Sabato 22 marzo 2025 alle 14,30 davanti alla stazione di Santa Lucia presidio indetto dal Comitato Contro le Guerre e il razzismo di Marghera (VE) e Giovani Palestinesi d’Italia.
La convocazione del presidio è stata invocata da più parti della società civile veneziana scandalizzata dalla ripresa vergognosa degli attacchi contro la popolazione inerme di Gaza.
Dal 18 marzo, giorno in cui Israele ha ufficialmente rotto la tregua raggiunta con tanta difficoltà il 19 gennaio 2025, sono morte quasi mille persone sotto i bombardamenti che spianano la via agli attacchi di terra. Le intenzioni del governo israeliano, forte dell’appoggio degli Usa e del silenzio dell’Unione Europea, in primis del governo italiano, sono inequivocabili: distruzione totale, pulizia etnica, annessione della Striscia di Gaza così come della Cisgiordania.
Tutti in piazza a gridare il nostro dissenso.
Lunedì 24 marzo 2025 alle 19 – Proiezione e cena sociale presso l’Associazione Culturale Spiazzi, Calle del Pestrin 3865, Sestiere di Castello
FROM GROUND ZERO è un film documentario composto di 22 micro storie girate da giovani registi di Gaza nel 2024 sotto la guida del loro maestro, il regista palestinese Rashid Masharawi.
Storie commoventi, disperate e resistenti che ci fanno entrare nella realtà di guerra dei Gazawi. 112 minuti di immagini che ci portano in un territorio raso a zero dalla violenza dell’attacco militare israeliano e dalla volontà sionista di conquista dal fiume al mare.
Il cinema è sempre uno strumento efficace di comunicazione, soprattutto quando si tratta di dare visibilità e parola a chi non ce l’ha, come è il caso dei palestinesi. Il genocidio continua grazie all’indifferenza dei governi, per la censura dei mezzi di informazione, per la complicità dell’Unione Europea.
L’iniziativa è organizzata a Venezia in collaborazione con Cinema senza Diritti (rassegna di cinema palestinese giunta all’ottava edizione), Comitato contro la guerra e il razzismo di Marghera e l’Associazione Spiazzi, che mette a disposizione la sua sede nel Sestiere di Castello.
Alla proiezione seguiranno dibattito e cena sociale con menù palestinese adatto anche a vegetariani.
Chi vuole fermarsi a cena è pregato di chiamare il numero 3408262072
Mercoledì 12 marzo si è svolto a Piacenza, nella sala de “Il Samaritano”, un interessante incontro dal titolo “Palestina-Israele: violazione dei diritti umani e complicità dell’Italia”.
La serata, promossa da Salaam, Ragazzi dell’Olivo di Piacenza e da Amnesty International, sempre di Piacenza, ha avuto come ospiti Elisa Brunelli, giovane giornalista e autrice di diverse inchieste anche per Altreconomia e Tina Marinari, coordinatrice campagne di Amnesty International Italia. Il tutto è stato introdotto e moderato da Rita Casalini, affidataria di Salaam, Ragazzi dell’Olivo.
Di fronte a una platea di un centinaio di persone, le nostre ospiti ci hanno ben illustrato sia la terrificante situazione di Gaza sia quella, forse meno nota, della Cisgiordania occupata, anch’essa estremamente grave per la popolazione palestinese.
Tina Marinari ha presentato e ampiamente argomentato il rapporto ai A.I. “Ti senti come se fossi un subumano: il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza”. Ha illustrato il grande lavoro fatto da Amnesty Interntional per raccogliere prove – sia attraverso oltre 200 interviste, sia con immagini e video – che dimostrano l’intenzione genocidiaria di Israele nei confronti della popolazione palestinese di Gaza. Il tutto a partire da quanto viene enunciato nella Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite del 1948.
Elisa Brunelli ha illustrato – anche attraverso una serie di slide – la sua inchiesta “Il calibro dei coloni”. Questa ricerca – dati alla mano – dimostra il traffico di armi dall’Italia a Israele. Le ditte italiane Beretta e Fiocchi esportano in Cisgiordania armi che vengono acquistate dai coloni israeliani, che ne fanno ampiamente uso contro la popolazione palestinese. In ogni città o villaggio ci sono negozi dove si possono acquistare queste armi e addestrare le persone, compresi ragazzini.
Ricordiamo che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele contravviene a decine e decine di risoluzioni ONU e che la Corte Internazionale di Giustizia l’ha dichiarata illegale il 19 luglio 2024
Sempre Elisa Brunelli ha parlato di un’altra sua inchiesta – “Il limbo dell’accoglienza anche per minori e feriti evacuati da Gaza” – dove viene denunciato che, a fronte delle dichiarazioni ufficiali del governo italiano sulla “generosità” nell’accogliere minori palestinesi feriti e/o gravemente malati per essere curati in ospedali italiani – nei fatti lo Stato italiano non ha fatto nulla (trasporto a parte): l’accoglienza e la presa in carico di queste famiglie sono state completamente scaricate su varie associazioni del terzo settore.
Oltre alla complicità dell’Italia nella vendita di armi ai coloni israeliani, Tina Marinari ha sottolineato la responsabilità del nostro Paese nel non aver fatto nulla di nulla, non solo in aiuto della popolazione di Gaza sottoposta da oltre 15 mesi a un assedio spaventoso, ma ancor meno sul piano diplomatico per ricercare e favorire trattative tra il governo israeliano, Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese per giungere non solo a tregue che fermino morti e distruzioni e liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas, ma riescano a perseguire una soluzione di pace tra i due popoli, pace che per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia.
