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Politica

Meno tasse soltanto per pochi ricchi

Da mesi nel Governo italiano si discute sulla possibile riduzione dell’aliquota fiscale del 35%, che si applica ai redditi delle persone fisiche da 28.000 a 50.000 euro.

In particolare Forza Italia propone di diminuire la percentuale di 2 punti, scendendo al 33%.

Non solo: di estendere questa aliquota anche ai redditi tra 50.000 e 60.000 euro, attualmente tassati al 43%.

Questa modifica dell’aliquota IRPEF, secondo i proponenti, dovrebbe servire ad agevolare il ceto medio.

Ma se si prendono in considerazione gli ultimi dati disponibili sulle dichiarazioni fiscali (del 2023 riferite ai redditi del 2022), si vede chiaramente che il ceto medio non c’entra nulla con queste proposte.

Per comprendere l’effettivo impatto dell’eventuale riduzione dell’aliquota al 33% e dell’applicazione anche ai redditi fino a 60.000 euro, si può calcolare il risparmio in base ai diversi livelli di retribuzione.

Chi guadagna 30.000 euro pagherebbe 40 euro in meno di imposta all’anno.

Con 40.000 euro di reddito lo sconto sarebbe di 240 euro.

Chi ha un reddito di 50.000 avrebbe 440 euro e dai 60.000 euro in su il risparmio sarebbe di 1.440 euro.

In sintesi, si tratterebbe di una riduzione evidentemente contraria al criterio della progressività costituzionale, perché la diminuzione dell’imposta si accentua con l’aumento del reddito.

Resta da vedere quanti potrebbero essere i contribuenti favoriti da queste riduzioni di tasse e se davvero appartengono al ceto medio.

I contribuenti che avrebbero il massimo risparmio (1.440 euro) sono quelli con redditi superiori a 60.000 euro.

Si tratta di 1.756.284 persone, che corrispondono al 4,23% del totale.

Se anche volessimo considerare i 762.699 contribuenti con redditi da 50.000 a 60.000 euro, che avrebbero un vantaggio crescente compreso tra 440 e 1.440 euro, si tratterebbe dell’1,84% del totale.

A questo punto sorge spontanea la domanda: che senso ha agevolare soprattutto il 6% dei contribuenti più ricchi?

Anche allargando il calcolo a tutti coloro che avrebbero uno sconto (anche se minimo), cioè a partire dai redditi di 28.000 euro a cui si applica l’aliquota attuale del 35%, si tratterebbe in totale del 25% dei contribuenti.

Detto in altro modo, il 75% dei contribuenti, quelli con i redditi meno elevati, non trarrebbe alcun beneficio da questa modifica dell’IRPEF.

Perciò, affermare che la riduzione dell’aliquota del 35% andrebbe a vantaggio del ceto medio, se l’aggettivo “medio” ha un senso, è palesemente falso.

In tutta questa vicenda quello che più stupisce è la quasi mancanza di obiezioni sia da parte delle altre forze politiche sia degli organi di informazione.

Ogni volta che si parla della proposta di Forza Italia non c’è nessuno che mostri e dimostri, numeri alla mano, che andrebbe soltanto a favore dei più abbienti.

Nulla ai più poveri e nemmeno al ceto medio indicato espressamente come beneficiario.

Non solo: la riduzione delle imposte dovute dai contribuenti più ricchi, comporterà una minor disponibilità di risorse, che di fatto si trasformano in una riduzione dei servizi per tutti e questa diminuzione di fatto colpisce maggiormente chi è più in difficoltà.

Di conseguenza il vantaggio per i più ricchi si trasforma anche in uno svantaggio per tutti gli altri.

Il commediografo inglese Noel Coward ha scritto: “È sorprendente quante persone sono turbate dall’onestà e quante poche dall’inganno”.

E forse aveva ragione anche Pier Paolo Pasolini: “Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.

Rocco Artifoni

Stati Uniti, decine di proteste contro le politiche di Trump e Musk

In seguito al licenziamento di migliaia di dipendenti pubblici predisposto dal nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE), guidato dal miliardario Elon Musk e voluto da Trump, in alcune zone degli Stati Uniti si sono registrate proteste contro le politiche del fondatore di Tesla e del presidente della Casa Bianca. In particolare, centinaia di persone si sono radunate davanti alle concessionarie Tesla a New York, Kansas City e in tutta la California per protestare contro i tagli del DOGE. Gli organizzatori hanno riferito di almeno 37 dimostrazioni in uno sforzo coordinato attraverso gli hashtag social TeslaTakedown e TeslaTakover, con i manifestanti che hanno agitato cartelli con le scritte “Detronizzate Musk”, “Nessuno ha votato Elon Musk” e “Fermate il colpo di Stato”. In alcuni Stati democratici, inoltre, sono partite le rivendicazioni contro le politiche riguardanti i diritti all’aborto e delle persone transgender.

Attraverso il DOGE, istituito per ridurre la burocrazia statunitense, Musk ha finora licenziato più di 9.500 dipendenti federali che si occupavano di tutto, dalla gestione dei terreni federali all’assistenza dei veterani militari. I licenziamenti si aggiungono ai circa 75.000 lavoratori che hanno accettato una buonuscita offerta da Musk e Trump. Il presidente statunitense ha affermato che il governo federale è saturo e che troppi soldi vengono persi a causa di sprechi e frodi. Il governo ha circa 36 trilioni di dollari di debito e ha avuto un deficit di 1,8 trilioni di dollari l’anno scorso: c’è un accordo bipartisan sulla necessità di riforme. Tuttavia, l’ondata di licenziamenti ha causato proteste sia tra i dipendenti licenziati che tra i cittadini: molti lavoratori pubblici hanno affermato di sentirsi traditi dallo Stato che hanno servito per anni.

