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Storie dall’Albania: Volersi Bene, Restare o Partire

Il fotoreporter Giovanni Simone ha trascorso l’intero mese di dicembre 2024 esplorando l’Albania, un paese affascinante e vicino all’Italia, ma che per troppo tempo è rimasto ai margini dell’attenzione collettiva. In questo angolo dei Balcani, dove il passato e il presente si intrecciano armoniosamente, gli albanesi cercano un legame forte con luoghi visti come porti sicuri e opportunità per un futuro migliore.

Questo è il secondo di una serie di fotoreportage dedicati all’Albania, con un focus particolare sulla vita nel paese e sulle contraddizioni di Tirana.

L’Albania, una terra di contrasti, intreccia la ricchezza della sua storia millenaria con le sfide della modernità. Se da un lato la sua posizione nei Balcani la rende un crocevia culturale e geografico affascinante, dall’altro le disuguaglianze economiche e sociali segnano profondamente la quotidianità dei suoi abitanti.

Con oltre il 51% della popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, il paese si colloca tra i più vulnerabili del continente europeo, con un tasso nettamente superiore alla media UE del 21%. Nelle aree rurali, questa percentuale raggiunge quasi il 60%. A Tirana, il cuore economico dell’Albania, gli stipendi variano significativamente: un impiegato in una grande impresa può guadagnare fino a 900 euro al mese, mentre chi lavora in una microimpresa fatica ad arrivare a 400 euro. Nelle campagne, dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito, gli stipendi sono ancora più bassi. I pensionati, con assegni medi di soli 150-200 euro al mese, vivono in condizioni di estrema vulnerabilità, spesso dipendendo dal supporto familiare, prolungando la loro vita lavorativa o affiancando piccoli lavoretti per arrotondare il reddito.

Le minoranze etniche, come la comunità Rom e gli Ashkali, affrontano sfide ancora più ardue. Circa il 90% dei Rom è disoccupato e il 40% delle loro famiglie vive in condizioni di precarietà abitativa. Anche gli Ashkali, una comunità di origine balcanica, si trovano spesso ai margini della società. La povertà costringe molti bambini a lavorare anziché frequentare la scuola, perpetuando un ciclo di esclusione difficile da interrompere.

Il costo della vita in Albania riflette una realtà complessa. Sebbene gli affitti e il cibo possano risultare più economici rispetto all’Italia, i bassi salari rendono la sopravvivenza una sfida quotidiana. A Tirana, l’affitto di un appartamento varia tra i 400 e gli 800 euro al mese, mentre acquistare una casa è un privilegio per pochi: il prezzo medio si aggira intorno ai 1.600 euro al metro quadro, con mutui difficili da ottenere per le elevate garanzie richieste. L’Albania, un paese importatore netto, dipende fortemente dall’estero per i beni di consumo, inclusi quelli di prima necessità. Il pollo si aggira intorno ai 7 euro al kg, il latte a 1,70 euro al litro e una dozzina di uova costa circa 3 euro. Il pane, alimento essenziale nella dieta albanese, ha un prezzo medio di 1,50 euro al kg. L’accesso all’acqua potabile rimane una delle sfide più critiche. Nonostante le abbondanti risorse idriche, la fornitura di acqua sicura e costante è problematica in molte zone, inclusa la capitale. Di conseguenza, gran parte della popolazione acquista acqua in bottiglia per il consumo quotidiano, con un costo medio di circa 60 centesimi di euro a bottiglia.

Tirana incarna le più evidenti contraddizioni, un luogo dove la fragilità economica si scontra con un’apparente vivacità sociale. La città è costellata di bar e caffè, con una densità sorprendente di un locale ogni 152 abitanti, facendone una delle capitali con il maggior numero di punti di ritrovo per persona. Ma dietro a questa vitalità si cela una realtà più complessa: nei mesi invernali, chi non può permettersi il riscaldamento domestico cerca rifugio in questi spazi per sfuggire al freddo pungente. Le infrastrutture cittadine mostrano gravi carenze: come nel resto dell’Albania, a Tirana manca una rete di gas cittadino, costringendo molti abitanti a fare affidamento su vecchie e costose pompe di calore, spesso inefficienti. Nei parchi cittadini, il sole diventa una risorsa preziosa, un rifugio naturale dove le persone si riuniscono per godere del calore e dedicarsi ad attività all’aria aperta.

Per molti albanesi, il proprio paese è solo una tappa temporanea, un luogo in cui vivere in attesa di emigrare. La loro sopravvivenza dipende dalla capacità di adattarsi a una realtà complessa, mentre l’Unione Europea rappresenta una speranza, un porto sicuro dove costruire un futuro dignitoso. Questa riflessione sulla vita in Albania invita a guardare oltre le statistiche, a comprendere la quotidianità di un paese che oscilla tra la resistenza e la fuga, tra il desiderio di costruire un domani migliore e la necessità di cercarlo altrove. Eppure, spesso, gli albanesi, immersi nella lotta per la sopravvivenza, dimenticano il significato più profondo di “Volersi bene”. Il concetto di benessere personale e collettivo viene relegato in secondo piano di fronte alla necessità di garantire il minimo indispensabile.

In Albania, “Volersi Bene” è uno stato d’animo da riscoprire, non solo come aspirazione individuale, ma come valore collettivo, capace di dare significato a un futuro costruito su fondamenta più stabili.

 

su Flickr https://flic.kr/s/aHBqjC35b1

 

“Nei pressi del Castello di Argirocastro, un’anziana venditrice offre erbe essiccate e tè di montagna (Sideritis), un infuso tradizionale noto per le sue proprietà antinfiammatorie, digestive e rilassanti. Ricco di antiossidanti, aiuta a rafforzare il sistema immunitario e alleviare raffreddore e problemi digestivi, tramandando antichi rimedi naturali della tradizione albanese.”

“Nel parco centrale di Berat, due anziani si sfidano a scacchi, approfittando del sole per riscaldarsi all’aria aperta. Questo gioco, profondamente radicato nella cultura albanese, è una passione diffusa nei caffè e nei parchi, simbolo di strategia e socialità, tramandato di generazione in generazione nelle città storiche del paese.”

“Nel quartiere delle case popolari di Coriza, una donna Ashkali stende il bucato sulla ringhiera della scuola dopo averlo lavato a mano nel giardino. Un tempo la sua casa ospitava tre famiglie in tre stanze con bagno esterno senza acqua corrente, ma oggi è rimasta solo lei con due dei figli, mentre gli altri sono emigrati all’estero in cerca di un futuro migliore.”

 

“All’ingresso di Moscopoli, pittoresca località montana rinomata per le sue antiche chiese ortodosse e il pregiato miele di fiori selvatici, una donna gestisce la vendita di prodotti tipici locali, offrendo ai visitatori un assaggio delle tradizioni e dei sapori autentici di questo affascinante villaggio.”

