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Europa

Cresce la bolletta per l’acqua, ma più di 1 italiano su 4 non si fida dell’acqua di rubinetto

La bolletta per l’acqua continua a crescere: la spesa media sostenuta dalle famiglie italiane nel 2024 è stata di 500€, + 4% rispetto ai 481€ del 2023. Rispetto al 2019, il costo a livello nazionale è aumentato di ben il 23%. Sono alcuni dei dati del XX Rapporto di Cittadinanzattiva sul servizio idrico integrato, che ha preso in esame le tariffe per il servizio idrico integrato applicate in tutti i capoluoghi di provincia italiani nel 2024 in riferimento ad una famiglia tipo composta da 3 persone con un consumo annuo di 182 metri cubi. Se ci attestiamo su un consumo di 150 mc l’anno, la spesa sarebbe di € 394 con un risparmio di € 106. Mentre chi ha accesso al bonus sociale idrico, appartenente a un nucleo familiare di tre persone e soglia ISEE fino a 9.530 euro, il risparmio annuo si attesta sui 110€. La spesa media più bassa è della regione Molise (€ 234), un dato rimasto invariato rispetto all’anno precedente. La regione che ha invece la spesa più elevata è la Toscana (€ 748), dove rispetto al 2023 si registra un aumento medio del 2,3%. Anche se l’incremento più consistente riguarda l’Emilia-Romagna (+8,8%) e l’Abruzzo (+8,5%). Frosinone resta in testa alla classifica delle province più care con una spesa media annuale di 917€ (+5,7%), mentre Milano conquista anche nel 2024 la palma di capoluogo più economico con 185€. Fra i capoluoghi di provincia, aumenti a due cifre percentuali per Salerno (+16,1%), Novara e Verbania (+12,9%), Rovigo (+11,1%). A Latina si registra un decremento di ben il 37%. Il Rapporto pone l’accento sulle evidenti differenze di spesa tra regioni, ma anche all’interno delle stesse regioni, come ad esempio nel Lazio, tra Frosinone e Latina intercorre una differenza di 547€. Altri esempi di simile portata si possono riscontrare in Sicilia, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Friuli Venezia Giulia.

Quanto alla dispersione idrica, in base agli ultimi dati Istat (anno 2022), la dispersione raggiunge il 42,4% nel territorio complessivo italiano, ma in alcune aree del Paese, soprattutto al Sud e nelle Isole, si disperde più della metà dei volumi d’acqua immessi in rete. E’ la Basilicata a fregiarsi di questo record negativo, disperdendo il 65,5%. Segue a breve distanza l’Abruzzo (62,5% di acqua dispersa), mentre la Valle d’Aosta si ferma sotto il 30%, ma peggiora comunque il dato rispetto al 2020. Fra i capoluoghi di provincia molto negativo risulta il dato di Potenza, dove la dispersione idrica supera il 70%. In ordine, invece, ai consumi, ai disservizi e ai livelli di soddisfazione dei cittadini, secondo i dati Istat, risultano allacciate alla rete idrica comunale circa 25 milioni di famiglie italiane, pari al 95,8% sul numero totale e sono 214 i litri per abitante erogati ogni giorno nelle reti di distribuzione dei capoluoghi di provincia/città metropolitana.

Sempre in base a dati Istat, nel 2023 l’86,4% (+0,4 rispetto all’anno precedente) delle famiglie allacciate si dichiara molto (21,5%) o abbastanza soddisfatto (64,9%) del servizio idrico, contro un 13,6% poco o per niente. Nello stesso anno, l’8,9% ha lamentato irregolarità nell’erogazione, percentuale che sale al 15,8% nelle regioni del Sud e al 24,3% nelle Isole. “La fornitura irregolare del servizio, si legge nel Report, oltre alle problematiche di accesso al servizio, incide negativamente in molti casi anche sui livelli di fiducia dei cittadini nei confronti dell’acqua di rubinetto… I dati ci dicono che in media circa una famiglia su 4 è poco o per niente soddisfatta della qualità dell’acqua di rubinetto, con situazioni di maggiore criticità al Sud e soprattutto nelle Isole, dove il 53,4% di esse dichiara di non fidarsi a berla, a fronte di una media nazionale del 28,8%, comunque alta. Ciò spiega in parte perché gli italiani siano i primi consumatori di acqua in bottiglia in Europa (con una media annua di 208 litri pro capite) e secondi al mondo dopo il Messico (che detiene un media annua pro capite di 244 litri).”

Il Rapporto evidenzia anche che per quanto riguarda gli ambiti territoriali ottimali, le Regioni ne hanno completato la definizione individuando 62 ATO su tutto il territorio nazionale a eccezione del Trentino Alto Adige, il cui statuto speciale conferisce alle province autonome potestà legislativa esclusiva in materia di servizi pubblici. Tuttavia, nonostante si sia raggiunta una quasi totale costituzione degli EGA (Enti di governo d’ambito), la loro piena operatività risulta differenziata e permangono criticità in alcune Regioni come Lazio, Campania, Calabria e Sicilia. Una non piena operatività degli EGA che provoca ovviamente ritardi in termini di affidamento delle gestioni, di investimenti orientati al miglioramento dell’infrastruttura e al miglioramento della qualità tecnica e commerciale del servizio fornito agli utenti finali del servizio.

La gestione della risorsa idrica è una delle sfide più urgenti per il nostro Paese, che ancora oggi fatica a garantire un accesso equo e sostenibile all’acqua. Si tratta di un bene vitale, fondamentale per la salute e il benessere di tutti, che deve essere trattato con la massima attenzione e responsabilità, specialmente alla luce dei cambiamenti climatici e degli obiettivi globali stabiliti dall’Agenda ONU 2030”, afferma Tiziana Toto, responsabile nazionale delle politiche dei consumatori di Cittadinanzattiva. “Se da un lato è fondamentale che i cittadini adottino comportamenti di consumo più responsabili e consapevoli, altrettanto importante è una gestione più efficiente delle risorse da parte della governance del servizio idrico finalizzata a ridurre gli sprechi, migliorare le infrastrutture e favorire il riutilizzo delle acque. È essenziale che le istituzioni e i cittadini collaborino per garantire che l’acqua sia un bene accessibile e preservato per le generazioni future. La strada è lunga, ma con azioni concrete e impegno collettivo è possibile fare la differenza”.