Ultima nota: una serata nel segno delle donne. La conduttrice nella sua introduzione ha citato la filosofa Hannah Arendt, secondo la quale le donne si conoscono e riconoscono per convergenza. L’unica soluzione per evitare l’identificazione per contrasto è non sentirsi parte di un popolo geografico, ma del popolo dei sofferenti e degli oppressi.
Chiara Casella, per le famiglie affidatarie di Salaam Ragazzi dell’Olivo, PiacenzaLidia Gardella, Amnesty International, Piacenza
Medici Senza Frontiere (MSF) è sconvolta e rattristata dall’uccisione di Alaa Abd-Elsalam Ali Okal, membro dello staff dell’organizzazione, in un attacco aereo israeliano che ha colpito la sua abitazione a Deir Al Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza.
Insieme a centinaia di altre persone in tutta la Striscia, Alaa Abd-Elsalam Ali Okal è stato ucciso la mattina presto del 18 marzo, in seguito alla ripresa degli attacchi israeliani. Centinaia di altre persone sono rimaste ferite in questa brusca fine del cessate il fuoco.
Alaa Okal è entrato a far parte di MSF come addetto alla lavanderia nel settembre 2024 e ha svolto un ruolo importante presso l’ospedale da campo di MSF a Deir Al Balah. Aveva 29 anni.
In questo tragico momento, i nostri pensieri vanno alla sua famiglia e a tutti i colleghi e colleghe a Gaza con i quali piangiamo la sua morte e siamo al loro fianco in questi momenti estremamente difficili.
Alaa Okaal è il decimo membro dello staff di MSF ucciso dall’inizio della guerra a Gaza. MSF condanna la sua uccisione e chiede ancora una volta il rispetto e la protezione dei civili.
Grande partecipazione ieri, sabato 22 marzo, alla manifestazione contro il genocidio in Palestina. Grazie al capillare lavoro di informazione eseguito dal Comitato contro la Guerra e il Razzismo di Marghera, numerosa è stata la presenza della comunità bengalese e degli studenti.
Il presidio si è trasformato in un corteo ben organizzato, che è partito dalla stazione Santa Lucia ed è arrivato fino al Ponte di Rialto. Almeno 400 partecipanti, nonostante la manifestazione sia stata organizzata con pochissimo preavviso.
Slogan, striscioni e manifesti hanno comunicato a veneziani e turisti la solidarietà al popolo palestinese e la denuncia del genocidio in atto. Molti gli slogan, anche in inglese, contro il silenzio dell’Europa, la complicità dei governi e la politica assassina di Israele.
Rincuora constatare che le persone non sono disposte ad assuefarsi alla guerra, alle violazione dei diritti e delle leggi internazionali, che la gente non accetta di assistere indifferente allo sterminio di un popolo.
Appello
al Ministro della Cultura, Alessandro Giuli
al Sindaco di Roma Capitale, Roberto Gualtieri
al Consiglio Comunale di Roma Capitale
Rivolgiamo un appello urgente al Ministro della Cultura Alessandro Giuli, al Sindaco di Roma Capitale, Roberto Gualtieri, ai Consiglieri comunali di Roma Capitale affinché le luci del Colosseo vengano spente per un’ora, in segno di lutto per le decine di migliaia di civili inermi e di bambine e bambini uccisi nei raid israeliani in Palestina.
Dopo una breve pausa è ripreso il genocidio a Gaza, dove la situazione umanitaria è disperata, mentre in Cisgiordania gli assalti dell’IDF e dei coloni non si sono mai fermati. Gli attacchi aerei israeliani su Gaza degli ultimi giorni hanno già causato un migliaio di vittime, tra le quali centinaia di bambini e bambine. Queste sono state le ore più letali per i più piccoli nella Striscia. Una pulizia etnica che sembra non avere fine.
Le operazioni militari hanno isolato oltre centomila bambini, facendoli rimanere senza cibo, né acqua, né assistenza, esponendoli a gravi rischi sanitari e alla fame. Inoltre continuano i raid israeliani contro i presidi sanitari che forniscono cure essenziali e sono già due gli ospedali distrutti negli ultimi giorni.
È una situazione di grande sofferenza e impunità, dove i più vulnerabili, come bambini e bambine, persone anziane, malate e disabili, stanno pagando il prezzo più alto con la complicità degli Usa e nell’indifferenza colpevole dell’UE.
Ci auguriamo che questo appello venga accolto dal Ministro della Cultura e dal Sindaco del Comune di Roma Capitale per sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere le autorità politiche a tutti i livelli a intervenire per porre fine a questa tragica situazione. Spegniamo una luce per accendere le coscienze.
Non dobbiamo rimanere in silenzio.
