Salta al contenuto principale

Politica

Meloni ha detto la verità sul Manifesto di Ventotene: vi spiego il perchè

Hanno fatto molto discutere le dichiarazioni del 19 marzo della presidente Meloni in critica al Manifesto di Ventotene, elencandone i principi come la valutazione di un’abolizione caso per caso della proprietà privata, la fondazione di un “partito socialista rivoluzionario”, il poco peso dato alle elezioni democratiche. Questo ha generato caos e grida dai banchi del PD e di tutte le forze neoliberali sostenitrici del federalismo europeo. La seduta è stata sospesa. In seguito a rispondere a Meloni è stato l’onorevole Federico Fornaro (PD) che si è vergognato delle parole della premier cogliendo l’occasione per impartire l’ennesimo elogio retorico del “Manifesto di Ventotene” come capostipite di una visione “federalista europea”. A quanto pare, purtroppo tra i due ad aver letto il Manifesto di Ventotene è stata Giorgia Meloni e non Fornaro che, se l’avesse letto, non avrebbe detto quelle cose.

Il Manifesto di Ventotene non parla di “un’Europa federale”, ma di una “Europa confederale” composta da Stati sovrani interdipendenti su base socialista e non sul libero mercato. Il Manifesto di Ventotene, oltre ad essere fermamente antifascista, antimperialista, antimilitarista, antisciovinista e antiliberista, dice chiaramente che il futuro per un “Europa dei popoli” o è socialista o non è. Il Manifesto di Ventotene parla della fondazione dell’esercito europeo, ma solo dopo aver stabilito che il militarismo non deve essere in alcun modo la strada per la politica estera e la diplomazia. Il Manifesto di Ventotene parla chiaramente della creazione di un “partito socialista rivoluzionario” e della nascita degli “Stati Uniti socialisti d’Europa” e non degli Stati Uniti d’Europa su base neoliberista come voglio i “federalisti europei del riarmo”.

Non sappiamo dunque se sia peggiore la strumentalizzazione della Meloni o l’ignoranza di Fornaro e di tutti i “federalisti europei” come Calenda, Renzi, Magi e Vecchioni (con tanto di auto-elogio eurocentrico alla manifestazione del 15 marzo). Crediamo che siano sullo stesso piano: Eugenio Colorni, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi si rivoltano nella tomba sia a sentire la retorica nazionalistica e postfascista di Meloni, sia quella falsata e mistificata del Manifesto di Ventotene da parte degli europeisti neoliberali.

Non crediamo che Altiero Spinelli voglia essere considerato padre di questa Europa, visto che la sua idea confederalista socialista europea non è stata minimamente ascoltata. Ha vinto da un lato il concetto di “unione europea” proposto in base al modello funzionalista di Jean Monnet, Schuman, Perroux (veri padri di questa Europa della finanza e delle banche); e dall’altra parte ha visto l’ispirazione tecnocratica  del Progetto Pan-Europa del conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi (che strumentalmente la destra l’ha definito autore di un complotto inesistente come quello della “sostituzione etnica”, mentre in realtà era un liberalconservatore promotore del concetto di “integrazione europea guidata da economisti”).

L’ignoranza è tanta sotto questo cielo, ma sarebbe bastato leggere il testo del Manifesto di Ventotene per schiarirsi le idee.

Proponiamo di seguito la riflessione chiarificatrice di Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, sulla vicenda.

«La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita».

Manifesto di Ventotene

Non comprendo le polemiche sulle parole di Giorgia Meloni che questa volta ha il merito di aver detto alcune verità incontrovertibili.

La prima naturalmente è quella che lei, essendo erede politica del regime fascista che mandò al confino Spinelli, Colorni e Rossi, con il Manifesto di Ventotene non c’entra nulla, trattandosi di un documento dell’antifascismo militante.

La seconda, implicita nelle citazioni lette, è che con il Manifesto non c’entrano nulla neanche Ursula von der Leyen, Mario Draghi, Renzi, Calenda, il Pd e gli esponenti del centrosinistra e centristi che in queste ore contestano le parole della premier.

Il manifesto di Ventotene era un manifesto per la rivoluzione socialista europea e questo è incontrovertibile. Contiene principi socialisti che saranno fatti propri dalla nostra Costituzione nata da quella rivoluzione antifascista europea che fu la Resistenza e che saranno alla base dell’azione dei partiti del movimento operaio dopo la sconfitta del nazifascismo in tutta l’Europa occidentale.

Per il Manifesto di Ventotene come per la nostra Costituzione la proprietà privata non è sacra e i diritti delle classi lavoratrici e delle persone vengono prima del profitto e del mercato.

Il modello sociale europeo con il welfare è stato  il risultato della forza e della legittimazione che ebbe in Europa occidentale il movimento operaio e socialista nel dopoguerra e fino alla controrivoluzione neoliberista degli anni ’80 di Reagan e Thatcher.

L’Unione Europea è nata con il trattato di Maastricht, che ha posto invece il mercato al primo posto con conseguenze devastanti compreso il risorgere dell’estrema destra. Non a caso nel 2014 denunciammo, presentando la lista l’Altra Europa con Barbara Spinelli, che l’Unione Europea dei trattati ordoliberisti era la negazione dell’ispirazione originaria del Manifesto di Ventotene.

Insomma con Ventotene non c’entrano nulla neanche gli editorialisti di Repubblica e Corriere e quelli come Renzi, Calenda o Bonaccini che ora strepitano. L’unica cosa positiva della manifestazione di Michele Serra è che Repubblica ha ristampato il manifesto e forse sarà letto da tanti che si renderanno conto della truffa che va avanti da trent’anni. Come Rifondazione Comunista pensiamo che vada rilanciato il Manifesto e la rivendicazione degli Stati Uniti socialisti d’Europa perché il capitalismo neoliberista porta la guerra come le nuvole la tempesta.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

 

 

Per conoscenza:

Il Manifesto di Ventotene parlava degli “Stati Uniti socialisti d’Europa”

Europa sì, Europa no. (I)

https://bresciaanticapitalista.wordpress.com/2016/04/18/europa-si-europa-no-ii/ 

Maurizio Acerbo

Petizione per salvare il Monte Giogo di Villore

Francesco Tagliaferri, Sindaco del Comune di Vicchio, tra i più colpiti durante l’ultima ondata di maltempo, ha dichiarato che il territorio è in una situazione straordinaria e che è urgente che il Governo riconosca lo stato di emergenza nazionale: “La situazione a Vicchio e in Mugello è sotto gli occhi di tutti: alluvioni. frane e pezzi di territorio che non ci sono più, strade dissestate, cittadini isolati.

Siamo stati duramente colpiti: territorio, cittadini, aziende agricole, imprese e realtà produttive. I danni sono ingenti, incalcolabili al momento, siamo in ginocchio.”

Il Comitato Tutela Crinale Mugellano Crinali liberi, Coalizione Ambientale TESS Transizione Energetica Senza Speculazione, si associa al Sindaco nella sua urgente e accorata richiesta dello stato di emergenza e si appella a tutte le Istituzioni perché si fermi la cementificazione dei crinali di Monte Giogo di Villore Corella, Vicchio e Dicomano, per l’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore, ai confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi.

I crinali fragili e franosi, se deforestati e cementificati, rappresentano un disastro ambientale che porta visibilmente ad una catastrofe i cui danni non sono controllabili né calcolabili. Inutile e tragico invocare l’emergenza dopo, quando non si è più in grado di fare le scelte giuste atte a prevenire i danni alla collettività.

Nei giorni del 14 e del 15 marzo il Mugello è andato sott’acqua.

La Sieve che attraversa la valle è esondata e i torrenti sono tracimati; la viabilità principale interrotta in più punti e le linee ferroviarie ferme.

Infrastrutture sono franate lasciando isolate abitazioni e interrompendo collegamenti viari.

Abitazioni, aziende, centri commerciali, campi agricoli e campi sportivi alluvionati, veicoli danneggiati.

Frane ovunque, ben visibili anche ad occhio nudo sull’Appennino mugellano.

In molte abitazioni è mancata l’elettricità, anche l’acqua, perché gli impianti hanno riportato criticità a causa dell’alluvione.

Il Mugello mostra in questi giorni la sua estrema fragilità e vulnerabilità.

Dai crinali scivolano smottamenti e frane, fiumi di fango e acqua si riversano rapidi, impetuosi e veloci a valle alimentando i corsi d’acqua.

I crinali boscati dell’Appennino Mugellano sono soggetti a tutele e vincoli perché data la loro natura fragile e instabile, non franino a valle, causando morte e distruzione.