Qui per approfondire e scaricare il rapporto: https://www.cittadinanzattiva.it/notizie/17033-verso-la-giornata-mondiale-dellacqua-500eur-la-spesa-media-nel-2024-i-nuovi-dati-di-cittadinanzattiva.html

Giovanni Caprio

Due iniziative per la Palestina a Venezia

Sabato 22 marzo 2025 alle 14,30 davanti alla stazione di Santa Lucia presidio indetto dal Comitato Contro le Guerre e il razzismo di Marghera (VE) e Giovani Palestinesi d’Italia.

La convocazione del presidio è stata invocata da più parti della società civile veneziana scandalizzata dalla ripresa vergognosa degli attacchi contro la popolazione inerme di Gaza.

Dal 18 marzo, giorno in cui Israele ha ufficialmente rotto la tregua raggiunta con tanta difficoltà  il 19 gennaio 2025, sono morte quasi mille persone sotto i bombardamenti che spianano la via agli attacchi di terra. Le intenzioni del governo israeliano, forte dell’appoggio degli Usa e del silenzio dell’Unione Europea, in primis del governo italiano, sono inequivocabili: distruzione totale, pulizia etnica, annessione della Striscia di Gaza così come della Cisgiordania.

Tutti in piazza a gridare il nostro dissenso.

Lunedì 24 marzo 2025 alle 19 – Proiezione e cena sociale presso l’Associazione Culturale Spiazzi, Calle del Pestrin 3865, Sestiere di Castello

FROM GROUND ZERO è un film documentario composto di 22 micro storie girate da giovani registi di Gaza nel 2024 sotto la guida del loro maestro, il regista palestinese Rashid Masharawi.

Storie commoventi, disperate e resistenti che ci fanno entrare nella realtà di guerra dei Gazawi. 112 minuti di immagini che ci portano in un territorio raso a zero dalla violenza dell’attacco militare israeliano e dalla volontà sionista di conquista dal fiume al mare.

Il cinema è sempre uno strumento efficace di comunicazione, soprattutto quando si tratta di dare visibilità e parola a chi non ce l’ha, come è il caso dei palestinesi. Il genocidio continua grazie all’indifferenza dei governi, per la censura dei mezzi di informazione, per la complicità dell’Unione Europea.

L’iniziativa è organizzata a Venezia in collaborazione con Cinema senza Diritti (rassegna di cinema palestinese giunta all’ottava edizione), Comitato contro la guerra e il razzismo di Marghera e l’Associazione Spiazzi, che mette a disposizione la sua sede nel Sestiere di Castello.

Alla proiezione seguiranno dibattito e cena sociale con menù palestinese adatto anche a vegetariani.

Chi vuole fermarsi a cena è pregato di chiamare il numero 3408262072

Redazione Italia

Siena solidale, incontro sui richiedenti asilo

Domenica 16 marzo alle ore 17, nell’aula 101 del Palazzo di San Niccolò dell’Università di Siena, si è tenuto l’incontro “Luoghi negati lontani, luoghi negati vicini”, sulla situazione attuale dei richiedenti asilo che non riescono ad accedere alle misure di accoglienza previste dalla legge e che rimangono dunque forzatamente senza fissa dimora a Siena. Il dibattito è stato moderato dalla Dott.ssa Nevia Dattilo e ha visto gli interventi del Dott. Gianfranco Schiavone e del Dott. Tommaso Sbriccoli.

Nel corso dell’incontro – a cui hanno partecipato più di cento persone – è emersa con chiarezza la gravità della situazione attuale. Ancora oggi circa 120 richiedenti asilo, provenienti principalmente da Pakistan ed Afghanistan, trascorrono la notte nei dormitori messi a disposizione dalla Caritas, nella sede di Rifondazione Comunista o nei parcheggi della città, in attesa che la Prefettura fornisca loro un posto nel sistema di accoglienza, come garantito dalla normativa europea e da quella italiana. Nonostante da anni la rete SiSolidal denunci la violazione dei diritti di queste persone – comprovata recentemente anche da alcune pronunce del TAR – è apparso chiaro come vengano quotidianamente ignorate le leggi che regolano le procedure di richiesta asilo e l’accesso alle misure di accoglienza che devono essere garantite da parte del Ministero dell’Interno e dalla Prefettura quale ufficio periferico del ministero sul territorio in attesa dell’analisi delle loro domande di asilo.

Il Dott. Schiavone ha illustrato la normativa europea che regola l’accoglienza dei richiedenti asilo, come l’obbligo della tempestività nel fornire un alloggio ai richiedenti asilo privi di mezzi indipendentemente dalle modalità di ingresso nel territorio nazionale, l’illegittimità nell’introdurre categorie differenti di richiedenti asilo attribuendo a ciascuna di esse differenti gradi di riconoscimento del proprio diritto ad essere accolte, e l’obbligo di applicare ai richiedenti asilo sotto procedura Dublino le medesime misure di accoglienza. Appare chiaro come il Decreto Prefettizio del 14 gennaio 2025, che fissa i nuovi criteri seguiti dalla Prefettura nell’accoglienza di richiedenti asilo, presenti gravi profili di contrasto con la normativa vigente.

I tempi medi per avere accesso ad un posto in un CAS della Provincia di Siena, tra i 5 e i 7 mesi, mostrano ad esempio una sostanziale inerzia nel provvedere a mettere a disposizione nuovi posti nel sistema di accoglienza.

