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La crociata anti-gender di Trump si conferma un cavallo di Troia per attaccare i diritti umani

Che la situazione fosse grave, ma non seria, avremmo dovuto capirlo già durante l’ultima campagna elettorale per le politiche del 2022. Era settembre, le elezioni dietro l’angolo e Federico Mollicone, al tempo candidato per Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati, tuonava: “È inaccettabile la scelta degli autori del cartone animato Peppa Pig di inserire un personaggio con due mamme. Ancora una volta il politicamente corretto ha colpito e a farne le spese sono i nostri figli. Ma i bambini non possono essere solo bambini?”.

Non potevamo saperlo, ma in quell’occasione la crociata contro il “gender” – e, contestualmente, contro il “woke” e il “politicamente corretto” – vedeva un punto di svolta. Non che prima le destre (estreme e non), le associazioni catto-integraliste e ben più di un appartenente a Santa Romana Chiesa non si fossero già espressi, in verità. Ma col governo dei patrioti la lotta alla temibile ideologia che rischia di trasformare in unicorni, drag queen o – peggio ancora – in gay e trans le generazioni più giovani, sarebbe diventata un punto qualificante dell’azione della nuova maggioranza politica. Non il caro bollette, non le politiche energetiche, non il salario minimo. Di fronte alle urgenze, cambia l’ordine di priorità. E la lotta al gender era (ed è tuttora) una di queste.

In effetti, un po’ ce la siamo cercata. Come apprendiamo in qualche accorato appello su giornali rigorosamente di destra da parte di attivisti gay e lesbiche che si dicono di sinistra, per poi dire cose di destra. E in cui si invita la comunità queer ad abbandonare massimalismi di sorta per essere più pragmatica. Dopo tutti questi anni – passati a imporre lo schwa, i femminili dei nomi di professione e altre catastrofi identitarie – che il maschio bianco, etero, borghese, cristiano corresse ai ripari dovevamo immaginarlo. Sarà il caso di passare in rassegna tutti i nostri errori, per evitare di ripeterli in futuro.

Innanzi tutto, abbiamo cominciato a invadere gli “spazi”. Anzi, per essere più precisi: abbiamo invaso gli spazi delle donne. A cominciare dai bagni. Il buon senso contemporaneo ci suggerisce che la separazione delle toilette per generi risponde a un’esigenza di sicurezza e di igiene. Ma non sempre è stato così. Ai tempi dell’antica Roma, ad esempio, tale distinzione non c’era e i bagni pubblici erano – con terminologia moderna – unisex. Spariti dalla scena pubblica col passare dei secoli, torneranno in voga dopo la rivoluzione industriale. Nelle fabbriche, in primis. Ma anche nei bar, nei pub, nei luoghi pubblici. Dove però c’erano solo quelli per uomini. Anche perché ad avere una vita sociale erano proprio i maschi. Avere dunque bagni separati fu un’esigenza portata avanti dalle associazioni femministe di fine Ottocento. 

Le donne (ma anche gli uomini) transgender chiedono di poter accedere ai bagni del genere in cui si riconoscono per le stesse identiche esigenze di sicurezza e di discrezione. Non deve essere facile, per una persona trans, condividere certi spazi con chi potrebbe deriderla, insultarla o addirittura aggredirla in ragione della sua identità di genere. Chi si dice contrario, invece, scomoda ragioni di sicurezza. Se basta definirsi donne per essere tali, è la critica mossa, chiunque potrà entrare nei bagni delle donne e, con la scusa, molestare o compiere abusi sessuali. D’altro canto, lo zelo anti-trans può anche andare contro le stesse donne cisgender. Come è successo, negli USA, dove la deputata repubblicana Lauren Boebert ha scambiato un’avventrice, dalle apparenze forse un po’ troppo mascoline, per la deputata transgender Sarah McBride nei bagni del Campidoglio, intimandole a lasciare il posto. Salvo poi capire che aveva compiuto un grosso errore.