Trump e Musk hanno chiuso quasi completamente alcune agenzie governative come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Quest’ultimo era uno dei pochi uffici rimasti dalla crisi del 2008 con lo scopo di aiutare finanziariamente i cittadini comuni, ma è accusato dai repubblicani di abuso di potere. In risposta alla chiusura di queste Agenzie, è nata una nuova rete di dipendenti federali organizzata per contrastare i tagli nel settore pubblico, chiamata Federal Unionists Network (FUN).

Chris Dols, uno dei membri fondatori, ritiene che l’attacco al CFPB abbia chiarito qual è il vero obiettivo di Musk e Trump. «[Il CFPB] è la protezione dei consumatori contro le frodi», ha affermato, aggiungendo che «I truffatori se la sono presa con l’agenzia anti-truffa». In altre parole, secondo Dols, se Trump e Musk si preoccupassero davvero di ridurre gli sprechi e le frodi e di migliorare la vita dei lavoratori rafforzerebbero ed espanderebbero la portata del CFPB, anziché tagliarla.

Alcuni manifestanti, soprattutto negli Stati di stampo più “progressista” come la California, hanno messo in dubbio la legittimità di Elon Musk, sostenendo che nessuno lo ha votato e radunandosi fuori dalle concessionarie Tesla per protesta. Più di una trentina di eventi contro l’oligarca sudafricano naturalizzato statunitense sono andati in scena in varie parti degli USA, come riportato sul sito Action Network, dove si invitano le persone che possiedono delle Tesla o azioni della società a disinvestire, vendere il proprio veicolo e unirsi alle proteste. Le dimostrazioni seguono le notizie di incendi dolosi e danneggiamenti dei saloni Tesla in Oregon e Colorado. Alcuni investitori temono che il sostegno di Musk a Trump possa influenzare le vendite e sottrarre tempo allo sviluppo del marchio automobilistico: a gennaio le azioni Tesla hanno intrapreso una rapida discesa e anche le vendite risultano in calo.

La Casa Bianca ha affermato che Musk opera come dipendente governativo speciale non retribuito. Tale qualifica è riservata ufficialmente a coloro che lavorano per il governo per 130 giorni o meno in un anno. Fino ad ora, il DOGE ha chiuso l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e sta cercando di chiudere il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB). Inoltre, come parte di una lotta alle politiche “woke“, Musk ha affermato che il suo team ha «risparmiato ai contribuenti oltre 1 miliardo di dollari in folli contratti DEI (diversità, equità e inclusione)».

L'Indipendente

I centri per migranti in Albania: un fallimento senza vergogna

I lavoratori, assunti a seguito dell’accordo tra Italia e Albania, sono stati licenziati nei giorni scorsi per “manifesta inutilità”. Assistiamo all’ennesimo fallimento delle politiche migratorie, peraltro in questo caso sbandierato come un grande successo da parte del nostro governo.

Gli accordi tra Italia e Albania per la creazione dei centri di trattenimento dei migranti si sono rivelati un completo insuccesso. Questo è evidente poiché tutti i migranti trasferiti dall’Italia a questi centri sono stati rapidamente rimandati indietro. Il fallimento è ulteriormente confermato dal licenziamento del personale impiegato per la gestione dei centri.

Il primo a riportare il licenziamento è stato il quotidiano “Domani“, che ha ottenuto la comunicazione con cui la cooperativa Medihospes ha terminato il contratto con i lavoratori impiegati nei centri in Albania.

La Medihospes è una cooperativa italiana specializzata in assistenza sociale e sanitaria, con sede a Roma. Opera in diverse strutture nel Lazio, in Puglia e in Basilicata. Dallo scorso ottobre, Medihospes è attiva anche in Albania dove, dopo aver vinto un bando di 134 milioni di euro indetto dal Ministero dell’Interno, gestisce i centri di Shengjin e Gjader, sebbene queste strutture non siano indicate sul loro sito.

Per questo progetto, la cooperativa ha reclutato mediatori culturali, autisti, medici, consulenti legali, addetti alle pulizie, psicologi, personale amministrativo, esperti informatici e altre figure professionali.

Il licenziamento, in vigore dal 15 febbraio, coinvolge la maggior parte dei dipendenti. Soltanto il personale essenziale resterà in servizio, tra cui alcuni medici, addetti alle pulizie e agenti di sicurezza.

L’accordo tra Italia e Albania

Il progetto stabilito dall’accordo tra Italia e Albania prevede la realizzazione di due centri: il primo a Shengjin, lungo la costa, dove attraccano le navi italiane che trasportano i migranti dall’Italia all’Albania. A Shengjin si svolge lo sbarco e l’identificazione dei migranti, un processo che è stato ripetuto più volte, incluso al momento dell’imbarco in Italia. Dopo lo sbarco e l’identificazione, i migranti vengono trasferiti al secondo centro, situato a Gjader, nell’entroterra albanese.

Nei centri vengono trasferite persone che, dopo una valutazione preliminare e senza garanzie, sembrano non soddisfare i criteri per ricevere asilo. In base all’accordo, i migranti rimangono in questi centri in attesa della decisione finale, che può essere di due tipi: l’accoglimento della richiesta di asilo, che consentirebbe loro di tornare in Italia, o il rigetto della richiesta, con conseguente espulsione. I migranti portati in Albania sono quelli soccorsi in mare dalla Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza Italiana, escludendo quelli salvati dalle ONG, evidenziando una discriminazione ulteriore.

I trasferimenti, secondo quanto stabilito dall’accordo, sono gestiti dalle autorità albanesi. Invece, l’Italia è responsabile della gestione interna dei centri, inclusa la cura delle persone durante la loro permanenza. Questo accordo comporta un trasferimento non solo di persone, ma anche di responsabilità e competenze, presentando numerose criticità logistiche e potenziali conflitti con le norme costituzionali.