Il Dott. Sbriccoli ha invece raccontato il percorso della rete SiSolidal – formata da varie associazioni locali e da privati cittadini – che dalla primavera del 2022 ha preso in carico a tutti i livelli (sanitario, legale, amministrativo, etc.) i bisogni di queste persone, sostituendosi in molti casi a quello che dovrebbe essere il compito delle istituzioni.

Durante il dibattito è intervenuto anche un rifugiato proveniente dal Pakistan, che ha raccontato la sua esperienza a Siena come richiedente asilo, dal primo periodo in cui per mesi ha dormito per strada e nei parcheggi – un momento durissimo della sua vita, che è riuscito ad affrontare anche grazie all’aiuto delle associazioni e dei cittadini che lo hanno sostenuto – fino all’attuale condizione di autonomia, con un lavoro e una casa, dopo anni di sofferenze e difficoltà.

La grande partecipazione cittadina all’evento mostra quanto la grave situazione di violazione sistematica dei diritti di queste persone – che hanno lasciato i loro Paesi per fuggire da situazioni di conflitto, di forte sofferenza e di rischio generalizzato – stia a cuore a sempre più persone e che è davvero giunto il momento di porre rimedio alle illegittime prassi esistenti a Siena.

La Rete SiSolidal

 

Redazione Toscana

Palestina-Israele: violazione dei diritti umani e complicità dell’Italia. Incontro a Piacenza

Mercoledì 12 marzo si è svolto a Piacenza, nella sala de “Il Samaritano”, un interessante incontro dal titolo “Palestina-Israele: violazione dei diritti umani e complicità dell’Italia”.

La serata, promossa da Salaam, Ragazzi dell’Olivo di Piacenza e da Amnesty International, sempre di Piacenza, ha avuto come ospiti Elisa Brunelli, giovane giornalista e autrice di diverse inchieste anche per Altreconomia e Tina Marinari, coordinatrice campagne di Amnesty International Italia. Il tutto è stato introdotto e moderato da Rita Casalini, affidataria di Salaam, Ragazzi dell’Olivo.

Di fronte a una platea di un centinaio di persone, le nostre ospiti ci hanno ben illustrato sia la terrificante situazione di Gaza sia quella, forse meno nota, della Cisgiordania occupata, anch’essa estremamente grave per la popolazione palestinese.

Tina Marinari ha presentato e ampiamente argomentato il rapporto ai A.I. “Ti senti come se fossi un subumano: il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza”. Ha illustrato il grande lavoro fatto da Amnesty Interntional per raccogliere prove – sia attraverso oltre 200 interviste, sia con immagini e video – che dimostrano l’intenzione genocidiaria di Israele nei confronti della popolazione palestinese di Gaza. Il tutto a partire da quanto viene enunciato nella Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite del 1948.

Elisa Brunelli ha illustrato – anche attraverso una serie di slide – la sua inchiesta “Il calibro dei coloni”. Questa ricerca – dati alla mano – dimostra il traffico di armi dall’Italia a Israele. Le ditte italiane Beretta e Fiocchi esportano in Cisgiordania armi che vengono acquistate dai coloni israeliani, che ne fanno ampiamente uso contro la popolazione palestinese. In ogni città o villaggio ci sono negozi dove si possono acquistare queste armi e addestrare le persone, compresi ragazzini.

Ricordiamo che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele contravviene a decine e decine di risoluzioni ONU e che la Corte Internazionale di Giustizia l’ha dichiarata illegale il 19 luglio 2024

Sempre Elisa Brunelli ha parlato di un’altra sua inchiesta – “Il limbo dell’accoglienza anche per minori e feriti evacuati da Gaza” – dove viene denunciato che, a fronte delle dichiarazioni ufficiali del governo italiano sulla “generosità” nell’accogliere minori palestinesi feriti e/o gravemente malati per essere curati in ospedali italiani – nei fatti lo Stato italiano non ha fatto nulla (trasporto a parte): l’accoglienza e la presa in carico di queste famiglie sono state completamente scaricate su varie associazioni del terzo settore.

Oltre alla complicità dell’Italia nella vendita di armi ai coloni israeliani, Tina Marinari ha sottolineato la responsabilità del nostro Paese nel non aver fatto nulla di nulla, non solo in aiuto della popolazione di Gaza sottoposta da oltre 15 mesi a un assedio spaventoso, ma ancor meno sul piano diplomatico per ricercare e favorire trattative tra il governo israeliano, Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese per giungere non solo a tregue che fermino morti e distruzioni e liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas, ma riescano a perseguire una soluzione di pace tra i due popoli, pace che per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia.

Ultima nota: una serata nel segno delle donne. La conduttrice nella sua introduzione ha citato la filosofa Hannah Arendt, secondo la quale le donne si conoscono e riconoscono per convergenza. L’unica soluzione per evitare l’identificazione per contrasto è non sentirsi parte di un popolo geografico, ma del popolo dei sofferenti e degli oppressi.

Chiara Casella, per le famiglie affidatarie di Salaam Ragazzi dell’Olivo, PiacenzaLidia Gardella, Amnesty International, Piacenza

Redazione Italia

Sbarcati ieri sera a La Spezia i 35 naufraghi soccorsi dalla Life Support

Ieri sera, alle ore 23, le 35 persone soccorse dalla nave Life Support di EMERGENCY sono sbarcate nel porto di La Spezia. I naufraghi viaggiavano su un gommone sovraffollato che già stava imbarcando acqua e sono stati portati in salvo lunedì 17 marzo con un intervento nelle acque internazionali della zona Sar libica.

“Siamo arrivati a La Spezia dopo oltre tre giorni di navigazione in cui le condizioni meteo non sono state sempre favorevoli, con onde alte e venti forti – commenta Domenico Pugliese, comandante della Life Support di EMERGENCY-. Lo sbarco si è concluso senza difficoltà grazie alla collaborazione con le autorità e finalmente ora i naufraghi sono al sicuro a terra. Mentre ci prepariamo per la prossima missione non possiamo che augurare a tutti il meglio per la loro vita futura.”

