuni partner chiave europei. L’isolamento in termini di politica estera comporterà un costo economico per le imprese americane. È impossibile continuare a godere dei benefici economici dell’ordine globale mentre si cerca di distruggere lo stesso ordine.

La diminuzione delle vendite di Tesla in Europa e il calo dei prezzi delle azioni nell’ultimo mese indicano che le conseguenze economiche sono già iniziate.

In terzo luogo, Trump sta assumendo questi rischi geopolitici in un momento di agitazione interna. La sua decisione di nominare Elon Musk alla guida di una nuova organizzazione per la riduzione dei costi ha portato a licenziamenti di massa tra i dipendenti federali, e Musk ha pubblicamente deriso i burocrati in generale. Questo alimenta la percezione che l’amministrazione stia cercando il conflitto, sia all’interno del paese che all’estero.

Il successo finale di Trump rimane incerto. Ma una cosa è chiara: l’ordine mondiale che gli Stati Uniti guidavano un tempo è stato smantellato, e non da chiunque, ma dal presidente stesso.


L’autore: Ahmet T. Kuru è professore di scienze politiche negli Stati Uniti e autore di Islam, Autoritarismo e Sottosviluppo.


Traduzione dallo spagnolo di Laura Proja. Revisione di Thomas Schmid.

Pressenza IPA

È possibile una transizione energetica che tuteli l’ambiente, la biodiversità e il suolo?

La domanda è stata posta agli esperti intervenuti al convegno sul tema AGRICOLTURA, PAESAGGIO, ENERGIA SOLARE organizzato a Mortara sabato 22 marzo dall’Associazione Futuro Sostenibile in Lomellina ODV.

Vi hanno partecipato Niccolò Rizzati, ricercatore alla Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università di Piacenza, e Caterina Grimaldi, referente dell’associazione di protezione ambientale Gruppo di intervento giuridico (GrIG) che dal 2022 ha svolto 85 ricorsi, 35 costituzioni di parte civile in procedimenti penali e oltre 3˙500 azioni legali e iniziative di tutela del patrimonio ambientale e storico-culturale italiano, in più di 3˙000 dei casi ottenendo l’intervento delle amministrazioni pubbliche competenti o della magistratura.

L’incontro con loro ha coinvolto i cittadini della Lomellina ad affrontare la questione del consumo di suolo provocato dalla diffusione delle “piantagioni” di impianti fotovoltaici che incombe sui terreni agricoli del territorio e a conoscere le potenzialità del sistema agrivoltaico, ovvero dell’installazione di pannelli fotovoltaici che permettono l’uso dei campi simultaneamente per l’agricoltura e per la produzione di energia elettrica.

Il sistema definito agrivoltaico nel saggio scientifico Combining solar photovoltaic panels and food crops for optimising land use: Towards new agrivoltaic schemes pubblicato nel 2011 e dall’Istituto Fraunhofer, un ente tedesco che aggrega 76 centri accademici e di ricerca dediti alla verifica delle soluzioni di scienza applicata e il cui direttore Adolf Goetzberger nel 1981 aveva immaginato possibile “coltivare patate sotto ai pannelli fotovoltaici (Kartoffeln untern dem Kollektor, in Sonnenenergie  – n° 3 / 1981) e dal Clean Energy Council australiano agrisolare, è evoluto dalle sperimentazioni di solar sharing (condivisione solare) condotte dal 2004 in Giappone, dove l’ingegner Akira Nagashima sviluppò dei prototipi di strutture fisse e rimovibili.

La sua implementazione, che in Europa è perseguita dalle strategie del Green Deal e in Italia è incentivata dal PNRR, parrebbe congeniale in Lomellina, un’area agroindustriale estesa in 3 milioni di metri quadrati, popolata da oltre 214 mila abitanti residenti in 57 comuni: «Con questa iniziativa che ha focalizzato l’attenzione sull’impiego del fotovoltaico in relazione al consumo del suolo e alle sinergie con l’agricoltura abbiamo iniziato un percorso indirizzato alla promozione della formazione di comunità energetiche – ha annunciato Alda La Rosa, presidente dell’associazione Futuro Sostenibile in Lomellina  – Una prospettive che necessita di valutare le soluzioni tecnologiche e, allo scopo, disporre di quanto più aggiornate e approfondite informazioni riguardo a pregi e benefici e a pericoli e svantaggi di ciascuna alternativa».

