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Europa

I paesi baltici sono entrati nell’Europa elettrica

BRELLxit: I paesi baltici sono entrati nell’Europa elettrica

L’8 febbraio il sistema energetico delle Repubbliche Baltiche si è sconnesso dalla rete russa collegandosi a quella europea.

In sé un atto strettamente tecnico e previsto da decenni ma che è finito per assumere un valore politico ben più profondo.

Immersi in una futuristica scenografia, i presidenti delle tre Repubbliche Baltiche, insieme al presidente polacco e della commissione europea Von der Leyen, celebrano la quasi simultanea sconnessione della rete energetica baltica dal sistema BRELL (condiviso con Russia e Bielorussia) per collegarsi all’Area Sincrona dell’Europa Continentale (CESA).

Un atto dovuto di integrazione europea e di sicurezza energetica che viene equiparato ad una seconda dichiarazione di indipendenza.

Il lungo cammino verso l’Europa elettrica

L’idea della sincronizzazione energetica fra Baltici ed Europea risale invece alla prima indipendenza, quando, in ottica europeista, ma anche e soprattutto per allontanarsi dalla Russia e dalle sue minacce in tema di sicurezza energetica, la questione fece il suo primo ingresso nel dibattito politico.

Fra il 1996 e il 1998 si realizzò quindi il primo studio di fattibilità, ‘Baltic ring’, dal quale emersero una lunga serie di sfide rispetto alla creazione di un mercato comune dell’elettricità con l’Europa, finendo per alimentare uno scetticismo che avrebbe congelato il dibattito fino al 2007.

Fu solo nel 2008, con la salita al potere in Lituania dei democristiani (TS-LKD), e Sekmokas ministro dell’Energia, che si riuscirono a rimuovere dal Ministero le vecchie autorità energetiche, principali oppositori alla sincronizzazione.

Ma ancor di più, sarà il coinvolgimento dell’Unione Europea a dare una prospettiva concreta a quella che fino a quel momento era rimasta solo un’idea.
In particolare attraverso la promozione e approvazione, nello stesso anno, del Piano di Interconnessione del Mercato Energetico del Baltico (BEMIP), ma che pure non fu sufficiente per superare gli ostacoli che il progetto portava con sé: l’opposizione della Polonia alla costruzione dell’interconnessione elettrica LitPol Link 2; della Russia, che avrebbe visto l’exclave di Kaliningrad isolata dalla propria rete, insieme a tutta una serie di questioni tecniche che portarono a dubitare anche la stessa Estonia.

I dubbi e le specifiche operative portarono a nuovi studi di fattibilità che rallentarono i lavori, tanto da portare le tre repubbliche a considerare anche progetti autonomi di sincronizzazione, e a non firmare il memorandum d’intesa del 2017.

A questo punto sarà, di nuovo, necessario il coinvolgimento dell’Unione Europea per mettere tutti d’accordo.
E succederà l’anno successivo, con Juncker ad oleare gli ingranaggi, quando finalmente le tre repubbliche e la Polonia sottoscrissero il piano d’azione per la sincronizzazione elettrica.

Uno dei più grandi risultati della diplomazia europea in tema di sicurezza energetica con destinazione 2025.

1,6 miliardi di euro dopo (di cui 1,23 dell’UE), l’8 febbraio di quest’anno, si sconnettono le interconnessioni fra il sistema delle Repubbliche dalla rete BRELL.

E dopo 24 ore di lavoro in autonomia, a garanzia di sicurezza del buon funzionamento del sistema baltico, si collega alla rete CESA, attraverso diverse interconnessioni fra Estonia e Finlandia e fra la Lituania con Polonia e Svezia.

Segnando ‘la fine di ogni residuo sovietico’ per i baltici, oltre che la completa integrazione europea della regione fino ad ora rimasta un’isola energetica.

Massima allerta

La posizione dei baltici e il loro passato hanno sicuramente contribuito a fare di questo atto ‘tecnico’ una necessità di sicurezza energetica a fronte di Mosca e della sua abitudine a ricattare chiunque sia ad essa legata energeticamente.

Eppure, al diminuire delle possibilità di ricatto energetico da parte di Mosca, aumenta parallelamente il rischio di sabotaggi e ripercussioni per l’altra abitudine russa di voler dimostrare che ogni tentativo di porre fine a una dipendenza da Mosca ha inevitabilmente delle conseguenze.

Conseguenze, di cui i danneggiamenti dei cavi nel mar Baltico sono chiari precedenti, che si sommano al rischio di altre forme di attacchi ibridi che Mosca è andata perfezionando negli anni, e che includono cyber attacchi e campagne di disinformazione che fanno sì che tutti rimangano in massimo stato di allerta nei baltici.

Ma non gira sempre tutto e solo intorno alla Russia

Tuttavia, non si può sempre e solo ridurre tutto in funzione della Russia, e farlo vorrebbe dire non solo sottostimare il lavoro (e il cospicuo finanziamento) delle Repubbliche e dell’UE.

Ma vorrebbe anche dire assegnare a Mosca un’importanza superiore a quella che già non si auto concede.

Una pratica che troviamo sia nelle parole di chi imputa le esitazioni e i ritardi a strumento di “mitigazione pragmatica” affine alla finlandizzazione della vicina scandinava.

Ma anche nelle dichiarazioni di media e politici che riducono la sincronizzazione come “risposta all’invasione dell’Ucraina della Russia”.

Quando, invece, l’annosa storia del progetto dovrebbe essere sufficiente per notare come sia ben precedente e indipendente dalle azioni russe più recenti, e confermato anche in un report dell’ICDS (International Centre for Defence and Security) in cui viene segnalato come, dopo il 2007, “rischi politici e preoccupazioni in tema di sicurezza sono stati completamente assenti nella discussione”, e i ritardi sono stati dovuti unicamente a considerazioni tecniche.

Provenienti, tra l’altro, da Estonia e Polonia, da sempre in prima linea nella militanza contro l’influenza di Mosca.

Una narrazione dannosa che si sostituisce al Cremlino nel costruire l’immagine di una Russia minacciosa e in funzione della cui forza gira il mondo, e che riduce a mera reazione anni di dialogo, sforzi e diplomazia europea per raggiungere questo risultato.