Un progetto fallimentare ha portato al licenziamento del personale, poiché, dopo circa cinque mesi dall’apertura, nessuno è presente nelle strutture. Ogni volta che i migranti sono stati trasferiti in Albania, i giudici italiani non hanno mai convalidato la loro detenzione in questi centri, ordinandone il ritorno in Italia. Le convalide non sono avvenute perché in alcuni casi si trattava di minorenni o persone vulnerabili, con problemi di salute mentale o fisica. In generale, i giudici non hanno convalidato i fermi perché questo tipo di gestione viola le norme europee sulla gestione dei migranti.

L’accordo tra i due Paesi prevede l’invio di migranti provenienti da nazioni considerate sicure. Tuttavia, la questione dei Paesi sicuri è complessa, poiché l’Italia ritiene sicuri alcuni Stati che l’Unione Europea non considera tali, come la Tunisia, nota per la tratta di esseri umani, o la Nigeria. Inoltre, in Albania sono state trasferite persone provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, dove l’omosessualità è illegale e punibile con il carcere.

Questo elemento dell’omosessualità non dovrebbe essere trascurato nell’interpretazione giuridica, poiché per l’Unione Europea ogni individuo deve sentirsi completamente al sicuro nel proprio Paese di origine, senza dover rivelare le proprie preferenze sessuali o altri dettagli personali. Il prossimo 25 febbraio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dovrebbe chiarire l’interpretazione delle norme sui “Paesi di origine sicuri”.

Il fallimento del progetto dei centri in Albania è evidente, tanto che il governo sta considerando un cambio di destinazione d’uso. Tra le possibilità c’è quella di trasformare queste strutture in CPR, centri permanenti per il rimpatrio, simili a quelli già esistenti in Italia. Tuttavia, i CPR sono anche criticati per la cattiva gestione e le condizioni disumane in cui si trovano.

Tutto ciò evidenzia la determinazione politica italiana, principalmente di questo governo ma non esclusivamente, nel proseguire su una gestione inumana dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente stringendo accordi con Paesi come Libia e Tunisia, noti per violazioni sistematiche dei diritti umani, complicità in violenze, torture e tratta di esseri umani. Gestione disumana che ha dato origine a luoghi crudeli come i CPR, noti per le comprovate violazioni dei diritti umani, culminando infine nella creazione di questi centri in Albania.

Un gioco politico e di potere svolto a scapito di persone trattate come merce da trasferire da uno Stato all’altro, rinchiuse in centri di vario tipo, spesso senza giustificazione e considerate come se fossero sacrificabili. Figure di potere che sembrano ignorare l’impatto delle loro decisioni sugli esseri umani, indifferenti alle conseguenze che tale disumanità può avere sul cuore, sulla mente e sull’anima di queste persone.

 

Heraldo

La lotta per la Groenlandia (Parte III)

Si intensifica il dibattito dell’UE sull’invio di soldati in Groenlandia. L’Artico è già oggi teatro di una crescente rivalità militare tra Stati Uniti e Russia.

Il dibattito sull’invio di soldati in Groenlandia si sta intensificando nell’Unione Europea. Dopo la proposta del Presidente del Comitato militare dell’UE, anche il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che “se sono in gioco i nostri interessi”, si potrebbe prendere in considerazione il dispiegamento di truppe sull’isola, che appartiene allo Stato UE della Danimarca. Barrot ha sottolineato che l’Artico nel suo complesso è diventato una “nuova area di conflitto”.

In effetti, la rivalità sta aumentando, soprattutto tra l’Occidente e la Russia. La Russia dispone oggi di quasi una dozzina di basi militari nella regione artica per proteggere il suo fianco settentrionale, il porto della sua flotta settentrionale e le fonti di petrolio e di gas che vi si trovano.

Gli Stati Uniti gestiscono nove basi militari in Alaska e utilizzano la base spaziale di Pituffik in Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che l’Artico è un’“arena” per le lotte di potere globali; il Presidente Donald Trump voleva acquistarlo. Il fatto che abbia fallito allora contribuisce a spiegare le sue attuali richieste di annessione estremamente aggressive.

Porto Rico con la neve

Per la prima volta dopo gli sforzi compiuti negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, nel 2019 gli Stati Uniti hanno puntato ad annettere la Groenlandia. Nel maggio 2019, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato in un discorso a una riunione del Consiglio Artico a Rovaniemi, nel nord della Finlandia, che l’Artico era diventato un’“arena” per di competizione globale: “Stiamo entrando in una nuova era di attività strategica nell’Artico”[1]

Nell’agosto 2019, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato di voler acquistare la Groenlandia. La mossa ha scatenato reazioni incredule e talvolta inorridite in Danimarca in generale e nella stessa Groenlandia. “Spero che sia uno scherzo”, ha dichiarato Martin Lidegaard, presidente della Commissione Affari Esteri del parlamento danese – si tratta di ‘un pensiero terribile e grottesco’[2].

‘La Groenlandia non è in vendita’, ha annunciato il primo ministro groenlandese Kim Kielsen. Di conseguenza, i piani di Trump non avrebbero portato a nulla. Il capo del Centro per gli studi militari dell’Università di Copenaghen, Henrik O. Breitenbauch, ha dichiarato che non si fa commercio di persone e Paesi. Inoltre, l’interesse della popolazione groenlandese a diventare una sorta di “Porto Rico con la neve” era probabilmente piuttosto limitato[3].

“Ci prendiamo la Groenlandia”

Il 22 dicembre 2024, Trump ha nuovamente annunciato di voler incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti.[4] Il 7 gennaio 2025, ha esplicitamente ribadito che non escluderà la coercizione economica o militare per raggiungere questo obiettivo.[5]

Come nel 2019, in Danimarca e nella stessa Groenlandia si sono sentiti sgomento e aperto rifiuto. Facendo riferimento alla storica discriminazione razziale contro la popolazione indigena dell’Alaska, gli Inuit, Pipaluk Lynge, membro del parlamento groenlandese, ha dichiarato: “Sappiamo come trattano gli Inuit in Alaska”. Rivolgendosi agli Stati Uniti, Lynge ha aggiunto: “Rendeteli ‘great’ prima di cercare di invaderci”[6]

I primi tentativi del governo danese di smorzare le richieste con concessioni all’amministrazione Trump – come la promessa di espandere un aeroporto in Groenlandia per i caccia F-35 statunitensi – sono falliti. In una conversazione telefonica con il primo ministro danese Mette Frederiksen la scorsa settimana, Trump non solo ha insistito per incorporare la Groenlandia negli Stati Uniti, secondo quanto riferito, ma ha anche minacciato misure coercitive specifiche, come i dazi.[7] “Avremo la Groenlandia”, ha affermato Trump nel fine settimana; se la Danimarca non è disposta a cedere il suo territorio, questo sarebbe “un atto molto ostile”[8].