Associazioni e singoli cittadini possono sottoscrivere e rilanciare questo appello scrivendo alle seguenti mail:
Rete #nobavaglio
Assopacepalestina
Lea laboratorio ebraico antirazzista
Emergency
Arci nazionale
Amnesty International Italia
Fnsi
Articolo 21
Pressenza
Associazione Senzaconfine
Mediterranea
Peacelink
US Citizens for Peace and Justice Roma
Usigrai
InLiberaUscita
Circolo Laudato Si’ Busto Arsizio” San Francesco”
Coalizione Italiana contro la pena di morte onlus Napoli
Anpi Roma
Giuristi democratici
Un ponte per
Magistratura democratica
Movimento giustizia e pace in Medioriente
CGIL Roma e Lazio
Movimento agende rosse di Salvatore Borsellino
Aprilia Libera odv
Legambiente Roma e Lazio
Coordinamento solidarietà alla Palestina Anzio Nettuno
Cospe Ong
Associazione Culturale Livorno Palestina
Reti di pace Laboratorio Monteverde
Abbasso la guerra odv
Pax Christi Tradate
Stampa romana
Fiom Cgil Roma e Lazio
Festival del cinema dei diritti umani di Napoli
AOI-Cooperazione e Solidarietà Internazionale
Reti di Giustizia. Il sociale contro le mafie APS
Legambiente “Le Rondini” di Anzio e Nettuno
Movimento Donne in Nero Roma.
Laboratorio salute popolare
Associazione genitori Appio Claudio
Comitato varesino per la Palestina
Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese
Medici Senza Frontiere Italia
Cnca Lazio
Fondazione Lelio e Lisli Basso Onlus
Scomodo
Rete italiana pace e disamo
Si chiamava Hossam Shabat, nato il 10 ottobre 2001, aveva 23 anni e due anni fa aveva scelto di raccontare il dramma di Gaza con gli occhi del giornalista, perché tutti sapessero. Lavorava per Al Jazeera, ed era seguitissimo: aveva un larghissimo seguito sui social network (560.000 follower su Instagram e 165.000 su Twitter). Forse proprio questo seguito è stato la sua condanna a morte.
È rimasto ucciso ieri – 24 marzo 2025 – a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, da un drone israeliano che ha bersagliato l’automobile che usava per lavoro, proprio mentre era in giro per raccontare, documentare, mostrare l’orrore. Per un anno e mezzo ha rischiato incessantemente la vita pur di raccontare all’umanità le migliaia di crimini commessi da Israele nel nord della Striscia di Gaza. Hossam era uno dei miei punti di riferimento fissi per avere informazioni sul genocidio: era rimasto fino all’ultimo nel nord di Gaza, anche durante il primo tentativo di pulizia etnica completa, e aveva seguito da vicino la distruzione totale del campo profughi di Jabalia.
Israele lo aveva minacciato sin da subito: poco dopo il 7 ottobre 2023, un ufficiale dell’intelligence israeliana lo aveva chiamato al telefono intimandogli di cancellare tutti i suoi post su Facebook posteriori al 7 ottobre e di lasciare immediatamente Beit Hanoun, nel nord di Gaza, pena la distruzione della sua casa. Hossam aveva rifiutato e subito dopo l’aviazione aveva bombardato la sua casa, radendola al suolo. Israele aveva già cercato di ammazzarlo più volte: a ottobre 2024 l’esercito genocidario aveva affermato di avere “prove” (ovviamente mai mostrate a nessuno) secondo cui Hossam era un cecchino di un battaglione di Hamas e l’aveva messo in una lista di persone da eliminare.
Il 20 novembre scorso lo aveva ferito mentre arrivava sulla scena dell’ennesimo bombardamento israeliano su una casa civile. Il suo ultimo tweet è stato ieri sera: ”A Gaza, il ferito viene ucciso”. Il suo ultimo post su Instagram, immediatamente prima di essere ucciso, è stato il corpo straziato di Mohammed Mansour, altro eroico giornalista giustiziato poche ore prima a Khan Younis.
Il suo assassinio è l’ennesimo segno che dopo aver fatto fallire la tregua Israele ha gettato ogni remora al vento, e ha intrapreso con decisione la strada della “soluzione finale”: pulizia etnica ed eliminazione fisica senza freni a scopo di conquista, con una bestialità che rivaleggia con quella degli Unni di Attila. Shabat aveva un coraggio che gli infami pennivendoli nostrani della scorta mediatica del genocidio non avranno mai, neanche vivessero duecento anni. Anche per questo è facile immaginare che la notizia della sua uccisione è stata sottaciuta, distorta e sepolta in mezzo a quintali di fuffa irrilevante; ma per chi ha ancora un cuore, Hossam resterà per sempre un simbolo del coraggio indomabile del popolo palestinese e insieme della ferocia assassina e genocidaria di uno Stato pronto a commettere qualsiasi atrocità pur di rubare la terra a un intero popolo. La sua morte è un atto di accusa contro l’intero giornalismo occidentale, che in un anno e mezzo di subdole distorsioni e plateali omissioni ha creato le condizioni per il suo assassinio.
Prima di morire, consapevole del rischio enorme a cui andava incontro, Hossam ha voluto lasciare un messaggio che è una sorta di testamento civile e spirituale di un popolo. Per capire fino a quale grado di coraggio, di dignità e disperazione si può arrivare.
Da leggere e rileggere, per chi ancora non vuol vedere:
“Se state leggendo questo messaggio, significa che sono stato ucciso, molto probabilmente preso di mira dalle forze di occupazione israeliane. Quando tutto è iniziato, avevo solo 21 anni. Ero uno studente con dei sogni, come chiunque altro. Negli ultimi 18 mesi, ho dedicato ogni istante della mia vita al mio popolo: ho documentato gli orrori inflitti a Gaza, minuto per minuto, determinato a mostrare al mondo una verità che volevano seppellire. Ho dormito su pavimenti, nelle scuole, nelle tende, ovunque potessi. Ogni giorno è stata una battaglia per la sopravvivenza. Ho sopportato la fame per mesi, eppure sono sempre rimasto al fianco della mia gente. Per Dio, ho assolto al mio dovere di giornalista. Ho messo a rischio tutto per raccontare la verità, e ora sono finalmente a riposo, qualcosa che non ho più conosciuto negli ultimi 18 mesi. Ho fatto tutto questo perché credo nella causa palestinese. Credo che questa terra sia nostra, e morire per difenderla e servire il mio popolo è stato il più grande onore della mia vita. Ora vi chiedo: non smettete di parlare di Gaza. Non lasciate che il mondo volga lo sguardo altrove. Continuate a lottare, continuate a raccontare le nostre storie, finché la Palestina sarà libera.