“In Albania, il tacchino è il piatto simbolo del cenone di Capodanno. Nei giorni precedenti, le strade si riempiono di improvvisati allevatori che guidano gruppi di tacchini con lunghi bastoni, conducendoli verso mercati improvvisati lungo le strade, dove vengono venduti ai passanti in una tradizione che si ripete ogni anno.”

“Nel bar del quartiere delle case popolari di Coriza, uomini del posto si sfidano a Tavëll, la versione albanese del backgammon. Nei mesi freddi, i bar diventano rifugi dal gelo montano, luoghi di socialità dove tra una partita e un caffè turco si scambiano storie e si rafforzano legami, mantenendo viva una tradizione radicata nella cultura locale.”

“Tra le case popolari di Tirana, recentemente assegnate a famiglie rom, un rappresentante del Movimento Bashkë mi accompagna in un viaggio tra storie di resilienza e speranza. Mentre la comunità affronta sfide quotidiane, il movimento si batte per l’inclusione e i diritti sociali, in un’Albania che cambia tra difficoltà e nuove opportunità.”

“La sussistenza delle minoranze etniche in Albania, come i rom, è spesso legata al recupero di rifiuti urbani. Materiali come la plastica vengono raccolti e portati nei centri di raccolta, dove vengono scambiati per pochi lek al chilo. Questa attività rappresenta una fonte di reddito essenziale, nonostante le difficili condizioni di lavoro e la mancanza di regolamentazione.”

“Chi si nasconde sotto questo topolino? In uno dei parchi di Tirana, un anziano signore lavora come figurante per foto con i passanti. Tra sorrisi e scatti ricordo, il costume diventa il suo mezzo di sostentamento, trasformando un angolo verde della capitale in un piccolo teatro quotidiano di incontri e fantasia.”

“Nel mercato di Scutari, un venditore siede con eleganza davanti alla sua bancarella di tessuti. Con giacca di pelle, sciarpa e coppola, incarna la tradizione albanese di vestire con cura, tipica degli anziani, per cui l’eleganza è segno di rispetto, disciplina e dignità. Un codice non scritto che ancora resiste tra le generazioni più mature.”

“Lungo le strade di Tirana, piccoli banchi colmano i marciapiedi di colori vivaci, vendendo frutta e verdura anche nel cuore dell’inverno. Sebbene l’Albania abbia una forte tradizione agricola, gran parte di questi prodotti proviene dall’estero, importati per soddisfare la domanda stagionale. Tra le cassette di peperoni e pomodori, il commercio resiste al freddo, mantenendo viva l’anima dei mercati di strada.”

Nel cuore del vecchio Bazar di Argirocastro, una signora attende pazientemente i clienti seduta davanti alla sua bottega. Con mani esperte si dedica all’uncinetto, un’antica arte albanese tramandata da generazioni. Tra fili e punti, crea con passione nuovi prodotti da vendere, mantenendo vive le tradizioni artigianali di questo affascinante angolo storico.”

“In Piazza Skënderbej a Tirana, un anziano signore si traveste da Babbo Natale per i festeggiamenti di Natale e Capodanno, cercando di arrotondare la sua pensione. Seduto tra le luci scintillanti e le decorazioni natalizie, osserva il via vai della città, regalando ai passanti un sorriso e un momento di magia in cambio di qualche moneta.”

“Nel pittoresco villaggio di Moscopoli, un’anziana signora annaffia con cura il suo orto, indossando abiti tradizionali scuri. In Albania, il nero è spesso scelto dalle donne anziane come simbolo di modestia, rispetto e lutto per le perdite subite nel corso della vita. Questa pratica riflette una profonda connessione con le tradizioni culturali e un forte senso di appartenenza alla comunità locale.”

“Sul lungomare di Durazzo, due ragazzi della nuova generazione albanese passeggiano mentre il sole si riflette sulle onde. Un tempo, da qui partivano migliaia di emigranti in cerca di un futuro migliore. Oggi, i giovani hanno il compito di costruire un’Albania che guarda al domani, tra il ricordo delle partenze e la speranza di una crescita nel proprio paese.”

 

 

 

 

 

Giovanni Simone

Crescono in Africa emancipazione e autodeterminazione, nonostante l’imperial-terrorismo

Sabato 15 Febbraio 2025 si è svolta a Bamako (Mali) la prima presentazione ufficiale del nuovo e quarantesimo libro dello scrittore panafricanista franco-camerunese Franklin Nyamsi intitolato “Imperial-Terrorismo”.
https://shorturl.at/t2unE

L’evento si è svolto alla presenza di un numeroso pubblico nella sala congressi del memoriale Modibo Keita di Bamako con la partecipazione dei media nazionali e di quelli della Confederazione del Sahel AES.

La conferenza è stata presieduta dal Prof. Bouréma Kansaye, Ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica del Mali, che ha scritto la prefazione del libro.

La tesi principale dell’opera esprime dice che: “Le organizzazioni terroristiche come Al Qaida, Stato Islamico, Boko Haram e altre, che oggi tentano di destabilizzare i paesi africani, non hanno come movente motivi religiosi, in quanto numerosi paesi in cui operano sono già musulmani. Il compito di questi gruppi terroristici è piuttosto di destabilizzare sistemicamente i paesi africani e indebolirli, per poter ottenere più facilmente le loro ricchezze naturali a basso costo da parte di multinazionali esterne al continente africano.”

Questo libro non cerca di imporre a priori interpretazioni tendenziose, si limita a presentare le prove raccolte durante anni, corroborate da dichiarazioni di personaggi politici occidentali di spicco come per esempio l’ex presidente Jaques Chirac, che in un intervento ufficiale aveva ammesso: “una parte delle risorse contenute nei nostri portamonete, proviene dalle ricchezze ottenute dai paesi africani”.

Le prove menzionate nel libro sono numerose e ben elencate. Una delle più recenti è quella fornita dalla nuova direttrice dei servizi di intelligence USA Tulsi Gabbard. Nell’intervista previa alla sua nomina davanti al Senato ha criticato l’appoggio dei precedenti governi del suo paese alla formazione terroristica Al Qaida a cavallo tra Asia e Africa.

Un’altra connessione comprovata di paesi NATO con formazioni terroristiche risulta dalle email di Hillary Clinton pubblicate da Wikileaks riguardanti l’aggresione militare della NATO contro la Libia nel 2011.

https://www.wikileaks.org/clinton-emails/?q=Libya

Numerosi osservatori e intellettuali nei 54 paesi d’Africa sono consapevoli dei progetti infrastrutturali, idrici e finanziari di carattere panafricano che la Libia aveva intrapreso e che avrebbero portato a una crescente sovranità del continente più ricco di risorse naturali al mondo. Molti di essi ritengono che l’attacco della NATO contro la Libia abbia ritardato l’emancipazione dell’Africa di 10/15 anni.

https://www.pressenza.com/it/2024/06/africa-nel-mirino-della-nato/

L’evento di Bamako è il primo di una tournée, che in questi giorni porterà il professor Nyamsi a presentare il suo libro anche a Ouagadougou (Burkina Faso) e a Niamey (Niger).