Le molteplici, e complesse, correlazioni tra sviluppo economico, innovazione tecnologica, salvaguardia della biodiversità e dell’ambiente, tutela del suolo e protezione del paesaggio rurale sono questioni molto attenzionate in Lomellina, una zona agroindustriale al centro della Pianura Padana.

Nell’area, compresa tra il Po, il Sesia e il Ticino, si producono moltissimi beni alimentari di pregio, in particolare tipicità come la cipolla rossa di Breme e specialità come il salame d’oca di Mortara, e sono coltivati ortaggi, fagioli, colza, orzo, farro, grano saraceno e granturco, girasoli e soia e, principalmente, il riso.

L’associazione Futuro Sostenibile in Lomellina infatti ha sede in un antico borgo rurale, Castello d’Agogna, dove nella struttura attrezzata con laboratori di analisi e nell’annessa Azienda Agricola Sperimentale opera il Centro Ricerche sul Riso dell’Ente Nazionale Risi istituito nel 1931 per perseguire la “tutela della produzione risicola nazionale e delle attività industriali e commercio che vi sono connesse” con attività finalizzate al miglioramento della produzione e della trasformazione del prodotto.

Recentemente l’associazione è intervenuta, insieme ad altre 31 ecologiste e ambientaliste della provincia pavese, sulla questione dello smaltimento dell’amianto e del processo di trattamento del cemento-amianto nelle discariche della circoscrizione e, in particolare, della Lomellina, che confina con il Monferrato dove dal 1907 fino al 1986 è stato incessantemente attivo uno stabilimento della multinazionale Eternit.

di Maddalena Brunasti

RIFERIMENTI :

·       Associazione Futuro Sostenibile in Lomellina ODV

·       Rete Comitati e Associazioni Ambiente Pavese

·       associazione di protezione ambientale GrIG

Redazione Piemonte Orientale

Venezia, corteo contro il genocidio in Palestina

Grande partecipazione ieri, sabato 22 marzo, alla manifestazione contro il genocidio in Palestina. Grazie al capillare lavoro di informazione eseguito dal Comitato contro la Guerra e il Razzismo di Marghera, numerosa è stata la presenza della comunità bengalese e degli studenti.

Il presidio si è trasformato in un corteo ben organizzato, che è partito dalla stazione Santa Lucia ed è arrivato fino al Ponte di Rialto. Almeno 400 partecipanti, nonostante la manifestazione sia stata organizzata con pochissimo preavviso.

Slogan, striscioni e manifesti hanno comunicato a veneziani e turisti la solidarietà al popolo palestinese e la denuncia del genocidio in atto. Molti gli slogan, anche in inglese, contro il silenzio dell’Europa, la complicità dei governi e la politica assassina di Israele.

Rincuora constatare che le persone non sono disposte ad assuefarsi alla guerra, alle violazione dei diritti e delle leggi internazionali, che la gente non accetta di assistere indifferente allo sterminio di un popolo.

Maria Grazia Gagliardi

 

Redazione Italia

L’inganno del riarmo europeo

parte prima: l’impossibile deterrenza

Da quando i ministeri della guerra dei singoli Paesi sono diventati, con buona dose di ipocrisia, “ministeri della difesa”, il riarmo e la crescita delle spese militari vengono mistificati come necessità per opporsi al “cattivo” che ovviamente è sempre “l’altro”. Questa è anche la logica della UE che vuole riarmarsi per opporsi al presunto pericolo che viene dalla Russia.

Va detto che purtroppo questa ipotesi, dichiarata come “deterrenza”, gode di una certa credibilità nell’opinione pubblica, forse perché richiama il vecchio “equilibrio del terrore” che si determinò all’epoca della guerra fredda.

Noi, al contrario, restiamo fedeli alla pace incondizionata e all’idea del disarmo unilaterale, come unica condizione di umanità e progresso civile. E se un nemico più forte attacca si reagisce con la forza della resistenza popolare che può essere strategicamente vincente contro qualunque nemico, come dimostrano il Vietnam e l’Afghanistan che hanno rispedito a casa gli Usa, vale a dire l’esercito di gran lunga più attrezzato e più forte del mondo.

