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PIL, lavoro, industria: l’Italia è fragile e il governo Meloni non ha una politica economica

Siamo tornati a una situazione di non-crescita. Il nostro paese, che da trent’anni presenta una situazione economica estremamente fragile, aveva vissuto durante il governo Draghi e poi quello Meloni un rimbalzo post pandemico. Il PIL aumentava, mentre l’occupazione raggiungeva livelli record. Ma oggi quel rimbalzo sembra ormai esaurito: come testimoniano i dati, la crescita italiana è sempre più stagnante, mentre l’occupazione ha avuto una battuta d’arresto negli ultimi mesi dell’anno, anche se modesta. 

I segnali che indicavano l’estrema fragilità della crescita italiana si potevano già percepire: i dati sulla produzione industriale lo segnalavano da tempo, con un calo che va avanti dai tempi del governo Draghi. Eppure, nonostante le prospettive per la nostra economica siano tutt’altro che rosee, non vi è alcuna flessione nelle intenzioni di voto ai partiti che compongono la maggioranza. Questo è particolarmente preoccupante proprio alla luce della politica economica portata avanti dal governo Meloni, orientata a misure di corto raggio a discapito di riforme e programmazione sul lungo periodo per cercare di fermare il declino del paese. 

La situazione odierna: PIL, occupati, produzione industriale

Partiamo da una rapida panoramica sui principali indicatori macroeconomici, concentrandoci su tre di questi. 

Il punto di partenza è chiaramente il PIL. Nel quarto trimestre del 2024, secondo le stime preliminari dell’ISTAT, la crescita del PIL è rimasta stazionaria rispetto al trimestre precedente, con un lieve aumento invece rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Questo comporterebbe una crescita su base annua dello 0,5 per cento, nonostante le precedenti stime di crescita della Commissione Europea dello 0,7 fossero già al di sotto della media europea. Le stime del Governo, contenute nel documento programmatico di Bilancio, stimavano una crescita nel 2024 intorno all’1 per cento. 

Un altro fattore di preoccupazione è che la crescita acquisita per il 2025 risulta, secondo queste stime preliminari, pari a zero. Questo significa che non c’è alcun supporto dell’anno passato per la crescita dell’anno corrente, delineando una strada tutta in salita. 

Il secondo dato riguarda l’occupazione. Nel corso degli ultimi anni l’occupazione è cresciuta fino a raggiungere il record dagli anni Settanta. Tuttavia, da alcuni mesi si assiste a una situazione meno rosea. Come fa notare una nota dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), già nei mesi estivi, nonostante la buona performance del mercato del lavoro, le ore lavorate pro capite sono diminuite in tutti i settori. Ciò è dovuto, scrive l’UPB, al fenomeno del labour hoarding: quando l’economia è in fase di stagnazione le imprese scelgono di mantenere i dipendenti non utilizzati per non incorrere in costi di licenziamento qualora la situazione migliorasse. Nei mesi autunnali, invece, si è assistito a un lieve rallentamento, con un calo dello 0,1 per cento. 

Il terzo e ultimo dato, forse quello più preoccupante vista la tendenza, riguarda il calo della produzione industriale. Secondo i dati diffusi, si è assistito a un calo del 3,5 per cento nel mese di dicembre rispetto a novembre. Su base annua il calo è ancora più impressionante, arrivando al 7,1 per cento rispetto a dicembre 2023. Un valore che deve essere visto in una situazione di già profonda difficoltà dell’industria nel nostro paese: il calo della produzione industriale nell’anno 2023 era stato intorno al 2 per cento. Se allarghiamo l’orizzonte, i grafici ISTAT mostrano come la produzione industriale sia oggi inferiore rispetto ai valori pre-pandemia. 

Il Sole 24 Ore ha stimato che il costo in termini di incassi si aggira attorno ai 42 miliardi di euro nell’anno appena passato. Per quanto vi sia eterogeneità tra i settori, gli unici che hanno registrato una crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente sono stati quello estrattivo, con un aumento del 17,4 per cento, e quello della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria, con un incremento del 5 per cento. Al contrario, si sono osservate significative flessioni in altri settori: la produzione di mezzi di trasporto è diminuita del 23,6 per cento, le industrie tessili, dell’abbigliamento, delle pelli e degli accessori hanno registrato un calo del 18,3 per cento e la metallurgia che ha invece chiuso con un -14,6 per cento.