I vincoli paesaggistici esistono per la sicurezza del territorio e della popolazione, per fini ambientali e culturali, che hanno rilevanza turistica e ricaduta sociale ed economica. Non sono inutili lacci e vincoli, come vengono troppo spesso definiti, da chi orbita negli interessi degli speculatori.

A Vicchio si contano oltre 30 frane, 11 sfollati e 32 persone che sono rimaste isolate. Molte imprese sono state sommerse dall’acqua e dal fango.

E’ esondato il torrente Arsella nella zona del Mulino e si è prodotta una frana sulla strada per Rupecanina, oltre a varie altre frane e smottamenti.

Il Sindaco lancia un appello alle Istituzioni per la richiesta dello stato di emergenza nazionale.

A Ponte a Vicchio la Sieve è esondata allagando le abitazioni e la zona artigianale all’ingresso del Paese.

A Corella e a Villore, territori del Comune di Dicomano e Vicchio, frazioni interessate ai lavori per l’impianto industriale Monte Giogo di Villore, si sono verificati numerosi eventi franosi.

Sulla strada da San Bavello a Corella movimenti franosi per i quali la strada è stata chiusa per alcuni giorni e la circolazione è stata deviata da Pruneta a Corella.

A Villore sono state evacuate 6 persone dalla loro abitazione; si sono verificate numerose frane segnalate sia sulla viabilità principale che secondaria di accesso alle marronete dove una frana ha ostruito il passaggio verso le marronete del Solstretto che, già dal maggio 2023, hanno segnalato una frana a meno di 800 metri dal luogo dove il Progetto prevede un’enorme torre eolica di 170 metri (alta come due Campanili di Giotto uno sopra l’altro) e un ampio basamento di cemento armato e fondazioni prossima alla rete idrografica del torrente del Solstretto che alimenta l’acquedotto pubblico comunale di Vicchio.

La drammatica situazione del Mugello e dei territori interessati al Progetto eolico ci conferma nel richiedere l’urgente tutela del Monte Giogo di Villore dalla cementificazione di grandi opere per la realizzazione dell’impianto industriale eolico che comportano deforestazione, declassamento e degrado di preziosi ecosistemi naturali a siti industriali, causa di erosione e consumo del suolo e di grave conseguente dissesto idrogeologico.

Gli eventi attuali ci consegnano visibilmente e indiscutibilmente un Appennino instabile, fragile e franoso i cui crinali devono rimanere boscati, non modificabili, soprattutto non industrializzati, a tutela degli ecosistemi naturali, delle comunità montane e della popolazione a valle.

Per tali motivi vi invitiamo a firmare subito la Petizione per salvare il Monte Giogo di Villore sui confini del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi al seguente link:

https://www.openpetition.eu/…/fermiamo-la-devastazione…

E per chi non l’avesse già firmata nei giorni scorsi la Petizione della Coalizione Ambientale TESS – Transizione Energetica Senza Speculazione Sventiamo Gli Inganni Nel Disegno Di Legge Della Toscana Sulle Rinnovabili in Unione europea:

https://www.openpetition.eu/%21wzssv

Comitato Tutela Crinale Mugellano Crinali Liberi – TESS Transizione Energetica Senza Speculazione.

Redazione Toscana

Camera dei Deputati/Carceri. Antigone: un documento con alcune proposte per superare l’emergenza

“Oggi alla Camera dei Deputati si terrà un dibattito straordinario sulla situazione del sistema penitenziario italiano. Erano ormai mesi che chiedevamo che il Parlamento rimettesse al centro del dibattito politico e pubblico il tema del carcere.

La condizione odierna è a dir poco drammatica. Con gli ultimi due suicidi delle scorse ore sono già 20 le persone che si sono tolte la vita in questa prima parte del 2025 in un istituto di pena. Il sovraffollamento è sempre più grave nelle carceri per adulti, con circa 16.000 persone che non hanno un posto regolamentare, ed è diventato ormai strutturale anche negli Istituti Penali per Minorenni dove non si era mai registrato.
Molte strutture versano in condizioni fatiscenti e non garantiscono la disponibilità di servizi minimi come acqua e riscaldamenti.

Una situazione che richiede provvedimenti immediati.

Per questo Antigone, in vista del dibattito odierno, ha inviato ai Deputati un documento che fotografa la situazione del sistema penitenziario e contiene una serie di proposte per affrontare l’emergenza”.

Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

A QUESTO LINK IL DOCUMENTO (file Pdf)

Associazione Antigone

Turchia: Il Caso Imamoglu e l’inquietante crisi politica

Su tutte le testate nazionali è stata riportata la notizia dell’arresto del Sindaco di Istambul, noto oppositore di Erdogan. Tale notizia ci riapre un vecchio dilemma, la Turchia è realmente pronta ad entrare nell’Unione Europea? Ma, vediamo con ordine la questione. Il recente arresto di Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e leader del principale partito di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), ha scatenato un’ondata di proteste e una forte reazione internazionale. Imamoglu, che è visto da molti come il principale rivale del presidente Recep Tayyip Erdogan nelle elezioni presidenziali del 2028, è stato arrestato con accuse di corruzione e di legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato un gruppo terroristico dalla Turchia e da molte nazioni occidentali. Questa mossa ha alimentato le preoccupazioni sulla crescente repressione della democrazia in Turchia e sul possibile utilizzo delle istituzioni legali e giudiziarie come strumenti per eliminare la concorrenza politica.

Imamoglu, eletto sindaco di Istanbul nel 2019 con una sorprendente vittoria sul candidato dell’AKP di Erdogan, ha continuato a guadagnare popolarità, ottenendo un secondo mandato nel 2024 con un ampio distacco. Il suo arresto arriva a pochi giorni dalle primarie del CHP, dove avrebbe dovuto essere ufficialmente nominato candidato alle presidenziali del 2028. L’accusa di “favoreggiamento al terrorismo” legata al PKK e quella di corruzione hanno scatenato l’indignazione di molti esponenti dell’opposizione, che vedono nell’arresto un tentativo di Erdogan di neutralizzare un avversario sempre più potente e di consolidare il suo dominio autoritario.

L’arresto di Imamoglu ha suscitato una serie di manifestazioni in tutta la Turchia, non solo nelle principali città come Istanbul, Ankara e Smirne, ma anche in ambito universitario. Migliaia di persone si sono radunate per denunciare quello che ritengono essere un atto di “stato autoritario” e una violazione della volontà popolare. Il divieto di manifestazioni imposte dalle autorità e la censura dei social media, con blocchi a piattaforme come Twitter, Instagram, YouTube e TikTok, non hanno impedito alla gente di esprimere il proprio dissenso. Le forze di polizia sono intervenute duramente, specialmente contro gli studenti dell’Università di Istanbul che protestavano contro l’annullamento del diploma di laurea di Imamoglu, un passaggio che lo avrebbe potuto escludere dalla corsa presidenziale, dato che la Costituzione turca richiede un titolo di laurea per candidarsi alla presidenza.

Il leader del CHP, Ozgur Ozel, ha annunciato che la mobilitazione per la liberazione di Imamoglu continuerà fino a quando non sarà rilasciato, descrivendo il 23 marzo come “l’inizio della primavera della Turchia”. Ozel ha accusato Erdogan di usare il potere per eliminare gli avversari politici con metodi autoritari, sottolineando come questa repressione stia cercando di soffocare ogni forma di opposizione.

A livello internazionale, l’arresto di Imamoglu ha suscitato forti reazioni, con numerosi paesi e organizzazioni che hanno espresso preoccupazione per il deterioramento della democrazia in Turchia. Il governo tedesco ha definito l’arresto una “grave battuta d’arresto per la democrazia”, mentre il Consiglio d’Europa ha condannato la detenzione, descrivendola come un attacco a una figura politica che rappresenta una seria minaccia per l’egemonia di Erdogan. Anche Amnesty International ha parlato di un “salto di qualità” nella repressione dei diritti umani, invitando la comunità internazionale a resistere all’ulteriore erosione delle libertà civili in Turchia.

Anche Orhan Pamuk, scrittore turco e premio Nobel per la letteratura, ha commentato con disappunto la situazione, parlando di “un’orribile tristezza” per il paese. Pamuk ha sottolineato che, negli ultimi dieci anni, la Turchia ha sperimentato una democrazia “elettiva”, in cui gli elettori potevano scegliere i loro leader, ma senza una reale libertà di espressione. L’arresto di Imamoglu, secondo lui, segna la fine anche di questa forma di democrazia limitata.