Lo scrittore Franklin Nyamsi, da circa 25 anni insegnante di filosofia, è noto per il suo instancabile lavoro a favore della emancipazione dei popoli d’Africa in ambito di sovranità e autodeterminazione.

https://www.facebook.com/FranklinNyamsi

Fondatore dell’”Istituto Africa delle Libertà”, Nyamsi è oggi uno dei pensatori panafricanisti più seguiti in Africa, nelle diaspore africane di tutto il mondo e da un vasto pubblico che va dall’Europa fino a numerosi paesi del sud globale. L’istituto avanza quattro proposte fondamentali:

  • la fine dell’occupazione militare straniera del suolo africano
  • la fine della dominazione economica neocoloniale e imperialista in Africa
  • la fine dei regimi dispotici in Africa
  • il rinascimento culturale africano

https://www.afriquedeslibertes.org/

Il libro Imperial-terrorismo non suscita un vittimismo sterile. Da un lato esso fornisce prove scientifiche su certi procedimenti impiegati dalle elites, per impedire il libero sviluppo dell’Umanità e per mantenere il potere nelle proprie mani.

Dìaltra parte questa opera stimola lo studio, la riflessione e l’azione rivoluzionaria nonviolenta, per cambiare il decandente paradigma attuale con valori di verità, giustizia e solidarietà. L’autore considera che tali tradizioni umaniste fossero già presenti nelle antiche civiltà d’Africa, tra cui quella negro-egiziana e che oggi costituiscano un nuovo orizzonte che ispira la gioventù africana.

Traduzioni tangibili di queste proposte prendono forma per esempio nella confederazione del Sahel AES:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/burkina-faso-mali-e-niger-creano-la-confederazione-degli-stati-del-sahel-aes/

La giovane Africa desidera riprendere in mano il proprio destino e orientare il continente verso nuovi cammini, affermando l’Africa dei Popoli e non delle multinazionali.

Toni Antonucci

Più sicurezza? Solo fuori dal capitalismo

Oramai al centro dell’attenzione internazionale c’è solo una parola: sicurezza. Un termine coniugato in modo davvero malsano.

Sicurezza è dotarsi di sempre più armi e eserciti, difendere i confini dai poveracci che bussano all’Europa o agli USA, difendere la purezza della razza bianca, difendere identità nazionali che a volte sono pura invenzione, difendersi dall’avanzare della cosiddetta teoria gender.

In realtà l’esigenza di sicurezza è realmente sentita ma non è con le armi che ci si difende da attacchi esterni, dalla guerra. E ci sono ben altre minacce che dovrebbero essere avvertiti come veri attentati alla sicurezza dei cittadini e della nazione. Sentirsi insicuri perché la sanità pubblica non funziona più e chi non ha soldi non si può curare e invece di morire sotto un improbabile bombardamento ci lascia la pelle prima di arrivare a un pronto soccorso. Sentirsi insicuri perché la casa sta diventando un lusso soprattutto nelle grandi città come Milano svendute alle immobiliari, agli speculatori e all’overtourism che gentrifica i centri urbani. Sentirsi insicuri se si tratta di giovani perché non c’è lavoro e non c’è futuro. Sentirsi insicuri perché la scuola è ritenuta non un investimento fondamentale ma una voce di costo da ridurre. Sentirsi insicuri perché lo sconvolgimento climatico presenta uno scenario cupo e sono sempre di più le vittime e le distruzioni di alluvioni, incendi e dissesti idro-geologici. E si potrebbe continuare.

Questa è la vera mancanza di sicurezza di cui ci dovremmo occupare. Queste sono le autentiche minacce da cui dovremmo difendere. Invece la parola d’ordine è una sola: più armi! E poi è un’illusione pensare che più armi, più eserciti, mettano al riparo da eventuali attacchi esterni. E’ esattamente il contrario. Il potenziale nemico risponderà in modo simmetrico. Gli Stati che possono sentirsi più sicuri sono proprio quelli che investono meno in spese militari, pacifici, dialoganti, che presentano meno un volto aggressivo all’esterno.

Mi ricordo un’analisi degli anni 80. I due Stati più sicuri erano due piccole nazioni non allineate molto diverse tra loro: Svizzera e Albania. Per non parlare del Costarica, uno dei pochi Stati al mondo che abbia rinunciato all’esercito. La sicurezza in questo senso si costruisce, come affermava Pertini, in un modo molto semplice e solo apparentemente ingenuo: riempiendo i granai e svuotando gli arsenali. La più grave minaccia reale non solo per l’Europa ma per il mondo intero si chiama comunque crisi ambientale e climatica. Ma i padroni del mondo, quelli che detengono le leve della politica e dell’economia si muovono in direzione contraria.

Trump e Musk affogheranno nei loro miliardi e nella loro supponenza è chiaro ma come è possibile che non trascinino anche noi, anche quelli che verranno nella catastrofe? Le teorie economiste che tendono a salvare capre e cavoli (ambiente e crescita) hanno fallito. Soluzioni come i certificati verdi o le speranze messianiche riposte nella tecnologia non porteranno da nessuna parte. Se vogliano davvero salvarci il capitalismo non si modifica, si abbatte, perché è causa prima del disastro. Purtroppo sono esigue minoranze quelle sullo scenario politico che abbiano il coraggio di abbandonare l’idiozia della crescita infinita in un modo finito. Anche al centro e pure a sinistra la parolina magica crescita è prima o poi sulla bocca di tutti. Senza crescita non esiste capitalismo, ma senza uscita dal mito della crescita e dal modello capitalista non esisterà più…il mondo. E oltre a quelle economiciste che tendono a migliorare il capitalismo occorre diffidare anche dell’approccio individualista che vede nella semplice modifica dei comportamenti individuali la via d’uscita. Mantenere coerenza tra il dire e il fare, fare proprio l’invito di Gandhi “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, adottare stili di vita frugali, ecc. è importante ma non deve far perdere di vista il fatto che il problema è politico e strutturale e che il vero obiettivo non può che essere il superamento del capitalismo. Magari tenendo presente come stella polare il comunismo dei beni comuni e non delle nazionalizzazioni in stile sovietico del filosofo giapponese Kohei Saito.

Ci sono interi settori, quelli che contribuiscono a concentrare la ricchezza e le leve del potere mediatico e economico nelle mani di pochi che dovrebbero essere invece di esclusivo possesso da parte dello Stato, della comunità: energia in primis.
E poi ovviamente sanità, scuola, servizi pubblici essenziali, acqua. Il potere capitalista dei soliti noti al servizio di Trump si può scardinare poi anche in modi che vedano i cittadini protagonisti diretti di scelte alternative nel campo dei social media, della messaggistica, di tutto ciò che riguarda il web. Capitalismo, riarmo e distruzione ambientale vanno a braccetto. Pace, disarmo e salvaguardia ambientale pure. Sta a noi scegliere per cosa impegnarci.