Un report del centro di ricerca Prometeia ci permette di avere una situazione comparata rispetto ai nostri partner e un prospetto di quello che ci attende nel 2025. Sia Francia sia Spagna, escludendo il comparto energetico, hanno registrato un calo su base mensile di 0,7 e 0,4 per cento rispettivamente. Al contrario la Germania, che si trova da anni in una situazione economica delicata, ha registrato un calo del 3,3 per cento.  

Come rileva sempre il report di Prometeia, non ci sono segnali di miglioramento all’orizzonte. A gennaio, il clima di fiducia tra le imprese manifatturiere italiane ha registrato un lieve aumento, ma rimane comunque su livelli molto bassi. Inoltre, le aspettative per il futuro non indicano alcun cambiamento significativo rispetto alla situazione attuale, lasciando poco spazio all’ottimismo. Si vanno infatti ad aggiungere fattori esogeni che potrebbero compromettere la performance della manifattura italiana. 

Su tutti, il più grave rischio resta quello dei dazi degli Stati Uniti. Il Presidente Donald Trump ha infatti attaccato il deficit commerciale sui beni con l’Europa, puntando su misure protezionistiche per riequilibrarlo. È probabile che questo si rifletta sulla produzione industriale europea, almeno nel breve periodo, se non saranno trovati nuovi mercati o se non si sostituisce con la domanda interna. Tra i paesi più esposti ci sono Germania e, appunto, Italia. 

Il problema è strutturale, ma il governo Meloni non vuole affrontarlo

Concentrandosi sul dato della produzione industriale, è necessario evidenziare quali siano i fattori dietro a questo calo. E, soprattutto, se questa situazione non segnali anche una debolezza più strutturale del tessuto economico italiano. 

Il leader di Confindustria Emanuele Orsini ha sostenuto che, a differenza della Germania, la situazione nel nostro paese non è strutturale, ma dipende da vari fattori contingenti. Come riportato da Il Sole 24 Ore, secondo Orsini: 

Ci sono due settori, auto e moda-tessile abbigliamento, con gravi perdite a doppia cifra. Ci sono poi i settori energivori che perdono in maniera rilevante per l’aumento dei costi, e ci sono settori, come i beni intermedi e i beni strumentali per la produzione, macchinari e robotica, che perdono per il freno agli investimenti nel nostro paese. Tutto questo, in assenza di correzioni drastiche, rischia di contaminare anche settori che finora stanno tenendo a galla con fatica l’economia italiana.

Uno dei temi principali resta, quindi, quello dei costi dell’energia. I rincari, non solo per le imprese ma anche per le famiglie, sono stimati intorno al 31 per cento. Un tale aumento dei costi di produzione rischia di essere un macigno sui beni italiani, soprattutto sull’export che rappresenta una componente principale del mercato. Il governo Meloni però non è ancora intervenuto su questo nuovo aumento: il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Pichetto Fratin punta sul nucleare, che non ha alcun effetto sull’immediato. Non solo: per quel che riguarda l’export, la crisi tedesca ha indubbiamente un effetto contagio in Italia. Le imprese di beni intermedi italiane vendono a quelle tedesche e anche i dati confermano la sincronizzazione tra i due paesi.  

Ma se è vero che vi sono dei fattori contingenti, il tessuto industriale italiano presenta problemi che sono ben più radicati. Dopo la fine della stagione dello Stato Imprenditore, con la privatizzazione dell’IRI, il nostro paese ha esacerbato un dualismo all’interno dell’industria - e in generale della nostra economia - con poche imprese di grandi dimensioni che sono in grado di competere sul mercato globale e una marea di piccole e medie che invece arranca. Inoltre, si è assistito a una sempre maggior enfasi su settori a basso valore aggiunto e nei servizi, come quello del turismo di cui il governo sottolineava l’ottima performance. 

La natura persistente del problema indica che le soluzioni non possono essere trovate, se non quelle tampone, in tempi rapidi. Al contrario,  richiedono una visione strategica di lungo periodo. 