La Turchia si trova dunque di fronte a un momento cruciale. La crescente repressione delle forze di opposizione e l’intensificarsi delle manovre politiche per garantire la continuazione del potere di Erdogan sollevano interrogativi sul futuro della democrazia nel paese. L’operazione contro Imamoglu, pur essendo giustificata dalle autorità come un atto di giustizia contro la corruzione, sembra avere una forte componente politica, con l’intento di indebolire l’opposizione e di consolidare ulteriormente il controllo di Erdogan.

Le manifestazioni, la repressione delle libertà e le azioni contro Imamoglu evidenziano una Turchia divisa, tra coloro che ancora sperano in un cambiamento democratico e coloro che ritengono che il paese sia ormai prigioniero di un regime sempre più autoritario. Mentre Erdogan si prepara a possibili manovre costituzionali per assicurarsi una rielezione nel 2028, la crescente tensione tra il governo e l’opposizione potrebbe segnare un nuovo capitolo nella travagliata storia politica turca. Il destino di Imamoglu e le prossime elezioni saranno determinanti per comprendere quale direzione prenderà la Turchia: se verso una democrazia più aperta e inclusiva, o verso un consolidamento del potere autoritario che minaccia di estinguere le libertà civili nel paese.

 

Riccardo Renzi

Istruttore direttivo presso Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo, membro dei comitati scientifici e di redazione delle riviste Menabò, Scholia, Notizie Geopolitiche e Il Polo – Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti”, e Socio Corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Marche.

Redazione Italia

Università: a Roma mobilitazioni contro tagli e precarietà

Oggi, 20 marzo, in tutta Italia le Assemblee Precarie Universitarie si mobilitano per denunciare le politiche di sotto finanziamento e precarizzazione del sistema accademico. A Roma, la giornata di protesta si è aperta con lezioni all’aperto nei diversi atenei che proseguiranno fino al pomeriggio. Alle 16:30 ci sarà un’assemblea pubblica in città universitaria alla Sapienza.

Mentre il MUR e la CRUI promuovono la giornata “Università Svelate”, dipingendo un’università aperta e inclusiva, la realtà raccontata da ricercatrici e ricercatori, studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo è ben diversa: tagli per 1,2 miliardi di euro, aumento delle tasse, riduzione delle borse di studio e un crescente controllo dei privati e dell’industria bellica sulla ricerca.

Si chiedono il raddoppio del Fondo di Finanziamento Ordinario, la stabilizzazione dei precari, contratti dignitosi per tutte e tutti e la fine dell’ingerenza della guerra e degli interessi privati nell’università.

Assemblee Precarie Universitarie

Redazione Roma

Liberare l’acqua dal dominio dei predatori della vita

Oggi, i diritti alla vita e della vita sono negati per privilegiare la competitività al servizio del maggior profitto estraibile dall’acqua per le industrie “nazionali”, proprio nel momento in cui l’acqua del pianeta è sconvolta da una profonda crisi dovuta alla sua devastazione qualitativa che la rende sempre di più rara e, quindi, “oro blu”, risorsa strategica per l’economia del profitto e della potenza su scala locale e planetaria. 

Si dice acqua e vita ma si scrive predazione e dominio.

Quest’anno la Giornata Mondiale dell’Acqua, promossa dall’ONU dal 1994, cade a quindici anni dopo il riconoscimento da parte della stessa ONU il 28 luglio 2010 del “ diritto all’acqua potabile ed ai servizi igienico sanitari in quanto diritto umano essenziale alla qualità della vita ed all’esercizio di tutti gli altri diritti umani”, un diritto universale, autonomo. (1) Purtroppo, non vi sono buone notizie, né riflessioni gioiose. Lo stato dell’elemento più essenziale per la vita, insieme all’aria, all’energia solare e alla “Madre” Terra, non è affatto incoraggiante. 

Come si fa ad essere gioiosi quando da pochi giorni è cessata l’alimentazione d’acqua potabile alla popolazione di Gaza a seguito della distruzione totale della rete idrica da parte dell’esercito israeliano, annunciato come obiettivo dal ministro della guerra all’indomani dell’attacco di Hamas dell’ottobre 2023 ? (2) Togliere l’acqua ad un popolo, dopo aver chiuso anche l’erogazione dell’elettricità e del gas, e impedire la distribuzione di medicinali dopo aver distrutto tutte le strutture ospedaliere, lascia esterrefatti. Com’è possibile un atto così disumano, inammissibile anche dal Codice internazionale della guerra, e criminale, come confermato dal mandato di arresto della Corte Penale Internazionale contro il primo ministro ed il ministro della guerra di Israele per condizioni genocidiarie ? Il fatto, altresì intollerabile, è che esso avviene, specie nei paesi europei e “occidentali”, nel silenzio passivo, vuoi con il consenso delle classi dirigenti. Il che vale anche nel campo dello stato disastroso della natura e dell’acqua nel mondo.

L’Agenzia Europea dell’Ambiente constata (3) che, persino in Europa, solo il 37%¨delle risorse idriche europee sono in buon stato ecologico e che l’obiettivo di raggiungerlo fissato al 2015 è stato, nel 2012, rinviato al 2027 e che l’UE è obbligata fin d’ora a spostarlo al 2040 ! In un altro recente studio della stessa Agenzia (13 marzo 2025) , si avverte che “il 60-70% dei suoli europei è soggetto a degrado, tra cui l’erosione, l’inquinamento, l’impoverimento dei nutrienti e la perdita di materia organica, minacciando la capacità dell’UE di raggiungere gli obiettivi di sicurezza alimentare, biodiversità e clima”(4) E che dire dei 2,3 miliardi di persone al mondo che vivono (2023) in uno stato di stress idrico grave, cioè di disponibilità di acqua buona al di sotto di 1000 ed anche 500 m³ annui per persona tutti usi compresi (5) ? Di esse, quasi 1 miliardo di bambini (953 milioni) (6). sono esposti a livelli alti o estremamente alti di stress idrico. Detto con altri numeri, 2,2 miliardi di persone sono senza accesso all’acqua potabile e 4,2 miliardi senza accesso ai servizi igienico- sanitari (7). Inaccettabile.

Le forme del dominio dei predatori

Il dominio dei predatori si manifesta attraverso forme svariate. Due sono le forme di maggiore impatto. La prima è quella delle azioni/applicazioni che agiscono sullo stato bio-chimico dell’acqua e di tutte le specie viventi del pianeta via la tecnoscienza e le sue applicazioni alle attività produttive, di servizi e modi di consumo (per esempio, i pesticidi, il dissalamento dell’acqua del mare, il trattamento delle acque reflue, la “cocacolizzazione” delle acque minerali….) La realtà ci dice che questa forma si è concretizzata nella Crisi mondiale dell’acqua: la rarefazione (ineguale). La seconda è quella delle azioni/applicazioni che incidono sull’organizzazione ed il funzionamento della società e delle relazioni tra le comunità umane a livello internazionale e mondiale, via le misure di regolazione politico-istituzionale, economica, sociale, culturale (per esempio, il passaggio da una visione dell’acqua in quanto bene comune pubblico e diritto universale a quella di bene privato/merce, o la finanziarizzazione dell’acqua e di tutti gli elementi della natura ridotti a “capitali naturali”, il cui valore è determinato dai mercati borsistici mondiali…) A proposito della traduzione concreta di questa forma, si puo dire I mercanti dell’”oro blu” hanno vinto ( per ora?) 

La crisi mondiale dell’acqua: la rarefazione (ineguale)

Della prima categoria, la più importante forma è quella operata dall’industria chimica che con l’applicazione estensiva, a cominciare dall’agricoltura industriale, delle sue migliaia di prodotti sempre più tossici (oggi la preoccupazione maggiore viene dai prodotti PFAS detti ‘inquinanti eterni”) ha da decenni non solo contribuito ad inquinare le acque del mondo (fiumi, laghi, falde, mari, acque piovane…). Via i prodotti alimentari, farmaceutici , industriali specifici di ogni genere, energetici e minerari, ha anche contaminato i processi di vita di tutte le specie viventi e di tutti gli ecosistemi della Terra.