Mi rendo conto, tuttavia, che la mia è una posizione etica e di principio che sicuramente non avrà convinto i “pragmatici” sostenitori della “deterrenza”. A questo punto, allora, con una “finzione retorica”, assumiamo (senza credervi) il punto di vista di chi la pensa diversamente da noi per mostrare che anche in questo caso, si giunge a conclusioni assurde sul piano logico e irreali sul piano pratico. La deterrenza europea è in sostanza, e innanzitutto, un inganno propagandistico.

Partiamo intanto da un paio di premesse.
Innanzitutto non si capisce che senso ha parlare di riarmo del nostro continente se si considera il fatto che l’UE, più i paesi europei della NATO, Regno Unito in testa, spendono già oggi in armamenti quattro volte più della Russia e decisamente più di Russia e Cina messe insieme.

Seconda considerazione: quale interesse potrebbe avere la Russia ad attaccare l’Europa? Stiamo parlando del paese col territorio più vasto del mondo e con enormi ricchezze naturali, ma con una esigua popolazione di appena 143,8 milioni di abitanti (al 2023). Attaccare l’Europa per vincerla e controllarla sarebbe semplicemente un suicidio. Inoltre non credo proprio che gli Usa, malgrado le follie di Trump, se ne starebbero tranquilli a guardare, e neppure i paesi del BRICS+, attuali alleati della Russia, credo accetterebbero in silenzio una tale evenienza.

Ma sorvoliamo anche su tutto questo.
La deterrenza europea resta una impossibile utopia per almeno due ragioni. La prima è che l’Europa è un insieme differenziato di Stati, seppure alleati, e non avrà mai un esercito unico e un comando unificato se non in condizioni estreme che tuttavia non possono essere predeterminate in tempo di pace, seppure di “pace armata”. Questa è una debolezza che non può essere superata.

La seconda questione riguarda la inadeguatezza tecnologica degli armamenti che l’Europa può, e con ogni probabilità potrà in futuro, mettere in campo. Partiamo dalla deterrenza nucleare. In Europa possiedono armi nucleari il Regno Unito (225 testate) e la Francia (280 testate), a fronte delle 4380 della Russia. Qualcuno dice però che non conta il numero, ma il solo fatto di averle, e allora non si capisce perché l’Europa dovrebbe riarmarsi anche con armi convenzionali. Qualcun altro dice che non è così, e allora bisognerà prendere atto che le capacità d’impiego (tramite missili da terra, bombardieri dal cielo e sottomarini dal mare) sono nettamente inferiori a quelle dei russi. Per quanto riguarda, poi, gli armamenti convenzionali resta una evidente arretratezza tecnologica dell’Europa soprattutto per quanto concerne le telecomunicazioni e la guerra aerea.

L’unica soluzione, a meno di non volere scommettere sui tempi lunghi, sarebbe quella di rivolgersi agli Usa, che tuttavia non credo siano disponibili a condividere il meglio a loro disposizione, a meno di non mantenerne il controllo a distanza potendone attivare o disattivare i dispositivi d’impiego in qualsiasi momento.
Se dunque il riarmo europeo è sul piano militare qualcosa di assolutamente senza senso, cosa altro si nasconde (se si nasconde) dietro una tale ipotesi?

parte seconda: riarmo ed economia

Il progetto del riarmo europeo prevede una spesa di 800 miliardi per i prossimi quattro anni, di cui 150 a carico della Comunità Europea, e i restanti 650 da addebitare ai singoli Stati dell’Unione, senza tuttavia contabilizzarli entro le regole del “patto di stabilità”. In pratica una truffa a tutti gli effetti! Infatti: la possibilità che viene concessa ai singoli paesi di poter spendere in armamenti senza avere sul collo il fiato della Banca Centrale Europea e dei burocrati di Bruxelles, non significa che quelle cifre non andranno ad incrementare ulteriormente il debito pubblico, con effetti letali per i paesi maggiormente indebitati come l’Italia.

Il risultato sarà un ulteriore taglio alla spesa sociale che corrisponderà in pratica alla quasi completa dismissione del servizio sanitario nazionale e del servizio scolastico, già oggi fortemente in crisi. A ciò si aggiungano, inoltre, le gravi penalizzazioni che riguarderanno il sistema previdenziale e assistenziale.