Giuseppe Paschetto

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

 

Qui il link alla terza e ultima parte

Qui il link all’intervista audio completa

Andrea De Lotto

Verso la Giornata Nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta

Dal 1986 il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani promuove l’impegno dei Comuni, delle Province e delle Regioni italiane per la pace, i diritti umani, la solidarietà e la cooperazione internazionale, attraverso: la promozione dell’educazione permanente alla pace e ai diritti umani nella scuola, l’organizzazione della Marcia per la pace Perugia-Assisi e delle Assemblee dell’Onu dei Popoli, la promozione della diplomazia delle città per la pace, il dialogo e la fratellanza tra i popoli, lo sviluppo della solidarietà internazionale e della cooperazione decentrata contro la miseria e la guerra, la promozione di un’informazione e comunicazione di pace, la campagna per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, l’impegno per la pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo, la costruzione di un’Europa delle città e dei cittadini, strumento di pace e di giustizia nel mondo.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani anche quest’anno promuove la Giornata nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta, che è arrivata alla sua quarta edizione. Sabato 1° marzo sarà dedicato alla riscoperta e alla promozione del valore alla cura di noi e degli altri, della città e del pianeta in cui viviamo. “In un mondo in guerra, si legge nell’appello del Coordinamento, mentre siamo costretti a soffrire le conseguenze di decenni di  individualismo e incuria, come dice Papa Francesco, dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono.  Nell’ora della crisi più grande, la cura è la risposta più efficace. La cura reciproca è il modo più concreto che abbiamo per fronteggiare i problemi, ridurre le violenze e le sofferenze e cambiare le cose, qui e ora, senza aspettare che lo facciano altri, senza aspettare domani. Per questo la dobbiamo riscoprire, studiare e imparare, organizzare e promuovere.” Pensiamo alla cura degli ammalati e della salute di tutte e di tutti, alla cura dei più piccoli e delle giovani generazioni, alla cura dei più fragili e vulnerabili, degli anziani e delle persone e famiglie in difficoltà economiche, alla cura delle donne vittime di tante violenze e discriminazioni, alla cura del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici,   alla cura della nostra economia, delle nostre città e quartieri, dell’ambiente e dei beni comuni che non sono solo nostri. Pensiamo ai popoli in guerra, a Gaza e nel resto della Palestina e del Medio Oriente, in Ucraina e nel resto del mondo, ai migranti, alle persone perseguitate dalle guerre, dall’oppressione, dalla miseria e dalle catastrofi ambientali.

Il 1 marzo, migliaia di studenti e insegnanti, di ogni parte d’Italia, usciranno dalle loro scuole per andare a conoscere e ringraziare le persone che si prendono cura di noi e degli altri nei loro luoghi di lavoro e volontariato: pronto soccorso, ospedali, case per anziani, centri specializzati di cura, mense, empori Caritas, centri di accoglienza dei migranti, centri antiviolenza e case delle donne ma anche sedi della rai, comuni, province, tribunali, librerie, canili. Alcuni studenti e insegnanti faranno esperienza diretta di cura degli altri o dell’ambiente (ad esempio: servire ad una mensa per i poveri e senzatetto, ripulire, riordinare e abbellire uno spazio pubblico segnato dall’incuria, dall’abbandono o dall’inverno). Altri ancora costruiranno la mappa della città della cura andando a scoprire e “illuminare” le persone, le pratiche e i luoghi di cura del territorio che contribuiscono al nostro ben-essere personale e collettivo. I partecipanti alla Giornata promuoveranno la cultura della cura raccontando in tempo reale, sui social network, gli incontri e le cose viste e sentite, amplificando così le voci e le storie delle persone incontrate, le loro attività e le loro idee sulla cura #iohocura.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani invita tutti i Sindaci e i Presidenti degli Enti Locali e delle Regioni ad aderire formalmente alla Giornata Nazionale della Cura delle persone e del pianeta, a registrare e diffondere  video-messaggi per dare valore alla cura e promuovere la cura della comunità e del territorio; a consegnare agli alunni/studenti della propria città il “Quaderno degli esercizi di cura”: un originale strumento di educazione civica per sviluppare l’attenzione, il rispetto, la responsabilità, la presenza, l’ascolto, la comprensione, l’empatia, l’uso delle parole, il dono, la generosità e il coraggio (https://www.cittaperlapace.it/doc.php?tipo=percorsi&id=47). 

Qui per approfondire: https://www.cittaperlapace.it/index.php#

Giovanni Caprio

Contro il rullo del tamburo (noi e Putin)

Il rullare dei tamburi di guerra è inquietante e va considerato: quando le spese militari crescono e si riempiono gli arsenali, si avvicina la guerra. Si sta preparando l’opinione pubblica a ciò che pare inevitabile: sacrificare al riarmo lo stato sociale. In un paese smemorato, dove molto spesso le decisioni non sono prese in base a dati e numeri, è bene riflettere, alla luce dei fatti.

Il nemico è Putin, feroce dittatore; lo era però anche quando Berlusconi, Salvini e la Meloni lo incensavano. Ricordiamo quanti soldi, credibilità politica ed economica l’Italia, con altri, gli ha dato. Nel 2000, all’alba dell’era Putin, il gas russo copriva circa il 20% del nostro fabbisogno, quota salita poi fino al 43%. Ricordiamo le forti collaborazioni tra Eni e gruppi russi degli idrocarburi, per ricerca e sfruttamento di giacimenti e per la costruzione di gasdotti per molti miliardi di euro1. Per favorire affari tra zone dell’Italia e Russia sono sorte associazioni come “Lombardia Russia” o “Veneto Russia” o “Conoscere Eurasia”2; quest’ultima si propone di rafforzare le relazioni con Russia e altri paesi dell’area e dal 2007 raduna a Verona ministri italiani e stranieri, dirigenti statali e privati, coinvolgendo le più ricche aziende di Mosca.

All’edizione di ottobre 2021, a pochi mesi dalla guerra, hanno partecipato, tra gli altri, Prodi, Scaroni, Tronchetti Provera, Marcegaglia, Bonomi, Profumo e tanta nomenclatura russa; iniziativa importante, con i contributi di Intesa, Generali, Gazprom, Rofneft e importanti banche russe3. L’associazione ha organizzato anche frequenti seminari, che si sono svolti fino a una settimana prima dell’invasione, con la partecipazione dei dirigenti di Intesa, dell’ambasciatore a Mosca Storace, fratello dell’AD di Enel, di Fontana e Toti. Va poi ricordata l’intensa amicizia tra Putin e Berlusconi. Memorabile il gesto del mitra che Silvio fece a una giornalista rea di una domanda di gossip che imbarazzava l’amico.4 C’è poi Salvini, che indossava magliette con l’effige del dittatore e ha siglato un patto di gemellaggio tra la Lega e il suo partito personale5. Sono noti i presunti finanziamenti che la Lega avrebbe richiesto a Mosca, denunciati da vari organi di stampa6.