East Journal

In flessione il mercato dei libri nel 2024

La sostituzione della 18app con le Carte Cultura e del Merito e il mancato finanziamento alle biblioteche per 30 milioni di euro sono alla radice della flessione del mercato dei libri di varia adulti e ragazzi nei canali trade nel 2024 (narrativa e saggistica a stampa venduta nelle librerie fisiche e online e nei supermercati): in assenza di queste due decisioni, il mercato sarebbe cresciuto a valore del 2,5% anziché calare dell’1,5%.

E’ quanto certifica un’analisi basata su dati di NielsenIQ-GfK, che è stata presentata di recente dall’Associazione Italiana Editori – AIE.

In particolare, AIE stima che nel 2024 le vendite di libri perse per effetto delle modifiche alle misure di sostegno alla domanda siano state pari a 62,7 milioni di euro.

Tale cifra avrebbe consentito al mercato librario di attestarsi a quota 1.596,5 milioni di euro anziché 1.533,8 milioni di euro, rispetto a un 2023 che si era chiuso a 1.557 milioni di euro.

E a sottolineare i motivi della flessione è stato il presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE) Innocenzo Cipolletta che ha spiegato che “l’analisi delle misure a sostegno della domanda di libri nel nostro Paese dal 2017 ad oggi ci dice due cose: la prima è che tali misure hanno avuto nel corso degli anni un effetto moltiplicatore, contribuendo a creare nuovi lettori e nuovi acquirenti.

La seconda è che hanno consentito al settore di attestarsi su un livello di vendite e di fatturato più alto, necessario per sostenere il processo di crescita ed evoluzione delle aziende e della filiera.

Quando tali misure vengono a mancare, il danno è quindi doppio.

Bene, quindi, il ripristino del fondo per le biblioteche per il 2025.”

L’Italia è in grande difficoltà rispetto a quanto accade a livello europeo.

Nel 2024 in Italia la vendita di libri per adulti e ragazzi nel mercato trade è stata di 103,987 milioni di copie, in calo del 2,3% rispetto all’anno precedente, pari a 2,458 milioni di copie comprate in meno.

A valore la flessione è dell’1,5%, pari a 23,2 milioni di euro di minori vendite rispetto a un mercato complessivo di 1.533,8 milioni di euro.

Il -1,5% dell’Italia a valore pone il Paese in coda rispetto alle maggiori editorie europee: la Germania cresce dello 0,9%, il Regno Unito cala dello 0,6%, la Francia cala dello 0,3%, la Spagna cresce del 9,8%.

La flessione del mercato è disomogenea rispetto alla dimensione degli editori: i gruppi e le case editrici con vendite superiori ai 5 milioni di euro sono in calo dello 0,1%, gli editori da un milione a 5 milioni di venduto sono calati del 9,3%, quelli sotto il milione del 2,5%.

E’ l’online ad essere particolarmente in crisi: nei 12 mesi i canali online hanno venduto 26,3 milioni di euro in meno di libri rispetto al 2023, sono 6,7 milioni di euro le minori vendite della grande distribuzione.

Le librerie, indipendenti e di catena, sono invece cresciute di 8,8 milioni di euro, ma non sono riuscite a intercettare completamente le minori vendite fatte registrare dall’e-commerce.

Tra i generi, cresce solo la narrativa italiana (3,2%) e straniera (0,9%), mentre il settore bambini e ragazzi è in flessione dello 0,8%, la saggistica generale del 2%, la manualistica del 4,1%, la saggistica specialistica del 5,1% e i fumetti del 5,5%.

Sono numeri che si riflettono nella top 10: sette i titoli di autori italiani presenti, di cui sei romanzi.

Ma il libro più venduto nel 2024 è un saggio (uscito a settembre).

Il digitale vale oltre 100 milioni e cresce.

Al mercato dei libri a stampa si aggiungono vendite nel digitale pari nel 2024 a 114,2 milioni di euro.

Le vendite riferite agli audiolibri (abbonamenti) sono pari a 30 milioni di euro, in crescita del 7,1% rispetto l’anno precedente, le vendite di ebook 84,2 milioni di euro, in crescita del 4%.

L’AIE ha anche stilato la classifica dei dieci titoli più venduti nel 2024: 1. Il dio dei nostri padri. Il grande romanzo della Bibbia, A. Cazzullo, Harper Collins (Settembre 2024); 2. Un animale selvaggio, J. Dicker, La nave di Teseo (Marzo 2024); 3. La portalettere, F. Giannone, Nord (Gennaio 2023); 4. Tatà, V. Perrin, e/o (Novembre 2024); 5. L’età fragile, D. Di Pietrantonio, Einaudi (Novembre 2023); 6. L’orizzonte della notte, G. Carofiglio, Einaudi (Febbraio 2024); 7. Come l’arancio amaro, M. Palminteri, Bompiani (Giugno 2024); 8. Il canto dei cuori ribelli, T. Umrigar, Libreria Pienogiorno (Aprile 2024); 9. Domani, domani, F. Giannone, Nord (Giugno 2024); 10. Il passato è un morto senza cadavere, A. Manzini, Sellerio (Ottobre 2024).

Qui i dati dell’Ufficio Studi AIE: https://www.aie.it/Portals/_default/Skede/Allegati/Skeda105-10237-2025.1.31/Presentazione_mercato_2024_Venezia_SUEM.pdf?IDUNI=0bsmfaq4msbsr24qjepxyxn2839.

Giovanni Caprio

Il valore aggiunto dell’economia sociale

L’economia sociale è caratterizzata dalle attività senza scopo di lucro e di utilità sociale realizzate dalle organizzazioni di terzo settore che nel loro agire sono mosse da principi quali la reciprocità e la democrazia. Secondo la definizione della Commissione Europea, l’economia sociale può essere considerata come l’insieme di cinque categorie di organizzazioni: associazioni, cooperative (sociali e non), imprese sociali, società di mutuo soccorso e fondazioni. L’economia sociale è dunque costituita dall’insieme di quelle organizzazioni il cui principio fondativo non risiede nella massimizzazione del profitto, ma nel principio di reciprocità. Organizzazioni che proprio per questo sono capaci di produrre beni e servizi che né l’economia for profit né l’economia pubblica sarebbero in grado o avrebbero interesse a produrre. L’economia sociale ha l’obiettivo di trasformare contesti, politiche ed economie, affrontando le grandi transizioni e le sfide dei nostri tempi (ambientali, sociali, digitali e democratiche), grazie ad una visione dell’economia che va oltre quella estrattiva, finalizzata esclusivamente ad estrarre valore dai territori riservandolo a pochi senza alcun interesse alla redistribuzione.