Chi avrà tutto da guadagnare da questa situazione sarà innanzitutto la Germania, che non avrà solo la possibilità di spendere di più rispetto ai paesi più indebitati, ma che potrà ribadire il suo ruolo di preminenza politica in ambito continentale, riaffermando con forza quale collante dell’Unione il “ricatto del debito”, da fare valere come in passato nei confronti dei consociati. Da questa situazione, però, i nostri vicini tedeschi potrebbero ricavare non solo vantaggi politici, ma anche nuove opportunità per rilanciarsi sul piano economico.
La Germania si trova al momento in una condizione di grave recessione economica. La perdita del gas russo da acquistare a prezzi molto vantaggiosi è venuta a coincidere e a sommarsi con la crisi dell’auto, da sempre considerato il punto di forza dell’economia teutonica. Si tratta di una difficoltà globale del settore a cui si aggiunge il fatto che le aziende tedesche hanno praticamente perso la battaglia strategica intorno all’auto elettrica nei confronti dei competitori statunitensi e cinesi.

Non è dunque un caso che il nuovo governo tedesco, appena insediato, in perfetto accordo con i burocrati di Bruxelles, abbia pensato alla nuova economia di guerra come ad un grande piano di riconversione produttiva, che prevede la trasformazione dell’industria dell’auto in industria bellica.
Per la Germania, ciò che a me pare veramente in ballo, più che una questione puramente militare, è l’esigenza di rilanciare quel ruolo di preminenza economica che da sempre è stato costitutivo della stessa Unione Europea, e che vedeva l’economia tedesca dominare i mercati continentali, ridotti ad una sorta di suo mercato interno grazie all’uso della moneta unica. Come sempre la guerra è un ottimo mezzo per fare profitti.

Un’ultima questione: poiché la geopolitica è un mondo in continuo divenire e nessuno può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro, è pure possibile (per me anche pressocché certo, ma su questo non voglio insistere) che “il pericolo russo” venga archiviato tra qualche anno come una preoccupazione del passato. Siamo sicuri che a quel punto la Polonia e la stessa Francia saranno così contente di avere ai loro confini una Germania armata fino ai denti? (Lo dico come motivo di riflessione pure per quanti, anche agitando in modo strumentale il Manifesto di Ventotene, immaginano un’Europa unita e armata. Anche noi siamo per una  “fratellanza” tra  i popoli, ma senza armi e senza frontiere. Una circostanza che, tuttavia, non immaginiamo  probabile in tempi brevi).

Antonio Minaldi

Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità

Il tasso di occupazione femminile risulta inferiore di 12,6 punti alla media Ue ed è il valore più basso tra i 27 paesi dell’Unione.

Pur avendo raggiunto il suo massimo livello, il tasso di occupazione femminile è cresciuto in Italia meno rispetto alla media Ue: 6 punti dal 2008 al 2024 in confronto a 8,6 punti in Europa.

Il gap di genere nel tasso di occupazione è quasi il doppio della media Ue: 17,4 punti contro 9,1 punti.

Ad ampliare ulteriormente i divari con l’Ue si aggiungono le marcate disparità territoriali: mentre tutte le regioni del Nord e del Centro, tranne il Lazio, hanno raggiunto l’obiettivo previsto dalla Strategia di Lisbona 2010, pari al 60%, nessuna regione meridionale ha raggiunto il target europeo.

E’ quanto evidenzia il recente Rapporto CNEL-ISTAT “Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità”.

La crescita che si è avuta dal 2008 al 2024 è dovuta però soprattutto al segmento delle ultracinquantenni: mentre l’aumento per le over50 raggiunge i 20 punti, per le 25-34enni si ferma a 1,4 punti.

Quanto al divario di genere, in questo caso si accentua a sfavore delle donne nelle classi di età più avanzate, attestandosi a 12,1 punti per i più giovani e a 22,9 punti nella fascia più adulta.

Le differenze si accentuano ulteriormente nel Mezzogiorno, dove la distanza tra i tassi di occupazione femminile e maschile passa da 14,2 punti per classe 15-34 anni a quasi il triplo per le 50-64enni (33,1 punti in meno rispetto agli uomini).