Sistemi di allerta rapida per l’Artico

Trump insiste nella rivendicazione, anche se gli Stati Uniti hanno già un notevole spazio di manovra militare in Groenlandia e la Danimarca si è offerta di ampliarlo. Washington e Copenaghen hanno un accordo militare relativo alla Groenlandia dal 1951, che consente alle forze armate statunitensi di utilizzare, tra le altre cose, una base militare situata molto a nord-ovest dell’isola. Ancora oggi è conosciuta come base aerea di Thule, ma da diversi anni si chiama ufficialmente base spaziale di Pituffik.

Oltre a una stazione di sorveglianza spaziale, vi si trovano anche radar e sistemi di allarme rapido. Questi erano già utilizzati durante la Guerra Fredda per rilevare eventuali bombardieri e missili sovietici in avvicinamento. Il percorso attraverso la Groenlandia è il più breve dalla Russia agli Stati Uniti a causa della curvatura della terra.

Oggi gli esperti sottolineano che le strutture della base spaziale di Pituffik non sono probabilmente in grado di rilevare in tempo i moderni missili ipersonici russi; per questo, dicono, “nuove strutture di ricognizione dovrebbero essere posizionate anche in Groenlandia”[9]. Peter Viggo Jakobsen, professore del Royal Danish Defence College, ha affermato che gli Stati Uniti “hanno ottenuto in larga misura ciò che volevano militarmente in Groenlandia chiedendo gentilmente”[10].

Basi militari nell’Artico

Un’eventuale annessione della Groenlandia e un’espansione della presenza militare statunitense sull’isola aggraverebbero in modo significativo le tensioni militari nell’Artico. Gli Stati Uniti mantengono attualmente nove basi militari in Alaska, oltre alla base spaziale di Pituffik in Groenlandia.

La Russia, invece, ha aumentato le sue basi militari nelle regioni settentrionali fino a quasi una dozzina. È nella penisola di Kola, per la precisione, che si trova la base della Flotta del Nord, che contiene parte della capacità di secondo colpo nucleare delle forze armate russe. Le regioni artiche della Russia ospitano anche grandi riserve di petrolio e, soprattutto, di gas naturale. Entrambe devono essere protette dagli attacchi in caso di guerra, motivo per cui Mosca dichiara la sua presenza militare nell’Artico come chiaramente difensiva.[11]

Tuttavia, la Russia ha recentemente ampliato le sue manovre nelle acque artiche e, secondo i rapporti, le ha spostate sempre più verso la Norvegia, il che aumenta il suo spazio di manovra ma è classificato come azione offensiva in Occidente. Nell’Artico sta inoltre cooperando con la Cina, non a livello militare, ma ad esempio nello scambio di dati satellitari per la comunicazione e la navigazione[12].

Un segnale forte

Nel frattempo, si discute anche dello stazionamento di forze dell’UE in Groenlandia. A fine gennaio, il presidente del Comitato militare dell’UE, il generale austriaco Robert Brieger, ha dichiarato che sarebbe “abbastanza sensato” “prendere in considerazione lo stazionamento di soldati dell’UE” in Groenlandia: “Sarebbe un segnale forte”. [13.

Durante una breve visita a Parigi del primo ministro danese Mette Frederiksen, il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato che l’Artico è diventato una “nuova area di conflitto” in cui “l’interferenza straniera” deve essere deplorata.  “Se i nostri interessi sono in gioco”, allora il dispiegamento di militari in Groenlandia sarà preso in considerazione. [14]

La Danimarca ha ora iniziato ad armarsi a livello nazionale nella sua provincia autonoma. Come annunciato lunedì, Copenaghen intende spendere 14,6 miliardi di corone danesi – poco meno di due miliardi di euro – per acquistare, tra l’altro, tre navi da guerra in grado di affrontare l’Artico e due droni a lungo raggio che possono essere utilizzati per voli di sorveglianza estensivi. Inoltre, ci saranno esercitazioni militari più intense rispetto al passato sul terreno artico [15].

Le parti precedenti di questa serie di articoli si possono leggere ai seguenti link:  La lotta per la Groenlandia (I)   La lotta per la Groenlandia (II) 

NOTE:

  • [1] Michael R. Pompeo: Looking North: Sharpening America’s Arctic Focus. 2027-2021.state.gov 06.05.2019.
  • [2], [3] Martin Selsoe Sorensen: “La Groenlandia non è in vendita”: Trump’s Talk of a Purchase Draws Derision. nytimes.com 16.08.2019.
  • [4] Rebecca Falconer: Trump suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero diventare proprietari della Groenlandia. axios.com 23.12.2024.
  • [5] Seb Starcevic: Trump rifiuta di escludere l’uso della forza militare per prendere la Groenlandia e il Canale di Panama. politico.eu 07.01.2025.
  • [6] Seb Starcevic, Eric Bazail-Eimil, Jack Detsch: La visita di Donald Trump Jr. è stata “inscenata”, dice il legislatore groenlandese. politico.eu 09.01.2025.
  • [7] Richard Milne, Gideon Rachman, James Politi: Donald Trump in una telefonata infuocata con il primo ministro danese sulla Groenlandia. ft.com 24.01.2025.
  • [8] Richard Milne: Donald Trump ridicolizza la Danimarca e insiste che gli Stati Uniti prenderanno la Groenlandia. ft.com 26.01.2025.
  • [9] Michael Paul: Grönlands arktische Wege zur Unabhängigkeit. SWP-Studio 2024/S 22. Berlino, 02.10.2024.
  • [10] Julian Staib: Perché Trump vuole la Groenlandia. Frankfurter Allgemeine Zeitung 09.01.2025.
  • [11] Colin Wall, Njord Wegge: La minaccia artica russa: conseguenze della guerra in Ucraina. csis.org 25.01.2023.
  • [12] Majid Sattar, Friedrich Schmidt, Julian Staib, Jochen Stahnke: La lotta per l‘artico. Frankfurter Allgemeine Zeitung 14.01.2025.
  • [13] EU-Militärchef für Stationierung von Soldaten auf Grönland. rnd.de 26.01.2025.
  • [14] Théo Bourgery-Gonse: La Francia pensa di inviare truppe UE in Groenlandia. euractiv.com 28.01.2025.
  • [15] Billy Stockwell, James Frater, Eve Brennan: La Danimarca aumenta la spesa per la difesa dell’Artico di 2 miliardi di dollari dopo l’interesse di Trump per la Groenlandia. edition.cnn.com 27.01.2025.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid.

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com

Leonard Peltier è libero

Finalmente Leonard Peltier è libero e a casa sua.

Questa una delle prime foto  arrivate dove è insieme alla sua famiglia e agli amici del Comitato che sempre l’ha difeso e ne ha chiesto la liberazione.

Peltier è stato liberato grazie a un provvedimento delle ultime ore del Presidente Biden poco prima di cedere il suo incarico. Non è stata la grazia che tutti chiedevano dopo 49 anni di incarcerazione in base a prove inesistenti ma gli ha dato  la possibilità di essere vicino ai suoi cari e amici e di curarsi.

Questo grazie al grande movimento di solidarietà internazionale di cui Pressenza è lieta di essere parte, dimostrando che l’azione umana, della società civile, non è un’azione inutile e senza speranza, come a volte sembra.

Tutti gli articoli sul caso Peltier su Pressenza

Redazione Italia

Migliaia di persone protestano contro Trump e Musk in tutti e 50 gli Stati

Lunedì 17 febbraio 2025 migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutti gli Stati Uniti per protestare contro le misure di Donald Trump ed Elon Musk volte a smantellare radicalmente il governo federale in quello che molti hanno paragonato a un colpo di stato. Le proteste si sono svolte in tutte le capitali dei 50 Stati e in molte altre città. Molte delle proteste erano all’insegna dello slogan “Not My President’s Day”.

“Abbiamo Elon Musk e Donald Trump e i fratelli DOGE, i fratelli della tecnologia, che fanno a pezzi il nostro governo, fanno a pezzi la nostra Costituzione, ignorano lo stato di diritto. E il popolo americano deve opporsi” ha dichiarato Jay W. Walker di Rise and Resist durante una protesta a New York

A Washington, i manifestanti si sono riuniti davanti al Campidoglio e alla Casa Bianca. “Il fine non giustifica i mezzi. C’è un modo giusto e un modo sbagliato per realizzare un cambiamento e il Presidente Trump ha infranto ogni regola del cambiamento democratico appropriato nella nostra società” ha denunciato Daniel Fairholm.

Democracy Now!

Ad Acquappesa oltraggiata la targa del Samudaripen

Lunedì 29 luglio 2024, presso la sala stampa della Camera dei deputati, si svolse la conferenza stampa, per presentare la proposta di legge per far riconoscere all’Italia il Samudaripen il genocidio dei rom e sinti nel corso della seconda guerra mondiale, alla quale parteciparono: l’Onorevole Devis Dori, AVS, primo firmatario e promotore proposta di legge; Onorevole Luana Zanella capogruppo AVS; Andrea Vitello storico, scrittore che ha conseguito un diploma di perfezionamento allo Yad Vashem sulla Shoah, ha scritto vari libri e collabora con varie testate; Moni Ovadia attore, regista e scrittore; comm. dott Carla Osella presidente nazionale A.i.z.o. rom sinti direttore responsabile della rivista “Rom e sinti oggi” scrittrice di oltre 50 pubblicazioni è stata nominata presso il Parlamento di Belgrado World Roma Organization commissario internazionale del Porrajmos; Commendatore Santino Spinelli (musicista, docente universitario, scrittore). Gennaro Spinelli presidente nazionale UCRI-Unione Comunità Romanès Italia. Il Parlamento Europeo lo aveva già riconosciuto nel 2015, invitando tutti i paesi membri dell’Unione Europea a fare altrettanto. 

La proposta di legge prevede che in occasione della Giornata nazionale tutti gli enti nazionali e locali e le scuole promuovano cerimonie, convegni e altre attività volte a ricordare il genocidio dei rom e dei sinti. Il testo della proposta di legge è consultabile a questo link: https://www.camera.it/leg19/126?leg=19&idDocumento=1914 

Proprio questo 27 gennaio, in occasione del giorno della Memoria ad Acquappesa, in provincia di Cosenza, era stata posta una targa commemorativa del Samudaripen. Tuttavia  in questi giorni, come si vede nella foto, è stata vandalizzata e oltraggiata. In merito a quanto successo, l’UCRI ha diramato questo comunicato stampa:

«Egregio Comune,

Viste le recenti polemiche sfociate in vili atti di vandalismo, che hanno visto la rottura e la rimozione della targa al Samudaripen, chiediamo formalmente non solo il ripristino e la cura della targa alla Memoria ma anche che l’Amministrazione prenda una posizione di ferma condanna contro questi atti di antiziganismo.

La Comunità Romanès è profondamente addolorata per quanto accaduto. Non c’è cosa peggiore di provare a distruggere la Memoria.