Torino. 23 marzo. Visita a sorpresa al cantiere della Città dell’Aerospazio in corso Marche, dove, da circa un mese sono cominciati i lavori di demolizione della palazzina 27 della ex Alenia – Aermacchi.
Un manichino insanguinato, scritte, fumogeni, cartelli che ci ricordano le vite rubate dalle bombe, dalle armi, dalle guerre. Guerre tra potenti che si contendono risorse, potere, indifferenti alla distruzione di città, alla contaminazione dell’ambiente, al futuro negato di tanta parte di chi vive sul pianeta.
Le macerie sono solo buoni affari per un capitalismo vorace e distruttivo che ha una sola logica, quella del profitto ad ogni costo. Uomini, donne, bambine e bambini sono solo pedine sacrificabili in un gioco terribile, che non ha altro limite se non quello imposto dalla forza di oppress e sfruttat, che si ribellano ad un ordine del mondo intollerabile.
Mentre l’Europa – e il mondo – accelerano una folle corsa al riarmo è sempre più necessario mettersi di mezzo, inceppare gli ingranaggi, lottare contro l’industria bellica e il militarismo.
No al nuovo polo bellico di Leonardo e Politecnico!
Non contino sulla nostra rassegnazione!
Come gocce continueremo ad alimentare la marea che li sommergerá.
Lo dobbiamo a chi, ogni giorno, muore per le armi che si progettano e costruiscono a due passi dalle nostre case.
Lo dobbiamo a chi viene massacrato, in Congo, in Sudan, in Ucraina, a Gaza, Siria… Lo dobbiamo a chi muore lungo le frontiere che separano i sommersi dai salvati.
Lo dobbiamo a chi non ci sta, a chi lotta contro gli Stati, i confini, i nazionalismi.
Non esistono popoli oppressi, perché la nozione di popolo è alla radice di ogni nazionalismo, di ogni trappola inventata dai potenti per arruolare i corpi e le coscienze.
Noi non appoggiamo di nessun popolo, noi sosteniamo oppresse e oppressi di ogni dove.
Noi siamo fianco di chi diserta. Noi siamo disertori di tutte le guerre.
La guerra è a due passi dalle nostre case: fermiamola!
Il 26 febbraio, Repubblica e Manifesto pubblicano un appello sottoscritto da oltre duecento ebrei ed ebree italiani. È un’inserzione a pagamento il cui layout riprende la pagina intera uscita sul New York Times del 13 febbraio. L’appello americano reagiva a ciò che Trump aveva dichiarato all’inizio del mese durante l’incontro con Netanyahu, il primo leader straniero a essere da lui invitato.
Il piano di Trump annunciava il trasferimento in massa dei palestinesi di Gaza in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un’espulsione permanente nei “paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile” ha detto Trump sul finale della sua terrificante favola palazzinara. Ripulita dalla popolazione sopravvissuta e dai corpi sepolti sotto le macerie dei bombardamenti, Gaza si sarebbe trasformata nella “Riviera del Medio Oriente”. Il premier israeliano approvava sorridente il piano del suo grande alleato riportandolo in patria come una vittoria personale. Intanto il New York Timespubblicava l’appello composto appena da una frase esplicativa - “Trump ha chiesto l’espulsione di tutti i palestinesi da Gaza” - e uno slogan stampato in bianco su un riquadro nero: Jewish People say NO to Ethnic Cleansing (“Gli ebrei dicono NO alla pulizia etnica”).Il resto della pagina riportava le firme: alcuni nomi celebri - da Naomi Klein a Joaquin Phoenix - e poi i nomi di oltre 350 rabbini.
L’appello italiano e le polemiche che ha suscitato
L’enorme risonanza di quell’annuncio, così come la facilità di imitarlo, lo ha reso di esempio in altri paesi. Il 25 febbraio circa 500 ebrei australiani annunciano il loro “NO” alla pulizia etnica di Trump, il giorno dopo esce l’appello italiano. L’iniziativa è realizzata dalla collaborazione tra Ləa, Laboratorio Ebraico Antirazzista, fondato da un gruppo di giovani attivisti, e Mai indifferenti, che riunisce persone con una lunga storia di impegno per la pace e la fine dell’occupazione.
Proprio quel giorno, però, ha luogo il funerale dei fratellini Bibas. Presi in ostaggio il 7 ottobre dai miliziani delle Brigate Mujaheddin, sono stati separati dal padre, rapito da Hamas. Solo dopo il rilascio Yarden Bibas ha scoperto di essere l’unico sopravvissuto della famiglia.