Secondo uno studio commissionato dall’Agenzia esecutiva del Consiglio europeo per l’innovazione e delle PMI (EISMEA), che raccoglie e analizza dati quantitativi e qualitativi sull’ecosistema europeo dell’economia sociale e sul suo contributo a un’economia e una società sostenibili, innovative e resilienti, nell’Unione

Europea almeno 11,5 milioni di persone, ovvero il 6,3% della popolazione occupata, lavorano nell’economia sociale. Nei 27 Stati membri l’economia sociale raccoglie oltre 4,3 milioni di enti e si stima vi siano più di 246.000 imprese sociali. Lo studio evidenzia come esistano organizzazioni dell’economia sociale in tutti i Paesi dell’UE, anche se alcune risultano poco visibili e hanno scarso riconoscimento come parte dell’economia sociale, soprattutto a causa di una scarsa comprensione dei diversi ruoli svolti dalle organizzazioni e la mancanza di dati e analisi statistiche di alta qualità e comparabili. Soltanto pochi Stati membri infatti dispongono di statistiche nazionali che misurano specificamente l’economia sociale.

Nella sua prima raccomandazione sull’economia sociale, l’Unione Europea ha invitato gli Stati membri ad adottare misure intese a riconoscere e sostenere il ruolo dell’economia sociale allo scopo di: agevolare l’accesso al mercato del lavoro, in particolare per i gruppi vulnerabili o sottorappresentati; promuovere l’inclusione sociale mediante la fornitura di servizi sociali e servizi di assistenza accessibili e di alta qualità: stimolare lo sviluppo delle competenze, comprese quelle necessarie alle transizioni verde e digitale; promuovere l’innovazione sociale e lo sviluppo economico sostenibile (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ%3AC_202301344).

In Italia, l’economia sociale comprende più di 398.000 organizzazioni, impiega oltre 1.500.000 persone e coinvolge più di 4.660.000 volontari. Sono alcuni dei dati che Euricse (https://euricse.eu/it/) ha pubblicato sul proprio sito web in una nuova pagina di approfondimento sull’economia sociale in Italia. Grazie ai grafici interattivi e ai dati ufficiali provenienti da fonti autorevoli, come i registri ASIA, il Censimento permanente delle Istituzioni non profit dell’Istat, i registri amministrativi RUNTS e Albo delle Cooperative, oltre alle banche dati di ricerca elaborate da Euricse, è possibile esplorare in dettaglio il numero di organizzazioni, l’occupazione e il loro contributo all’economia nazionale. Le informazioni, aggiornate annualmente, offrono un quadro completo e consultabile liberamente, e includono due sezioni specifiche dedicate alle imprese sociali e alle cooperative.

La nuova pagina web si articola in tre aree principali: “Numeri in breve”, in cui attraverso i grafici vengono rappresentati il numero complessivo delle organizzazioni attive nell’economia sociale, il livello di occupazione (inclusi i lavoratori delle cooperative e delle altre realtà) e il loro contributo all’economia nazionale, oltre alla distribuzione geografica. Interagendo con i grafici è possibile selezionare l’anno di interesse, i settori di riferimento e i dati suddivisi per regione; “Imprese sociali”, che è la sezione dedicata alle imprese sociali, un elemento trasversale nell’economia sociale. I grafici mettono in evidenza i dati relativi al numero di imprese che hanno ottenuto la qualifica legale di impresa sociale, la loro distribuzione geografica per provincia, i settori di attività e le forme giuridiche adottate; “Il valore economico generato dalle cooperative”,  che accende i riflettori sul valore della produzione e sul valore aggiunto prodotto dalle cooperative nei vari settori e territori, e sul fatturato totale suddiviso per tipologia cooperativa.

E’ a livello locale che l’economia sociale andrebbe maggiormente declinata, coniugata con l’amministrazione condivisa e la sussidiarietà. E qualche esempio in tal senso non manca: nei giorni scorsi è stato sottoscritto a Bologna un Protocollo d’intesa tra Città metropolitana, Comune di Bologna e Cgil-Cisl-Uil di Bologna e Imola, sull’Economia sociale e l’Amministrazione condivisa, siglato dal Sindaco di Bologna e dai Segretari generali delle Confederazioni sindacali. Un protocollo in cui si ribadisce che l’economia sociale, per poter sviluppare correttamente il proprio contributo, ha bisogno di un forte pilastro pubblico, in grado di garantire il carattere universalistico del sistema di garanzie sociali, di organizzare e gestire la risposta in termini di servizi ai bisogni della popolazione e di garantire i diritti sociali a tutti i cittadini: https://www.cittametropolitana.bo.it/portale/Home/Archivio_news/Economia_sociale_e_Amministrazione_condivisa.

Qui i dati di Euricse: https://euricse.eu/it/economia-sociale-italia/

Giovanni Caprio

27 febbraio 2025, mobilitazione nazionale dei lavoratori migranti: ora basta, non possiamo più aspettare!

Venerdì 14 febbraio si è tenuta un’importante assemblea online dei lavoratori migranti, con centinaia di persone che si sono collegate da tutta Italia per denunciare le violazioni dei diritti che subiscono quotidianamente nei centri di accoglienza, nei luoghi di lavoro, davanti agli uffici Immigrazione ed, in definitiva, nella vita quotidiana.

Ora basta, non possiamo più aspettare! Vogliamo permesso di soggiorno e regolarizzazione per tutte e tutti i lavoratori migranti. 

In un comunicato del CNEL, di seguito riportato, si fa il punto sul ruolo fondamentale dei lavoratori migranti. ma la realtà va anche oltre: in Italia tra centri di accoglienza, insediamenti informali, e persone mai emerse si trovano almeno altre 800.000 persone in attesa di una risposta dal nostro Paese.