Pure Meloni ha avuto grande stima del satrapo, congratulandosi per la quarta rielezione, nelle lezioni farsa del 2018.7 Simile accondiscendenza si è avuta anche in altri paesi europei e negli USA. Nel suo libro del 2004 intitolato “La Russia di Putin” la Politkovskaja testualmente scriveva: “Del resto il revanscismo sovietico seguito all’ascesa e al consolidamento del potere di Putin è lampante. A renderlo possibile, però – va detto – non sono state solo la nostra negligenza (ovviamente dei russi), l’apatia e la stanchezza seguite a tante – troppe – rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano”8 Solo tra il 1998 e il 2020 gli europei hanno venduto armi alla Russia per circa 1,9 miliardi di euro e a Kiev si sono visti i militari russi sui blindati italiani Lince9. Nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, Putin è stato estromesso dal G8 ed è stato decretato l’embargo per le forniture di armi. La UE però non ha stabilito sanzioni per chi violava tale disposizione; così diversi paesi, tra cui Italia e Germania, hanno continuato a vendere armi a Mosca per un valore di circa 346 milioni di euro10. Fino al 31/12/24 numerosi paesi UE, tra cui noi, hanno continuano, sia pur in modo decrescente nel tempo, ad acquistare idrocarburi russi, direttamente, tramite gasdotti11, o indirettamente, tramite paesi terzi, come l’Azerbaigian, che non avrebbe tutto il gas che ci vende, importandone parte dalla Russia12.

Chi fosse Putin è sempre stato ben chiaro. Egli è diventato Presidente il 31/12/99 ereditando un paese in ginocchio, che pensava perfino di entrare nella Nato; ha subito piegato le istituzioni di uno Stato a pezzi e ha rimesso sotto il controllo statale le immerse riserve di idrocarburi, recuperando l’arma energetica, che da sempre riteneva cruciale per rilanciare la potenza russa. Dalla sua ascesa ci sono stati innumerevoli omicidi di giornalisti13, la Politkovskaja, uccisa nel 2006, è solo l’esempio più noto14.

Altrettanto ha fatto con numerosi oppositori, Navalny è solo il più famoso15. Agli oligarchi, arricchitisi già dai tempi di Eltsin, acquistando a prezzi stracciati proprietà e aziende pubbliche privatizzate dopo il crollo dell’URSS, ha aggiunto un cerchio ristretto di sodali e prestanome, che costudiscono un suo tesoro personale, pare di 200 miliardi di dollari16. Secondo Freedom House il sistema politico autoritario russo, sottomette la magistratura, controlla i media, manipola le elezioni, sopprime il dissenso; la corruzione dilagante favorisce legami tra funzionari statali e criminalità organizzata17. Anche Amnesty International da tempo denuncia arresti e persecuzioni di pacifici manifestanti, difensori dei diritti umani e attivisti civili e politici; la tortura è endemica in Russia, come la quasi totale impunità dei responsabili. Il diritto a un processo equo viene regolarmente violato18. Questi fatti erano già stati tutti documentati dalla stessa Politkovskaja nel citato libro. Putin ha iniziato la sua Presidenza attaccando brutalmente la Cecenia, con massacri di civili ed altri numerosi e gravi crimini19. Nel 2008 ha invaso la Georgia20, con modalità ripetute in grande in Ucraina. E’ intervenuto massicciamente a sostegno di Assad, contribuendo al mantenimento del suo potere e partecipando sostanziosamente alla distruzione di Aleppo21. Alla luce di quanto sopra, dobbiamo sbugiardare i troppi politici del centro destra, che per oltre vent’anni hanno intrallazzato con colui che oggi designano come il nostro peggior nemico, la cui forza però è dipesa in larga misura dagli aiuti che ha ricevuto da coloro che oggi vogliono tagliare lo stato sociale per difenderci dal loro ex amico.

3 Gli sputinati in L’Espresso n°10 del 06/03/22 pag. 14 e seguenti

8 Anna Politkovskaja La Russia di Putin ed. Apelphi pag. 342

16 I tesori segreti del clan di Putin in L’Espresso n°11 del 20/03/22 pagina 48 e seguenti

Enrico Campolmi

Turchia: finalmente assolta l’esperta di medicina legale Şebnem Korur Fincancı

Il 20 febbraio Şebnem Korur Fincancı, una delle massime autorità turche in materia di medicina legale e assai nota nella comunità scientifica internazionale, è stata finalmente assolta dall’accusa di aver “denigrato lo stato turco”, reato punito dall’articolo 301 del codice penale.

Dopo un primo periodo di carcere trascorso durante lo scorso decennio per “propaganda terrorista” solo per aver espresso solidarietà nei confronti di un organo di stampa che aveva una linea editoriale critica nei confronti del governo, era stata arrestata il 26 ottobre 2022 dopo che in un’intervista all’estero aveva sollecitato un’indagine indipendente sul possibile uso, da parte dell’esercito turco, di armi chimiche durante un’offensiva in Iraq contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan, noto con l’acronimo Pkk.

Sebnem Korur Fincancı, presidente fino al giugno 2024 dell’Associazione dei medici della Turchia, è nel Comitato esecutivo della Fondazione per i diritti umani della Turchia, fa parte del Gruppo di esperti in medicina legale dell’International Rehabilitation Council for Victims of Torture ed è consulente di Physicians for Human Rights.

Nel corso della sua esperienza, ha esumato fosse comuni in Bosnia per conto delle Nazioni Unite e ha condotto indagini di medicina legale in Turchia e all’estero. Ha inoltre contribuito al Protocollo di Istanbul, lo standard internazionale di riferimento per le indagini di medicina legale sulla tortura.

Per il suo impegno ha ricevuto il premio Hrant Dink nel 2014, il premio di Physicians for Human Rights nel 2017 e il premio Hessian per la pace nel 2018.

Riccardo Noury

Motori spaziali tra scienza e fantascienza?

Da quando l’Essere Umano ha sviluppato la tecnologia della movimentazione assistita, trasferendo la potenza del cavallo a sistemi meccanici indipendenti, la vita ha preso a scorrere più velocemente e la tecnologia ha fatto passi da gigante in maniera esponenziale.

Era “solo” il 1769 quando, grazie all’applicazione della macchina a vapore alla mobilità, il carro di Cugnot percorreva i primi metri.

In poco più di 200 anni stiamo ora percorrendo Unità Astronomiche (1.0 ua = 149.597.870.707 m) grazie a sistemi mobili impensabili all’epoca.

Mentre la mobilità terrestre di superficie sembra essere arrivata ormai al suo limite, ciò che accade sia in bassa atmosfera che, soprattutto, nello Spazio sta iniziando viceversa a cambiare nuovamente le prospettive espansionistiche del Genere Umano.

Ho già parlato, in un precedente articolo, delle nuove capacità esplorative ad appannaggio delle “Vele Solari”, ma anche altri sistemi di trasporto, equipaggiati da particolari ed innovativi sistemi propulsivi, spesso preannunciati dalla Fantascienza, si stanno concretizzando.