Sicuri di trovare nella Vostra Amministrazione un fermo alleato, 

Vi porgiamo,

Cordiali saluti.

UCRI – Unione Comunità Romanès d’Italia».

Tutte le persone che volessero protestare per l’accaduto possono inviare una mail a protocollo.acquappesa@asmepec.it

Quanto successo dimostra ancora di più, la grande importanza di riconoscere il Samudaripen in Italia, proprio per questo la proposta di legge dovrà essere approvata ai fini di fare i conti con la storia.

 

Andrea Vitello

Uruguay: un’altra storia. Intervista ad Aurora Meloni – 2° parte

Riprendiamo l’intervista ad Aurora Meloni. Dopo i terribili fatti avvenuti in Sud America, con il rapimento e il successivo omicidio del marito, la sua storia continua in Europa.

Arrivi in Svezia, come continua la tua storia?

La Svezia era allora l’unico Paese europeo che ci accoglieva. A Buenos Aires, durante la ricerca dei ragazzi, ero andata all’ambasciata italiana dove mi avevano trattato molto male, nonostante avessi detto loro che sia io che Daniel eravamo di origine italiana. Mi risposero: “Di terroristi in Italia abbiamo già i nostri.” Dopo due giorni a Stoccolma (dove governava Olof Palme) ci spostarono in un villaggio, una grande area con una serie di casette completamente arredate nella località di Alvesta. Trovammo soprattutto compagni cileni… Sei mesi dopo, ci diedero un appartamento in una cittadina nel Sud della Svezia, Malmö. Io cominciai a studiare lo svedese, le bimbe andavano alla scuola per l’infanzia.

In quel momento non ne volevi più sapere di politica?

In quel momento non volevo sapere più nulla dei partiti politici. Personalmente credo che molta della responsabilità sia stata dei dirigenti, sia del movimento guerrigliero che dei partiti. Ho comunque capito che bisognava iniziare con le denunce, attivare e mettere in pratica la solidarietà dell’Europa, visto che avevamo migliaia di prigionieri politici, non solo in Uruguay, che vivevano una repressione durissima nei lager e nelle carceri dei nostri Paesi. Non credevo più nella guerriglia, ma continuavo a credere nella politica, nella Democrazia e soprattutto nella Libertà.

C’era un rapporto tra il Frente Amplio e la guerriglia dei Tupamaros?

Formalmente no, ma di fatto si, e ogni volta che i guerriglieri denunciavano sequestri, torture e uccisioni, erano spalleggiati dai partiti del Frente Amplio. L’esempio più chiaro è stato Zelmar Michelini, che ho citato prima. Una delle figlie di Michelini, Elisa, era militante dei Tupamaros. Lui fu minacciato in questi termini: “Se fai ancora qualcosa di simile a quando andasti al tribunale Russell in Europa a parlare di noi… tua figlia inizierà ad essere torturata.” Elisa in quel tempo era in galera, ma non l’avevano ancora toccata. Ho visto Zelmar piangere quando è arrivato in Argentina, perché avevano iniziato a torturarla. Lui non poteva stare fermo e zitto, nessuno di quei politici poteva farlo, con quello che stava accadendo. La tortura era sistematica, le persone in Uruguay venivano fatte a pezzi. Poi c’era il dramma degli scomparsi che esplose dopo il golpe in Argentina nel 1976.

Quindi sia in Uruguay che in Argentina il golpe non fu un passaggio netto, “dal bianco al nero”, ma iniziò ben prima

Sì, soprattutto in Uruguay. Già alla fine degli anni ’60 un governo eletto aveva iniziato a dar vita alle “medidas de seguridad” per le quali si vietava la propaganda politica, e la stessa parola Tupamaros (la stampa doveva dire “sovversivi”, “innominabili”). Se dicevi “Tupamaros”, andavi in galera. Avevano chiuso tutta la stampa di opposizione. Nelle elezioni del 1971 ci furono brogli, al Frente Amplio furono rubati molti voti. Nel 1972 il governo dichiarò lo “stato di guerra interna”.

Quindi tutti noi ricordiamo l’11 settembre del ’73 in Cile perché quello fu davvero un salto radicale dal “bianco al nero”. I golpe in Uruguay e in Argentina furono solo il consolidamento di una situazione che era già in atto?

Senza dubbio. Arrivammo in Italia nel ’76 perché io in Svezia non ce la facevo più…avevo un papà italiano, di Borgotaro (Parma) e volevo venire in Italia, la terra di mio padre. In Italia sentivo parlare SOLO del golpe in Cile che, comprendo bene, aveva colpito profondamente sia il sistema politico che i cittadini. Con altri compagni uruguaiani ci demmo proprio il compito di far sapere in Italia e in Europa che in Uruguay c’era stato un colpo di stato. Il caso dell’Argentina è stato diverso, con i desaparecidos, a migliaia, con le madri di Plaza de Mayo che si organizzarono per la ricerca e la denuncia e che oggi sono il simbolo dalla lotta per la Memoria, la Verità e la Giustizia. L’Argentina poi era un Paese grande e importante.

Ricordo che poco dopo il mio arrivo andai alla questura col mio passaporto di ACNUR, l’unico che ancora avevo. Dissi loro che volevo i miei documenti italiani. Tieni conto che di immigrazione in Italia, a quel tempo, non se ne parlava proprio (c’era solo popolazione somala ed eritrea, qualche cittadino greco, qualche portoghese e qualche spagnolo). L’agente mi disse: “Ma se lei è figlia di italiani è italiana, basta, mica ha bisogno di un documento come rifugiato politico!” Quando ritornai all’ufficio immigrazione, un altro agente che mi aveva fermato e a cui dissi che ero uruguayana, mi lasciò andare sorridendo dopo aver nominato alcuni tra i giocatori di calcio dell’allora famosa nazionale uruguayana. Così feci i documenti.

Come andò avanti la storia della dittatura in Uruguay?