Gli israeliani scendono ad affiancare il corteo funebre o condividono le foto dei bambini dai capelli rossi, con sopra un cuore spezzato arancione. Dopo la messinscena di Hamas con le piccole bare, dopo la scoperta altrettanto macabra che i resti della madre fossero di una donna palestinese (a cui nessuno ha dato un nome) e l’incertezza sulla restituzione di quelli di Shiri Bibas, dopo le dichiarazioni ufficiali sulle modalità della morte dei bambini (“a mani nude”) e le volontà dei familiari calpestate da Netanyahu e dai suoi accoliti, il ritorno al kibbutz delle tre salme è finalmente un momento di lutto unitario. Come tale è sentito anche nella diaspora, anche nel piccolo mondo degli ebrei italiani.
L’uscita fortuita dell’annuncio in quel giorno è percepita come segno che per i firmatari conti più il plauso degli amici filo-palestinesi dell’adesione a quel dolore. Sui social si scatena uno shitstorm che individua il principale bersaglio in Gad Lerner. Attacchi, insulti, riproduzioni dell’appello sbarrato dalla scritta “a mio nome solo giustizia per i fratelli Bibas”, messaggi anche minatori recapitati in privato. Violente non solo le reazioni dal basso, ma pure le dichiarazioni di vari esponenti titolati dell’ebraismo italiano: c’è chi sostiene che quasi nessun firmatario è membro delle comunità, anzi, spesso non è neanche ebreo — accusa lanciata soprattutto a Roberto Saviano — e chi esige “scomuniche” per coloro che, come lo stesso Lerner, delle comunità fanno parte. Questi attacchi provengono dalla destra “senza se e senza ma” con Israele, cioè anche se in mano a un leader sotto processo che si regge al potere grazie all’alleanza con i partiti estremisti dei coloni. La frase aggiunta per sinteticamente aggiornare l’appello all’attualità — “intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani” — è quella che più si presta all’accusa di essere tout court “contro Israele”.
Le critiche espresse da molti ebrei liberali o progressisti deplorano invece come la non adesione all’appello li esponga quali “ebrei cattivi”, prestandosi a essere misinterpretata come tacito assenso alla “pulizia etnica”. Partono sui social i “perché non ha firmato” Liliana Segre o Edith Bruck, insieme ad altri nomi, e ancora una volta, spesso degenerano in gogna mediatica, attacchi opposti e speculari nel rifiutare il confronto con chi non fa o non dice esattamente ciò che si trova giusto. C’è chi, come Bruck stessa, recepisce l’espressione “pulizia etnica” — usata in un editoriale di Haaretz che, certo, è un giornale più che inviso a Netanyahu - come eufemisticamente prossima a “genocidio” — e qui si aprirebbe un capitolo che merita un articolo a parte. Basti dire che “pulizia etnica”, termine coniato dalla (neo)lingua dei carnefici nella Ex-Jugoslavia, è quasi sinonimo di “trasferimento forzato di popolazione”, ossia ciò che Trump vorrebbe fare. Altri ancora dicono che avrebbero firmato ma come cittadini italiani, toccando un nodo ulteriore.
L’opinione pubblica di sinistra chiedeva da tempo “Dove sono gli ebrei? Perché non dicono niente?”, come se corresse l’obbligo di condannare le azioni di uno Stato dove non si vive e non si vota. Richiesta che spesso giunge dagli stessi che, giustamente, respingono che qualunque musulmano debba dissociarsi da coloro che compiono attentati jihadisti. Alla fine, probabilmente, prevalgono i “grazie” sentiti, tra quali c’è pure qualche complimento imbarazzante che parla dell’”aver salvato l’onore del popolo ebraico” e cose simili.
Per altri, invece, quelle 200 firme, quel denunciare “solo” la pulizia etnica senza usare la parola “genocidio”, sono troppo poco, troppo tardi. In ogni caso manca l’idea che gli ebrei non si dividono in “buoni” e “cattivi”, ma semmai in persone di destra e di sinistra, o, meglio, in persone che abbracciano l’intero spettro politico presente nel resto della società italiana. L’appello, se non altro, ha spezzato l’immagine di una comunità compatta che parla con una voce sola attraverso i rappresentanti ufficiali. La parola per chiudere la polemica interna spetta alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: Noemi di Segni dissente dall'appello ma condanna anche la violenza nel contestarlo; insomma dalle comunità non va cacciato nessuno.
Il contesto americano, tra ebrei reform, conservative e ortodossi
Negli Stati Uniti, da dove è partito l’appello, la pluralità del mondo ebraico è un dato acquisito. I circa 7 milioni di ebrei possono scegliere fra le tre principali correnti dell’ebraismo: reform, conservative e ortodossa, con le prime due sviluppatesi proprio negli USA. I reform contano da tempo il numero più alto di iscritti: nessuna separazione tra i sessi, funzioni officiate da rabbine e cantor donne. Tra le firme sul New York Times ce ne sono parecchie, insieme ad alcune conservative. In più, l’identificarsi come ebrei, anche se secolarizzati, è cosa normale in un paese che non ha un concetto di laicità simile al nostro e dove il senso di appartenenza a una qualsiasi comunità non è un’invenzione delle identity politics. In questa realtà, dove fino a poc’anzi gli ebrei si sentivano perfettamente integrati, “bianchi”, al riparo dall’antisemitismo che pure li aveva razzialmente discriminati fino al secolo scorso (come pure gli italiani), nelle comunità progressiste si discute da tempo di Israele/Palestina. Del resto, il detto “due ebrei, tre opinioni” ricorda che le discussioni sono il sale della cultura ebraica.