Motori a propulsione nucleare, al Plasma, agli ioni, elettrostatici sono all’orizzonte, sistemi che possono arrivare a “muovere” vere e proprie astronavi con una discreta efficienza una volta a regime.

Certo al momento non come quelle di Star Trek, ma potranno comunque garantire il trasporto di piccoli team di Astronauti per medie distanze.

Tra i vari lati positivi, vi sono tempistiche di percorrenza molto basse, per esempio si stima che con un motore al plasma si potrebbe arrivare a raggiungere Marte in circa 30 giorni di viaggio.
Siamo consapevoli che questo ridurrebbe le tempistiche, ma anche, cosa più importante, ridurrebbe ovviamente l’esposizione degli astronauti all’ambiente Cosmico molto dannoso alla salute Umana. 

Quindi solo vantaggi?

Assolutamente no… il lancio iniziale in orbita avverrà con razzi che possiedono motori tradizionali a propellente solido, liquido o a gas metano (questi ultimi come i Raptor di che equipaggiano Starship di SpaceX), che possono sprigionare la potenza necessaria alla messa in orbita dei sistemi finali o di parti di essi.

Successivamente, dopo il necessario assemblaggio, dispiegamento (in caso di Vele Spaziali) o messa in orbita iniziale, il o i propulsori, di nuova generazione, verranno attivati.

Le motivazioni di questa scelta sono diverse:

  • i nuovi motori al momento non sono così efficienti, da fornire la spinta necessaria a vincere la forza di Gravità ed a permettere la messa in orbita diretta, del Sistema Spaziale o di parti di esso, dalla base di lancio;
  • a causa del precedente punto, i motori di nuova generazione, in base al tipo di veicolo da muovere, potrebbero richiedere “array” (serie) composte di diverse unità propulsive per raggiungere la necessaria efficienza propulsiva. Questo si tradurrebbe in dimensioni e massa, del mezzo, rilevanti risultando troppo pesanti per essere lanciati dalla superficie terrestre direttamente venendo per esempio assemblati un orbita;
  • alcuni motori, quali quelli ad energia Nucleare ad esempio, potrebbero essere dannosi per gli esseri umani se utilizzati in atmosfera.

 

Questi sono solo alcuni degli esempi in attesa che il Motore a Curvatura, vagheggiato nella già menzionata saga Star Trek, possa in qualche modo vedere la luce.

Per quanto riguarda quest’ultimo, la sua caratteristica fantascientifica è quella di consentire, al possibile sistema spaziale, di viaggiare alla velocità della luce comprimendo lo spazio-tempo davanti alla nave e espandendolo sul retro della stessa (creando la cosiddetta “bolla di curvatura”).

Da una approfondita analisi eseguita da alcuni ricercatori in questi ultimi anni, non sembrerebbe essere comunque relegato alle pubblicazioni del genere letterario chiamato Sci-Fi (Fantascienza).

Un team, infatti, ha recentemente avanzato l’ipotesi che il salto alla velocità di curvatura possa essere effettuabile e senza dover violare le attuali leggi della fisica utilizzando, oltretutto, fonti energetiche conosciute e non “esoteriche”.  

Questo rappresenterebbe una svolta significativa rispetto a qualsiasi degli attuali motori tradizionali o di nuova generazione visti in precedenza.

E quindi non resta che dire:

“All right Scotty! Get our warp power up to full capacity!” 

(cit. capt. James T. Kirk – ‘Star Trek, The Original Series’).

    

Paolo Navone

La guerra dei bambini, disagi e traumi che aumentano la conflittualità

Si è svolto il 19 febbraio presso la Sala Capitale di Palazzo Vecchio, l’interessante incontro La guerra dei bambini, disagi e traumi che aumentano la conflittualità” organizzato in collaborazione fra il Comune di Firenze (Commissioni Consiliari 7 e 9), il Laboratorio Permanente per la Pace del Quartiere 5 e Auser.

Dopo l’introduzione della Presidente Commissione 7 Stefania Collesei, sono seguiti gli interventi del Prof. Mario Matteini, professore di didattica della storia, curatore del video “Testimonianze di vita attraverso sogni e disegni di bambini israeliani e palestinesi“, della  Presidente Commissione 9 Beatrice Barbieri,  dell’Insegnante Elisabetta Cavalero con i suoi alunni della Scuola Montagnola, della Dott.ssa Eleonora Boscolo e la  Dott.ssa Sandra Caciagli del Laboratorio Permanente per la Pace e della Dott.ssa Elisabetta Innocenti, neuropsichiatra infantile Ospedale Meyer. Presente l’Assessora alla Educazione, Formazione professionale, Cultura della memoria e della legalità, Pari opportunità Benedetta Albanese che ha portato il suo saluto istituzionale.

Stefania Collesei ha rimarcato che lavorare con i bambini è importante, è la strada per dimostrare che un’altra strada è possibile, a partire proprio dai bambini. E’ per questo che il consiglio comunale ha preso diverse iniziative per incontrare realtà di gruppi e associazioni che insieme vogliono lavorare per abbattere il muro della guerra. Mentre in Italia da 80 anni abbiamo avuto la fortuna di non vivere direttamente l’esperienza della guerra, un periodo in cui i bambini sono nati e potuti crescere in tempo di pace, nel video sono stati presentati i momenti dei conflitti vissuti dai bambini palestinesi e israeliani, bambini che non hanno mai conosciuto la pace nella loro vita. Per questo sono importanti le iniziative di associazioni e gruppi informali che a Firenze hanno sviluppato in modo costante iniziative, anche in collaborazione con la commissione, per difendere il valore della pace e la difesa della vita a partire dai bambini, gridando l’orrore dei 17.000 bambini morti solo in Palestina a partire dal 7 ottobre dove sono morti bambini israeliani.

Beatrice Barbieri ha ricordato la sua presenza e rapporto con i ragazzi della scuola e la loro importanza in questo percorso in un momento in cui si è sempre di più sentito parlare della guerra, fino, alla paura di essere coinvolti anche da noi dalla guerra e, in certi momenti, ad assuefarsi a questa stessa parola. In un colloquio un alunno ha fatto la constatazione che “se non ci fosse la guerra non si parlerebbe nemmeno della pace”! Concludendo lui stesso che “una volta assaporata la bellezza della pace non ha senso andare a ricercare la guerra”! Per questo è necessario arricchirsi di cose belle! 

L’assessora Albanese ha ringraziato per l’organizzazione di questa iniziativa con i bambini, dei piccoli cittadini, ma i più importanti che possano abitare queste stanza, perché loro saranno gli adulti di domani, parte integrante di questo percorso di “costruttori di pace”, per il quale non esiste una ricetta, se non l’impegno attraverso le azioni, il pensiero, le parole.  Albanese ha sottolineato che In questo sogno, in questo percorso da fare assieme, il punto di vista e il contributo dei bambini è importante! 