Mentre tra gli uomini – evidenzia il Rapporto CNEL-ISTAT – circa sette occupati su dieci possono contare su un lavoro standard (dipendente a tempo indeterminato o autonomo con dipendenti), tra le donne sono in questa situazione poco più della metà delle occupate (53,9%).

Quasi un quarto delle donne che lavora presenta uno o più elementi di vulnerabilità (dipendente a tempo determinato, part time involontario, ecc.), contro il 13,8% gli uomini.

Risultano più spesso vulnerabili le lavoratrici giovani (38,7%), residenti nel Sud (31,2%), con bassa istruzione (31,7% per le donne che hanno fino alla licenza media) e straniere (36,5%).

Il Rapporto mette in luce anche la diminuzione delle famiglie monoreddito: tra il 2008 e il 2023 è calata di oltre sei punti la quota di coppie in cui solo l’uomo lavora, provvedendo alle necessità finanziarie della famiglia (dal 33,5 al 25,2%).

Nel confronto europeo l’Italia si colloca al terzo posto (dopo Grecia e Romania) per diffusione del modello monoreddito maschile e comunque lontana dalla media Ue del 16,1%.

Risultano invece in aumento nel nostro paese le coppie paritarie, in cui entrambi i partner lavorano e hanno redditi da lavoro di livello simile (dal 27,8 al 29,8%).

E nelle coppie paritarie si ha un maggior benessere.

Vivere in una coppia in cui i partner contribuiscono in egual modo al proprio reddito – rivela lo studio CNEL-ISTAT – migliora il benessere soggettivo: il 63% dei partner di coppie paritarie si dice molto soddisfatto della vita, a fronte di percentuali di circa il 40% dei partner di coppie monoreddito maschile.

La stima con un modello logistico della probabilità che la donna in coppia sia soddisfatta della vita indica che, anche a parità di altre condizioni, sono avvantaggiate le donne che vivono in una coppia paritaria, poiché vivere nelle altre tipologie di coppia si associa a una minore probabilità di essere soddisfatte della vita.

Il 69,3% delle donne che vivono da sole – si apprende dal Rapporto CNEL-ISTAT – ha un impiego, percentuale che scende al 62,9% tra le madri sole e al 57,2% tra le madri in coppia.

Viceversa, tra gli uomini il tasso di occupazione per i single è di circa il 77% e arriva all’86,3% per i padri in coppia.

Tra i 25 e i 34 anni meno della metà delle madri risulta occupata.

Le disparità a livello territoriale appaiono molto importanti, legandosi anche alla diversa disponibilità di servizi per la prima infanzia: mentre nelle regioni del Nord e del Centro il tasso di occupazione delle madri supera o sfiora il 70%, nel Mezzogiorno si attesta poco sopra il 40%.

Sono invece 600mila le donne inattive che non cercano lavoro perché scoraggiate.

Le disoccupate sono poco meno di un milione e quelle “di lunga durata”, cioè in cerca di lavoro da un anno o più, corrispondono al 54,3%.

Le inattive sono oltre 7,8 milioni e per un terzo a causa di motivazioni familiari.

Quasi 600 mila donne non cerca lavoro perché scoraggiata, in quanto convinta di non riuscire a trovare un impiego. Grazie al maggiore investimento in formazione – afferma il Rapporto CNEL-ISTAT – le donne in Italia sono mediamente più istruite degli uomini.

Il 68% delle 25-64enni ha almeno un diploma o una qualifica, contro il 62,9% degli uomini. Il 24,9% è in possesso di un titolo terziario, contro il 18,3% degli uomini.

Ma questo non si traduce in un vantaggio lavorativo.

Permane una marcata segregazione orizzontale: circa la metà dell’occupazione femminile risulta concentrata in sole 21 professioni, mentre per gli uomini questo valore raggiunge ben 53.

E anche la segregazione verticale (“tetto di cristallo”) continua ad essere una realtà.

In Italia, le parlamentari donna – sottolinea lo studio CNEL-ISTAT – sono il 33,6%.

La quota di donne elette nei consigli regionali si ferma al 24,5%.

Per quel che riguarda le imprese, solo il 28,8% è a conduzione femminile.

La quota di imprenditrici è comunque in crescita, in tutte le classi di età, ma soprattutto tra le under 35 (+2,3 punti).