Per fortuna ci pensa la nuova era trumpiana, che corre ai ripari e difende le donne combattendo "il gender". E con il benestare delle terf. Basterà vietare alle adolescenti transgender di poter usare le toilette femminili e le violenze spariranno. Evidentemente per chi difende questa scelta sarà sufficiente scrivere “ladies” sulla porta del bagno per impedire – un po’ come accade ai vampiri coi crocifissi – a orde di maniaci sessuali e di stupratori di intrufolarsi nei luoghi riservati alle donne (quelle “vere”). Chissà perché non ci abbiamo pensato prima!

Stessa cosa per le persone trans nel mondo dello sport. A leggere i siti specializzati delle cosiddette radfem, negli USA si assisterebbe a una vera e propria piaga sociale: eserciti di uomini che, attraverso una semplice dichiarazione, si improvvisano donne per rubare titoli, trofei, borse di studio e medaglie olimpioniche alle “donne bio”. Persone, ricordiamolo, che si sottopongono ad anni di terapie ormonali, mettendo a repentaglio le proprie reti di relazioni e amicizie, e affrontando stigma e rischio persecuzioni: tutto questo, a sentire certi ambienti, nella speranza di poter far carriera negli sport femminili.

Il caso Lia Thomas dovrebbe far scuola, almeno secondo certo femminismo gender critical per cui l’atleta trans da un giorno all’altro avrebbe deciso di farsi chiamare Lia per poter competere con delle avversarie facilmente sbaragliabili, incurante così di fornire un facile cavallo di battaglia ai Repubblicani. Peccato che esista Wikipedia, non a caso ora presa di mira dalla destra americana e da Musk. Lì possiamo scoprire che, prima della transizione, Lia “è giunta sesta ai campionati di nuoto maschili delle scuole superiori statali, gareggiando per la Westlake High School”. E, ancora, che “ha iniziato a nuotare nella squadra di nuoto maschile dell'Università della Pennsylvania nel 2017” raggiungendo “il sesto tempo nazionale maschile” e collocandosi, sempre prima della transizione “tra i primi 100 a livello nazionale”, arrivando al secondo posto nello stile libero maschile nel 2018-19. Dopo il coming-out e le terapie ormonali, le sue prestazioni sono calate di conseguenza, e pur avendo vinto delle gare i suoi tempi non brillavano certo per eccezionalità

Ma del resto, quando ci sono di mezzo atlete transgender, comunque vada sono colpevoli: se vincono è la prova di un vantaggio ingiusto; se perdono, o hanno risultati modesti, qualcuno le accuserà di farlo apposta per non generare sospetti sul vantaggio ingiusto. E se non competono, allora bisogna inventarsele, come per Imane Khelif, che ancora molte testate si ostinano ad accostare alla parola “trans”, come in questo articolo del Telegraph che usa la sua foto per commentare gli ordini esecutivi di Trump. Perché alla fine, sempre di “maschi biologici” si tratta, no? Così si loda persino Trump perché con la mano destra “difende la scienza” in nome dei cromosomi, mentre con l’altra distrugge l’immunologia nominando Robert F. Kennedy, Jr. alla Sanità e la climatologia sposando un’agenda negazionista. Poco importa se nella sua difesa “scientifica”, la definizione di sesso sia abbastanza discutibile, e soprattutto venga posta al “concepimento”, aprendo la strada alle leggi anti-aborto. 

Sarebbe interessante, ancora, capire come la pensano le terf e tutta la cosiddetta galassia gender critical sul nuovo corso trumpiano, dopo i furiosi dibattiti efficacemente portati avanti dai repubblicani, ora che conquiste quali l’interruzione di gravidanza sono seriamente messi in pericolo. E ora che gli spazi riservati alle donne sono sempre meno. Come si legge su Wired, e rilanciato nei loro spazi on line dalle scrittrici Licia Troisi e Vera Gheno, “un ordine ufficiale avrebbe imposto” alla NASA “di rimuovere tutti i riferimenti alle scienziate dalle sue pagine web”. Ah, se solo le scienziate non avessero insistito a mettere i pronomi sui profili social! Ironia a parte, la sensazione è che non ci sia lo stesso muro di fuoco con quella destra con cui sono andate a braccetto negli ultimi anni, in USA come in Italia, almeno dai tempi delle unioni civili e dell’affossamento del ddl Zan. 