Il Prof. Matteini ha presentato il video che fa parte del progetto “La vita e la storia” con l’obiettivo di favorire la conoscenza della storia a partire da testimonianze di vita. Il video rappresenta i sogni ed i disegni dei bambini israeliani e palestinesi, bambini che non hanno mai conosciuto la pace nella loro vita e ci aiuta a comprendere i conflitti vissuti da loro, ma anche da tutti quelli che vivono in situazioni di conflitto e di guerra. La prospettiva cerca di andare al di là delle ragioni e dei torti, non perché non ci siano responsabilità e si debba rinunciare ai propri giudizi e le proprie valutazioni, ma significa cercare quel terreno comune che eviti di cadere nelle tifoserie contrapposte che impediscono la conoscenza e la capacità di ascolto dell’altro.

Il focus del video è l’infanzia traumatizzata dalla guerra, un aspetto che è vissuta su tutti i fronti, ma che in certi casi non è tenuta nella giusta considerazione e viene quasi considerata un effetto collaterale al servizio di scopi politici. Così in questa disumanizzazione le prime vittime sono proprio i bambini. Per questo vanno considerati tutti i bambini, non solo per il numero dei morti, ma anche per l’impatto psicologico, la paura degli attentati e degli attacchi, le ferite e amputazioni subite, la perdita dei genitori o dei propri cari, la percezione della insicurezza degli adulti e della impossibilità di offrire loro protezione: tutti aspetti e traumi diretti e indiretti che incidono pesantemente sulla loro formazione e crescita. Questo non riguarda solo i bambini Palestinesi, Israeliani, ucraini: secondo un rapporto dell’Unicef i bambini che si trovano in aree di conflitto sono 473 milioni, quasi uno su cinque! Una percentuale quasi raddoppiata rispetto al 1990. I bambini siriani vissuti sotto i bombardamenti sono circa 6 milioni e per molti di loro il sogno era morire per poter andare in paradiso, per poter vivere una vita in pace e ritrovare i propri amici morti prima. Nel video è stato possibile vedere e ascoltare altri fattori che incidono pesante mente sulla vita e la crescita dei bambini, fattori che fanno parte della loro quotidianità. Uno di questi è il richiamo costante alla guerra che si presenta nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, questi richiami li vediamo nelle immagini dei bambini palestinesi dei campi profughi che per andare a scuola camminano attraverso i muri tappezzati con disegni dei martiri e dei morti, in altre foto bambini israeliani che si esercitano con le armi, a difendersi dall’arrivo dei missili, anche con l’utilizzo dei rifugi all’interno degli stessi campi giochi, oppure accompagnati da maestri e genitori armati.

Un ultimo fattore che incide pesantemente sulla crescita e formazione dei bambini è ovviamente l’istruzione su cui sia israeliani che palestinesi dedicano una grande attenzione e fanno scelte simili, a partire dai testi scolastici, negando l’esistenza dell’altro, attraverso meccanismi di distorsione della verità storica, con la sua cancellazione dalle mappe e dalle cartine aumentando ancora l’alimentazione dell’odio e della violenza. Così ai danni individuali causati dall’esperienza della guerra, si sommano questi effetti a lungo termine sulla coscienza e il modo di pensare dei bambini. Questa esperienza del passato e del presente influirà per decenni su intere generazioni che verranno spinti a immaginare così’ un futuro con la guerra al centro, facendo sì che sia più facile pensare alla guerra come soluzione che non la pace. Il radicamento di questo pensiero tenderà a entrare nella mentalità collettiva tanto da farci diventare incapaci di pensare e attivare la soluzione della pace. David Grossman già nel 2021 diceva “Un’intera generazione di bambini, a Gaza e a Ashkelon, presumibilmente crescerà e vivrà con il trauma dei missili, dei bombardamenti e delle sirene. A voi bambini, sulle cui coscienze questo conflitto ha inciso davvero, io sento il bisogno di chiedere scusa, perché non siamo stati capaci di creare per voi la realtà migliore e più sana a cui ogni bambino di questo mondo ha diritto.

Dopo gli interventi delle rappresentanti del Laboratorio permanente per la pace del Q5, Sandra Caciagli e Eleonora Boscolo e gli interessanti spunti e informazioni della Dott.ssa Elisabetta Innocenti, neuropsichiatra infantile dell’Ospedale Meyer, l’incontro si è poi concluso con il laboratorio dei bambini della Scuola primaria Montagnola che hanno disegnato le emozioni, le riflessioni e le proposte su quanto è loro arrivato dalle immagini e dalle parole del video ed alcuni di questi sono stati presentati da loro stessi alla fine.

Video che è stato proiettato all’incontro

Paolo Mazzinghi

Pedemontana. Un appello sale dalla Brianza che ama: “Fermarla è possibile!”

L’autostrada pedemontana è un progetto di cui si parla da ormai oltre sessant’anni. Un articolo dell’Eco di Bergamo del 20 dicembre 2017 ne riassume per sommi capi la storia: “La prima ipotesi di tracciato compare nei Piani territoriali del 1963, nel frattempo il tracciato è salito e sceso manco un folle elettrocardiogramma: da Bergamo a Biella, poi da Trezzo a Saronno, poi da Usmate a Saronno tagliando fuori la Bergamasca. Tutto a livello di ipotesi, perché solo nel 1982 l’Anas inserisce l’opera nel Piano decennale della viabilità di grande comunicazione: 19 anni solo per questo primo passo.

Nel 1985 si sfiora il risibile quando la Regione sposta tutto ancora più a Nord: da Dalmine a Como e Varese attraversando il lecchese con tanti saluti a Milano. Che la prende male e mette sul tavolo l’ipotesi della Gronda intermedia Castellanza-Saronno-Vimercate-Trezzo: in pratica dal nulla si passa a due autostrade a pochi chilometri di distanza. Sempre sulla carta, beninteso, ma tanto basta per far imbestialire ambientalisti e comitati vari.

Nel 1990 arriva il passaggio-chiave, l’assegnazione della concessione alla società Pedemontana, all’epoca divisa equamente tra Milano-Serravalle e società Autostrade: nel frattempo tra Pedemontana e Gronda intermedia si trova la soluzione ibrida un po’ di qua e un po’ di là, la si ribattezza Pedegronda e il tracciato ritorna più verso il milanese: da Dalmine a Vimercate e da qui a Legnano. Peccato che quest’ultima sia fuori dalla concessione, e allora nuovo cambio in corsa fino all’attuale Sistema Pedemontano. È il 1999 e sembra quasi fatta, ma per mettere d’accordo tutti (vabbè, quasi…) servirà ancora una decina d’anni.”

Come ricorda l’Eco di Bergamo, il 6 febbraio 2010 nel paese natale di Umberto Bossi, Cassano Magnago, viene posata la prima pietra dell’opera. Previsto anche un cronoprogramma ormai superato senza esito: “agosto 2013 i primi lotti, dicembre 2014 l’opera intera, tutto in prospettiva Expo 2015. Che è abbondantemente passato”.