Beninteso, la chimica, l’industria chimica, ha cambiato il mondo anche in modo straordinariamente positivo. Oggi, però, la grave minaccia esistenziale globale sul pianeta che la chimica (e tutto ciò che ad essa è collegato) fa pesare sul futuro della Terra è più forte del resto. Pur essendo la gravità della minaccia largamente riconosciuta, l’industria chimica continua a rivendicare meno vincoli (detti “burocratici”) e meno regolazione da parte dei poteri pubblici, più autonomia e più autoregolazione come espresso con chiarezza nella Dichiarazione di Anversa del febbraio 2024 (8) .In questa dichiarazione, i 90 capi delle più importanti imprese chimiche europee, con in testa il PDG della BASF, la più grande impresa chimica del mondo, e di 15 associazioni imprenditoriali del settore, hanno rivendicato di lasciare alle imprese chimiche il potere di fare le scelte che meglio convengono al settore e per l’economia e di dare la priorità ad un “Patto industriale europeo” piuttosto che al “Patto verde”!

Eppure, l’industria chimica non può negare che l’acqua è in crescenti cattive condizioni qualitative: la salute dei fiumi, dei laghi, delle zone umide continua ad aggravarsi, salvo alcune eccezioni di rilievo. Dappertutto, il livello delle nappe freatiche tende ad abbassarsi a causa dei prelievi eccessivi. Attorno al 30 % delle nappe negli Stati Uniti, in Russia, in Cina, in Europa sono inutilizzabili perché troppo inquinate dai rifiuti industriali, dai pesticidi… 

Abbiamo visto  sopra  che la crisi dell’acqua non ha arrestato,  ben al  contrario, la crescita delle grandi ineguaglianze ambientali,  economiche e sociali  tra i paesi e le categorie sociali. Come dimostrano i dati sull’impronta ecologica e sull’impronta idrica dei vari paesi del mondo (9) I paesi del Sud subiscono le conseguenze  più gravi della siccità, dell’inquinamento, in termini di  malattie, epidemie, carestie, migrazioni forzate, degrado dell’economia, conflitti tra le stesse popolazioni più colpite, pur avendo, in generale, le impronte più basse. All’inverso,  le popolazioni più ricche dei paesi  più ”sviluppati” pur avendo  impronte più pesanti sulle risorse di acqua e di terra del pianeta  tirano i vantaggi maggiori.

Inoltre, la crisi  di rarefazione non è dovuta principalmente agli effetti del cambiamento climatico. Certo,  l’aumento della temperatura  media mondiale  dell’’atmosfera terrestre  incide  negativamente in particolare sul mondo dell’acqua ed ha contribuito a rendere i fenomeni  climatici detti estremi, come le inondazioni, la siccità, più frequenti , di maggiore gravità e più imprevedibili. Ma la crisi  dell’acqua non è il risultato del cambiamento climatico. Anzi, quel che è vero è che la crisi dell’acqua figura fra  i fattori generatori del cambiamento climatico accanto alla deforestazione, alla desertificazione e, soprattutto, al  fattore principale  che è  stato e resta l’aumento delle emissioni di gas a effetto serra, fra i quali il più noto è il CO². Le emissioni dei gas a effetto serra sono strettamente  legate allo sviluppo economico  dell’era industriale  fondato sulle energie fossili. La riduzione drastica  dell’uso  di dette energie è la via maestra della lotta contro il cambiamento climatico, così come l’abolizione totale  dei prodotti chimici tossici pericolosi (i pesticidi, i Pfas  …).è la via maestra  per  il  futuro della salute degli abitanti  della Terra.

 Ma  i gruppi dominanti,  la cui ricchezza e potenza sono ancora legate alle energie fossili, non hanno alcuna intenzione di disfarsene. Anzi, da alcuni anni,  hanno l’aria di aver recuperato il sostegno delle forze finanziarie e tecnocratiche. Si parla sempre meno di zero fossili al 2050, di interdizione/riduzione  dei pesticidi, di messa al bando delle bottiglie  in plastica, di patto verde… per affermare posizioni sempre più in favore di “una nuova re-industrializzazione del mondo”, specie delle società del “Nord”, all’insegna della  nuova  rivoluzione iper-tech planetaria, l’Intelligenza Artificiale. 

In questo quadro, l’obiettivo  della sostenibilità, che è stato nel corso degli ultimi quarant’anni, nelle mani dei gruppi dominanti , un concetto  astuto ed ambiguo , politicamente consensuale e mobilizzatore, è stato rimpiazzato dall’obiettivo   della resilienza, che non è meno ambiguo del primo. La resilienza è fondata su due  potenti “strumenti” – e, pari tempo, vettori di  “fini” – che sono la “nuova “ tecnologia (riparatrice-rigenerativa- innovativa) e la “nuova” finanza (virtuale, dove il valore della vita è in via  di ri-configurazione). Al momento, si può dire che nel binomio  tecnologia-finanza, la tecnologia gioca il  ruolo del grande complesso orchestrale della nuova musica dell’ordine planetario e, dal canto suo, la finanza si è arrogata il ruolo di compositore e chef d’orchestra dello spartito. De facto, le evoluzioni in corso lasciano prevedere che  solo i territori e i gruppi sociali  che dispongono del controllo di grandi capacità finanziarie e di  forti potenzialità tecnologiche, riusciranno  a realizzare delle   situazioni adeguate di resilienza (10)

I mercanti dell’ ”oro blu” hanno vinto (per ora?)

Per quanto riguarda la seconda forma di dominio dei predatori dell’acqua,  fondata sui sistemi di regolazione societale, l’acqua è uno dei campi  centrali multidimensionali e multiterritoriali della regolazione.  Il binomio tecnologia-finanza che oggi conosciamo fonda le sue radici negli  anni ’70 allorché, dopo la grande  crisi finanziaria del 1971-3, la finanza privata cerco’ di  approfittare del riassestamento del sistema finanziario internazionale per  aumentare il suo peso e potere di comando e controllo sulla finanza del pianeta.  Ci è riuscita  grazie alla presa in mano degli investimenti  nelle nuove tecnologie (informatica,automazione-robotica, telecomunicazioni, le biotecnologie, i nuovi  materiali, il nucleare). ll punto di attacco privilegiato è stato il campo dei beni comuni  e dei servizi pubblici, in particolare l’acqua. Grazie soprattutto al sostegno della principale istituzione finanziaria pubblica mondiale, la Banca Mondiale, e con l’accordo della maggioranza dei governi  occidentali, sempre più favorevoli ai processi di globalizzazione dell’economia di mercato, l’acqua è diventata nel 1992 il primo  dei beni comuni pubblici più emblematici ad essere “catturato” a livello mondiale dalla logiche  finanziarie capitaliste. Nell’ambito di una conferenza internazionale dell’ONU su acqua ed ambiente, organizzata a  Dublino in preparazione del Primo Vertice Mondiale della Terra sul cambiamento climatico (giugno 1992) a Rio de Janeiro, la Banca Mondiale fece approvare i cosiddetti “‘Principi di Dublino” sull’acqua”. Il quarto principio è   fondamentale : (4) Water has an economic value in all its competing uses and should be recognised as an economic good “ (11).  “L’acqua deve essere considerata un bene economico”  non più un bene comune sociale, pubblico, un bene dell’umanità, simbolo della gratuità della vita.  In quanto tale, la sua gestione è sottomessa alle regole ed ai meccanismi dell’economia di mercato! Su questa  base , nel 1993, la Banca mondiale pubblico’ il documento programmatico “Integrated Water Resources Management”  diventato rapidamente la bibbia mondiale dell’acqua, e l’ONU lanciò l’organizzazione della Giornata Mondiale dell’Acqua con l’obiettivo di diffondere e promuovere i principi e l’applicazione della nuova “bibbia economica” per la gestione mondiale dell’acqua.( 12)

Il principio su cui la conquista si è fondata  è “l’acqua finanza l’acqua”, cioè il finanziamento dell’acqua, pilastro di qualsiasi politica dell’acqua, deve essere garantito dal pagamento di un prezzo di mercato da parte del consumatore secondo la quantità usata, e non  più via le allocazioni pubbliche sul bilancio dello Stato e delle collettività  territoriali.  Il prezzo dell’acqua deve essere fissato in maniera tale che il  gestore  (azienda pubblica o impresa privata) possa recuperare tutti i costi della gestione, compresa la remunerazione del capitale investito, cioè il profitto. “L’acqua finanza l’acqua” è della stessa natura del principio ‘l’auto finanzia l’auto’. Come non  si ha accesso all’auto se non si paga, cosi non si  ha  accesso all’acqua senza pagare.  Concretamente, “l acqua finanza l’acqua” significa ‘l’acqua per il profitto”. 