I naufraghi, tutti uomini ad eccezione di una donna, una bambina e cinque minori non accompagnati, erano partiti dalle coste libiche e provengono prevalentemente dal Sudanun Paese in cui imperversa una guerra cruenta di cui EMERGENCY stessa è testimoneProprio in Sudan, infatti, EMERGENCY è tuttora presente con il Centro Salam di cardiochirurgia di Khartoum dove ha operato gratuitamente più di 10mila pazienti provenienti da 33 Paesi diversi. Offre inoltre assistenza pediatrica nei suoi centri di Khartoum, Nyala, Port Sudan e visite cardiologiche nelle cliniche di Atbara, Kassala e Geddaref.

Nei giorni di navigazione che sono stati necessari per raggiungere il porto di sbarco abbiamo avuto modo di ascoltare le testimonianze di tante persone soccorse che scappavano dalla guerra – afferma Chiara Picciocchi, mediatrice culturale a bordo della Life SupportUn ragazzo del Sudan ci ha raccontato di aver lasciato il proprio villaggio per raggiungere Khartoum, dove ha iniziato anche l’università. Ma poi gli scontri e le violenze della guerra tuttora in corso sono diventati sempre più diffusi, il padre è stato torturato e lui per non rischiare la vita ha deciso di andarsene. Così dalla capitale ha raggiunto l’Egitto a piedi, per poi continuare fino in Libia, sognando l’Europa. Ha tentato tre volte la traversata del Mediterraneo: la prima volta il mezzo su cui viaggiava è stato intercettato dalla cosiddetta Guardia Costiera libica ed è finito in carcere, la seconda per il meteo cattivo sono dovuti tornare indietro, la terza è stato un viaggio spaventoso, ma è stato soccorso dalla Life Support. Ci ha confermato che, nonostante i pericoli, il rischio di un viaggio in mare è preferibile rispetto alle difficoltà e alle esperienze vissute nelle carceri libiche.”

Un altro naufrago sudanese a bordo racconta la sua esperienza: “Ho lasciato il mio Paese quando la guerra è arrivata nella mia città natale, nel Sudan centrale. Non c’era futuro per me lì, né sicurezza, non avevo altra scelta che andarmene. Come tanti altri, sono fuggito in Libia attraverso un viaggio lungo e brutale, poi sono riuscito a trovare lavoro in un’azienda elettrica dove sono rimasto per tre mesi. Ma la Libia non era meglio del Sudan: per un immigrato, camminare per la città significa rischiare la vita. La gente aggredisce gli immigrati per strada, li deruba, li tratta come nullità. Poi le cose sono peggiorate ulteriormente. Pochi giorni prima della mia partenza, ci sono state proteste contro gli immigrati. La gente gridava che gli stavamo togliendo il lavoro, che gli stavamo togliendo il futuro. Il razzismo era insopportabile, sapevo di non poter restare.”

Il viaggio attraverso il mare è stato terrificante – prosegue il ragazzo sudanese -. Non riesco a trovare le parole per descrivere come mi sentivo su quella minuscola barca di soli sei metri, con più di trenta persone. Tutti intorno a me avevano perso la speranza. Il rischio era enorme, ma per me la vita in Sudan non era migliore dei pericoli del mare aperto. Non avevo paura. Avevo ancora speranza. Quando abbiamo visto una barca avvicinarsi, si è diffuso il panico: pensavamo fosse la cosiddetta Guardia Costiera libica, pronta a catturarci e a rispedirci all’inferno. Ma poi abbiamo sentito una voce, l’accento arabo non era libico. In quel momento abbiamo capito che ci stavano salvando”.

Con lo sbarco di ieri sera la Life Support ha concluso la sua 29/a missione nel Mediterraneo centrale. La nave Sar di EMERGENCY opera in questa regione dal dicembre 2022 e in questo periodo ha soccorso un totale di 2.486 persone.

 

Emergency

Quando l’economia detta le regole alla scienza: liberalizzazione della manipolazione genetica delle piante

L’Unione Europea è pronta a deregolamentare le piante NGT (nuove tecniche genomiche)?

Durante la riunione dei rappresentanti permanenti degli Stati membri dell’UE tenutasi il 14 marzo a Bruxelles, la Presidenza del Consiglio polacca ha ottenuto una maggioranza a favore del suo compromesso sulla futura deregolamentazione delle piante ottenute con la nuova ingegneria genetica (NGT, New Genomic Techniques). Di conseguenza, la stragrande maggioranza delle piante geneticamente modificate non dovrà essere sottoposta a test di sicurezza, etichettatura o tracciabilità e la loro brevettabilità non sarà limitata.

La presente deregolamentazione si applicherebbe anche a tutte le piante selvatiche. I nuovi sviluppi, come l’uso dell’intelligenza artificiale e le nuove possibilità di operare modifiche rischiose delle caratteristiche delle piante, non verrebbero presi in considerazione.

Tuttavia, non è certo che la proposta venga approvata in questo formato, poiché gli Stati membri sono ancora molto critici sul tema. Inoltre, non è chiaro come si possa raggiungere una posizione comune nel cosiddetto dialogo a tre tra il Parlamento Europeo, da un lato, e gli Stati membri e la Commissione Europea, dall’altro. Le proposte differiscono profondamente in dettagli di grande rilievo. Ad esempio, il Parlamento chiede un’etichettatura coerente, il divieto di brevettazione e altri criteri di valutazione per la classificazione del rischio delle piante.

Diversi Paesi dell’UE hanno già annunciato di non voler scendere a compromessi. Se il risultato dovesse discostarsi troppo dalle posizioni iniziali, la proposta legislativa potrebbe comunque fallire nelle votazioni finali dopo il negoziato.