Negli ultimi tempi, però, le cose sono cambiate anche negli USA. Alle ultime elezioni, gli ebrei ortodossi hanno espresso uno spostamento di voti a favore di Trump, anche se lui non manca di accusare il 70% che ha continuato a preferirgli Kamala Harris. Per il presidente USA gli ebrei americani dovrebbero votare solo in base al sostegno per Israele, ma questo considerarli sostanzialmente dei perenni immigrati la cui vera patria sarebbe lo Stato ebraico non è altro che antisemitismo.
Infatti anche il voto repubblicano degli ebrei più conservatori è stato guidato dai temi di politica interna — l’economia, la sicurezza — anche se la questione Israele ha avuto un peso maggiore che per l’elettorato democratico. Sul versante opposto, nelle nuove generazioni si è fatta largo una visione molto più critica di Israele, come racconta il documentario Israelism, uscito a febbraio del 2023. In passato l’educazione al sionismo si innestava su una memoria viva della Shoah e dei pogrom e, quindi, sull’ansia che la “patria per gli ebrei” potesse essere cancellata dalle guerre con i paesi vicini. È l’esperienza narrata anche da Judith Butler in Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, saggio del 2012 in cui descrive come il confronto con la realtà e le voci palestinesi l’abbia portata all’antisionismo. Largamente contestata per alcune dichiarazioni su Hamas e Hezbollah, Butler fa parte di di Jewish Voice for Peace, l’organizzazione più radicalmente pro-Palestina che, già a novembre del 2023, aveva occupato Grand Central Station chiedendo il cessate il fuoco immediato. JVP è stata molto presente nei campus per Gaza assieme a gruppi meno radicali come il movimento If not Now che domanda “uguaglianza, giustizia e un futuro di prosperità per tutti i palestinesi e israeliani.” Sia JVP che If not Now sono rubricati come gruppi che incitano all’odio dalle organizzazioni pro-Israele: come la storica Anti-Defamation League che sposa l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, salvo lasciar passare il saluto nazista di Musk.
Se queste divisioni esistevano già prima del 7 ottobre, la risposta di Israele al massacro compiuto da Hamas le ha portate a tutt’altro livello. La più grande mattanza di ebrei dal dopoguerra, consumata sul suolo israeliano creduto infallibilmente difeso, ha segnato un trauma anche per la diaspora, ridestando paure profonde. Proprio per questo le reazioni alla guerra su Gaza, alle accuse di genocidio, ai mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale, hanno lacerato il mondo ebraico come non era mai accaduto. Ma il radicalizzarsi delle posizioni a sinistra dipende anche da come la destra sia diventata radicale se non estrema, percorso concluso negli USA con la trasformazione dei Repubblicani nel partito di Trump. Il caso recente di Mahmoud Khalil, l’attivista palestinese della Columbia University, fatto arrestare per espellerlo senza un’accusa di reato o un permesso di soggiorno non valido, non ha mobilitato solo l’attivismo degli ebrei “pro-Pal” ma anche suscitato condanne delle organizzazioni del mainstream democratico che vi ravvisano un precedente per colpire le libertà garantire dal Primo emendamento, perseguendo un disegno autoritario. Il trattamento subito da Khalil è stato condannato anche dal sito conservatore anti-Trump The Bulwark, in un articolo dal titolo emblematico: Mahmoud Khalil has rights, dammit (“Mahmoud Khalil ha dei diritti, maledizione!”).
La crisi delle società liberali e l’ascesa dei nuovi fascismi
L’onda illiberale monta globalmente, dalla Francia alla Germania, da Israele all’Italia guidata dalla leader di un partito post-fascista. In occasione degli 80 anni della liberazione di Auschwitz, Meloni ha rilasciato una lunga dichiarazione sull'abominio della Shoah nominando anche la complicità del fascismo “attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni”. Tali parole la rendono ancora più credibile come garante delle comunità ebraiche, specie per chi non avverte la necessità di legare la memoria della Shoah al valore dell’antifascismo e della Costituzione “nata dalla Resistenza”.
Che il 25 aprile possa risultare “divisivo” anche per certi ebrei, in fondo si allaccia alla vecchia credenza, sottilmente presente nelle frasi di Meloni, che l’Italia fascista non fosse davvero antisemita ma solo trascinata dal potente e malvagio alleato nazista. Questa narrazione tornata in auge copre anche uno dei tanti rimossi di questo paese: l’adesione di molti ebrei italiani al fascismo fino a quando “l’infamia delle leggi razziali” pose una fine scioccante alla fede in Mussolini. Da questo punto di vista è quasi comico, se non grottesco, che l’ex presidente della comunità Pacifici abbia commentato a caldo che con l’appello si puliva il sedere per poi, intervistato, assumere un tono d’autorità sostenendo che i firmatari ricordano “gli ebrei di corte, durante il fascismo”.
Vista la confusione, la voglia di “normalizzazione”, l’erosione della conoscenza storica, il rapporto tra passato e presente si presenta vago, letteralmente incosciente. In più, tracciare analogie è scivoloso in un contesto globale dove il richiamo alla Shoah e i paragoni con i nazisti sono perennemente strumentalizzati mentre le destre, pur inneggiando ai “valori tradizionali”, travolgono i modelli più reazionari — incluso il fascismo — perseguendo, nei mezzi, nelle intenzioni, nelle alleanze, qualcosa di assolutamente inaudito.