Intanto la lotta contro il "gender", al di qua e al di là dell’oceano, va avanti senza esclusione di colpi. Trump, infatti, “makes America transphobic again” addossando a una donna trans il disastro aereo del 29 gennaio scorso, a Washington. Scopo nobile, nell’ottica repubblicana: dimostrare i nefasti effetti delle politiche di inclusione della precedente amministrazione. Peccato che fosse una notizia falsa. Al centro della polemica c’è finita Jo Ellis, aviatrice della Guardia Nazionale, e indicata come la pilota dell'elicottero Black Hawk, entrato in collisione con un aereo passeggeri, provocando la morte 67 persone. Ellis è comparsa in tv, dimostrando di non essere morta. E, dunque, di non aver mai pilotato quell’elicottero. Per sicurezza, l’amministrazione Trump si sta comunque impegnando a cancellare le persone trans ovunque, a partire dalla storia del paese e proseguendo alla ricerca scientifica e medica, dove un intero vocabolario è a rischio. Ve le ricordate le polemiche sulle statue e i “talebani” che volevano "cancellare" la storia? A quanto basta votare le persone giuste e poi si può cancellare, stavolta per davvero.

Nel frattempo, anche qui nel Belpaese la battaglia contro “gender” e persone trans non conosce sosta. Di recente, Massimo Prearo – ricercatore dell’Università di Verona – ha pubblicato, su Instagram, un post con due immagini. In una si vede l’ultima fatica letteraria del leghista Rossano Sasso (non c’è ironia) intitolata Il gender non esiste, titolo a cui segue l’ormai tradizionale slogan Giù le mani dai nostri figli. Nell’altra, una locandina di un’iniziativa “con lo stesso titolo, ma con sottotitolo un po' diverso” come fa notare lo studioso: Il gender non esiste. Transattivismo all'assalto di donne e bambini.

Il gruppo che ha organizzato l’evento, ricorda ancora Prearo, “si definisce ‘femminista radicale’” e “mette in forma e mobilita una versione ‘gender-critical’ del discorso anti-gender […]. Un discorso che vede nelle persone trans, nelle rivendicazioni LGBTQIA+, e nelle teorie queer un nemico da combattere […] da cancellare”. Anche qui, è certamente nobile l’intento di preservare le generazioni più fragili. Sarebbe interessante, tuttavia, capire come fanno queste femministe radicali ad adottare lo stesso identico linguaggio di una compagine politica che non brilla certo per femminismo. E ci dovrebbe spiegare il leghista in questione, che non vuole si mettano le mani sui bambini, come concilia questa missione con il sostegno a un governo che ha liberato un tale Almasri, ricercato internazionale anche per violenze e stupri (anche su minori) commessi nel carcere che dirigeva. A meno che non si voglia far credere che la lotta “all’ideologia di genere” sia più importante del principio di coerenza.

Nell’attesa di una risposta a questi interrogativi, va ricordato che a Perugia, il 28 gennaio scorso, durante un incontro sui disturbi alimentari in Comune, Clara Pastorelli (in quota FdI) ha chiesto ad alcune esperte se alla base del problema non ci fosse lo zampino del “gender”: “Al di là delle ideologie, vorrei capire secondo voi operatori che aiutate questi bambini e ragazzi quanto una parte di questa società e una parte politica che porta avanti politiche che cercano di confondere, aprire a tante possibilità quella che è la formazione della propria identità, principalmente sessuale, va a incidere oggi con dati concreti sulla crescita di questi disturbi”. Domanda dal vago sapore trumpiano, secondo Omphalos, la storica associazione Lgbtqia+ cittadina che ha aspramente criticato la patriota. A meno che, forte della vibrante denuncia del già citato Mollicone, Pastorelli non si sia convinta che vedendo Peppa Pig le nuove generazioni si rifiutino di mangiare derivati animali.