MIGRANTI, RUOLO DETERMINANTE NEGLI SCENARI DEMOGRAFICI

Al 1° gennaio 2024 si contano ufficialmente in Italia 5.307.598 stranieri residenti, che rappresentano il 9% della popolazione complessiva. Per oltre il 70% sono cittadini non comunitari. Tra il 2001 e il 2011 gli stranieri si sono cresciuti di quasi 3 milioni, giungendo a superare largamente i 4 milioni di residenti. Se si considera che nello stesso periodo la popolazione in Italia è cresciuta nel suo complesso di circa 3 milioni di unità, è evidente come tale slancio sia del tutto imputabile proprio al contributo della componente straniera. Non a caso, quando nel decennio 2012-2022 l’apporto degli stranieri è stato meno incisivo (circa 700 mila) la popolazione complessiva residente in Italia ha iniziato a ridursi. La popolazione straniera, quindi, ha avuto un ruolo determinante negli scenari demografici. È anche del tutto chiaro quale potrà essere, nei prossimi decenni, il contributo positivo dei flussi migratori, se adeguatamente governati.

Molti cittadini, in attesa di definire la propria posizione, sono costretti a vivere in una condizione di precarietà e ricattabilità per periodi molto lunghi, a volte anche anni. La maggioranza di queste persone si trova nella condizione obbligata di accettare qualsiasi proposta che le permette un minimo salario: lavoro nero, lavoro grigio, sfruttamento, prostituzione e criminalità sono le proposte che la nostra società offre a questa moltitudine di donne e uomini.

A fronte di decreti flussi, click day, promesse di lavoro, sponsor ed altro, la verità che quotidianamente i lavoratori stranieri si trovano di fronte è una situazione di totale precarietà: non espellibili perché in attesa di una risposta, ma non idonei a chiedere una residenza, un conto corrente, un’assistenza sanitaria.

Le lunghe code che siamo ormai abituati a vedere di fronte a tutte le Questure o Uffici Immigrazione sono il risultato di una politica governativa che da oltre vent’anni vede i migranti come un problema di ordine pubblico, non una risorsa.

Sono ormai sempre più frequenti le dichiarazioni o le produzioni di dati, forniti da parte imprenditoriale, che denunciano il calo demografico in Italia e il conseguente calo di forza lavoro in determinati settori produttivi: agricoltura, edilizia, servizi alla persona, ristorazione.

L’incapacità di vedere la migrazione come un fattore positivo da includere nel tessuto della nostra società è palese, con politici di destra e di sinistra che hanno fatto demagogia sulla pelle di persone in fuga da guerre, miseria, persecuzioni per ottenere una manciata di voti in più. Il flusso migratorio dai Paesi extraeuropei è ormai da molti anni un fatto strutturale, del quale la nostra classe politica deve prendere atto.

Per questo, dopo aver visitato decine di centri di accoglienza, aver parlato con migliaia di lavoratori migranti, averli assistiti sindacalmente e supportati nel riconoscimento dei loro diritti minimi, oggi congiuntamente con le comunità dei migranti e con le associazioni di solidarietà, ritorniamo nelle piazze italiane per rivendicare sempre con maggiore forza.

Vogliamo:

– Regolarizzazione di tutti i lavoratori migranti.

– Velocizzazione del rilascio dei documenti, primo fra tutti il permesso di soggiorno

– Il riconoscimento della residenza, della tessera sanitaria e dell’accesso ai conti correnti bancari assistito.

Per questi motivi il 27 febbraio abbiamo indetto una giornata di mobilitazione nazionale davanti a tutte le prefetture. A Roma abbiamo chiesto un incontro al Ministero degli Interni e saremo dalle 15 in Piazza dell’Esquilino.

Per adesioni e contatti: usb@usb.it

Unione Sindacale di Base

Presenza di pace a Torino

Da 155 settimane (tre anni), ogni sabato alle 11, in piazza Carignano di Torino, dall’inizio della guerra di Ucraina, poi di Gaza, si radunano con ogni tempo diverse decine di persone, per una “Presenza di Pace”: un’ora di letture, informazioni, riflessioni, proposte, collegamenti internazionali, contro le varie guerre in corso. Si termina con un minuto di silenzio per tutte le vittime.

In molte altre città d’Italia ogni settimana si tengono simili manifestazioni non clamorose né chiassose, ma serie e tenaci.

L’iniziativa è del coordinamento AGiTe, cui aderiscono molte associazioni locali che sono contro le armi nucleari, messe al bando dall’Onu nel trattato del 2017, che proibisce non solo l’uso, ma la semplice detenzione di tali armi, in vigore per tutti i paesi dal gennaio 2021. L’Italia, con la Nato, deplorevolmente non ha ancora voluto aderire a questo impegno contro la guerra.

Chiediamo ai media locali (giornali, tv, radio…) che hanno finora mancato completamente di dare notizia di informare su questa tenace e seria testimonianza della volontà popolare di pace.

Coordinamento AGiTe

I Miserabili, ovvero dell’inevitabile tracollo dell’UE

E così ci siamo finalmente arrivati. Dopo tanto vociare sul ruolo “centrale” dell’Europa nel confronto scontro con l’Oriente, dopo l’autoesaltazione per aver sostenuto e affiancato l’Ucraina contro la “vile aggressione”, dopo i miliardi spesi in armi e aiuti vari all’Ucraina per costruire  l’illusione di una possibile vittoria contro la Russia perché “…oggi l’Ucraina e domani i cavalli dei Cosacchi che si abbeverano a piazza S.Pietro”, dopo la genuflessione totale sia dei “centrodestri” che dei “centrosinistri” di fronte agli affari USA nella speranza di un posticino al tavolo delle ricostruzioni/speculazioni, ecco che arriva Trump a sconvolgere le aspettative e a sparigliare le carte di un mazzo al quale già dall’inizio mancavano le figure più importanti.

Eppure i segnali di una fine ingloriosa della politica imperiale della globalizzazione c’erano tutti, dal protagonismo sempre più forte della Cina al ruolo sempre più centrale dei BRICS, dalla fine del monopolio USA delle tecnologie più avanzate alle possibilità sempre più concrete di dedollarizzare gli scambi economici e finanziari di una parte consistente del mondo, dalla rinnovata importanza delle materie prime, dal grano alle terre rare, e degli stati che le detengono al rafforzamento di imperialismi che tendono ad autonomizzarsi dagli USA in particolare nel Medio Oriente come Turchia , Israele, Arabia Saudita ed Emirati.

Insomma uno scenario da fine Impero che domina lo scacchiere internazionale da una decina d’anni e nel quale gli USA di Biden hanno cercato di forzare la mano spostando il confine della Nato sempre più ad est, distribuendo sanzioni economiche a Russia, già da prima della guerra, Cina, Iran, Venezuela e chiunque non facesse riferimento a quel complesso quadro ideologico politico economico e militare chiamato ”Occidente”.