Furono anni di repressione tremenda, solo verso il 1983 le forze politiche, di fronte ad un fallimento totale della dittatura (avevano rubato tutto quello che c’era da rubare), cominciarono a guadagnare terreno. La situazione generale era cambiata, l’Africa si era liberata (almeno formalmente) dai colonizzatori. Spagna, Grecia e Portogallo erano diventati delle democrazie. Nell’84 ci fu un accordo tra alcuni partiti (di centro e di destra) e i militari,, che cercavano di resistere in tutti i modi. Nell’84 si fecero le elezioni e noi tornammo per votare. Vinse il partito Colorado che da più di un secolo aveva quasi sempre governato ed era composto dalla buona borghesia metropolitana del Paese. L’altro partito, il Blanco, rappresentava la parte agraria, ma erano comunque due partiti di centro-destra, e in quel momento erano gli unici “legali”. Il primo presidente, Julio Maria Sanguineti, fece subito un’amnistia che liberò tutti i prigionieri politici (compreso Pepe Mujica), ma anche i militari che non vennero quindi giudicati. Fu fatto anche un referendum per stabilire se i militari potevano essere processati, ma perdemmo, la gente aveva paura e aveva buoni motivi per averne. Poi il Frente Amplio è cresciuto, si è presentato alle elezioni locali e ha conquistato la città di Montevideo. Poi fino al 2020 ha governato il Frente Amplio. Questo governo stabilì che quell’amnistia per i militari era incostituzionale e che i militari colpevoli di crimini di lesa umanità, potessero essere processati. Ora, dopo 50 anni, stanno ancora arrivando denunce.

E Pepe Mujica?

È malato, ha dichiarato in una conferenza stampa che ha un cancro all’esofago, è un vecchio saggio. Dice parole importantissime ai giovani, trasmette carica, coraggio, speranza, per l’ambiente e contro la rassegnazione.

Quando andai a votare in Uruguay dopo tanti anni, ero convinta di rimanere lì, ma fu il padre di Daniel, il mio primo suocero, a dirmi: “Ma di cosa vivi se vieni qui?”. Il Paese era rovinato, così tornai in Italia.

 

Fine seconda parte

Qui il link all’intervista completa

Andrea De Lotto

Contro il rullo del tamburo (noi e Putin)

Il rullare dei tamburi di guerra è inquietante e va considerato: quando le spese militari crescono e si riempiono gli arsenali, si avvicina la guerra. Si sta preparando l’opinione pubblica a ciò che pare inevitabile: sacrificare al riarmo lo stato sociale. In un paese smemorato, dove molto spesso le decisioni non sono prese in base a dati e numeri, è bene riflettere, alla luce dei fatti.

Il nemico è Putin, feroce dittatore; lo era però anche quando Berlusconi, Salvini e la Meloni lo incensavano. Ricordiamo quanti soldi, credibilità politica ed economica l’Italia, con altri, gli ha dato. Nel 2000, all’alba dell’era Putin, il gas russo copriva circa il 20% del nostro fabbisogno, quota salita poi fino al 43%. Ricordiamo le forti collaborazioni tra Eni e gruppi russi degli idrocarburi, per ricerca e sfruttamento di giacimenti e per la costruzione di gasdotti per molti miliardi di euro1. Per favorire affari tra zone dell’Italia e Russia sono sorte associazioni come “Lombardia Russia” o “Veneto Russia” o “Conoscere Eurasia”2; quest’ultima si propone di rafforzare le relazioni con Russia e altri paesi dell’area e dal 2007 raduna a Verona ministri italiani e stranieri, dirigenti statali e privati, coinvolgendo le più ricche aziende di Mosca.

All’edizione di ottobre 2021, a pochi mesi dalla guerra, hanno partecipato, tra gli altri, Prodi, Scaroni, Tronchetti Provera, Marcegaglia, Bonomi, Profumo e tanta nomenclatura russa; iniziativa importante, con i contributi di Intesa, Generali, Gazprom, Rofneft e importanti banche russe3. L’associazione ha organizzato anche frequenti seminari, che si sono svolti fino a una settimana prima dell’invasione, con la partecipazione dei dirigenti di Intesa, dell’ambasciatore a Mosca Storace, fratello dell’AD di Enel, di Fontana e Toti. Va poi ricordata l’intensa amicizia tra Putin e Berlusconi. Memorabile il gesto del mitra che Silvio fece a una giornalista rea di una domanda di gossip che imbarazzava l’amico.4 C’è poi Salvini, che indossava magliette con l’effige del dittatore e ha siglato un patto di gemellaggio tra la Lega e il suo partito personale5. Sono noti i presunti finanziamenti che la Lega avrebbe richiesto a Mosca, denunciati da vari organi di stampa6.

Pure Meloni ha avuto grande stima del satrapo, congratulandosi per la quarta rielezione, nelle lezioni farsa del 2018.7 Simile accondiscendenza si è avuta anche in altri paesi europei e negli USA. Nel suo libro del 2004 intitolato “La Russia di Putin” la Politkovskaja testualmente scriveva: “Del resto il revanscismo sovietico seguito all’ascesa e al consolidamento del potere di Putin è lampante. A renderlo possibile, però – va detto – non sono state solo la nostra negligenza (ovviamente dei russi), l’apatia e la stanchezza seguite a tante – troppe – rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano”8 Solo tra il 1998 e il 2020 gli europei hanno venduto armi alla Russia per circa 1,9 miliardi di euro e a Kiev si sono visti i militari russi sui blindati italiani Lince9. Nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, Putin è stato estromesso dal G8 ed è stato decretato l’embargo per le forniture di armi. La UE però non ha stabilito sanzioni per chi violava tale disposizione; così diversi paesi, tra cui Italia e Germania, hanno continuato a vendere armi a Mosca per un valore di circa 346 milioni di euro10. Fino al 31/12/24 numerosi paesi UE, tra cui noi, hanno continuano, sia pur in modo decrescente nel tempo, ad acquistare idrocarburi russi, direttamente, tramite gasdotti11, o indirettamente, tramite paesi terzi, come l’Azerbaigian, che non avrebbe tutto il gas che ci vende, importandone parte dalla Russia12.