In Israele questo vale tanto per l’uso dell’IA per impostare il numero di vittime civili “collaterali” all’eliminazione di un solo membro di Hamas — quanto per la modalità inedita nel gestire la questione degli ostaggi. La priorità del governo non è più “salvare la vita di ogni ebreo”, come vogliono i fondamentali del sionismo, ma la guerra “sino alla vittoria totale”. Guerra “congelata” solo perché Trump ha imposto un accordo. Guerra ripresa con il beneplacito della Casa Bianca nel momento esatto in cui bombardare i gazawi riuniti tra le macerie per spezzare il digiuno del Ramadan avrebbe dovuto congelare la crisi interna a Israele. Due paesi che corrono in parallelo verso un autoritarismo dove a chi “non ha il diritto di avere diritti” — i palestinesi nei territori, i migranti — può essere fatto di tutto, ma dove anche i cittadini etnicamente privilegiati sono da reprimere se manifestano dissenso.
Un trailer di questa distopia in corso di realizzazione ha inondato la rete proprio il 26 febbraio, in contemporanea con l’appello italiano e il funerale dei Bibas. Eccola, Gaza, riedificata come un resort di lusso: Musk lancia banconote ai bambini palestinesi, Donald e Bibi sorseggiano drink sulla spiaggia, gli ex guerriglieri di Hamas fanno la danza del ventre e al centro della Plaza si erge una statua di Trump, tutta in oro.
Nato come parodia dell'annunciataGaza riviera, ma poi postato sull’account presidenziale, il video si è mutato nella fabbricazione di “alternative facts” la cui presa sommergeva in anticipo le notizie fattuali, come il summit della Lega Araba che il 12 febbraio ha rigettato il piano trumpista.
È a causa di questi stravolgimenti che l’appello italiano ha ricevuto adesioni anche da parte di chi, lungi dall’essere un radicale di sinistra, è preoccupato per la democrazia, lo Stato di diritto, il diritto internazionale. Federico Fubini, editorialista de il Corriere, ha spiegato a Haaretzche ha deciso di firmare spinto da ciò che Trump vuole imporre sia per Gaza sia per l’Ucraina. “Siamo al punto che il leader del paese più potente al mondo dice che le persone possono essere rimosse come oggetti e i paesi possono essere invasi. La disumanizzazione diventa una norma a livello internazionale. Opporsi alla disumanizzazione dell’altro non è un atto politico, è un valore umano e universale”.
Infine mi pare il caso che parli anche per me, che l’appello l’ho firmato e anche fatto girare, perché il contatto con quelli di “Ləa” l’ho cercato poco dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, perché quello di cui avevo bisogno era uno spazio di condivisione, uno spazio politico nel senso più basilare. Un posto dove si discute e spesso si dissente, ma senza l’intoppo di sostrati antisemiti nel discorso. Non credo che l’ebraicità esista solo in reazione all’antisemitismo, come sosteneva Sartre. Mi sento un’ebrea della diaspora, segnata dalla Shoah a cui i miei genitori scamparono in Polonia, legata a ciò che mi hanno lasciato della loro vita di prima — libri, foto, due lingue mezze salvate — legata a Israele tramite i pochi parenti sopravvissuti finiti lì e dai ricordi che mi sono portata dietro dalle mie visite. E sì, mi riconosco anch’io nei valori umani universali, ma quello che succede laggiù mi chiama in causa, che io lo voglia o no, che sia corretto o no — e no, non lo sarebbe. E cominciando dal 7 ottobre, mi fa più male, semplicemente.
Come mi hanno fatto male le tante condivisioni di un post con una foto brutta di Liliana Segre e la domanda retorica come mai lei, che è “un simbolo”, non abbia firmato, e i commenti già visti dopo un articolo con cui rifiutava la definizione di “genocidio” per ciò che Israele stava compiendo a Gaza ma ribadendo, ancora una volta, che la vita di una bambino palestinese vale quella di qualsiasi bambino. Nemmeno Edith Bruck ha scelto di diventare un “simbolo” dopo essere stata per decenni considerata una scrittrice marginale mentre i suoi libri hanno un’onestà dura, limpida e rara.
La disumanizzazione è anche innalzare a simbolo e poi buttare dal piedistallo due anzianissime donne uscite vive da Auschwitz che, con la fatica di testimoniare tramite la parola scritta e portata fisicamente nelle aule, volevano rendere l’Italia un poco più immune all’odio e all’indifferenza verso qualsiasi “altro". Sono atti di fiducia — nel futuro, nel bene — difficilissimi per chi abbia vissuto un annientamento. Non importa dove né quando — se “restiamo umani” vale per tutti.
Ho avuto la fortuna di essere “nata dopo”: e questo mi rende più facile sentire il gesto di una firma come una piccola cosa giusta, piccolissima in confronto alla fiducia che sia ancora possibile non rinunciare all’idea che debba esserci giustizia per i palestinesi — la semplice premessa per non arrendersi alla catastrofe. Laggiù e altrove.
Sabato 22 marzo 2025 alle 14,30 davanti alla stazione di Santa Lucia presidio indetto dal Comitato Contro le Guerre e il razzismo di Marghera (VE) e Giovani Palestinesi d’Italia.
La convocazione del presidio è stata invocata da più parti della società civile veneziana scandalizzata dalla ripresa vergognosa degli attacchi contro la popolazione inerme di Gaza.
Dal 18 marzo, giorno in cui Israele ha ufficialmente rotto la tregua raggiunta con tanta difficoltà il 19 gennaio 2025, sono morte quasi mille persone sotto i bombardamenti che spianano la via agli attacchi di terra. Le intenzioni del governo israeliano, forte dell’appoggio degli Usa e del silenzio dell’Unione Europea, in primis del governo italiano, sono inequivocabili: distruzione totale, pulizia etnica, annessione della Striscia di Gaza così come della Cisgiordania.