L‘accesso all’acqua cessa di essere un diritto universale alla vita, un obbligo per la collettività, per trasformarsi in una possibilità di acquisto individuale secondo  le regole della compravendita ed i propri bisogni. Per questo, la definizione del diritto all’acqua é stata sostituita dalla sua negazione : “l’accesso all’acqua su basi eque a prezzo abbordabile”. Questa formulazione è stata ufficialmente ripresa dalla stessa ONU ed inclusa nell’Agenda dell’ONU 2015-2030 “Gli Obiettivi dello sviluppo sostenibile” ed estesa, a partire dall’acqua, ad altri “diritti” quali la salute, l’alloggio, l’educazione, la cultura….

Le conseguenze sono di portata “reazionaria’, “eversiva” di tutto ciò che è stata la grande avanzata umana e sociale rappresentata dallo Stato dei diritti, lo Stato sociale:

  • siamo passati da un mondo dei diritti (costituzionalmente affermati) universali, indivisibili e inespropriabili, e dell’obbligo per la collettività di assicurarne la concretizzazione per tutti,  ad un mondo dei bisogni individuali soggettivi, specifici,  divisibili, variabili ed espropriabili;
  • abbiamo lasciato il mondo delle relazioni umane e sociali fondate sui principi  dell’uguaglianza, della giustizia, della cooperazione e della solidarietà espressi attraverso il contributo  di ciascuno al finanziamento collettivo dell’acqua via il pagamento delle tasse, per entrare nel mondo della contrattualità interindividuale mercantile fondata sul principio dell’utilità  e della massimazione del proprio interesse;
  • non si è più titolari di un diritto ma siamo obbligati ad essere portatori di un potere d’acquisto. L’accesso all’acqua è condizionato alla solvibilità monetaria; 
  • abbiamo accettato che il valore  di scambio dell’acqua sia più importante del suo valore d’uso   e che quest’ultimo sia condizionato dal primo;
  • abbiamo subito la quasi  demolizione dello Stato in sé, riducendo la “funzione pubblica” ad uno  strumento al servizio dei predatori dei beni comuni  e della vita dello Stato. In particolare abbiamo  ridotto a moccoli di candela il  ruolo  essenziale delle collettività locali  dei Comuni, e  così facendo abbiamo segato la base della democrazia del popolo, con il popolo, per il popolo;
  • siamo usciti da un sistema che si voleva espressione della sicurezza sociale per entrare in un sistema di assistenza sociale che dice “siccome sei povero in termini di potere d’acqusto  riduciamo il  prezzo da pagare da te o, se necessario, da istituzioni pubbliche ad hoc. Non si può abolire l’obbligo del pagamento”; 
  • abbiamo decretato che gli interessi dei grandi gruppi industriali multinazionali,  tecnocratici , autoritari, senza alcun funzionamento democratico  e la cui esistenza dipende da elevate capacità di competitività guerriera, devono guidare il governo dell’acqua fonte  di vita: 
  • abbiamo deciso che l’utilità, il profitto e la potenza sostituiscano la giustizia,  la solidarietà e la democrazia come motori della funzione pubblica e fondamento del vivere insieme.

In breve, abbiamo modificato i principi fondatori della società. 

E’ in rispetto ed onore di quanto descritto che dobbiamo celebrare la giornata mondiale dell’acqua ?

PS Piccola nota sul futuro. Uno dei problemi emergenti nel campo dell’acqua è costituito dall’ aumento considerevole dei costi delle attività  dell ‘industria dell’acqua accompagnato da una altrettanto crescente insicurezza riguardo i profitti. I costi sono aumentati su tutti gli anelli della catena di valore dell’acqua. L’incertezza sui profitti varia da zona a zona e da una attività all’altra .Conseguentemente, i  livelli di  profitto si abbassano e diventano più incerti. Vista la pressione sempre più forte esercitata sui mercati mondiali  dagli imperativi  di rendimento, gli investimenti tendono a privilegiare i settori  di mercato più sicuri e a rendimento elevato, lasciando da parte quei settori che , seppur essenziali per la vita, non garantiscono i livelli di sicurezza e di rendimento desiderati. Il principio dell’acqua finanza l’acqua non tiene in piedi.. La finanza dell’acqua per il profitto non sarà più disposta ad investire per coprire le  somme ingenti che saranno necessarie per eliminare le cause strutturali del disastro idrico. Allora,  chi finanzierà l’acqua?

 

Note

(1)https://contrattoacqua.it/public/upload/1/2/tab_elms_docs/1329481584risoluzione-assemblea-onu-a_64_l.63_traduz.pdf

(2) Leggere  il rapporto di Oxfam France « Water War Crimes » ( pubblicato il 18 luglio 2024) jche conferma che già nel 2024  le capaciità d’alimentazione d’acqua  a Gaza erano scese del 94% a seguito delle distruzioni operate dall’esercito israeliano.dopo ottobre 2022. https://www.oxfamfrance.org/communiques-de-presse/israel-utilise-leau-comme-arme-de-guerre-a-lheure-ou-lapprovisionnement-de-gaza-seffondre-de-94-provoquant-une-catastrophe-sanitaire-mortelle/

(3) https://www.eea.europa.eu/it/highlights/a-rischio-la-resilienza-idrica

(4) https://ambientenonsolo.com/lo-stato-dei-suoli-ineuropa/?utm_source=newsletterNotizie+ambientali+del+17+marzo+2025&utm_medium=emailMarco&utm_term=2025-03-17&utm_campaign=Notizie+ambientali+del+17+marzo+2025,p.5

(5)https://www.cieau.com/eau-transition-ecologique/enjeux/quest-ce-que-le-stress-hydrique-comment-y-repondre/

(6)https://www.unicef.it/media/giornata-mondiale-dell-acqua-ogni-giorno-oltre-mille-bambini-sotto-i-5-anni-muoiono/

(7) https://www.unesco.org/reports/wwdr/en/2024?hub=68313

(8) https://img.innovationpost.it/wp-content/uploads/2024/02/20152533/Dichiarazione-di-Anversa-per-un-accordo-industriale-e

(9) https://www.footprintnetwork.org/2025/01/31/ecological-footprint-book-2/

(10) https://www.meer.com/it/59717-la-strategia-della-resilienza

(11) https://www.gwp.org/contentassets/05190d0c938f47d1b254d6606ec6bb04/dublin-rio-principles.pdf

(12) Per una presentazione più recente, vedi https://www.unep.org/topics/fresh-water/water-resources-management/integrated-water-resources-management

Riccardo Petrella

Crollo palazzina a Bari: dubbi sull’amianto e rischi per la salute

Arpa Puglia ha confermato l’assenza di fibre di amianto sia nelle polveri aerodisperse sia nell’aria circostante la palazzina crollata il 5 marzo 2025. Lo ha dichiarato il Comune di Bari in una nota ufficiale. L’Agenzia Regionale per la Prevenzione e la Protezione Ambientale ha inoltre certificato che il pericoloso materiale non è presente nemmeno nelle polveri depositate su un balcone di un’abitazione privata, sul piazzale e sul cornicione di una finestra della ex scuola Carlo Del Prete. L’edificio, oggi sede del Municipio II, sorge accanto all’area del crollo.

Tuttavia, prosegue la nota, un frammento di piccole dimensioni di cemento-amianto è stato rinvenuto nel cortile della ex scuola. L’amministrazione comunale ha quindi affidato a una ditta specializzata l’incarico di eseguire le operazioni di bonifica, seguendo le direttive fornite da Arpa Puglia.

Risultati divergenti tra le analisi dell’ARPA e dell’Università

Un nuovo prelievo si è reso necessario dopo una perizia condotta nei giorni scorsi dal dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari. L’accertamento, richiesto dai residenti di un immobile nelle vicinanze, avrebbe rilevato la presenza di “numerose fibre di amianto, in particolare crisotilo”, oltre a “numerose fibre di vetro”. In risposta, Arpa Puglia ha precisato che “la relazione non proviene da un laboratorio inserito nell’elenco dei laboratori qualificati dal ministero della Salute”.

Il crollo è avvenuto il 5 marzo scorso. Secondo i primi accertamenti, l’edificio, già dichiarato inagibile per lesioni strutturali, era stato puntellato e sgomberato il 24 febbraio 2024 su ordinanza comunale. L’implosione sarebbe avvenuta a causa del cedimento di un pilastro centrale.

Nelle more, per garantire la tutela della salute pubblica, il sindaco Vito Leccese aveva già firmato un’ordinanza il 12 marzo. Il provvedimento imponeva il divieto di affacciarsi dalle finestre, l’obbligo di tenerle chiuse e l’uso di mascherine nelle aree esterne adiacenti all’edificio, fino a nuova comunicazione ufficiale.