Di tutto questo si è invece reso perfettamente conto il nuovo inquilino della casa bianca che con la praticità del palazzinaro tirchio di fronte alle pareti del palazzo UE che scricchiolano ha chiesto l’aumento dell’affitto (arrivare al 5% di spese militari comprando armi ovviamente dagli USA) e al concorrente forte preferisce offrire un accordo piuttosto che una guerra. Anche con Ucraina e Palestina l’atteggiamento è uguale: ”Ti ho dato miliardi adesso mi prendo da uno le terre rare e dall’altro la costa di Gaza per farne la Saint Tropez del Medio Oriente”. E così mentre i bimbiminkia (per usare il linguaggio istituzionale italiano) si dividono tra chi piagnucola e chi cerca di arruffianarsi Papi mollando gli altri, i Grandi si preparano ad una nuova Yalta.

Era possibile un’altra e meno ingloriosa fine? Assolutamente si, come per tre anni abbiamo urlato nei pochissimi spazi di comunicazione mainstream che ci hanno concesso chiamandoci comunque traditori, Putiniani, filo Hamas, sciocchi pacifisti senza senso pratico, zecche rosse (compreso sua Santità il Papa) o neonazi. Gli spazi per un intervento diplomatico importante c’erano tutti tant’è che l’Inghilterra, primo vassallo di Biden, ha dovuto mettersi di traverso per impedirlo (i servizi UK sono fortemente sospettati di essere gli autori del sabotaggio che ha distrutto il gasdotto che dalla Russia forniva la Germania), ma si è preferito sacrificare la vita di centinaia di migliaia di Ucraini, nonché le condizioni delle fasce di popolazione economicamente più deboli di tutta Europa in nome dell’ ennesima guerra contro il male assoluto.

Non voglio qui assolvere Putin dalle sue indiscutibili colpe bensì sottolineare ancora una volta che la guerra non può mai essere la soluzione neanche per la Russia che dovrà comunque rendere conto al suo popolo delle centinaia di migliaia di giovani soldati mandati a morire nonché di un continuo irrigidimento di un regime che lascia sempre meno spazi alla possibilità di opporsi. E adesso? Direi che siamo alla frutta, poiché mentre oggi a Riad si riuniscono gli inviati di Trump e Putin per stendere un’ipotesi di accordo peraltro senza Zelenski, alcuni leader europei si sono riuniti ieri a Parigi su invito di Macron, presidente in bilico, per stilare una posizione comune per partecipare ai negoziati. Risultato? Assolutamente nessuno, zero totale poiché è ormai chiara la frattura tra chi, Meloni in testa, preferisca accreditarsi nel modo migliore, cioè supinamente, al nuovo imperatore e chi vorrebbe  che la guerra continuasse ma non può permetterselo.

Saremo quindi costretti ancora una volta ad una sudditanza senza scampo?

Forse è troppo presto per dirlo, l’unica cosa certa è che un campo avverso alla pace è andato irrimediabilmente in crisi mostrando tutte le sue fragilità e questo apre sicuramente scenari che potrebbero rivelarsi importanti ma soprattutto proficui per il ruolo che potrebbero assumere i movimenti pacifisti e non solo. I 150 miliardi di euro bruciati dalla UE in aiuti militari all’Ucraina sono fondi tolti alla sanità, alla scuola pubblica, alla previdenza, agli investimenti pubblici e devono diventare una leva per rilanciare piattaforme sindacali e sociali in tutta Europa che mobilitino il mondo dei lavori e i movimenti per impedire questa volta ulteriori aumenti delle spese militari volte a rilanciare velleità imperiali della UE a scapito delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di cittadini.

I sondaggi sul favore che incontravano le politiche guerrafondaie in Italia e non solo, nonostante gli sforzi dei miseri “giornalistoni” che li proponevano, non riuscivano a nascondere maggioranze contrarie all’invio di armi, così come le recenti elezioni europee hanno mostrato una distanza sempre più abissale tra i partiti presenti e il popolo che per metà non ha votato sottolineando in questo modo la non rappresentatività di un quadro politico istituzionale quasi completamente allineato sulla guerra e sulle scelte economico-politiche che ne conseguono. Questa maggioranza pacifista deve oggi riprendere la parola e tornare protagonista della scena ed ha un solo modo per farlo: creare lotta, comunicazione, comunità.

Redazione Italia

La lotta per la Groenlandia (Parte III)

Si intensifica il dibattito dell’UE sull’invio di soldati in Groenlandia. L’Artico è già oggi teatro di una crescente rivalità militare tra Stati Uniti e Russia.

Il dibattito sull’invio di soldati in Groenlandia si sta intensificando nell’Unione Europea. Dopo la proposta del Presidente del Comitato militare dell’UE, anche il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che “se sono in gioco i nostri interessi”, si potrebbe prendere in considerazione il dispiegamento di truppe sull’isola, che appartiene allo Stato UE della Danimarca. Barrot ha sottolineato che l’Artico nel suo complesso è diventato una “nuova area di conflitto”.

In effetti, la rivalità sta aumentando, soprattutto tra l’Occidente e la Russia. La Russia dispone oggi di quasi una dozzina di basi militari nella regione artica per proteggere il suo fianco settentrionale, il porto della sua flotta settentrionale e le fonti di petrolio e di gas che vi si trovano.

Gli Stati Uniti gestiscono nove basi militari in Alaska e utilizzano la base spaziale di Pituffik in Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che l’Artico è un’“arena” per le lotte di potere globali; il Presidente Donald Trump voleva acquistarlo. Il fatto che abbia fallito allora contribuisce a spiegare le sue attuali richieste di annessione estremamente aggressive.

Porto Rico con la neve

Per la prima volta dopo gli sforzi compiuti negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, nel 2019 gli Stati Uniti hanno puntato ad annettere la Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato in un discorso a una riunione del Consiglio Artico a Rovaniemi, nel nord della Finlandia, che l’Artico era diventato un’“arena” per di competizione globale: “Stiamo entrando in una nuova era di attività strategica nell’Artico”[1]

Nell’agosto 2019, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato di voler acquistare la Groenlandia. La mossa ha scatenato reazioni incredule e talvolta inorridite in Danimarca in generale e nella stessa Groenlandia. “Spero che sia uno scherzo”, ha dichiarato Martin Lidegaard, presidente della Commissione Affari Esteri del parlamento danese – si tratta di ‘un pensiero terribile e grottesco’[2].

