Si chiamava Hossam Shabat, nato il 10 ottobre 2001, aveva 23 anni e due anni fa aveva scelto di raccontare il dramma di Gaza con gli occhi del giornalista, perché tutti sapessero. Lavorava per Al Jazeera, ed era seguitissimo: aveva un larghissimo seguito sui social network (560.000 follower su Instagram e 165.000 su Twitter). Forse proprio questo seguito è stato la sua condanna a morte.
È rimasto ucciso ieri – 24 marzo 2025 – a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, da un drone israeliano che ha bersagliato l’automobile che usava per lavoro, proprio mentre era in giro per raccontare, documentare, mostrare l’orrore. Per un anno e mezzo ha rischiato incessantemente la vita pur di raccontare all’umanità le migliaia di crimini commessi da Israele nel nord della Striscia di Gaza. Hossam era uno dei miei punti di riferimento fissi per avere informazioni sul genocidio: era rimasto fino all’ultimo nel nord di Gaza, anche durante il primo tentativo di pulizia etnica completa, e aveva seguito da vicino la distruzione totale del campo profughi di Jabalia.
Israele lo aveva minacciato sin da subito: poco dopo il 7 ottobre 2023, un ufficiale dell’intelligence israeliana lo aveva chiamato al telefono intimandogli di cancellare tutti i suoi post su Facebook posteriori al 7 ottobre e di lasciare immediatamente Beit Hanoun, nel nord di Gaza, pena la distruzione della sua casa. Hossam aveva rifiutato e subito dopo l’aviazione aveva bombardato la sua casa, radendola al suolo. Israele aveva già cercato di ammazzarlo più volte: a ottobre 2024 l’esercito genocidario aveva affermato di avere “prove” (ovviamente mai mostrate a nessuno) secondo cui Hossam era un cecchino di un battaglione di Hamas e l’aveva messo in una lista di persone da eliminare.
Il 20 novembre scorso lo aveva ferito mentre arrivava sulla scena dell’ennesimo bombardamento israeliano su una casa civile. Il suo ultimo tweet è stato ieri sera: ”A Gaza, il ferito viene ucciso”. Il suo ultimo post su Instagram, immediatamente prima di essere ucciso, è stato il corpo straziato di Mohammed Mansour, altro eroico giornalista giustiziato poche ore prima a Khan Younis.
Il suo assassinio è l’ennesimo segno che dopo aver fatto fallire la tregua Israele ha gettato ogni remora al vento, e ha intrapreso con decisione la strada della “soluzione finale”: pulizia etnica ed eliminazione fisica senza freni a scopo di conquista, con una bestialità che rivaleggia con quella degli Unni di Attila. Shabat aveva un coraggio che gli infami pennivendoli nostrani della scorta mediatica del genocidio non avranno mai, neanche vivessero duecento anni. Anche per questo è facile immaginare che la notizia della sua uccisione è stata sottaciuta, distorta e sepolta in mezzo a quintali di fuffa irrilevante; ma per chi ha ancora un cuore, Hossam resterà per sempre un simbolo del coraggio indomabile del popolo palestinese e insieme della ferocia assassina e genocidaria di uno Stato pronto a commettere qualsiasi atrocità pur di rubare la terra a un intero popolo. La sua morte è un atto di accusa contro l’intero giornalismo occidentale, che in un anno e mezzo di subdole distorsioni e plateali omissioni ha creato le condizioni per il suo assassinio.
Prima di morire, consapevole del rischio enorme a cui andava incontro, Hossam ha voluto lasciare un messaggio che è una sorta di testamento civile e spirituale di un popolo. Per capire fino a quale grado di coraggio, di dignità e disperazione si può arrivare.
Da leggere e rileggere, per chi ancora non vuol vedere:
“Se state leggendo questo messaggio, significa che sono stato ucciso, molto probabilmente preso di mira dalle forze di occupazione israeliane. Quando tutto è iniziato, avevo solo 21 anni. Ero uno studente con dei sogni, come chiunque altro. Negli ultimi 18 mesi, ho dedicato ogni istante della mia vita al mio popolo: ho documentato gli orrori inflitti a Gaza, minuto per minuto, determinato a mostrare al mondo una verità che volevano seppellire. Ho dormito su pavimenti, nelle scuole, nelle tende, ovunque potessi. Ogni giorno è stata una battaglia per la sopravvivenza. Ho sopportato la fame per mesi, eppure sono sempre rimasto al fianco della mia gente. Per Dio, ho assolto al mio dovere di giornalista. Ho messo a rischio tutto per raccontare la verità, e ora sono finalmente a riposo, qualcosa che non ho più conosciuto negli ultimi 18 mesi. Ho fatto tutto questo perché credo nella causa palestinese. Credo che questa terra sia nostra, e morire per difenderla e servire il mio popolo è stato il più grande onore della mia vita. Ora vi chiedo: non smettete di parlare di Gaza. Non lasciate che il mondo volga lo sguardo altrove. Continuate a lottare, continuate a raccontare le nostre storie, finché la Palestina sarà libera.
Per l’ultima volta, Hossam Shabat, Gaza.”