Testbiotech ha assunto una posizione molto critica nei confronti della proposta recentemente adottata perché porterebbe a una gestione gravemente negligente delle piante NGT, la quale non si basa su criteri scientifici sufficienti e non tiene conto del principio di precauzione e della libertà di scelta, andando così ad aggravare il problema della monopolizzazione delle sementi: non è una scelta sostenibile ed è oltretutto inadeguata a garantire la gestione sicura della nuova ingegneria genetica.

Inoltre, si aggiunge un altro problema fondamentale, quello della credibilità dell’UE. Tutti gli esperti che hanno esaminato da vicino la proposta di legge sono consapevoli che i criteri introdotti (come la soglia di 20 modifiche genetiche, al di sotto della quale non sarebbe necessaria alcuna valutazione del rischio) non sono altro che pseudoscienza. Tali norme servono solo a scopi politici ed economici, ma sono del tutto inadatte a valutare la sicurezza delle piante; in questo modo ‘UE mette a repentaglio il bene più importante in tempi difficili: la propria credibilità.

Secondo Testbiotech, la principale responsabile di questo sviluppo è la Commissione Europea, che ha sostenuto in larga misura le posizioni dell’industria e sembra propensa ad accettare danni di vasta portata per la comunità. Anche i principali media che hanno riportato notizie su questo tema hanno fatto poco per promuovere un dibattito pubblico informato. Testbiotech continuerà a battersi per trovare una soluzione migliore che possa essere accettata sia dai suoi sostenitori che dai suoi critici.

TESTBIOTECH e.V.
Istituto per la valutazione indipendente dell’impatto delle biotecnologie
CC BY-NC-ND 4.0 DEED


Traduzione dal tedesco di Maria Sartori. Revisione di Thomas Schmid.

Pressenza Muenchen

Il sistema nazionale di accoglienza per i MSNA è unitario: la Regione FVG non può legiferare come se fosse un mondo a parte

La Regione Friuli Venezia Giulia, pur godendo di autonomia, non ha il potere di fissare un presunto “fabbisogno regionale” per le strutture di accoglienza dedicate ai minori stranieri non accompagnati (MSNA), oltre il quale impedire l’apertura di nuovi centri. Il sistema di accoglienza per i MSNA è regolato a livello nazionale dal D.Lgs 142/15, in combinato disposto con la L. 47/17 (nota come Legge Zampa). La normativa prevede che un minore possa essere collocato in un comune diverso da quello di competenza, purché ciò avvenga nel suo superiore interesse, secondo le indicazioni del Tavolo di coordinamento nazionale (D.Lgs 142/15, art. 19).

Come tutte le altre regioni, il FVG può stabilire parametri organizzativi e standard di servizio per le strutture di accoglienza, ai fini del loro accreditamento. Può inoltre esercitare un potere autorizzativo sulla localizzazione delle strutture, ma solo in presenza di un’anomala concentrazione o nel caso di centri di grandi dimensioni. Tuttavia, questo potere non le consente di negare arbitrariamente l’accoglienza ai minori stranieri non accompagnati provenienti da altre regioni, né di subordinarla a scelte politiche.
La nuova normativa regionale sulle strutture di accoglienza per MSNA, di prossima pubblicazione, appare dunque illegittima sotto diversi profili, e conferma inoltre la totale incapacità dell’attuale esecutivo regionale nel gestire problematiche sociali complesse

Redazione Friuli Venezia Giulia

Falconara: assemblea contro l’ennesima esplosione alla raffineria

Falconara Marittima. Venerdì 21 marzo ore 22:30 circa, è accaduto di nuovo. Un boato squarcia il silenzio della notte. Paura del terremoto? No!

Ancora una volta è un’esplosione all’interno della raffineria di Falconara.

Parte subito il tam tam della popolazione,  immediato, ed è l’unica informazione a disposizione . Poco dopo lo scoppio sono decine le immagini che iniziamo a ricevere e che girano ancor più numerose sui social. Fiamme alte e alcune sirene dei mezzi dei vigili
del fuoco accorse sul posto, per il resto un silenzio totale, che ci fa urlare di indignazione: nessun segnale acustico di allerta alla popolazione, nessun messaggio dal sistema di messaggistica whatsapp del Comune. Nulla, niente di niente.

Non si può andare avanti così, siamo tutti ostaggio di un qualcosa che non è compatibile con questo territorio: l’azienda non è compatibile, le istituzioni che ci dovrebbero rappresentare non sono compatibili, gli enti di controllo.

Non siamo disposti ad ascoltare per l’ennesima volta frasi come: “…incidente minore, nessun rischio per la popolazione, intervenuti subito… Per fortuna che il vento tirava verso mare, dopo poco le fiamme erano già state domate….” Potremmo aggiungere molte altre frasi tipo queste, la collezione storica è cospicua; invece chiediamo a tutti coloro che leggeranno di comprendere la necessità di aiutarci a fare in modo che l’appuntamento di oggi, sabato 22 marzo alla Galleria delle idee di Falconara (via Nino Bixio 18A, sotto le Gallerie) ore 16:30 possa essere molto partecipato. Sarà un’occasione per dare modo alle persone di ritrovarsi anche alla luce di quanto accaduto questa notte.

Inoltre, dopo la grande manifestazione dello scorso anno di #fermiamoildisastroambientale, le istituzioni non hanno di fatto raccolto
nulla di ciò che abbiamo portato alla loro attenzione tanto in Comune quanto al Ministero dell’Ambiente il 18 maggio del 2024.

Fermiamoildisastroambientale

Redazione Marche

La Sentenza della CEDU sulla Strage di Odessa

Il 2 maggio 2014, la città ucraina di Odessa fu teatro di uno degli episodi più drammatici e controversi della recente storia del paese: un incendio nella Casa dei Sindacati causò la morte di almeno 42 persone, molte delle quali erano manifestanti filorussi che si erano rifugiati nell’edificio. Questa tragedia, nota come la “Strage di Odessa”, è stata recentemente oggetto di una sentenza da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che ha condannato l’Ucraina per gravi negligenze da parte delle autorità nell’affrontare la violenza e nel non prevenire la morte delle vittime.

