Salta al contenuto principale

filosofia politica

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .

Decostruire la specie – seconda e ultima parte

Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
secondo contributo

Per completare la descrizione dello specismo vanno presi in esame quelli che abbiamo chiamato i dispositivi di smembramento dei corpi animali (umani e non). Questi dispositivi sono sia materiali che performativi. Dispositivi materiali sono l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri non-luoghi di reclusione e reificazione con le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli e che non lasciano nulla al caso: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati in modo da sottrarli alla vista e non causare problemi igienico-sanitari) all’architettura,  più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento; dall’“ottimizzazione” degli spazi (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione maniacale, burocratica e certificata con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato; dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici; dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.

I dispositivi performativi sono anch’essi molteplici e comprendono una serie di parole che uccidono, di cui è possibile dare qui solo una lista incompleta: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, per esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.

Per ulteriore chiarezza, vale la pena sottolineare che ciò che si sta cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella “specie” o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale – la linea di specie più che mai mobile nella sua presunta immobilità – non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste vengono fatte parlare dall’indiscutibilità della norma di specie (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.

Allora, se si vuole davvero superare lo specismo ci si deve muovere contemporaneamente su due fronti: vanno decostruiti i suoi sistemi di sapere (la sua ideologia e le sue narrazioni) e vanno smantellate le sue strutture sezionanti (i suoi dispositivi di potere materiali e performativi), non fosse altro perché, una volta che il sistema funziona a pieno regime, centro vuoto, meccanismi di inclusione/esclusione e dispositivi di smembramento si rafforzano a vicenda, poiché, qui come altrove, non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma si rincorrono in un circolo vizioso, in cui la favola del centro vuoto normalizza i calcoli di inclusione/esclusione e dei dispositivi  in cui questi ultimi naturalizzano la favola del centro vuoto.

Questa doppia operazione di decostruzione e smantellamento non può che prendere corpo in una politica affermativa della gioia, in cui l’informe della vita non genera più repulsione, schifo o terrore del dissimile, ma il desiderio potente di creare nuovo essere: nuovi mondi, nuovi soggetti, nuovi desideri e nuovi piaceri, tramite un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive. In breve, abbiamo più che mai bisogno di un antispecismo che comprenda che il problema non risiede nel dove si traccino le linee di confine o quante queste debbano essere, ma nel fatto stesso che le si continui a tracciare. Chiamiamo questo antispecismo antispecismo viscido del comune.

Facendo propria l’idea della specie come linea genealogica, questo ulteriore movimento di opposizione allo specismo intende i viventi animali, senza eccezione alcuna, come ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani e non umani, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione alienante, di divenire-con-tra.

Antispecismo del comune perché ciò che più di ogni altra cosa mette in stato di arresto la nozione di “specie” è il riconoscimento della faglia di vita impersonale e transpersonale che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la potenza “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione. Il comune è ciò che permette all’antispecismo di oltrepassare il bíos – la vita specializzata di cui si occupano le scienze biologiche – in direzione di zoé – che non è nuda vita ma potenza produttrice di mondi. Non sorprende, allora, che per l’antispecismo del comune la libertà è liberazione, un processo collettivo che si materializza tra e con gli altrə. Il che, in fondo, corrisponde a restituire alla libertà la sua accezione originale che deriva dall’idea di crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita.

Antispecismo viscido perché non si intende cadere nelle subdole trappole cripto-antropocentriche o, all’opposto, in quelle separazioniste che hanno caratterizzato fino a oggi l’antispecismo in cui si accorda riconoscimento rispettivamente all’Animale pseudo-umanoide simile a Noi (La Grande Scimmia) o all’Animale totalmente estraneo a Noi in quanto ancora-Naturale (Il Selvatico Ultra-Originario): l’Altro o, meglio, lə altrə ci precedono e se molto più spesso sono a noi dissimilə fino alla repulsione, nondimeno sono a noi inestricabilmente legatə sia filogeneticamente che ecologicamente.

Se la pandemia di Covid-19 ci avesse insegnato qualcosa, avremmo capito che, piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è informe, viscido e comune. Per questo abbiamo bisogno di un antispecismo neo-materialista capace di rispondere alle sfide che questo mondo ci pone, un antispecismo che non si senta chiamato a mostrare e a dimostrare l’indubitabile, ossia che gli animali soffrono, ma a domandarsi come sia possibile modificare politicamente l’esistente. Quindi, proprio perché non siamo mai statə specistə, possiamo proporre una nuova definizione di antispecismo che, riecheggiando Marx e Engels per superarli, potrebbe suonare così: «L’antispecismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Antispecismo è il movimento reale che, liberando e liberandoci, abolisce lo stato di cose presente».

Massimo Filippi

 

Immagine: Ghiro – Ericalcane

L'articolo Decostruire la specie – seconda e ultima parte proviene da .