‘La Groenlandia non è in vendita’, ha annunciato il primo ministro groenlandese Kim Kielsen. Di conseguenza, i piani di Trump non avrebbero portato a nulla. Il capo del Centro per gli studi militari dell’Università di Copenaghen, Henrik O. Breitenbauch, ha dichiarato che non si fa commercio di persone e Paesi. Inoltre, l’interesse della popolazione groenlandese a diventare una sorta di “Porto Rico con la neve” era probabilmente piuttosto limitato[3].

“Ci prendiamo la Groenlandia”

Il 22 dicembre 2024, Trump ha nuovamente annunciato di voler incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti.[4] Il 7 gennaio 2025, ha esplicitamente ribadito che non escluderà la coercizione economica o militare per raggiungere questo obiettivo.[5]

Come nel 2019, in Danimarca e nella stessa Groenlandia si sono sentiti sgomento e aperto rifiuto. Facendo riferimento alla storica discriminazione razziale contro la popolazione indigena dell’Alaska, gli Inuit, Pipaluk Lynge, membro del parlamento groenlandese, ha dichiarato: “Sappiamo come trattano gli Inuit in Alaska”. Rivolgendosi agli Stati Uniti, Lynge ha aggiunto: “Rendeteli ‘great’ prima di cercare di invaderci”[6]

I primi tentativi del governo danese di smorzare le richieste con concessioni all’amministrazione Trump – come la promessa di espandere un aeroporto in Groenlandia per i caccia F-35 statunitensi – sono falliti. In una conversazione telefonica con il primo ministro danese Mette Frederiksen la scorsa settimana, Trump non solo ha insistito per incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti, secondo quanto riferito, ma ha anche minacciato misure coercitive specifiche, come i dazi.[7] “Avremo la Groenlandia”, ha affermato Trump nel fine settimana; se la Danimarca non è disposta a cedere il suo territorio, questo sarebbe “un atto molto ostile”[8].

Sistemi di allerta rapida per l’Artico

Trump insiste nella rivendicazione, anche se gli Stati Uniti hanno già un notevole spazio di manovra militare in Groenlandia e la Danimarca si è offerta di ampliarlo. Washington e Copenaghen hanno un accordo militare relativo alla Groenlandia dal 1951, che consente alle forze armate statunitensi di utilizzare, tra le altre cose, una base militare situata molto a nord-ovest dell’isola. Ancora oggi è conosciuta come base aerea di Thule, ma da diversi anni si chiama ufficialmente base spaziale di Pituffik.

Oltre a una stazione di sorveglianza spaziale, vi si trovano anche radar e sistemi di allarme rapido. Questi erano già utilizzati durante la Guerra Fredda per rilevare eventuali bombardieri e missili sovietici in avvicinamento. Il percorso attraverso la Groenlandia è il più breve dalla Russia agli Stati Uniti a causa della curvatura della terra.

Oggi gli esperti sottolineano che le strutture della base spaziale di Pituffik non sono probabilmente in grado di rilevare in tempo i moderni missili ipersonici russi; per questo, dicono, “nuove strutture di ricognizione dovrebbero essere posizionate anche in Groenlandia”[9]. Peter Viggo Jakobsen, professore del Royal Danish Defence College, ha affermato che gli Stati Uniti “hanno ottenuto in larga misura ciò che volevano militarmente in Groenlandia chiedendo gentilmente”[10].

Basi militari nell’Artico

Un’eventuale annessione della Groenlandia e un’espansione della presenza militare statunitense sull’isola aggraverebbero in modo significativo le tensioni militari nell’Artico. Gli Stati Uniti mantengono attualmente nove basi militari in Alaska, oltre alla base spaziale di Pituffik in Groenlandia.

La Russia, invece, ha aumentato le sue basi militari nelle regioni settentrionali fino a quasi una dozzina. È nella penisola di Kola, per la precisione, che si trova la base della Flotta del Nord, che contiene parte della capacità di secondo colpo nucleare delle forze armate russe. Le regioni artiche della Russia ospitano anche grandi riserve di petrolio e, soprattutto, di gas naturale. Entrambe devono essere protette dagli attacchi in caso di guerra, motivo per cui Mosca dichiara la sua presenza militare nell’Artico come chiaramente difensiva.[11]

Tuttavia, la Russia ha recentemente ampliato le sue manovre nelle acque artiche e, secondo i rapporti, le ha spostate sempre più verso la Norvegia, il che aumenta il suo spazio di manovra ma è classificato come azione offensiva in Occidente. Nell’Artico sta inoltre cooperando con la Cina, non a livello militare, ma ad esempio nello scambio di dati satellitari per la comunicazione e la navigazione[12].

Un segnale forte

Nel frattempo, si discute anche dello stazionamento di forze dell’UE in Groenlandia. A fine gennaio, il presidente del Comitato militare dell’UE, il generale austriaco Robert Brieger, ha dichiarato che sarebbe “abbastanza sensato” “prendere in considerazione lo stazionamento di soldati dell’UE” in Groenlandia: “Sarebbe un segnale forte”. [13.

Durante una breve visita a Parigi del primo ministro danese Mette Frederiksen, il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che l’Artico è diventato una “nuova area di conflitto” in cui “l’interferenza straniera” deve essere deplorata.  “Se i nostri interessi sono in gioco”, allora il dispiegamento di militari in Groenlandia sarà preso in considerazione. [14]

La Danimarca ha ora iniziato ad armarsi a livello nazionale nella sua provincia autonoma. Come annunciato lunedì, Copenaghen intende spendere 14,6 miliardi di corone danesi – poco meno di due miliardi di euro – per acquistare, tra l’altro, tre navi da guerra in grado di affrontare l’Artico e due droni a lungo raggio che possono essere utilizzati per voli di sorveglianza estensivi. Inoltre, ci saranno esercitazioni militari più intense rispetto al passato sul terreno artico [15].