Il contesto geopolitico e sociale

Il contesto degli eventi che hanno portato alla strage si inserisce in una fase di forte instabilità politica in Ucraina. Dopo le proteste di Euromaidan e la destituzione del presidente filo-russo Viktor Yanukovych, il paese si è trovato diviso tra forze pro-europee, sostenitrici di un orientamento filo-occidentale, e fazioni pro-russe che si opponevano a questa direzione. Odessa, città portuale strategica sul Mar Nero, divenne un epicentro di scontri violenti tra queste due fazioni, con il governo ucraino che, pur cercando di mantenere il controllo, non riuscì ad arginare la violenza.

Gli scontri culminarono il 2 maggio 2014, quando un gruppo di attivisti pro-Maidan, tra cui membri del gruppo ultranazionalista Pravyj Sektor e ultras delle squadre calcistiche ucraine, assaltarono la Casa dei Sindacati, dove si erano rifugiati numerosi manifestanti contrari al nuovo governo. Durante l’assalto, l’edificio venne incendiato, causando la morte di molte persone, alcune delle quali per asfissia, altre bruciate vive o morte nel tentativo disperato di fuggire gettandosi dalle finestre.

La condanna della CEDU: un’analisi delle omissioni e delle negligenze

La sentenza della CEDU ha puntato il dito contro le autorità ucraine, accusandole di aver violato il diritto alla vita delle vittime, come stabilito dall’Articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tra le principali criticità riscontrate dalla Corte, emerge innanzitutto la mancanza di prevenzione degli scontri. Nonostante il clima di forte tensione che preludeva agli eventi del 2 maggio, le forze dell’ordine ucraine non avevano preso misure adeguate per evitare l’escalation della violenza.

Inoltre, la CEDU ha sottolineato l’inazione della polizia durante gli scontri e la totale assenza di interventi per fermare la violenza o per assistere le persone intrappolate nell’edificio in fiamme. Anche i soccorsi sono stati gravemente ritardati, con i vigili del fuoco che sono arrivati sul luogo dell’incendio con oltre 40 minuti di ritardo, contribuendo alla morte di numerose persone che avrebbero potuto essere salvate.

La Corte ha anche criticato la gestione delle indagini. Le autorità ucraine non solo non hanno condotto un’inchiesta adeguata, ma hanno sostanzialmente insabbiato le indagini, impedendo di fatto che i responsabili della strage venissero identificati e puniti. Questo ha lasciato le vittime e i loro familiari senza giustizia, alimentando ulteriormente il risentimento e la sfiducia nei confronti del governo ucraino.

Il ruolo della disinformazione e la visione della CEDU sugli eventi

Un aspetto interessante della sentenza riguarda la ricostruzione della CEDU del contesto che ha portato agli scontri. La Corte ha sottolineato il ruolo della disinformazione e della propaganda, menzionando il contributo che la Russia ha avuto nel rafforzare la polarizzazione del paese e alimentare le tensioni tra le diverse fazioni. Sebbene la CEDU non abbia esplicitamente citato il gruppo Pravyj Sektor, un movimento di estrema destra che ha giocato un ruolo cruciale nei fatti di Odessa, la Corte ha delineato la responsabilità delle autorità ucraine nel non aver saputo gestire la situazione e nel non aver prevenuto l’escalation di violenza tra le due fazioni contrapposte.

Inoltre, la sentenza della Corte ha trattato anche la difficoltà di stabilire una responsabilità chiara, attribuendo la colpa in modo piuttosto ambiguo all’intensificarsi dei disordini tra i manifestanti “anti-Maidan” e i sostenitori del nuovo governo, senza entrare nel merito delle specifiche azioni delle diverse fazioni coinvolte.

Le implicazioni geopolitiche e i risarcimenti

Oltre alla condanna per le violazioni dei diritti umani, la sentenza ha comportato un risarcimento alle vittime: 15.000 euro a ciascuna delle famiglie delle vittime e 12.000 euro ai sopravvissuti. Tuttavia, la condanna pone anche interrogativi più ampi sulla gestione della crisi in Ucraina, un paese che, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e l’inizio del conflitto nel Donbass, ha visto il deteriorarsi della sua situazione interna e delle sue relazioni internazionali.

Dal punto di vista geopolitico, questa sentenza potrebbe alimentare ulteriori critiche al governo ucraino, sia a livello interno che internazionale. Le violazioni dei diritti umani in Ucraina sono state un tema di discussione nella comunità internazionale sin dall’inizio del conflitto, e la condanna della CEDU rischia di minare ulteriormente la legittimità del governo di Kiev, che si trova ad affrontare non solo la minaccia russa, ma anche le crescenti preoccupazioni riguardo alla protezione dei diritti fondamentali dei suoi cittadini.

Una lezione sulla protezione dei diritti umani

La sentenza della CEDU sulla Strage di Odessa è un campanello d’allarme per l’Ucraina, ma anche per la comunità internazionale. Essa sottolinea l’importanza di garantire che le forze dell’ordine e le istituzioni statali siano in grado di prevenire e gestire situazioni di violenza, ma anche che le indagini siano trasparenti e imparziali, affinché i diritti umani siano sempre rispettati. In un periodo di forte instabilità geopolitica, in cui la Russia gioca un ruolo significativo nel destabilizzare l’Ucraina, è fondamentale che il paese non solo difenda la sua sovranità, ma rispetti anche i principi fondamentali della giustizia e dei diritti umani.

Riccardo Renzi
Istruttore direttivo presso Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, membro dei comitati scientifici e di redazione delle riviste Menabò, Scholia, Notizie Geopolitiche e Il Polo – Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti”, e Socio Corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Marche.