Dubbi sulle conseguenze di una possibile ma non concreta esposizione all’amianto

Resta, però, un interrogativo: se il denso nuvolone di polvere sollevato dal crollo avesse disperso fibre di amianto, come potrebbe il vicinato avere la certezza di non essere esposto a rischi? Le patologie asbesto-correlate hanno tempi di latenza estremamente lunghi, variando dai trenta ai cinquanta anni.

Fonti qualificate affermano che, al di là dei risultati divergenti tra le analisi dell’ARPA e dell’Università, la procedura adottata risulta corretta. Inoltre, i responsabili della bonifica dell’area avrebbero rispettato il protocollo di legge.

La possibilità che qualcuno, entro un raggio di 500 metri dal crollo, abbia inalato qualche fibra di amianto non può essere esclusa del tutto. Tuttavia, si tratta di un’eventualità difficile da concretizzarsi. Quali misure si possono adottare? Al momento, nessuna, poiché non esiste un accertamento preventivo per l’esposizione all’amianto.

«Questa vicenda – afferma l’avv. Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto – dimostra come sia fondamentale la prevenzione primaria. Quindi di prevedere e rimuovere qualsiasi rischio e dunque l’esposizione ad amianto per tutelare la salute. È per questo che l’ONA svolge un ruolo centrale, fondamentale, ora e per il futuro».

da ilgiornaledellambiente.it

Redazione Italia

La norma che legittima l’abuso: i servizi segreti potranno fare reati per “difendere lo Stato”

L’art. 31 del DDL Sicurezza modifica la legge del 2007 sulla riforma dei servizi segreti, ampliando le prerogative dell’AISE (sicurezza esterna) e dell’AISI (sicurezza interna). La norma obbliga le pubbliche amministrazioni, le aziende partecipate e chi eroga servizi di pubblica utilità a collaborare con i servizi segreti senza possibilità di rifiuto. Questo significa che scuole, ospedali, università e perfino procure dovranno fornire dati personali senza limiti chiari. Il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) potrà inoltre stipulare convenzioni con enti privati e pubblici per definire modalità di collaborazione e gestione delle informazioni. L’aspetto più critico della norma è la possibilità di aggirare i vincoli della riservatezza: le informazioni potranno essere comunicate «in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza». In pratica, i servizi segreti potranno ottenere dati sensibili senza limiti e senza alcuna tutela per la privacy dei cittadini.

Altro punto assai controverso dell’articolo 31 è la sua disposizione sulle «condotte scriminabili», ovvero azioni che normalmente sarebbero reati, ma che per gli agenti dei servizi segreti non saranno punibili. Il provvedimento introduce infatti modifiche significative all’attività dei servizi segreti, consentendo agli operatori di AISI e AISE non solo di infiltrarsi in organizzazioni illegali, ma persino di guidarle. Secondo il dossier del Servizio Studi del Senato, il provvedimento legittima reati come la direzione o l’organizzazione di associazioni terroristiche, la detenzione di materiale con finalità di terrorismo, la fabbricazione e detenzione di esplosivi. Inoltre, rende permanenti disposizioni introdotte nel 2015, autorizzando gli agenti a compiere azioni che altrimenti sarebbero reati, in nome della sicurezza nazionale. Tra queste, l’addestramento a scopi terroristici, il finanziamento di attività sovversive e l’istigazione alla violenza. Le preoccupazioni sono amplificate dai precedenti storici delle stragi italiane, dagli anni ’60 agli attentati mafiosi del 1992-93, in cui apparati deviati dello Stato hanno avuto un ruolo nei depistaggi e persino nel concepimento e nell’organizzazione degli attentati.

A muoversi compatti contro l’art. 31 del DDL Sicurezza sono stati i membri del Coordinamento nazionale delle Associazioni dei familiari di vittime delle stragi, che hanno subito manifestato il loro “disappunto” per la mancata audizione del coordinamento, prima della votazione del DDL, alla Camera dei deputati. In un comunicato diramato lo scorso 5 marzo, il Coordinamento aveva chiesto formalmente di poter essere audito dalle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali «per un confronto che consenta di poter riportare entro parametri costituzionalmente accettabili il contenuto dei mandati operativi che detto DDL, e in particolare il suo art. 31, intenderebbe delineare». La sola risposta arrivata, però, «dice che sono trascorsi i termini e non è più possibile essere ricevuti in audizione, di mandare una memoria scritta», ha spiegato a L’Indipendente Salvatore Borsellino, componente del Coordinamento, che ha annunciato una protesta contro l’approvazione del provvedimento. «Gli ampi margini operativi che verrebbero concessi a ruoli istituzionali dello Stato quali gli stessi Servizi Segreti, per l’ampiezza dei mandati a loro conferiti, si presterebbero, grazie anche alle immunità concesse, a una potenziale gestione “non consona”, per non dire pericolosa, e che potrebbe mettere a rischio diritti costituzionali nonché le stesse libertà e diritti fondamentali dei cittadini – ha scritto il coordinamento nella nota –. Tra le righe di questa legge si intravedono ampi spazi di movimento per possibili depistaggi e dannose omissioni, laddove da parte degli agenti operanti si fosse ispirati e guidati, con il rischio di interferenze anche di “agenti esterni”, da interessi in contrasto con quelli cui si ispira la nostra Costituzione e quelle sue leggi emesse a garanzia di uno Stato democratico».

Sulla medesima scia si è posto l’avvocato ed ex magistrato Antonio Ingroia, che a L’Indipendente ha evidenziato i profili «palesemente autoritari» del DDL Sicurezza, che, oltre a introdurre nuovi reati e inasprire le pene «mettendo a rischio i diritti costituzionali di riunione e libera manifestazione del pensiero», con il pretesto di garantire la sicurezza nazionale, «conferisce poteri straordinari e immunità molto ampie ai Servizi Segreti, il tutto sottratto al controllo parlamentare del Copasir e al controllo di legalità della magistratura». Ingroia aggiunge che a far suonare il campanello d’allarme sui potenziali rischi di tale misura sono proprio i passaggi fondamentali della storia della nostra Repubblica, «condizionata dallo stragismo politico-mafioso e terroristico-eversivo», che spiega come «sovente le deviazioni degli apparati istituzionali» abbiano «segnato trame criminali torbide e insanguinato il percorso per l’attuazione della Costituzione, ancora oggi incompiuto».

Stefano Baudino

L'Indipendente

Una riflessione su quale pace sia possibile tra Ucrania e Russia e sul ruolo dell’Europa

Quale pace per l’Ucraina? Quale ruolo per l’Europa?

Mentre il termine pace può avere tanti significati e vi si possono applicare innumerevoli aggettivi: giusta, ingiusta, parziale, armata, precaria, stabile, ecc., ecc., il termine guerra identifica invece un’unica realtà, quella del conflitto armato, che genera solo morti, devastazioni, ingiustizie; un dolore generalizzato che si trasferisce alle generazioni successive e genera ulteriori drammi, conflitti e guerre, con un orizzonte temporale potenzialmente infinito.

Ce ne accorgiamo ogni volta che si riaccendono antichi rancori tra popoli confinanti, ma tenuti separati e incattiviti l’uno contro l’altro da governanti senza scrupoli, o tra gruppi politico-religiosi da secoli in competizione per il controllo sociale dei loro territori.

La guerra è solo quella cosa lì: tragica, inequivocabile, disgustosa.

È inaccettabile che la si possa preferire a qualsiasi straccio di pace, così come non è corretto che di fronte alla possibilità di un accordo che faccia tacere le armi, si metta in campo la questione della giustizia.

Ha senso uccidere e morire per affermare ciò che sembra essere giusto?

Certo sarebbe ingiusto se l’Ucraina, soggiogata con la forza delle armi da un paese evidentemente molto più forte militarmente, dovesse rinunciare all’esercizio della propria sovranità su vasti territori e su risorse di grande valore, ma, chiediamoci: questa ingiustizia è confrontabile con quella associata alla morte in guerra di mezzo milione di ucraini e di altrettanti russi, entrambi innocenti, immolati sull’altare della patria dai loro rispettivi governi?

Se è evidente che non può essere giusto mandare a morire centinaia di migliaia di concittadini per aggredire un paese, può essere giusto, invece, dall’altra parte, mandarne altrettanti, ugualmente a morire, per difendere il paese aggredito?

C’è, nel Vangelo (Lc 14,31-33), un brano di grande intelligenza popolare che considera come un’eventualità assurda quella in cui un Re, vedendo il proprio paese aggredito da un nemico, non si preoccupi di sapere se le proprie forze sono sufficienti a fermarlo, e qualora non lo siano, non gli mandi un’ambasciata di pace.