Chi fosse Putin è sempre stato ben chiaro. Egli è diventato Presidente il 31/12/99 ereditando un paese in ginocchio, che pensava perfino di entrare nella Nato; ha subito piegato le istituzioni di uno Stato a pezzi e ha rimesso sotto il controllo statale le immerse riserve di idrocarburi, recuperando l’arma energetica, che da sempre riteneva cruciale per rilanciare la potenza russa. Dalla sua ascesa ci sono stati innumerevoli omicidi di giornalisti13, la Politkovskaja, uccisa nel 2006, è solo l’esempio più noto14.

Altrettanto ha fatto con numerosi oppositori, Navalny è solo il più famoso15. Agli oligarchi, arricchitisi già dai tempi di Eltsin, acquistando a prezzi stracciati proprietà e aziende pubbliche privatizzate dopo il crollo dell’URSS, ha aggiunto un cerchio ristretto di sodali e prestanome, che costudiscono un suo tesoro personale, pare di 200 miliardi di dollari16. Secondo Freedom House il sistema politico autoritario russo, sottomette la magistratura, controlla i media, manipola le elezioni, sopprime il dissenso; la corruzione dilagante favorisce legami tra funzionari statali e criminalità organizzata17. Anche Amnesty International da tempo denuncia arresti e persecuzioni di pacifici manifestanti, difensori dei diritti umani e attivisti civili e politici; la tortura è endemica in Russia, come la quasi totale impunità dei responsabili. Il diritto a un processo equo viene regolarmente violato18. Questi fatti erano già stati tutti documentati dalla stessa Politkovskaja nel citato libro. Putin ha iniziato la sua Presidenza attaccando brutalmente la Cecenia, con massacri di civili ed altri numerosi e gravi crimini19. Nel 2008 ha invaso la Georgia20, con modalità ripetute in grande in Ucraina. E’ intervenuto massicciamente a sostegno di Assad, contribuendo al mantenimento del suo potere e partecipando sostanziosamente alla distruzione di Aleppo21. Alla luce di quanto sopra, dobbiamo sbugiardare i troppi politici del centro destra, che per oltre vent’anni hanno intrallazzato con colui che oggi designano come il nostro peggior nemico, la cui forza però è dipesa in larga misura dagli aiuti che ha ricevuto da coloro che oggi vogliono tagliare lo stato sociale per difenderci dal loro ex amico.

3 Gli sputinati in L’Espresso n°10 del 06/03/22 pag. 14 e seguenti

8 Anna Politkovskaja La Russia di Putin ed. Apelphi pag. 342

16 I tesori segreti del clan di Putin in L’Espresso n°11 del 20/03/22 pagina 48 e seguenti

Enrico Campolmi

“Riforma della Giustizia. Cosa prevede e con quali conseguenze?”

Il Movimento delle Agende Rosse, Gruppo Rita Atria di Reggio Emilia e Provincia invita la cittadinanza a questo incontro pubblico.

Il 24 febbraio prossimo alle 18.00, presso “L’altro Teatro” di Cadelbosco di Sopra (Galleria Giuseppe Carretti , n.2/a), si terrà un incontro pubblico dal titolo “Riforma della Giustizia. Cosa prevede e con quali conseguenze?”.

L’iniziativa è organizzata dal Movimento Agende Rosse Rita Atria Reggio Emilia in collaborazione col Comune di Cadelbosco di Sopra ed è patrocinata dalla Consulta Provinciale per la Legalità.

All’iniziativa interverranno esperti qualificati quali il magistrato Calogero Gaetano Paci, Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia e il magistrato Francesco Maria Caruso, già Presidente dei tribunali di Reggio Emilia e di Bologna nonché del collegio giudicante del processo Aemilia.

La conduzione del dibattito sarà a cura di Paolo Bonacini, giornalista e scrittore, coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico della Consulta sopra citata.Con l’iniziativa del prossimo 24 febbraio,  intendiamo approfondire un tema di grande attualità, che può apparire ostico e distante dalle persone, ma che in realtà impatta fortemente su cittadini/e, sia a livello individuale che collettivo.

Gli autorevoli ospiti ci aiuteranno a capire i contenuti e gli obiettivi della Riforma del sistema Giustizia in atto e gli effetti che ne derivano nella lotta alla criminalità organizzata e comune e nella tutela dei cittadini.

Verranno illustrate in particolare due riforme di questo governo: la cosiddetta “Riforma Nordio”(Legge 9 agosto 2024), che è intervenuta sul codice penale e sulla procedura penale, e la Riforma Costituzionale, che mette al centro la separazione delle carriere e lo sdoppiamento del CSM.

Rispetto ai provvedimenti della Legge Nordio quali l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e lo “svuotamento” di altri reati, ci chiediamo se possano potenziare il controllo di legalità da parte dei magistrati o se invece servano a “spuntare le armi” per combattere certe categorie di reato.

Per non parlare della stretta sulle intercettazioni e dei vincoli posti alla misura cautelare, misure anch’esse su cui nutriamo seri dubbi.

Riteniamo importante, anche alla luce della posizione di netto contrasto assunta dai magistrati rispetto alla riforma costituzionale, alimentare un dibattito pubblico sul merito di questi provvedimenti, che destano molti interrogativi, primo fra tutti: sono davvero utili ad “efficientare” il sistema della giustizia, con effettivi vantaggi per la collettività?

Con il contributo di esperti ci proponiamo di informare e sensibilizzare i cittadini e le cittadine su questi temi, approfondendo contenuti e conseguenze di ogni singolo provvedimento e l’idea di Giustizia che prefigurano nel loro complesso.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare!


Movimento Agende Rosse, Gruppo Rita Atria di Reggio Emilia e Provincia

 

Redazione Italia