Redazione Italia

Mediterraneo in fiamme: il caldo estremo minaccia la vita marina e favorisce le specie aliene

Dopo l’Artico, l’area del Mediterraneo è la più colpita dai cambiamenti climatici. Il nostro mare si riscalda del 20% più velocemente rispetto a tutti gli altri. Le conseguenze del riscaldamento globale sono particolarmente intense, con potenziali impatti sugli habitat marini, coinvolgendo anche zone della Liguria.

Innalzamento della temperatura nel Mar Mediterraneo

C’è stato un tempo in cui le acque del Mediterraneo scandivano le stagioni con regolarità: fresche in inverno, accoglienti in estate, mai eccessive, mai estreme. Oggi, però, qualcosa è cambiato. Chi lo attraversa, chi ci nuota dentro, chi vive di pesca o di turismo lo sa bene: il mare si sta scaldando, troppo e troppo in fretta. Correnti più calde, specie tropicali che prendono il posto di quelle autoctone, tempeste più violente. È come se il Mediterraneo avesse la febbre, e il termometro continua a salire. Ma cosa sta succedendo davvero?

Nel 2023 le attività di indagine climatica condotte da ENEA e INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) in collaborazione con GNV (Grandi Navi Veloci) hanno messo in evidenza dati sconcertanti sull’innalzamento della temperatura nel Mediterraneo.

Il riscaldamento non ha interessato solo gli strati più superficiali, ma si è spinto in profondità, raggiungendo gli 800 metri. Per quanto riguarda le acque superficiali, negli ultimi 25 anni si è registrato un aumento di 1,5°C: un dato che potrebbe sembrare minimo, ma che in realtà è allarmante, poiché ha innescato un processo graduale di tropicalizzazione.

Infatti, dall’analisi emerge che tra il 2013 e il 2016 il riscaldamento è stato superiore a 0,4 °C, seguito da una leggera diminuzione e da un periodo stazionario negli anni successivi, per poi riprendere ad aumentare progressivamente dal 2021 fino al settembre 2024, quando ha raggiunto il suo massimo.

Nel report “Effetti del cambiamento climatico nel Mediterraneo: storie di un mare sempre più caldo”, il direttore del WWF Giuseppe Di Carlo, ha affermato: “Il Mediterraneo di oggi non è più quello di una volta. La sua tropicalizzazione avanza a pieno ritmo: il cambiamento climatico non è un fenomeno che ci interesserà in futuro, ma una realtà che scienziati, pescatori, sub, comunità costiere e turisti stanno sperimentando già oggi. Ecosistemi sani e una ricca biodiversità sono le nostre migliori difese naturali contro le conseguenze dei cambiamenti climatici”.

Questo riscaldamento anomalo non è privo di conseguenze: l’alterazione delle temperature marine sta infatti sconvolgendo gli equilibri dell’ecosistema mediterraneo. Specie tropicali si stanno spingendo sempre più a nord, mentre organismi autoctoni faticano ad adattarsi a condizioni sempre meno favorevoli. La biodiversità è a rischio e con essa l’intero ciclo vitale del mare, dalle microalghe ai grandi predatori. Ma quali sono gli effetti più evidenti di questo cambiamento?

Le conseguenze sull’ecosistema marino e la biodiversità:  il granchio blu

I principali effetti riguardano la perdita della biodiversità e profondi cambiamenti nell’ecosistema. Infatti, l’innalzamento delle temperature costringe le specie marine autoctone a migrare verso acque più fredde e profonde, con il rischio di scomparire definitivamente.

Negli ultimi anni, il granchio blu (Callinectes sapidus) si è imposto come una delle specie aliene invasive più problematiche nei nostri mari. Originario della costa atlantica americana, questo crostaceo si è diffuso rapidamente nelle acque italiane, trovando condizioni ambientali favorevoli alla sua proliferazione.

Il suo impatto è stato immediato e devastante: predatore vorace, si nutre di molluschi e piccoli pesci, mettendo in crisi le popolazioni di specie autoctone e alterando gli equilibri ecologici.

La pesca tradizionale ne ha risentito pesantemente, con conseguenze economiche rilevanti per le comunità costiere, soprattutto quelle che dipendono dalla raccolta di vongole e mitili, che sono tra le sue prede preferite.

Le autorità e i ricercatori stanno cercando soluzioni per contrastarne la diffusione, ma l’adattabilità e la capacità riproduttiva del granchio blu rendono la sfida particolarmente complessa.

Nel frattempo, alcune iniziative puntano a trasformare il problema in un’opportunità, promuovendone il consumo gastronomico come strategia di contenimento. Resta però chiaro che l’invasione del granchio blu rappresenta una delle minacce più serie alla biodiversità marina e all’economia ittica del nostro Paese.

In questo scenario, anche il Pinna nobilis, il più grande bivalve endemico del Mediterraneo, sta subendo un drammatico declino; negli ultimi anni, eventi di mortalità di massa hanno portato alla scomparsa dall’80% al 100% delle popolazioni in Spagna, Italia e altre aree del bacino. Questo mollusco non è solo un elemento chiave della biodiversità marina, ma rappresenta anche l’habitat di ben 146 specie diverse.

Parallelamente, il riscaldamento delle acque sta contribuendo all’innalzamento del livello del mare, che negli ultimi dieci anni è già aumentato di circa 5 cm. Se le emissioni di gas serra continueranno a crescere, si stima che entro il 2100 il livello potrebbe salire tra i 40 e i 120 cm, mettendo a rischio molte città costiere e aggravando l’erosione delle coste. Oltre a ciò, l’aumento delle temperature sta determinando una riduzione delle precipitazioni nei mesi più caldi, mentre gli eventi meteorologici estremi diventano sempre più intensi e localizzati.