Si tratta forse di una saggezza antica non più applicabile? Che succede nella modernità, le questioni di principio (come la sovranità di uno stato) sono forse diventate più importanti della vita di milioni di persone? In realtà, a giudicare da come sono state trattate negli ultimi decenni certe questioni geopolitiche non si direbbe proprio, vedi Iraq, Afghanistan, Palestina, Yemen, Ruanda, Libia, Siria, ecc., ecc., in cui i paesi leader del mondo si sono regolarmente disinteressati del principio di sovranità, invadendo, devastando i territori e rovesciando i governi regolarmente in carica, oppure hanno lasciato che i contendenti si scannassero tra loro, magari supportando sotto banco la guerra, inviando armi e insegnando ad usarle, all’una o all’altra delle parti combattenti.

Gli Stati non combattono per giustizia, ma per interesse

Giustizia è una bellissima parola, ma quando viene invocata per giustificare una guerra si tratta sempre di una giustizia a geometria variabile, tesa come un velo a mascherare appetiti che prima o poi emergono dall’opacità.

Proprio come accade adesso con Trump che, come un capo mafioso senza freni inibitori, dopo che gli USA hanno aiutato l’Ucraina a difendersi da Putin, reclama il pagamento del pizzo (leggi “terre rare”) prospettando come alternativa ricattatoria l’abbandono degli ucraini alle mire del presidente russo.

Nella logica della forza il prezzo da pagare è la vita degli innocenti

La pace per l’Ucraina non può che passare attraverso un negoziato in cui, come in tutti i negoziati internazionali, il più debole perde qualcosa in più rispetto all’altro contendente. Pensarla diversamente significa non conoscere la Storia e anche rinunciare ad utilizzare la ragione. Perseguire la “vittoria” dell’Ucraina significherebbe stare comunque nella logica della forza, cioè armarla e sostenerla finché essa possa vincere contro il gigante militare russo che, non dimentichiamolo, possiede circa 6000 bombe atomiche.

Quale sarebbe il prezzo di un tale risultato?  Quanti morti, quanta devastazione? Quanto si allargherebbe il conflitto in corso? E, alla fine, che cosa si otterrebbe? Un’Ucraina, vincitrice, da ricostruire e una Russia piegata, impoverita, e ulteriormente incattivita. Ammesso che un eventuale conflitto, che potrebbe essere atomico, lasci ancora qualcosa di umano sul campo di battaglia.

E l’Europa? Ripudia ancora la guerra?

E l’Unione europea, col suo deposito secolare di saggezza e di cultura democratica, nata per difendere la pace, che fa di fronte a questo possibile scenario?

A giudicare dalle ultime notizie da Bruxelles, a seguito degli Stati Uniti che si arroccano nella difesa dei propri interessi particolari a corto raggio, l’Unione non trova di meglio che chiedere agli stati membri di armarsi fino ai denti per contrastare la possibilità di ulteriori conflitti ai propri confini, naturalmente non senza conseguenze sulla spesa sociale, che poi è l’unica che, al di là degli annunci, può offrire ai cittadini europei la possibilità di una giustizia vera e concreta, non fatta di proclami, ma di sostanza.

La Storia dimostra che le armi sono, da un punto di vista puramente economico, una merce come le altre, prodotta da soggetti che guadagnano in base alle leggi del mercato e soggetta alle stesse regole della società dei consumi, per cui produrre più armi significa automaticamente doverne usare di più, e perciò non possono costituire un freno alla guerra. Dovrebbe essere chiaro ed evidente per tutti: più armi e più soldati da una parte della barricata significano più armi e più soldati dall’altra parte.

Riformare le organizzazioni internazionali

Se ora è Putin a far paura all’Europa, domani potrebbero essere gli Stati Uniti (le minacce di Trump alla Groenlandia non possono lasciarci indifferenti) o una qualsiasi delle altre potenze mondiali.

E allora? Come si fa? Posto che le armi, ovviamente, non possono portare la pace, sarebbe invece necessario concentrare tutti gli sforzi europei verso l’innalzamento degli standard interni ed esterni di democrazia, giustizia e benessere; internamente, tra i cittadini dei paesi membri ed esternamente, puntando a potenziare le relazioni positive con tutti i paesi partner commerciali e istituzionali.

Tra questi paesi deve essere necessariamente ri-compresa anche la Russia, che rimane ad oggi uno dei membri più importanti dell’ONU.

Ricordiamoci infatti che essa ha diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, insieme a Cina, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Un assurdo giuridico che sarebbe da eliminare quanto prima in quanto blocca le decisioni più importanti e riduce gli altri membri delle Nazioni Unite a dei soggetti inferiori.

La pace va cercata prima di tutto incrementando la democrazia interna, l’autorevolezza e il potere regolatorio dell’ONU e degli altri organismi internazionali per la pace, rinforzando il dialogo e la cooperazione internazionale e promuovendo corrette relazioni commerciali, con attenzione alle condizioni etiche e di sostenibilità ambientale dei siti di produzione.

Se Von der Leyen e compagni decidessero di ri-orientare la spesa in modo da incrementare la democrazia e la giustizia, dentro e fuori la UE, farebbero davvero il bene degli europei e del mondo intero, ma purtroppo le decisioni sembrano già prese e vanno in tutt’altra direzione. Se si vuole la pace, non rimane che protestare e operare per un urgente, repentino, cambio di rotta.

Arnaldo Scarpa (Copresidente Rete Warfree – Lìberu dae sa gherra, Portavoce Comitato Riconversione Rwm)

Altra versione:  “Vogliamo ancora più armi e più guerra?” su SULCIS IGLESIENTE OGGI, 16 marzo 2025 – n. 9

Redazione Sardigna

Se noi bruciamo, dieci anni di rivolte senza rivoluzione

Il giornalista americano Vincent Bevins propone un saggio,“Se noi bruciamo, dieci anni di rivolte senza rivoluzione”, recentemente uscito presso Einaudi, in cui attraverso un lungo viaggio d’inchiesta in vari Paesi, racconta e analizza  le ribellioni del periodo 2010-2020. Un libro importante su cui riflettere.

Sin dalle loro origini i movimenti rivoluzionari nati nell’Ottocento si sono posti la  questione di quale modello organizzativo adottare. 

In particolare con la nascita del movimento operaio la questione è diventate fondamentale. Le principali componenti, comunista, socialista e anarchica, si sono confrontate anche con toni aspri, un dibattito che come sappiamo ha comportato lacerazioni, scissioni e anche conflitti drammatici. 

In particolare la vittoriosa rivoluzione russa ha sostanzialmente ridotto a due le visioni: da un lato quella leninista, incentrata sul partito d’avanguardia, rigidamente formato da militanti di professione, con il compito di guidare le dinamiche sociali e il nuovo Stato socialista, una linea come sappiamo degenerata nell’autoritarismo, nel dispotismo dei quali lo stalinismo è stato il drammatico e criminale interprete; dall’altra la linea libertaria, da non considerare piattamente “spontaneista”, quindi immune da qualunque modello organizzativo, ma incentrata su modalità non verticistiche, esplicitate dalla varie esperienze consiliari, tese a creare una società socialista non statalista, ma comunitaria e il più possibile orizzontale. Esperienze eredi di quello che David Graeber ha sintetizzato nel concetto di “comunismo diffuso” che ha caratterizzato le varie fasi della storia dell’umanità. In sostanza le “società senza Stato” o, citando il saggio di Pierre Clastres “Le società contro lo Stato”. 

Il Novecento ci ha consegnato il fallimento delle principali rivoluzioni che hanno visto i rispettivi partiti comunisti andare al potere. Al di là delle peculiarità delle varie società e della loro storia, a deragliare è stato il modello rivoluzionario tradizionale, la ipotizzata “dittatura del proletariato”, già di per sé sbagliata, ha dato vita alla dittatura del partito e alla sviluppo di un imponente sistema poliziesco di controllo con tutte le relative, risapute, conseguenze.

Con l’avvento del terzo millennio i movimenti che sono nati in varie parti del mondo,  nella maggior parte dei casi hanno visto affermarsi il secondo modello: dalla rivolta di Seattle del 1999 e la crescita delle istanze altermondialiste, alle rivolte scoppiate successivamente nei diversi continenti, la concezione classica e  ortodossa è stata soppiantata da dinamiche strutturate, almeno apparentemente, sulla falsa riga dei vecchi principi libertari. 