In tutto questo, la triade "gender-woke-politically correct" non perde occasione di insidiare il mondo dei più piccoli intrufolandosi anche tra i loro giochi. O almeno così lascerebbero intendere Il Giornale e Hoara Borselli, ancora in un video su Instagram. “L’ultima deriva woke ha colpito i Lego etichettandoli come omofobi. Al Science Museum di Londra l’audioguida afferma che i celebri mattoncini colorati possono rafforzare l’idea che l’eterosessualità “è la norma”. Il motivo? Le persone descriverebbero i mattoncini come aventi parti maschili o femminili che sono fatte per “accoppiarsi” tra di loro. La fine del buonsenso, insomma”.

Peccato che le cose non siano andate esattamente così. Il sito Pink News prova a far chiarezza. La sezione del museo dedicata ai Lego riporta le seguenti parole (di cui riporto la traduzione): "Come altri connettori e dispositivi di fissaggio, i mattoncini Lego sono spesso descritti in modo di genere. La parte superiore del mattoncino con i perni sporgenti è maschile, la parte inferiore del mattoncino con i fori per ricevere i perni è femminile e il processo di assemblaggio dei due lati è chiamato accoppiamento". E quindi: "Questo è un esempio di applicazione del linguaggio eteronormativo a temi non correlati a genere, sesso e riproduzione. Illustra come l'eteronormatività [...] modella il modo in cui parliamo di scienza, tecnologia e del mondo in generale". Il focus era sulla presenza di un linguaggio sessuato nella scienza e nella tecnologia. Ma nessuno ha mai dichiarato che i Lego siano omofobi o che promuovano i due generi.

In buona sostanza ciò che emerge, in tutti i casi riportati – e fuor da ogni ironia, per quanto tragica – è una duplice attitudine. In primo luogo, c’è un certo vittimismo. Gli attori politici e culturali riconducibili al campo delle destre sovraniste e suprematiste agitano un pericolo, di solito inventato o manipolato oltre misura, da cui si sentono sotto assedio. Ciò procura un allarme sociale più diffuso, che necessita di un nemico comune – e facilmente riconoscibile – da identificare come minaccia collettiva. Specialmente contro donne e, soprattutto, bambini. Una retorica già adottata in epoche passate contro altre minoranze le cui conseguenze sono state tristemente note. Nel caso della comunità LGBTQIA+, ad esempio, con l’equiparazione alla pedofilia. O l’appiattimento dell’identità gay all’HIV.

Per la seconda evidenza bisognerà scomodare il termine “repressione”. Per anni le forze conservatrici, ma anche quelle neoliberali e borghesi, hanno visto con sospetto la rabbia delle popolazioni afrodiscendenti contro le statue dei coloni schiavisti. O la necessità di problematizzare pellicole datate, in cui razzismo e sessismo sono ingrediente principale di certe narrazioni. O ancora la necessità di adottare linguaggi più rispettosi delle differenze, quando questi linguaggi riguardano la comunità queer, le donne, le persone disabili, razzializzate, e così via. E scomodando termini ideologicamente scellerati – uno tra tutti: cancel culture – per demonizzare il conflitto e le questioni poste dalle categorie marginalizzate e discriminate.

Invece di rispondere all’esigenza di superare quella visione del mondo, violenta e discriminatoria, si mette in campo la vecchia repressione: quella di un sistema di (dis)valori che si abbatte contro tutte le categorie succitate. Oggi tocca in prima istanza alle donne, che vedono ridotti diritti e spazi di rappresentazione, e alla stessa componente transgender. Agitando lo spettro “dell’ideologia gender”, che altro non è che un cavallo di Troia per cancellare de facto i diritti delle donne; e cavalcando l’ondata transfobica, ulteriore trojan che, sul medio e lungo periodo, colpirà i diritti della restante galassia LGB+. E un domani potrebbe riguardare altre categorie ancora, che oggi si sentono o fuori pericolo o addirittura protette. E ritenere che tale cancellazione non ci riguardi, perché non ci tocca in prima persona, è l’errore più grossolano che potremmo commettere. L’errore da evitare assolutamente.

(Immagine anteprima via Flicrk)