Le parti precedenti di questa serie di articoli si possono leggere ai seguenti link:  La lotta per la Groenlandia (I)   La lotta per la Groenlandia (II) 

NOTE:

  • [1] Michael R. Pompeo: Looking North: Sharpening America’s Arctic Focus. 2027-2021.state.gov 06.05.2019.
  • [2], [3] Martin Selsoe Sorensen: “La Groenlandia non è in vendita”: Trump’s Talk of a Purchase Draws Derision. nytimes.com 16.08.2019.
  • [4] Rebecca Falconer: Trump suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero diventare proprietari della Groenlandia. axios.com 23.12.2024.
  • [5] Seb Starcevic: Trump rifiuta di escludere l’uso della forza militare per prendere la Groenlandia e il Canale di Panama. politico.eu 07.01.2025.
  • [6] Seb Starcevic, Eric Bazail-Eimil, Jack Detsch: La visita di Donald Trump Jr. è stata “inscenata”, dice il legislatore groenlandese. politico.eu 09.01.2025.
  • [7] Richard Milne, Gideon Rachman, James Politi: Donald Trump in una telefonata infuocata con il primo ministro danese sulla Groenlandia. ft.com 24.01.2025.
  • [8] Richard Milne: Donald Trump ridicolizza la Danimarca e insiste che gli Stati Uniti prenderanno la Groenlandia. ft.com 26.01.2025.
  • [9] Michael Paul: Grönlands arktische Wege zur Unabhängigkeit. SWP-Studio 2024/S 22. Berlino, 02.10.2024.
  • [10] Julian Staib: Perché Trump vuole la Groenlandia. Frankfurter Allgemeine Zeitung 09.01.2025.
  • [11] Colin Wall, Njord Wegge: La minaccia artica russa: conseguenze della guerra in Ucraina. csis.org 25.01.2023.
  • [12] Majid Sattar, Friedrich Schmidt, Julian Staib, Jochen Stahnke: La lotta per l‘artico. Frankfurter Allgemeine Zeitung 14.01.2025.
  • [13] EU-Militärchef für Stationierung von Soldaten auf Grönland. rnd.de 26.01.2025.
  • [14] Théo Bourgery-Gonse: La Francia pensa di inviare truppe UE in Groenlandia. euractiv.com 28.01.2025.
  • [15] Billy Stockwell, James Frater, Eve Brennan: La Danimarca aumenta la spesa per la difesa dell’Artico di 2 miliardi di dollari dopo l’interesse di Trump per la Groenlandia. edition.cnn.com 27.01.2025.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid.

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com

La compagnia teatrale Kepler-452 porta sul palco il soccorso in mare

Prima assoluta all’Arena del Sole a Bologna il 27 febbraio.

Il soccorso in mare va in scena, a teatro, con A place of safety – Viaggio nel Mediterraneo centrale, uno spettacolo ideato dalla compagnia Kepler-452 che ha navigato con Sea-Watch 5 a luglio 2024, soccorrendo 156 persone. Quell’esperienza è diventata uno spettacolo che porta sul palco le emozioni le riflessioni e le voci della società civile in mare.

Lo spettacolo è prodotto da Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Théâtre des 13 vents CDN Montpellier e in collaborazione con Sea-Watch e EMERGENCY.

Dopo il successo nazionale e internazionale de Il Capitale, che portava in scena la lotta degli operai del Collettivo di fabbrica GKN, Kepler-452 ha scelto di raccontare l’epocale sfida del soccorso in mare e delle sue evoluzioni negli anni. Fanno parte dello spettacolo storie decine di testimonianze di ricerca e soccorso nel Mediterraneo che diventano, nella drammaturgia, le tappe di una missione: dalle paure prima di partire, alle motivazioni che spingono a imbarcarsi, a ciò che accade quando ci si avvicina alla zona delle operazioni, al soccorso, fino poi al viaggio di ritorno verso il porto sicuro di sbarco.

A place of safety debutta al Teatro Arena del Sole di Bologna il 27 febbraio e, dopo quattro repliche, quasi sold out, tornerà in scena da ottobre in Italia e in Europa. Insieme ai soccorritori e all’attore Nicola Borghesi, fa parte del cast Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch.

“Vogliamo raccontare i dieci anni di soccorsi nel Mediterraneo centrale con un linguaggio nuovo” – spiega Linardi. Il teatro ci consente di abbracciare una prospettiva intima, che pone al centro l’impegno civile in mare attraverso le persone che si imbarcano alle frontiere d’Europa, indagandone le ragioni e contraddizioni. Portare il soccorso in mare sui palchi d’Italia è una grande responsabilità e un’opportunità unica di incontro con nuove persone, mentre con le nostre navi e i nostri aerei continuiamo a presidiare il Mediterraneo. Siamo felici di farlo nelle mani della Fondazione Emilia Romagna Teatro e della compagnia Kepler-452, che da anni con i suoi spettacoli avvicina il teatro alla realtà, e questa volta ha scelto di salire a bordo con noi per sentire e vivere quello che sentiamo e viviamo ogni giorno”.

Sea Watch

In Italia sempre più spesa sanitaria privata

Secondo i dati ISTAT del sistema dei conti della sanità (ISTAT-SHA), nel 2023 la spesa sanitaria totale in Italia è stata pari a € 176,1 miliardi. Una cifra che comprende la spesa pubblica (€ 130,3 miliardi) e quella privata, suddivisa nelle sue due componenti: la spesa out-of-pocket (€ 40,6 miliardi), sostenuta direttamente dalle famiglie, e la spesa intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (€ 5,2 miliardi). Le corrispondenti distribuzioni percentuali riflettono tre realtà di fatto: il sottofinanziamento pubblico, il carico economico sulle famiglie e l’ipotrofia del sistema di intermediazione. Infatti, il 74% della spesa sanitaria è pubblica, mentre della spesa privata l’88,6% è a carico delle famiglie e solo l’11,4% è intermediata. Sono alcuni dei dati del Report della Fondazione GIMBE sulla spesa sanitaria privata, commissionato dall’Osservatorio Nazionale Welfare & Salute (ONWS) e presentato al CNEL.

La spesa out-of-pocket, che nel 2023 ha raggiunto il 23% della spesa sanitaria totale (ben oltre il limite ideale del 15% indicato dall’OMS), si legge nel Report della Fondazione GIMBE, non può essere semplicemente ridotta attraverso un aumento della spesa intermediata. Per raggiungere questo obiettivo tre sono le principali azioni necessarie: potenziare il finanziamento pubblico, migliorare l’appropriatezza delle prestazioni e rimodulare i LEA per renderli sostenibili. In questo contesto, il secondo pilastro deve integrare il sistema pubblico, anziché tentare di sostituirlo, concentrandosi sulle prestazioni extra-LEA.”