Ma il governo Meloni sta facendo qualcosa  in tal senso? Se si esamina la linea di politica economica seguita dal governo nel corso di questi anni, attraverso le finanziarie e altri provvedimenti, si nota una totale assenza di programmazione. Il governo Meloni tratta i problemi dell’industria italiana soltanto a parole, denunciando sì le decisioni di Stellantis, ma senza intervenire, come aveva detto, per garantire un nuovo produttore italiano. Lo stesso Ministro Adolfo Urso parla di tutto, tranne che di impresa: nel corso degli anni ha lanciato proposte mirabolanti, come “aggiungi un posto a tavola”, che non hanno alcun effetto sulla crescita e sul benessere del paese. D’industria, salvo in casi eccezionali ed emergenziali, non si parla. 

Anzi, stando alle misure principali, il governo Meloni sembra andare addirittura nella direzione opposta, puntando più su politiche sul lato domanda che sul lato offerta. Per comprenderlo è bene riprendere i due provvedimenti di maggior importanza intrapresi dal governo nel corso di questi anni in materia di politica economica: il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento degli scaglioni IRPEF. Quello che accomuna le due misure è il tentativo di intervenire sui salari netti, aumentandoli con un taglio delle trattenute da parte dello stato. Anche le promesse del governo, come quella di ridurre la seconda aliquota IRPEF dal 35 al 33 per cento per aiutare il ceto medio, sembrano andare nella stessa direzione. 

Una strategia di questo tipo poteva forse essere condivisibile in un periodo emergenziale di elevata inflazione, come quello che  si è trovato ad affrontare il governo Draghi e nel primo anno e mezzo il governo Meloni. In un contesto in cui l’inflazione è in calo - se non appunto su beni come l’energia - servirebbe invece un piano non tanto per aumentare i salari netti, bensì quelli lordi. 

Perché è così importante parlare di salari lordi, se alla fine ai lavoratori arriva quello netto con cui spendono e risparmiano? Il motivo risiede nella relazione, estremamente complessa, tra il salario e la produttività, un indicatore cruciale che misura il rapporto tra la quantità di output e di input. Ci permette, cioè, di comprendere se le risorse come il lavoro e il capitale sono utilizzate in maniera efficiente. Se le aziende sono più produttive e quindi più efficienti nella produzione, possono permettersi stipendi più elevati per i dipendenti. Questo è il problema del tessuto industriale italiano da almeno trent’anni a questa parte: una produttività in calo che si riflette sui salari, impoverendo il paese e rendendolo meno competitivo. Per affrontarlo, serve una strategia più incisiva e ragionata rispetto a un taglio del cuneo fiscale che, come mostrano le evidenze comparate, non è che la punta dell’iceberg. 

Il governo Meloni non ha un piano, ma nemmeno l’opposizione

Se la situazione economica non è più complicata di quanto già non fosse, ciò che preoccupa è invece un governo che anche di fronte a problemi urgenti non riesce a essere incisivo. Il governo Meloni sembra più interessato a controllare l’agenda mediatica con attacchi a settori come la magistratura, per cercare di sviare i problemi dell’economia. Quest’ultimo tema, un tempo al centro del dibattito pubblico, è via via scomparso, quasi come se il paese avesse accettato la strada di declino imboccata trent’anni fa. Il governo ha preferito così concentrarsi su piccoli contentini nell’immediato rispetto a politiche più incisive, il tutto mediante uno strumento che si presta bene alla narrazione della destra italiana: quello delle tasse. 

Se il governo non ha un piano, però, nemmeno l’opposizione sembra in grado di sfruttare i problemi sul fronte economico per far breccia nell’elettorato. Sia il PD sia gli altri partiti di opposizione riescono a malapena a scalfire la superficie del dibattito, spesso andando a riprendere gli argomenti portati dalla destra più che cercando di imporre la propria narrazione e denunciando  l’inadeguatezza del governo davanti alla situazione in cui si trova il paese.

Allo stesso tempo, data la natura continentale del problema, anche l’Europa deve ripensare la sua strategia industriale alla luce delle tensioni geopolitiche. Questo passa inevitabilmente da un rilancio della politica industriale europea, soprattutto per sostenere settori come quello automobilistico, con  il duplice scopo di aumentare la produttività e contrastare la crisi climatica. Se  questo sforzo è necessario, allo stesso tempo va coniugato con politiche per rafforzare i diritti dei lavoratori e i salari, dopo decenni di quota salari in discesa, al fine di supportare la domanda interna.

(Immagine anteprima via governo.it)