E proprio alla storia delle ribellioni tra il 2010 e il 2020 è dedicato un testo importante sul quale vale la pena riflettere. Ci riferiamo a “Se noi bruciamo” (Einaudi 2024, 376 pagine, 32 euro)  scritto dal giornalista americano Vincent Bevins. Il sottotitolo è già eloquente: dieci anni di rivolte senza rivoluzioni, e fa già prefigurare il leit motiv che caratterizza il volume. Bevins, nonostante i suoi 40 anni, ha alle spalle una considerevole esperienza giornalistica  che a partire dal 2011 quando è stato corrispondente in Brasile del “Los Angeles Times”, lo ha portato in diverse parti del mondo, scrivendo successivamente per altre importanti testate, Financial Times, Whashington Post, The Guardian, per citarne solo alcune, lavoro che gli ha consentito di seguire le varie rivolte. 

Il suo lavoro ci accompagna in un lungo viaggio in Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Corea del Sud, Cile, Spagna e Grecia. Ribellioni diverse tra loro, nate su istanze non uguali, al contrario del movimenti altermondialista, su obiettivi dissimili e in certi casi molto specifici, ma che nello stesso tempo hanno in comune la spontaneità, l’assenza dei soggetti classici novecenteschi. 

La prima scintilla a dare fuoco alla prateria si accende in Tunisia, dicembre 2010,  con il terribile suicidio del giovane ambulante Mohamed Bouazizi che crediamo non conoscesse il gesto simile che alcuni decenni addietro aveva compiuto Jan Palach a Praga, ma scelse questa spettacolare modalità per togliersi la vita. A quanto si disse la decisione fu provocata dall’arroganza di un funzionario pubblico, ma la rivolta cui diede vita cuoceva sotto le ceneri in considerazione del regime di Ben Ali. 

La Tunisia diede il via alle cosiddette “primavere arabe”. Dall’Egitto di Piazza Tahir a Il Cairo, a Gezi Park a Istanbul, per proseguire in Bahrain e Yemen la ribellione si diffonde, fino a toccare, sempre nella diversità di obiettivi e soggetti in campo nonché di governi al potere, Brasile, Cile in America Latina, Hong Kong e Corea del Sud in Asia, Spagna, Grecia e Ucraina in Europa.

L’autore si sofferma con dovizia di particolari sul Brasile dove è stato a lungo a San Paolo in qualità di corrispondente del Los Angeles Times, scrivendo anche per il quotidiano nazionale Fohla. 

La vicenda brasiliana è emblematica: siamo nel 2013 al governo c’è il Partito di Lula, capo dell’esecutivo Dilma Roisseff nella grande città paulista è sindaco Fernando Haddad anche lui del PT. A scatenare il putiferio è l’aumento del costo del biglietto dei trasporti pubblici. 

Può sembrare una inezia, ma in un Paese dove, nonostante gli indubbi successi delle politiche di Lula, pur con tutti i limiti, c’è una strutturale povertà, la scelta può pesare sulle tasche dei ceti popolari. 

Il Movimento Passe Livre era già attivo da otto anni e attento alle dinamiche e problematiche urbane. E lui a promuovere la protesta dandosi una modalità “orizzontale”. Al suo interno ci sono punk, anarchici, attivisti vari, alcuni alle prime armi. Inizialmente a scendere in strada sono poche migliaia, ma la dura repressione poliziesca, le cui immagini inondano i social e anche le tv, ha l’effetto di moltiplicare la partecipazione, fino ad una gigantesca manifestazione di due milioni di persone, dove inevitabilmente c’è tutto e il contrario di tutto. Alla fine Haddad, come già fatto da sindaci  di altre città, deve cedere e ritirare il provvedimento, ma la protesta ha gradualmente mutato volto e protagonisti, è sfuggita di mano a chi l’ha iniziata. Il Movimento Pass Livre è soppiantato dalle formazioni di destra, dagli strati sociali che hanno sempre avversato il governo socialdemocratico del Partito dei lavoratori. L’esito di tutto è noto: una inchiesta giudiziaria pilotata dalla destra porterà alle false accuse contro la Rousseff, all’arresto di Lula e al governo il fascista Bolsonaro.

Ci siamo dilungati sul Brasile, tra le varie vicende narrate da Bevins, perché in parte sintetizza determinate caratteristiche che contraddistinguono le rivolte narrate: scoppia la protesta, la brutale repressione poliziesca favorisce una partecipazione di massa prima impensabile, i social sono uno strumento prezioso per l’organizzazione e la denuncia, in un primo momento la ribellione sembra raggiungere i suoi scopi, sia se si tratta di una rivendicazione specifica, sia se bisogna cacciare il Mubarak o il Ben Ali di turno. Ma poi gradualmente a passare all’incasso sono le forze della reazione e ci si ritrova con Bolsonaro ( anche se dopo alcuni anni è stato Lula a tornare al governo), Al Sisi e via elencando.

Alla fine l’autore lascia spazio alle riflessione e ai bilanci su questi dieci anni;  a distanza di tempo chiede  ai protagonisti di allora quale lezione hanno tratto, cosa secondo loro non ha funzionato. 

I brasiliani Mayara Viviana del Movimento Pass Livre e Fernando Haddad, già sindaco di San Paolo, seppure hanno vissuto la vicenda rivestendo ruoli molto diversi, danno la stessa risposta: nao existe vacuo politico, il vuoto politico non esiste. Se anche momentaneamente togli le redini del potere a chi lo detiene, si crea un vuoto che qualcuno riempirà immediatamente. Scrive Bevins che anche altri hanno dato la stessa risposta. “Pensavamo che la rappresentanza fosse elitarismo, ma in realtà è l’essenza della democrazia”. C’è chi, come Artem Tidva, giovane ucraino di sinistra che ha partecipato alla rivolta di piazza Maidan, confessa addirittura di “aver smesso di credere all’autorganizzazione” e afferma  che prima era “più anarchico”. 

Non tutte le persone ascoltate si sono orientate su queste posizioni, ma “la maggior parte sì”. Addirittura il brasiliano Rodrigo Nunes, già attivo all’inizio del millennio nel movimento altermondialista, sostiene scherzando un “leninismo in rete”. 

Ma al di là di queste suggestioni o pentimenti, le stesse vicende narrate  da Bevins mostrano che dietro il presunto spontaneismo, c’erano anche dinamiche organizzate. Del resto la stessa tradizione anarchica, come abbiamo ricordato all’inizio, presupponeva una organizzazione di base. 

E nelle stesse piazze citate erano ben presenti gruppi strutturati, di varia ideologia. Per esempio in Ucraina, l’eterogenea Maidan ha sostanzialmente subito l’egemonia dell’estrema destra, seppure con una partecipazione minoritaria di militanti come Artem.

Forse il deficit maggiore di buona parte di queste esperienze è stata una scarsa presenza di “classe”. I soggetti sociali erano alquanto vari, esplicitando un evidente interclassismo. In questo senso un conto è protestare a New York o a Parigi, un altro a Il Cairo e fanno riflettere le parole di un rivoluzionario egiziano. Nel primo caso se ” la protesta non funziona dopo fai carriera nei media o all’università, qui se fallisci tutti i tuoi amici vanno in prigione o finiscono ammazzati”. 

Per rimanere nel contesto arabo un sociologo iraniano sottolinea come nelle “primavere” fosse assente “un radicalismo che ha caratterizzato la maggior parte delle rivoluzioni del XX secolo”, riferendosi agli anni Settanta, che “condividevano un potente impulso socialista, antimperialista, anticapitalista”.

In conclusione è difficile dipanarsi di fronte ad una complessità di questioni di tale portata. Sicuramente non ci sembra ideale far rientrare dalla finestra, ciò che la storia ha definitivamente fatto uscire dalla porta principale. Rifugiarsi in una specie di “neoleninismo” è quanto mai fuorviante. Il problema non è la falsa contrapposizione tra un ipotetico “spontaneismo” e “orizzontalismo” e una forma organizzativa di un certo tipo. Forse sarebbe opportuno guardare alle esperienze migliori di questo inizio di millennio, alcune certamente presenti nelle vicende narrate, e capire come valorizzarle, attingendo anche da quel pensiero femminista che sicuramente, sul piano delle modalità organizzative, delle relazioni personali e sociali ha molto da insegnarci. 

Senza dimenticarci che l’umanità è “un legno storto”,  che dietro le vicende storiche piccole e grandi del passato e del presente ci sono le singole persone con tutto ciò che ne consegue. 

Sergio Sinigaglia