Tutti in piazza a gridare il nostro dissenso.
Lunedì 24 marzo 2025 alle 19 – Proiezione e cena sociale presso l’Associazione Culturale Spiazzi, Calle del Pestrin 3865, Sestiere di Castello
FROM GROUND ZERO è un film documentario composto di 22 micro storie girate da giovani registi di Gaza nel 2024 sotto la guida del loro maestro, il regista palestinese Rashid Masharawi.
Storie commoventi, disperate e resistenti che ci fanno entrare nella realtà di guerra dei Gazawi. 112 minuti di immagini che ci portano in un territorio raso a zero dalla violenza dell’attacco militare israeliano e dalla volontà sionista di conquista dal fiume al mare.
Il cinema è sempre uno strumento efficace di comunicazione, soprattutto quando si tratta di dare visibilità e parola a chi non ce l’ha, come è il caso dei palestinesi. Il genocidio continua grazie all’indifferenza dei governi, per la censura dei mezzi di informazione, per la complicità dell’Unione Europea.
L’iniziativa è organizzata a Venezia in collaborazione con Cinema senza Diritti (rassegna di cinema palestinese giunta all’ottava edizione), Comitato contro la guerra e il razzismo di Marghera e l’Associazione Spiazzi, che mette a disposizione la sua sede nel Sestiere di Castello.
Alla proiezione seguiranno dibattito e cena sociale con menù palestinese adatto anche a vegetariani.
Chi vuole fermarsi a cena è pregato di chiamare il numero 3408262072
Mercoledì 12 marzo si è svolto a Piacenza, nella sala de “Il Samaritano”, un interessante incontro dal titolo “Palestina-Israele: violazione dei diritti umani e complicità dell’Italia”.
La serata, promossa da Salaam, Ragazzi dell’Olivo di Piacenza e da Amnesty International, sempre di Piacenza, ha avuto come ospiti Elisa Brunelli, giovane giornalista e autrice di diverse inchieste anche per Altreconomia e Tina Marinari, coordinatrice campagne di Amnesty International Italia. Il tutto è stato introdotto e moderato da Rita Casalini, affidataria di Salaam, Ragazzi dell’Olivo.
Di fronte a una platea di un centinaio di persone, le nostre ospiti ci hanno ben illustrato sia la terrificante situazione di Gaza sia quella, forse meno nota, della Cisgiordania occupata, anch’essa estremamente grave per la popolazione palestinese.
Tina Marinari ha presentato e ampiamente argomentato il rapporto ai A.I. “Ti senti come se fossi un subumano: il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza”. Ha illustrato il grande lavoro fatto da Amnesty Interntional per raccogliere prove – sia attraverso oltre 200 interviste, sia con immagini e video – che dimostrano l’intenzione genocidiaria di Israele nei confronti della popolazione palestinese di Gaza. Il tutto a partire da quanto viene enunciato nella Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite del 1948.
Elisa Brunelli ha illustrato – anche attraverso una serie di slide – la sua inchiesta “Il calibro dei coloni”. Questa ricerca – dati alla mano – dimostra il traffico di armi dall’Italia a Israele. Le ditte italiane Beretta e Fiocchi esportano in Cisgiordania armi che vengono acquistate dai coloni israeliani, che ne fanno ampiamente uso contro la popolazione palestinese. In ogni città o villaggio ci sono negozi dove si possono acquistare queste armi e addestrare le persone, compresi ragazzini.
Ricordiamo che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele contravviene a decine e decine di risoluzioni ONU e che la Corte Internazionale di Giustizia l’ha dichiarata illegale il 19 luglio 2024
Sempre Elisa Brunelli ha parlato di un’altra sua inchiesta – “Il limbo dell’accoglienza anche per minori e feriti evacuati da Gaza” – dove viene denunciato che, a fronte delle dichiarazioni ufficiali del governo italiano sulla “generosità” nell’accogliere minori palestinesi feriti e/o gravemente malati per essere curati in ospedali italiani – nei fatti lo Stato italiano non ha fatto nulla (trasporto a parte): l’accoglienza e la presa in carico di queste famiglie sono state completamente scaricate su varie associazioni del terzo settore.
Oltre alla complicità dell’Italia nella vendita di armi ai coloni israeliani, Tina Marinari ha sottolineato la responsabilità del nostro Paese nel non aver fatto nulla di nulla, non solo in aiuto della popolazione di Gaza sottoposta da oltre 15 mesi a un assedio spaventoso, ma ancor meno sul piano diplomatico per ricercare e favorire trattative tra il governo israeliano, Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese per giungere non solo a tregue che fermino morti e distruzioni e liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas, ma riescano a perseguire una soluzione di pace tra i due popoli, pace che per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia.
Ultima nota: una serata nel segno delle donne. La conduttrice nella sua introduzione ha citato la filosofa Hannah Arendt, secondo la quale le donne si conoscono e riconoscono per convergenza. L’unica soluzione per evitare l’identificazione per contrasto è non sentirsi parte di un popolo geografico, ma del popolo dei sofferenti e degli oppressi.
Chiara Casella, per le famiglie affidatarie di Salaam Ragazzi dell’Olivo, PiacenzaLidia Gardella, Amnesty International, Piacenza