Un altro fenomeno preoccupante è la gelatinizzazione del mare, ossia la proliferazione incontrollata delle meduse. Nelle acque meridionali del Mediterraneo, le fioriture di meduse sono sempre più frequenti e durature, complice il riscaldamento delle acque e la pesca eccessiva, che ha ridotto drasticamente le popolazioni di pesci che competono con le meduse per il cibo.

La posidonia

Le praterie di posidonia, fondamentali per la salute del Mediterraneo, sono anch’esse minacciate. Questi ecosistemi ospitano fino a 350 specie marine per ettaro e svolgono un ruolo cruciale nell’assorbimento della CO₂, immagazzinando fino al 42% delle emissioni dei Paesi mediterranei. Tuttavia, l’innalzamento del livello del mare e il riscaldamento delle acque stanno compromettendo la loro sopravvivenza, mentre specie aliene invasive, come la Caulerpa, un’alga tropicale capace di crescere fino a 3 cm al giorno, ne aggravano ulteriormente il declino.

Questi fenomeni dimostrano come il cambiamento climatico stia alterando profondamente gli ecosistemi marini, con effetti a catena sulla biodiversità, sull’economia e sulla qualità della vita delle comunità costiere.

Acidificazione del mare, cos’è?

Uno degli effetti più rilevanti del cambiamento climatico è l’acidificazione degli oceani, un fenomeno causato dall’aumento dell’anidride carbonica (CO₂) nell’atmosfera. Circa un terzo della CO₂ emessa dalle attività umane, infatti, viene assorbito dagli oceani, dove si dissolve nell’acqua e innesca reazioni chimiche che riducono il pH marino, rendendo l’ambiente più acido. Questo processo ha conseguenze negative per molti organismi marini, in particolare per coralli e molluschi, che in acque più acide faticano a costruire conchiglie e strutture protettive essenziali per la loro sopravvivenza.

Su questo tema, l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), nel 2023 ha partecipato a una ricerca internazionale che ha identificato le zone più a rischio di acidificazione marina, sia oggi che in prospettiva futura.

“Abbiamo condotto un’analisi che ci ha consentito di identificare gli hotspot di acidificazione marina nel Mar Mediterraneo” spiega Donata Canu, prima ricercatrice della sezione di Oceanografia dell’OGS, che poi aggiunge: “Nell’epoca in cui viviamo, gli oceani globali sono stati già profondamente alterati dalle attività umane. Livelli crescenti di emissioni di gas serra, di cui il 25% è stato assorbito dagli oceani, hanno portato a una variazione del pH dell’acqua marina di circa il 30%”.

A partire da queste evidenze, i ricercatori si sono concentrati sia sui rischi per la biodiversità che sulle ricadute economiche per attività legate al mare come pesca e acquacoltura. I risultati dello studio mostrano come, alle condizioni attuali, non si riscontrano rischi legati alle attività di acquacoltura relative all’acidificazione, mentre negli scenari futuri, che prevedono un aumento dell’acidità delle acque, l’esposizione delle specie di interesse commerciale è decisamente sopra la soglia di rischio.

La campagna “Mare caldo” indaga su Portofino

Sempre nel 2023, la campagna “Mare caldo”, uno studio condotto dall’Università di Genova in collaborazione con Greenpeace, ha raccolto i dati e analizzato gli effetti catastrofici del cambiamento climatico in 12 punti della penisola, tra cui Portofino e Cinque Terre.

Dalle indagini è emerso che circa il 95-100% del pavimento marino tra i 15 e i 30 metri di profondità nell’Area marina protetta di Portofino era coperto di mucillagine, la quale, oltre a danneggiare la pesca, crea gravi rischi per la biodiversità. Questo materiale organico, infatti, forma uno strato gelatinoso che compromette tutte le specie che vivono a stretto contatto con il fondale.

“La mucillagine si forma in superficie, ma poi cade sul fondo per effetto della gravità, andando a ricoprire completamente gli organismi bentonici che vivono a stretto contatto con il substrato roccioso” spiega Monica Montefalcone, esperta di ecologia dell’Università di Genova.

E se le analisi hanno dimostrato che nelle poche aree protette, che ospitano una maggiore varietà di specie, la resilienza e lo stato di salute di queste ultime sono migliori, è evidente che dobbiamo fare di più per tutelare i nostri mari. L’obiettivo è proteggere il 30% dei nostri oceani entro il 2030, un traguardo ambizioso considerando che attualmente le aree marine protette in Italia non superano il 15% e che meno dell’1% dei mari italiani è soggetto a misure di tutela efficaci. Di più: appena lo 0,04% rientra nelle aree in cui è vietata qualsiasi attività, inclusa la pesca.

“Siamo molto lontani dall’obiettivo di protezione del mare che dobbiamo raggiungere entro la fine del decennio. Attualmente le aree marine protette (AMP) sono poche, troppo piccole e senza un sistema di gestione integrata. Quindi non solo servono più AMP, ma occorre che siano meglio gestite e più funzionali”, afferma Carlo Nike Bianchi, professore e ricercatore di Ecologia marina dell’Università di Genova.

Nel corso di questa sua recente spedizione nel Mar Mediterraneo, Greenpeace Italia ha documentato lo stato di salute di altre aree protette, come Bergeggi, e di aree non protette, come Gallinara, entrambe in provincia di Savona, per mettere in luce il ruolo cruciale delle prime nella conservazione del nostro mare.

Gli evidenti impatti antropici nei fondali di Gallinara confermano che le aree marine protette rappresentano il miglior strumento per tutelare la biodiversità marina. È dunque urgente aumentare il numero di queste aree protette e adottare tutte le misure necessarie per affrontare le sfide ambientali attraverso politiche di protezione e strategie di mitigazione del cambiamento climatico mirate a preservare la ricchezza naturale dei nostri mari.

Maya Bonaduce
5c del Liceo di Scienze Umane Duchessa di Galliera di Genova

Redazione Italia