Il progetto è composto da cinque tratte, di cui le prime due, da Varese a Lentate sul Seveso, alle porte della Brianza monzese, sono già realizzate. Per quel che riguarda le restanti tratte, le problematiche sono numerose, e tanti sono i comitati locali che da decenni ormai cercano di fare informazione e di opporsi alla devastazione del territorio. Qui i lavori veri e propri non sono avviati, ma alcuni cantieri propedeutici hanno presto il via destando preoccupazione e sdegno nella cittadinanza.

La tratta B2 cade tutta nella provincia di Monza e Brianza e andrà a convertire un tratto della attuale Milano-Meda, una superstrada gratuita, in autostrada a pagamento. Già così la cosa non sembra andare incontro alle esigenze delle persone che abitano il territorio; occorre anche aggiungere che lungo questo tracciato, sepolta dalla terra e dagli anni, giace la diossina del disastro dell’ICMESA del 1976. Nel 2012, quasi per caso, alcune analisi portarono a constatare che i terreni sono ancora altamente compromessi e inquinati dalla diossina, così è stato dato mandato a Pedemontana di procedere alla bonifica prima di avviare i lavori. A novembre 2024 sono iniziati i lavori propedeutici alla bonifica secondo una logica di “gestione del rischio” che genera inquietudine. I comitati locali a gran voce stanno dicendo da tempo che “se non è a rischio zero non è bonifica”. Sabato 22 febbraio 2025 si terrà proprio a Seveso una “passeggiata della vergogna” per reclamare il rischio zero (in allegato la locandina dell’iniziativa).

Nel frattempo, sulla tratta C, che attraverserà il cuore della Brianza, da Desio a Vimercate impattando su Macherio, Lissone, Lesmo, Arcore, con l’obiettivo di raggiungere (ma non ricongiungersi con) la tangenziale est, tra la Velasca e Usmate Velate, si possono osservare ampie distese verdi tutte cintate con la rete rossa di cantierizzazione, uno spettacolo desolante.

Il giorno di San Valentino Fridays for future ha lanciato qui una campagna per dichiarare il proprio amore per la Brianza con un’azione semplice e alla portata di chiunque: dotarsi un piccolo lucchetto su cui scrivere il proprio messaggio d’amore per poi apporlo sulla rete dei cantieri (foto allegate – qui i link alle pagine social che promuovono l’azione: https://www.facebook.com/share/p/16791uoPfL/ ; https://www.instagram.com/p/DGDrbGkt_Qu/?igsh=MWZ0cWg3dzhqb253dA==). Lo slogan dell’azione è “I love Brianza – Al vostro progetto mettiamo il lucchetto”. Fridays for future invita a emulare il gesto per esprimere il proprio dissenso contro questa immensa colata di cemento che andrà a coprire le già ridotte e per questo preziosissime aree verdi della zona.

Nel frattempo, nella zona di Arcore – località che sappiamo essere ben nota per altre ragioni – le ruspe sono già al lavoro su un’area boschiva del parco dei Colli Briantei dove (chissà se e tra quanto) l’autostrada dovrebbe passare. Circa una cinquantina di alberi di mezzo secolo di vita sono già stati abbattuti. Sono molte le persone della zona che conoscono e amano questi boschi, vedere questo scempio ha scosso gli animi, generando dolore e frustrazione nei più, e anche qualche tentativo di azione diretta e di interposizione pacifica che è riuscita in un caso a interrompere i lavori e a silenziare le ruspe, seppur solo temporaneamente (https://www.mbnews.it/2025/02/attivista-ferma-ruspe-pedemontana-boschi-bernate-arcore/).

La tratta D-breve è l’ultima arrivata. Non ancora approvata né finanziata. Dal 2021 Regione Lombardia lavorava all’insaputa di tutti alla modifica del progetto, amministrazioni comunali interessate incluse. Al posto della D-lunga (18 km), che avrebbe dovuto andare fino a Dalmine, spunta la D-breve (9 km). Arrivata la tratta C a Vimercate l’autostrada devierebbe verso sud per raggiungere Agrate e congiungersi con la TEEM. Otto corsie di autostrada che correrà parallela alla A51 (tangenziale est), gratuita, mentre Pedemontana avrà tariffe da capogiro: da Lentate ad Agrate, un percorso di circa 30 km, si spenderebbero 20 euro di pedaggio.

Il nuovo tracciato non è una variante ma una nuova opera che nulla ha a che fare con l’originale collegamento est-ovest di Pedemontana. I motivi del cambio: i costi troppo elevati che portano a ripiegare su questo tracciato D-breve, più corto, e la difficoltà a passare in territori fortemente urbanizzati come quelli della provincia di Bergamo (questa la versione ufficiale…).

La tratta D-breve invaderà per oltre il 76% il Parco P.A.N.E., un grande Plis nella Brianza est, di 4.065 ettari, che coinvolge 23 comuni. Verrebbe consumato suolo per un totale di 442.580 mq (l’equivalente di 62 campi da calcio). All’interno un bosco di pregio (il bosco della Bruciata), tantissime specie animali e vegetali, alcune delle quali protette, e tre ordini di terrazzi delle tre fasi glaciali che sono il risultato delle diverse ere geologiche. Insomma, un vero e proprio museo geologico e naturalistico a cielo aperto.

In questa parte della Brianza un intero territorio si è unito per opporsi allo scempio. Oltre a una grande opera di sensibilizzazione da parte dei cittadini, qui l’azione istituzionale è ancora possibile e così dieci comuni del vimercatese, con amministrazioni di opposte appartenenze politiche, hanno avviato un’azione legale contro quegli enti che continuano a sostenere il progetto e che stanno violando tra le altre cose, il leale principio di collaborazione tra enti. L’ultimo atto giuridico è una diffida nel proseguire con la realizzazione della tratta D-breve inviata a gennaio dai dieci comuni a Regione Lombardia, CIPESS, Ministero delle Infrastrutture, Ministero dell’Ambiente, Cal e Apl (tutta la documentazione disponibile sul sito del Comune di Agrate e di Vimercate).

L’obiettivo dei movimenti e dei comitati lungo tutto il tracciato di Pedemontana è di intercettare il dissenso e dare fiducia nelle concrete possibilità di intervento praticando azione diretta. Non è facile né scontato, perché molte persone hanno tendenza a sentirsi impotenti di fronte ai cantieri all’opera. Molte ma non tutte: per alcune persone infatti il gioco è tutto da giocare, finché ci sono alberi e parchi da difendere.

Come qualcuno ha detto: “Dire che l’opera è disastrosa ma ormai non c’è più nulla da fare, sarebbe come se, a suo tempo, qualcuno avesse detto ‘eh ormai i lager sono costruiti cosa fai, non li usi?’”

Laddove la politica istituzionale si muove in direzione opposta rispetto al bene comune, c’è sempre margine per intervenire come singole persone, cittadine e cittadini, desiderose di allearsi con la natura e difenderla.

Fridays for Future Brianza

Fridays For Future