Infatti, la Fondazione GIMBE lancia un allarme anche a proposito dei fondi sanitari, sottolineando come l’incapacità del SSN di garantire prestazioni in tempi adeguati aumenti il numero di iscritti ai fondi sanitari, mentre la crisi economica e l’inflazione continuano a limitare la possibilità di incrementare i contributi. Uno scenario che porterà ad un aumento della spesa out-of-pocket (che già oggi pone l’Italia al di sopra della media UE) per chi può permetterselo e a una crescente rinuncia alle cure da parte delle fasce più svantaggiate della popolazione, con un inevitabile peggioramento degli esiti di salute. In sostanza il secondo pilastro può essere sostenibile solo se integrato in un SSN “in salute”. Diversamente, sottolinea GIMBE, rischia di crollare insieme al sistema pubblico, spianando la strada alla privatizzazione della sanità, aggravando diseguaglianze e iniquità e tradendo l’articolo 32 della Costituzione e i princìpi fondanti del SSN.

Dal lavoro della Fondazione GIMBE emerge una situazione che spinge sempre di più verso la rinuncia alle cure. Infatti, la spesa sanitaria delle famiglie è sempre più “arginata” da fenomeni che incidono negativamente sulla salute delle persone: limitazione delle spese sanitarie, che nel 2023 ha coinvolto il 15,7% delle famiglie, indisponibilità economica temporanea per far fronte alle spese mediche (5,1% delle famiglie nel 2023) e rinuncia alle cure. In particolare, nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno dovuto rinunciare a visite o esami diagnostici, di cui 2,5 milioni per motivi economici, con un incremento di quasi 600.000 persone rispetto al 2022. Le differenze regionali sono marcate: 9 Regioni superano la media nazionale (7,6%), con la Sardegna (13,7%) e il Lazio (10,5%) oltre il 10%. Al contrario, 12 Regioni si collocano sotto la media, con la Provincia autonoma di Bolzano e il Friuli Venezia Giulia che registrano il valore più basso (5,1%).

Differenze tra Regioni che appaiono sempre più marcate: parametrando la spesa sanitaria trasmessa al Sistema Tessera Sanitaria alla popolazione residente ISTAT al 1° gennaio 2023, il valore nazionale è di € 730 pro-capite, con un range che va dai € 1.023 della Lombardia ai € 377 della Basilicata. Questa distribuzione evidenzia che le Regioni con migliori performance nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) registrano una spesa pro-capite superiore alla media nazionale, mentre quelle del Mezzogiorno e/o in Piano di rientro si collocano al di sotto. Ma per cosa spendono le famiglie? Secondo i dati ISTAT-SHA, le principali voci di spesa sanitaria delle famiglie includono l’assistenza sanitaria per cura (comprese le prestazioni odontoiatriche) e riabilitazione, che rappresenta il 44,6% del totale (€ 18,1 miliardi). Seguono i prodotti farmaceutici e apparecchi terapeutici (36,9%, pari a € 15 miliardi) e l’assistenza a lungo termine (LTC), che assorbe il 10,9% della spesa complessiva, per un totale di € 4,4 miliardi. “Tuttavia – spiega il Presidente della Fondazione GIMBEle stime effettuate nel report indicano che circa il 40% della spesa delle famiglie è a basso valore, ovvero non apporta reali benefici alla salute. Si tratta di prodotti e servizi il cui acquisto è indotto dal consumismo sanitario o da preferenze individuali quali ad esempio esami diagnostici e visite specialistiche inappropriati o terapie inefficaci o inappropriate”.

Qui per scaricare il Rapporto: https://salviamo-ssn.it/attivita/osservatorio/spesa-sanitaria-privata-2023.

Giovanni Caprio

Il liceo Rosa sciopera e scende in piazza

Partecipata la manifestazione sotto l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte contro il dimensionamento del Liceo Rosa con sedi a Susa e Bussoleno

CGIL e CUB hanno indetto al Rosa uno sciopero con una piattaforma che non lascia dubbi:
– L’esclusione, anche per gli anni futuri al 2025/2026, di ogni ipotesi di dimensionamento riguardanti l’Istituto
– La nomina di un Dirigente scolastico titolare dal 1° settembre 2025
– La tempestiva sostituzione del Dirigente reggente con l’affidamento della reggenza ad altro Dirigente scolastico

Massimiliano Rebuffo, segretario provinciale della CGIL-FLC, ha dichiarato che l’adesione allo sciopero è stata dell’80%.

La Dirigente reggente alla quale si fa riferimento nelle rivendicazioni è la Giaccone, Dirigente dell’Istituto Ferrari di Susa che nel 2022 è stata nominata reggente del Rosa. Nel comunicato stampa la CGIL-FLC spiega chiaramente la motivazione: “si è incrinato il rapporto con la comunità educante”.

Piattaforma pienamente condivisa con il comitato di cittadini “Insieme per il Rosa” i cui esponenti ci hanno ribadito con forza le rivendicazioni espresse in questo loro comunicato, anch’esso estremamente esplicito.

Alla manifestazione hanno partecipato i lavoratori (docenti e non docenti) del Rosa, genitori, studenti, molti esponenti del comitato “Insieme per il Rosa”. Una delegazione ha chiesto di parlare con Stefano Suraniti, dirigente dell’USR, il quale ha risposto – secondo quanto dichiarato al microfono da Rebuffo – rendendosi disponibile a ricevere solo genitori, studenti e lavoratori non sindacalizzati, in sostanza si è rifiutato di ricevere i rappresentanti sindacali.

Il “divide et impera” non ha tuttavia funzionato (a meno che lo scopo non fosse in realtà quello di non confrontarsi): non è salito nessuno, il patto tra lavoratori, studenti, cittadini e sindacati ha tenuto.

I manifestanti hanno scandito alcuni slogan: “Fateci Fateci Fateci salire”, “Non chiude la bocca, il Norby (Norberto Rosa n.d.r.) non si tocca”, “Tout le monde déteste la Giaccone”, e sono stati apposti dei post-it sul portone della sede dell’USR con le richieste scritte dai ragazzi.

Fabrizio Maffioletti