Qui per scaricare il Rapporto CNEL-ISTAT “Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità”:
https://www.cnel.it/Portals/0/CNEL/Comunicazione/PROGRAMMI%20EVENTI/Cnel_Istat_Il%20lavoro%20delle%20donne%20tra%20ostacoli%20e%20opportunit%C3%A0.pdf?ver=2025-03-06-101631-840&timestamp=1741256197000.

Giovanni Caprio

Australia, barriere coralline a rischio scomparsa entro il 2055

A causa del riscaldamento globale, la Grande Barriera Corallina meridionale ha registrato gravi livelli di sbiancamento dei coralli, dati che mostrano un preoccupante aumento del fenomeno. Gli oceani, sempre più caldi e acidi, stanno vivendo profondi squilibri che, secondo alcune stime, potrebbero provocare la scomparsa di grandi barriere coralline entro il 2055.

Gli studi allarmanti sulla Grande Barriera Australiana

A rivelare la gravità della situazione è stato il team di biologi dell’Università di Sydney, che nel gennaio 2025 ha pubblicato la ricerca “Catastrophic bleaching in protected reefs of the Southern Great Barrier Reef”. Lo studio documenta livelli di sbiancamento mai registrati prima e l’impatto devastante su una vasta gamma di specie di coralli.

“Per oltre 161 giorni – afferma lo studio condotto dal team della professoressa Maria Byrne della School of Life and Environmental Sciences – abbiamo monitorato la salute di 462 colonie di coralli, partendo dal picco dell’ondata di calore al raffreddamento autunnale e invernale. A febbraio e aprile rispettivamente il 66% e l’80% delle colonie erano sbiancate. A maggio il 44% delle colonie sbiancate era morto e il 53% a luglio. A luglio il 31% delle colonie era ancora sbiancato e il 16% si era ripreso”.

I seri rischi a cui sono sottoposte le barriere coralline sono stati analizzati anche da tre scienziati, Renée O. Setter, Erik C.Franklin e Camillo Mora con lo studio “Co-occurring anthropogenic stressors reduce the timeframe of environmental viability for the world’s coral reefs”, presentato nel 2022 alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nell’analisi, gli autori esplorano come i disturbi antropogenici, come il riscaldamento globale e l’inquinamento, stanno ponendo sfide senza precedenti all’esistenza degli ecosistemi, con stime sulla velocità con cui gli stressor antropici riducono il tempo di sostenibilità ambientale delle barriere coralline, sia in Australia che nel mondo. Il professor Setter e gli altri colleghi scienziati hanno dimostrato che l’anno in cui le condizioni diventeranno inadatte alla sopravvivenza di una barriera corallina è il 2055, tenendo presente più fattori di stress ambientale. In base a un’analisi realizzata considerando tutti i fattori di rischio, tali condizioni si presenteranno entro il 2035.

Perché dovremmo preoccuparci?

Nonostante la gravità del fenomeno, non tutti comprendono a pieno le implicazioni del “coral bleaching” sulla nostra sopravvivenza. La distruzione delle barriere coralline, infatti, ha effetti diretti non solo sulla biodiversità marina, ma anche sulla sicurezza alimentare, sull’economia e sulla protezione costiera.  “I servizi ecosistemici cruciali che le barriere coralline tropicali forniscono come habitat per una vasta biodiversità e nel fornire sicurezza alimentare, entrate e protezione della costa per l’umanità – conclude la ricerca dell’Università di Sidney – dipendono dall’integrità dei coralli, organismi fondamentali. In un oceano che si riscalda rapidamente, le barriere coralline sono in pericolo. Come conferma la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), il quarto evento globale di sbiancamento dei coralli è iniziato nei Caraibi ed è stato seguito dallo sbiancamento sulla Grande Barriera Corallina. Le temperature più elevate da secoli hanno così causato gravi impatti in vaste aree del mondo”.

La rapida distruzione delle barriere coralline, accelerata dal riscaldamento globale, minaccia non solo la biodiversità marina, ma anche l’alimentazione e la protezione costiera. Senza un’azione immediata, le barriere coralline potrebbero scomparire entro il 2055, con conseguenze devastanti per il nostro pianeta.

Federica Mantovani della 5C del Liceo Scienze Umane “Duchessa di Galliera”, Genova, nel contesto del ciclo sull’Antropocene promosso dal Campus del Cambiamento.

 

Redazione Italia